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FLIGHT RISK – Trappola ad alta quota, recensione

Michelle Dockery FlightRiskflightriskdockeryfalòFlight Risk postersTensione sul vertiginoso filo del rasoio, della gonna di Dockery o dei vostri pantaloni.

Ebbene, oggi recensiamo l’attesissimo, adrenalinico e mirabolante Flight Risk, da noi “sottotitolato” Trappola ad alta quota. Dopo una lunga gestazione, lo sciopero prolungatosi a dismisura dell’SAG-AFTRA che, giocoforza, ne rallentò le riprese, dopo un’interminabile attesa, ecco che finalmente arriva nelle nostre sale il nuovo, a nostro avviso, come esplicheremo, disaminandolo in modo finemente recensorio, magnifico, forse inguardabile, probabilmente sol un innocuo guilty pleasure scanzonato e non pretenzioso, 6° opus del sempre inarrestabilmente prolifico Mel Gibson (Fuori controllo). Il quale, alla sua veneranda età, stacanovista infaticabile, è già sulla rampa di lancio per scattare, nei mesi immediatamente a venire, i primi ciak del sequel del suo acclamato La passione di Cristo, al momento intitolato The ResurrectionMichelleDockery

Ma, senza star or a soppesar oltremodo e ad elucubrare in merito al film succitato che avrà come protagonista, puntualmente, James, detto Jim, Caviezel (La sottile linea rossa) e sarà ancor una volta girato principalmente ai Sassi di Matera e nei dintorni, oltre ad utilizzar altre location nostrane, “disquisiamo” in merito, giustappunto, a tal Flight Risk. Film della durata strangolata, no, stringata, dati gli standard attuali e le abitudini del megalomane, dispendioso Gibson, avvezzo a colossal solitamente di ampia portata per quanto concerne gli smisurati budget (qui invece largamente ridotti), e di conseguenza dal minutaggio, stavolta soltanto di novantuno minuti netti, dal ritmo incalzante che non vi concederà un attimo di tregua dall’inizio alla fine. Ché, giocando di parole, in alcuni momenti, particolarmente pindarici, vola ad alte quote visionarie, ingranando la marcia dell’action più spericolato e imprendibile come un jet furiosamente scatenato. È però assurdamente la prima pellicola semi-flop al botteghino, perlomeno al momento negli Stati Uniti, e stroncata dalla Critica della carriera registica di Gibson che, sin a questo punto, dopo il suo brillante esordio, L’uomo senza volto, i fasti di Braveheart, per cui fu oscarizzato, e gli incensati Apocalypto & Hacksaw Ridge, oltre naturalmente al sopra menzionatovi The Passion…, è incappato in una sonora bocciatura da parte di buona parte degli opinionisti d’oltreoceano. Secondo noi, però, notevolmente a torto… Anzi, rettifich(iam)o, Gibson merita delle torte in faccia perché il suo film, in piena franchezza, è più indigeribile d’un Cheese Burger mal cucinato, no, cheesecake con troppo burro. Anche se parte a tutta birra e a Michelle Dockery, stupenda, offrirei un po’ di s… ra! Ah ah. Per un “tortino di mele” da uccello che si schianta e spiaccica, “sanguinando” con questa donna che è uno schianto.

Sceneggiato, in forma originale, da Jared Rosenberg, eccone a grandi linee (non aeree, è il caso di dirlo, giocando quivi spiritosamente, nuovamente e in modo pertinente di parole) la trama che, con svolazzi e serpentine narrative più brusche d’una apoteotica sterzata, grandi emozioni sa sferrar, sfrecciando con ritmo forsennato. Invero, le uniche emotions, ripeto sin allo sfinimento, son fornite dalla beltà magnetica di Dockery. Perché è una per cui è obbligatorio la patta slacciare, no, allacciare immantinente la cintura di sicurezza, no, quella di castità perché lei è ricca, sta ad Hollywood e voi tutti, poveri mortali sfigati, dovete quindi attenervi a un metaforico atterraggio calmo nella realtà. Comunque, appena è apparsa sullo schermo, mi si è alzata la “cloche”, però peccato che in Flight Risk indossi soltanto i pantaloni e quindi non mostra/i mai le cosc’!

Non essendo questa qua una gran f… ga, lo è invece, eccome, no, questa qui una recensione canonica, bensì solamente falotica, copia-incollerò da Wikipedia la trama riportatane: Con tanto di collegamenti ipertestuali: La U.S. Marshal Madelyn Harris viene incaricata di scortare “Winston”, un pentito che deve testimoniare a un importante processo di mafia, ma, mentre il loro aereo sta sorvolando la Catena dell’Alaska, scopre che il pilota, Daryl, è in realtà un sicario inviato a uccidere Winston.

Flight Risk Mark Wahlberg

Wahlberg Dockery

Allora, Daryl fa di cognome Booth ma non è il fratello di Cliff Booth, alias Brad Pitt di C’era una volta a… Hollywood. Ed è incarnato da un calvo Wahlberg che cazzeggia, in ogni senso, a tutto spiano e fa (spoiler) una bruttissima, lapidaria fine simile a quella del character interpretato da John Malkovich in Con Air. Che dire? Fra pelati psicopatici, se la intendono…

Topher Grace è Winston, mentre per l’appunto (la) Dockery è Madelyn Harris. Costei, oltre a essere il mio tipo di donna ideale, cioè una gran topa, è la vera protagonista della storia. Michelle è davvero bell’ ma, come attrice (im)pura, fa ancor un po’ schifo al c… zo. Non importa, alla sua vista “mi” crebbe, lei sta crescendo, crescerà…

Gibson, infatti, mentre girò tal sua pellicola deve aver perso la testa. Precipitando mentalmente e registicamente in modo penosamente ridicolo. Questo film è farsesco, con una trama che fa acqua da tutte le parti, doppiogiochisti invisibili nell’accezione anche letterale del termine perché, per un’ora e un quarto, vediamo soltanto Dockery, Grace e Wahlberg. Anzi, neppure Wahlberg nella parte centrale. Il film termina al terminal dell’aeroporto, no, sulla pista da cui planano e atterrano pure gli elicotteri. Al che, avvistiamo la terraferma, no, le comparse e un villain che sparisce dopo trenta secondi.

Dockery è doppiata da Laura Romano, nata a Roma, ah ah. Allora, è romana…, non Romano. Ha undici anni in più rispetto a Dockery ma una voce che sembra di sua nonna e stona con la venustà di tal gnocca sesquipedale. Quest’ultima nata invece a Rome, no, Romford. Comunque, il viaggio Alitalia Roma-Romford viene a pochissimo. Soprattutto non esiste, Romford è appena un sobborgo. Probabilmente, se viaggerete nella tratta Roma-Londra, potreste incontrare un’hostess di linea possibilmente più bona di Michelle. Non ve la darà a meno che non siate Mel Gibson o Mark Wahlberg. Ciò che vi darà, perfino gratis, sarà il pranzo e/o la cena previsto/i nel pacc(hett)o. Gibson e Wahlberg sono due gran figli di buona madre e vollero sol confezionarci un filmetto scacciapensieri. Sì, gli uomini “normali” son sempre assillati da problemi e pensieri a non finire. Negli incendi di Los Angeles, una delle ville di Gibson, rimase bruciata e andò tutto a puttane… Ma a Gibson sbatté…

Il mondo si divide in due categorie: chi aspetta La resurrezione di Cristo e chi gira film. Gibson è un gran cristiano, siate fedeli…Wahlberg Dockery Flight Risk

di Stefano Falotico

 

Il nuovo film di David O. Russell col solito BOB DE NIRO & Jenna Ortega: SHUTOUT!

From Deadline:

David O. Russell is set to direct pool hustler feature Shutout, starring Robert De Niro and Jenna Ortega, we can reveal. This is a hot one for the Cannes market.De Niro Ortega Shutout

The pic will follow Jake Kejeune (De Niro), one of the last masters of a vanishing craft — the pool hustler. Having lived and lost by the roll of a ball in smoky backroom halls, Jake encounters Mia (Ortega), a young prodigy whose raw, electrifying talent reignites a fire he thought long extinguished. Sensing a rare opportunity to shape a legend, Jake takes Mia under his wing, honing her instincts and sharpening her natural gift. Together, they plunge into the ruthless world of high-stakes pool, where the line between unimaginable fortune and devastating failure is razor-thin. As Mia’s star ascends and her ambition grows, Jake must confront the ultimate question: can he steer her to greatness, or will her hunger for victory eclipse everything he has taught her?

Based on a screenplay by Alejandro Adams, Shutout will be produced by Russell, RK Films’ Joe Roth and Jeff Kirschenbaum, and Mark Bomback. Black Bear will introduce the project to international buyers at the upcoming Cannes Film Market. CAA Media Finance is handling U.S. rights.

 

In viaggio con mio figlio (EZRA), recensione

The Big Lebowski Ezra Viaggio mio figlio

Oggi recensiamo il delicato, sobrio, emozionante, sebbene non eccezionale, premettiamo subito e seguentemente approfondiremo con maggior cura nella nostra disamina, In viaggio con mio figlio, il cui titolo originale è Ezra, equivalente al nome del giovanissimo protagonista principale su cui verte la sensibile vicenda narrataci dal suo regista Tony Goldwyn (Oppenheimer). Goldwyn, figlio del celebre producer Samuel Goldwyn, eh già, nientepopodimeno che l’ex patron della MGM, spesso attore, conosciuto forse ai cinefili più accaniti per film oramai di decadi or sono, quali Tracce di rosso in cui duettò in modo caliente con l’avvenente e torbidamente sexy Lorraine Bracco (Quei bravi ragazzi) in inedita versione blonde di sorprendente incursione nel thriller erotico, qui per l’appunto nuovamente dietro la macchina da presa alla sua quinta prova registica. In unica “veste” di director, Goldwyn esordì nel ‘99 col sentimentale A Walk on the Moon – Complice la luna con Viggo Mortensen (Crimes of the Future) & la bella Diane Lane. Su sceneggiatura originale firmata dal suo omonimo, non però nel cognome, Tony Spiridakis, Goldwyn, in prima linea anche come uno dei maggiori produttori del suo opus, cambia totalmente registro, non solamente filmico, optando per un lineare, toccante racconto di formazione di matrice psicologica dall’andamento pacato. Sottostante ve n’enunceremo brevemente la trama senz’eccedere in particolareggiate descrizioni per evitarvi sorprese sgradite:Bobby Cannavale Ezra

Max Brandel (Bobby Cannavale, Motherless Brooklyn – I segreti di una cittàDanny Collins – La canzone della vita) è uno standup comedian in crisi professionale e affettiva. Specialmente su quest’ultimo versante, la sua situazione è non poco complicata in quanto ha appena divorziato dalla sua ancor amata compagna Jenna (Rose Byrne, la vera moglie, peraltro nella vita reale, di Cannavale). Max, giocoforza, si trova a gestire il figlio parzialmente autistico Ezra (William Fitzgerald) avuto da quest’ultima. Jenna non è accordo con Max in merito all’educazione e al percorso scolastico da adottare nei riguardi di Ezra che comincia ad accusare problematiche non indifferenti per via della sua “diversità” comportamentale rispetto ai suoi coetanei e compagni di classe. Cosicché, a dispetto anche dei bonari e previdenti consigli paterni e paternalistici del nonno di Ezra e ovviamente suo padre Stan (Robert De Niro, Zero DayThe Alto Knights – I due volti del crimine) in un impeto d’orgoglio, Max, di propria inalienabile iniziativa in lotta contro tutto e tutti, decide d’intraprendere col figlio un’escursione per le sconfinate strade americane. Durante tal intimo journey paternale, Max impara sempre più a prender confidenza con Ezra e viceversa, innescando un transfert emozionale di crescita reciproca, imparando a riconsiderare il suo ruolo genitoriale e avviando interiormente un educativo processo di presa di coscienza del suo stesso tragitto esistenziale, a sua volta empaticamente associato al sangue del suo sangue sia a livello ovviamente genetico ereditario che in senso lato d’indissociabili e al contempo insospettabili affiliazioni del cuore dapprima reputate insospettabili.

Diretto pregevolmente e senza cadute nella volgarità o nel ricattatorio più melenso da Goldwyn che, per l’occasione, si ritaglia anche il piccolo, ingrato ruolo, dell’avvocato e nuovo compagno di Jenna, In viaggio con mio figlio, soavemente fotografato da un ispirato e accorto Daniel Moder, tocca e “pilucca” con finezza e garbo spesso le corde dell’anima, ed è sorretto da un cast impeccabile ove, oltre agli interpreti già citati, son doverosamente da menzionare Whoopi Goldberg e la consuetamente fotogenica e brava Vera Farmiga (15 minuti – Follia omicida a New YorkL’uomo sul treno), altresì non si discosta mai da similari, fra il poetico e il patetico, road movies e racconti di stampo “educativo” a sfondo vagamente dolciastro, difettando infatti d’originalità in ogni suo aspetto, di conseguenza allineandosi alle convenzioni e stilemi narrativi più abusati, visti e stravisti. Eppur, ripetiamo ancora, vale la visione eccome, poiché, malgrado la sua intrinseca e mai elusa prevedibilità strutturale-e perfino concettuale, riesce egualmente a commuovere e a far riflettere per via della sua gradevolezza filmica e della leggiadria registica d’un Goldwyn sincero e mai furbetto nella messa in scena.

Il quale, sapidamente, con ricercato, consumato mestiere consolidato, sa ben aggirare le facili trappole della rischiosa retorica, confezionando una pellicola piacevole e asciutta senza troppi fronzoli di maniera, scevra da qualsivoglia deleterio svolazzo pindarico estetizzante. A differenza di ciò che, ahinoi, va invece oggi malamente di moda. Se però trascuriamo alcune riprese flou dalle tonalità troppo soffici (ri)ottenute con la color correctionIn viaggio con mio figlio è qua e là inevitabilmente una pellicola scontata ma tenera. Servitaci con indubitabile, ammirevole professionalità e intellettuale onestà diretta e incriticabile. Forse dal finale troppo edulcorato e politicamente corretto in cui a vincere è il buonismo semplicistico e sempliciotto.

In viaggio con mio figlio risente, rimarchiamo purtroppo, d’un canovaccio alquanto ordinario ove, a sproposito, si citano, di luoghi comuni dei più sciocchi, perfino Dostoevsky & company per una fiera delle facilonerie a buon mercato. Però, a prescindere da certe ovvietà trite e ritrite, si gusta con piacere indubbio. Forse, a esser davvero obiettivi, è proprio Bobby Cannavale la “nota” dolente del film. Continua infatti a risultare un attore talentuoso e indiscutibilmente molto preparato, dallo stacanovismo e impegno lodabili ma purtroppo, continuamente, interpretazione dopo interpretazione, non riesce veramente ad effondere carisma e corposità massiccia ai personaggi da lui incarnati. Rimanendo nell’anonimato e perennemente non svettando primariamente. Non sarà, ci spiace per lui, mai e poi mai una star e un attore, come si suol dire, di grido. Perché, probabilmente, per via d’una atavica rozzezza espressiva e d’una sfacciata antipatia innegabile, ci duole dirlo e ammetterlo con totale obiettività, non riesce a colpire nel segno e ad imporsi, in noi vividamente ad imprimersi.

Ripieno di cliché, s’avvale di ballate melodiche di Bruce Springsteen, però riproposte a iosa e in modo canonico, anzi, per essere più appropriati espressivamente, poco in linea, sovente, con le atmosfere effuseci in tal favola che, seppur piacevole, scade nel patetismo a tratti. Ma non vogliamo, utilizzando ancor ivi il plurale maiestatico, ecceder noi stessi di ripetitività. Seppur, ancor evidenziamo, Goldwyn è accorto a non precipitarne del tutto grazie a guizzi imprevisti e assortiti con ingegnosità gioconda.

Curiosità e aneddotici raccontini finali: dapprima, volutamente fingemmo di dimenticarci di Goldwyn nei panni del “villain” dell’epocale, a suo modo indimenticabile, Ghost con la magnifica Demi Moore e il compianto Patrick Swayze in uno dei suoi ruoli più iconici e memorabili. Ove, come saprete benissimo, recitò la qui presente, come suddetto, Goldberg che, per il suo ruolo divertito e divertente della veggente simpaticona, vinse, chissà se però meritatamente, l’Oscar come miglior attrice non protagonista. In questi anni, Goldberg è apparsa inoltre pochissimo sul grande e piccolo schermo, preferendo invece condurre vari talk show televisivi, peraltro intervistando numerosissime volte, soventemente, nientepopodimeno che lo stesso De Niro, divenuto nel corso degli anni un suo grande amico nella vita privata e come lei fervente democratico liberale in eterna lotta contro Donald Trump. La sua partecipazione nel film, infatti, è meramente, come si suol dire, “straordinaria” e Goldberg se n’è prestata per ragioni esclusivamente alimentari e “amicali”. Per via dell’antica stima nei confronti di Goldwyn e, per l’appunto, De Niro stesso. Eppur è sempre un’attrice pimpante, spassosa e dall’innata verve contagiosa.

Si cita Il grande Lebowski e Max/Cannavale s’esibisce al Comedy Cellar ove, nella finzione, s’esibì lo stesso De Niro dell’inedito The Comedian di Taylor Hackford.

RobertDeNiro InviaggioconmiofiglioDe Niro In viaggio con mio figlioEzra Cannavale

di Stefano Falotico

 

L’ESORCISMO di EMMA SCHMIDT (The Ritual), il Teaser TRAILER italiano del film con AL PACINO

Mancava all’appello Pacino! Che lavorò col regista di The Exorcist, vale a dire William Friedkin, per Cruising

Il vero esorcismo di Emma Schmidt del 1928 è il più terrificante e documentato della storia, riconosciuto dalla Chiesa e che ha ispirato decenni di orrore. Dopo anni di comportamenti inquietanti, Emma (Abigail Cowen) subì un lungo calvario di rituali condotti da Padre Theophilus Riesinger (Al Pacino) con l’aiuto di Padre Joseph Steiger (Dan Stevens). I due preti, uno in crisi con la propria fede e l’altro perseguitato da un oscuro passato, dovettero unire le forze per eseguire una serie di estenuanti e terrificanti esorcismi per salvare l’anima della giovane donna. I testimoni riferirono di casi di levitazione, voci ultraterrene e forza soprannaturale. L’Esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual riporta in vita la storia originale.esorcismo emma schmidt pacino

 

MICHAEL KEATON, sebbene in version(e) cam(m)eo, va ad arricchire il cast di THE WHISPER MAN con Bob DE NIRO

Michael Keaton De Niro Whisper Man

From Deadline:

Netflix and AGBO’s adaptation of the Alex North novel The Whisper Man isn’t done adding star power to it’s ensemble as sources tell Deadline Michael Keaton is set to join the ensemble of the feature adaptation of the pic starring Robert De Niro. John Carroll Lynch, Hamish Linklater, Owen Teague and Acston Luca Porto are also on board joining De Niro as well as Adam Scott and Michelle Monaghan. While sources stress it falls under a cameo credit, the idea of the two legendary heavyweights appearing in a movie together for the first time since Jackie Brown should excite fans of both actors.

James Ashcroft is set to direct, with Ben Jacoby and Chase Palmer adapting the script. Anthony Russo, Joe Russo, Angela Russo-Otstot and Michael Disco will produce for AGBO, marking the sixth film out of Netflix and AGBO’s ongoing partnership.

Based on North’s New York Times bestselling novel, The Whisper Man revolves around a widow crime writer who, after his 8-year-old son is abducted, looks to his estranged father, a retired former police detective, for help, only to discover a connection with the decades-old case of a convicted serial killer known as “The Whisper Man.”

 

Anche VAL KILMER è morto, io no

From Deadline:

Val Kilmer, the Juilliard-trained actor with leading man looks known for taking on roles that transcended his appearance, has died. His daughter, Mercedes Kilmer, confirmed to the New York Times that the actor had passed away after battling pneumonia. He was 65.Val Kilmer

Kilmer’s early films included comedies like Top Secret! (1984) and Real Genius (1985), as well as his breakout role as LT Tom “Iceman” Kazansky opposite Tom Cruise in Top Gun (1986). That was followed by the fantasy film Willow (1988).

His big break as a leading man came with his swaying, leather-clad portrayal of Jim Morrison in Oliver Stone’s The Doors.

After his outing as The Lizard King, Kilmer opted for scene-stealing co-starring roles in Tombstone (1993), True Romance (1993) and Heat (1995).

“Someone sent me a poll recently where Tombstone snuck into the top 10 Best Westerns of all time,” Kilmer later told Deadline. “I don’t know if that film is a classic, but it has some elements of a classic, like that cast and screenplay. I still can’t go thru an airport without hearing “I’m your huckleberry.’ “

Kilmer said the key to finding his Doc Holliday was the accent, a “dialect that didn’t exist anymore.”So he reached out to dialect and speech coach Tim Monich for help.

“Within days, there was a tape at my doorstep of a true Southern aristocrat who spoke so slowly and precisely about the theater he had restored. The film would have been 6 hours long he spoke so slowly…so I had to hit a balance. The dialect was key. It informs even the walk, the thought process… his condescension.”

The star’s next leading role came in Joel Schumacher’s Batman Forever (1995), which Kilmer originally hoped would be a “radical” take on the iconic superhero. That effort ultimately failed after Kilmer realized he would spend much of the film behind a mask and encased in foam padding.

“The trap was the suit,” he later said.

Wedged in there was the disastrous adaptation of The Island of Dr. Moreau, which saw the perfect storm of a difficult location shoot in Australia, Marlon Brando in kabuki-esque whiteface and the original director replaced by John Frankenheimer. Kilmer was often said to be difficult on the set.

“I got blamed for ruining he film, even though I died two-thirds of the way thru,” Kilmer told Deadline. “And the film is just as bad when I’m not in it. I always wondered how he could have made that claim with all the evidence against him, till I realized no one every saw the ending!!! And some very fine execs were tortured about the fiasco, and some blamed me without ever getting the true story. One exec in particular who is an amazing talent, used me as a party story for years. Oh well. Win some, lose some.”

The Saint (1997) was his next shot at a franchise. It was a modest box office success, but ultimately didn’t spawn any sequels.

In 2012, Kilmer poured himself into Citizen Twain, a one-man play which saw the actor transformed — in a white suit, wig and shaggy mustache — into America’s greatest satirist, Mark Twain. Kilmer not only starred, he also wrote and directed the play. He later toured the country with a film version of the play.

Kilmer was diagnosed with throat cancer in 2015. A procedure performed as part of his treatment damaged his vocal cords and thereafter he had difficulty speaking. That, in turn, made acting difficult.

At one point, there was a brouhaha over a comment the actor made that some interpreted as a denial he had cancer. There were also rumors that Kilmer, a lifelong Christian Scientist, was trying to pray the disease away.

He later explained later to Deadline, “I was accused of not being forthright. Well, if years ago I had broken a leg and I was asked today if I have any broken bones, I would answer just as I did the cancer question: ‘No, I don’t have any.’ Because I believe that the power of prayer is as potent today as it was in Jesus’ time. There tends to speculation I haven’t done all I can do to be as healthy as I have a right to be. Extraordinary assumptions are often made about others when one considers what a complete mystery our own bodies are to most of us. People are often afraid of what they don’t understand. I was. I’m so grateful I’ve experienced firsthand what consistent prayer and love can offer.”

In 2021, the intensely-private star opened up with a documentary that detailed his life and health struggle called Val. Deadline’s review calls it “an exhilarating, honest and raw look at the life of an actor, this actor, with all the trials and tribulations that go with a 40-year career in front of audiences…the victories and defeats, the will to carry on despite being dealt a devastating blow for any performer.”

Kilmer’s career was given a poignant coda when he reprised Iceman in Top Gun: Maverick (2022). His single scene opposite Cruise proved powerful and provided an emotional center to the film.

That was certainly the case for his superstar foil.

“I was crying, I got emotional,” Cruise later told Jimmy Kimmel about the scene. “For him to come back and play that character…he’s such a powerful actor, that he instantly became that character again…you’re looking at Iceman.”

Of his penchant for taking the road not travelled career-wise, Kilmer told Deadline, “I wouldn’t know what I know now spiritually without turning away from the success as often as I did. I did my ‘time in the wilderness’ in a very serious way, and today I know who I am, and can look any man on earth, in the face, with love, empathy and forgiveness.”

Continua, forse?!

 

ANORA, recensione

MikeyMadisonAnoraOggi analizziamo finalmente l’acclamato Anora, insignito di ben cinque premi Oscar altisonanti e giudicato, pressoché in maniera quasi unanime, una delle migliori pellicole dello scorso anno. Nella nostra disamina, però, a dispetto dell’ovazione generale e degli omogenei pareri estremamente lusinghieri ottenuti pressoché ovunque, tant’è che Anora attualmente riscuote, sul famoso sito aggregatore di medie recensorie denominato metacritic.com, un eccellente 91% di opinioni estremamente favorevoli, eviscerando tal opus a sangue freddo e con maggior calma, ne muoveremo qualche rimostranza e perfino avanzeremo l’ipotesi, secondo noi fondata e seguentemente espostavi nei dettagli, per cui Anora, sebbene risulti a livello oggettivo e indubbiamente un’opera che merita un ampio gradimento giustificato dai suoi reali, qualitativi meriti, altresì non è affatto il capolavoro inattaccabile che la maggioranza pensa in modo indubitabile, credendo erroneamente di non poter esser contraddetta minimamente. In quanto ne abbiamo scorto difetti abbastanza eclatanti, ripetiamo, nel nostro prosieguo meglio argomentativi, e non propone nulla di particolarmente eversivo, tantomeno scabroso, che già non esperimmo e avessimo visto in altre occasioni addirittura, a nostro avviso, più convincenti e ficcanti. Proiettato in anteprima mondiale nel dì 21 maggio 2024 al Festival di Cannes, ove vinse inaspettatamente la Palma d’oro poiché la sua presentazione suscitò, sì, clamore, eppur non eccezionale “fervore”, al di là degli interminabili applausi in sala del pubblico, passato dunque, presso la Critica internazionale, un po’ in silenzio e con poche aspettative, perciò, d’aggiudicarsi l’ambito trofeo suddetto invece, per l’appunto, conquistato, progressivamente ascese vertiginosamente nell’empireo degli Academy Awards. Divenendo, in breve tempo, un film intoccabile. Dunque, ribadiamo a scanso di possibili fraintendimenti, immantinente, in effetti, alla kermesse cannense, al di là paradossalmente del premio vintone, non ricevette larghi apprezzamenti, bensì creò uno spartiacque divisorio e non furono poche, a ben vedere, le recensioni discordanti. Se non propriamente negative, perlomeno tiepide. Anora dura centoquaranta minuti netti ed è diretto da Sean Baker (Un sogno chiamato Florida), il quale l’ha sceneggiato originalmente da cima a fondo e n’è coproduttore, oltre che personale montatore. Dunque, Baker ha agguantato, in un colpo solo, ben quattro statuette dorate perché Anora è stato eletto Miglior Film dell’anno e, oltre a quella per Best Actress andato alla sua interprete principale, Mikey Madison, che ha sconfitto sorprendentemente e contro ogni pronostico la favoritissima Demi Moore (Mr. Brooks) di The Substance, ha conquistato, ça va sans dire, l’Oscar come Best Director, Best Original Screenplay & Editing, cioè montaggio. Per Baker, quindi, una consacrazione apoteotica, forse però, ancor evidenziamo, leggermente immeritata ed esagerata? Trama, delineatavi a grandi linee, seppur descrittivamente, lungamente evidenziatavi, per non rovinarvene alcuna sorpresa stuzzicante…

La giovanissima, appena ventitreenne Anora Micheeva, detta Ani (un’incantevole Madison che sprigiona una sensualità impari e sa infonder contagiosa vitalità al suo personaggio in ogni inquadratura intrisa del suo ipnotico, soavemente dolce fascino erotico), è una spogliarellista che vive in una degradata zona periferica di Brooklyn. La quale, disinibitamente, per sbarcar il lunario, si prostituisce come danzatrice di striptease per voyeuristici e arrapati clienti, più o meno facoltosi, assai vogliosi d’esperienze ad alto tasso pruriginoso… È una sorta, potremmo dire azzardatamente, di Elizabeth Berkley, ante litteram e in “vesti” aggiornate all’odierna lap dance del nuovo millennio, meta-cinematograficamente reincarnatasi da Showgirls firmato Paul Verhoeven (Basic Instinct). Escort di lusso e lussuriosa d’avvenenza madornale che offre agli uomini prestazioni straordinarie in un accogliente night club dell’hinterland newyorkese. Non pratica rapporti sessuali completi, nel senso più comunemente inteso del termine, ma, se ben pagata, permette di esser dappertutto palpata. Una sera, sopraggiunge nel locale in cui lavora, lo sbarbatello ragazzino russo di nome Ivan Zacharov, soprannominato Vanja (Mark Ėjdel’štejn). Lei, casualmente, come da prassi “professionale”, s’avvicina a lui e maliziosamente lo seduce con la sua irresistibile malia fascinosa. Consuetamente dunque l’adesca e, nel privé, gli offre senza sconti i suoi servizi speciali…

Al che, Vanja, se n’innamora perdutamente e le fornisce il suo indirizzo di casa per ampliarne e approfondir integralmente l’intima conoscenza hot… Ani, accetta comprensibilmente, datane la cifra economica promessale, e d’istintivo buon grado istantaneo, la proposta “indecente” donatale fortunosamente. Restando peraltro sbalordita dalla sfarzosa dimora di Vanja, remunerata sempre più cospicuamente, comprenderà immediatamente che Vanja è ricco sfondato e presto apprenderà che è infatti il figlio d’un oligarca arcimiliardario. Dopo molti divertimenti a base di sesso sfrenato e droga a volontà, fra sballi vari e accoppiamenti, non orgiastici però, bensì soltanto consenzientemente fra lor due pattuiti, nottate selvagge e festini scatenati, in quel di Las Vegas, Vanja propone ad Ani di sposarlo quivi seduta stante, ovverosia di coniugarsene nella città del vizio e della trasgressione per antonomasia. Lei, naturalmente, nel frattempo per di più, parimenti, di lui invaghitasi per fatale circostanza del cuore indomabile, non crede ai propri orecchi e occhi. È tutto impensabilmente reale come in una favola all’apparenza impossibile. Lei, per purissima, sfacciata fatuità della magnifica sorte, divenne eccome la prediletta di nientepopodimeno che d’uno dei boys più abbienti dell’intero globo. Forse, però, il sogno di gloria e felice ricchezza appena miracolosamente da Ani concretizzatosi come per magia, si sgretolerà in un baleno perché non è tutto oro quel che luccica, come si suol dire. Qualche informatore, infatti, ha appena appreso della notizia, però ancora non accertata, riguardante il presunto matrimonio fra i due baldi, incoscienti giovincelli e lo comunica subito ai genitori di Vanja, cioè Galina (Daria Ekamasova) & Nikolai (Aleksey Serebryakov). Se l’atroce pettegolezzo si rivelasse fondato, come noi spettatori infatti sappiamo, Vanja avrebbe scelleratamente disonorato la famiglia! Per la reputazione del casato Zacharov, tal tipo d’unione rappresenta qualcosa di vergognosamente inammissibile! Ribadiamo, Galina e Nikolai, in merito all’effettivo, finanche affettivo, sposalizio tra il figlio e la sconosciuta di turno non hanno definitiva conferma. L’unico modo per sincerarsene è inviare in loco, cioè a New York nell’appartamento ove momentaneamente risiede Vanja, due fidati e forzuti bracci destri, Gamik (Vache Tovmasyan) e Igor (Yura Borisov) con l’ausilio del prete, consigliere tuttofare e mr. risolve i problemi T’oros (Karren Karagulian). Una volta scoperta la scioccante autenticità in merito a quanto accaduto, inizierà un’estenuante, sterminata notte alla ricerca del fuggitivo Vanja per le affollate strade della tentacolare Big Apple. Vanja, infatti, sentendosi oramai messo alle strette e senza vie d’uscite, ricattato e braccato specialmente dall’irremovibile T’Oros, si diede vigliaccamente alla fuga, abbandonando la malcapitata sua neo consorte alle grinfie degli scagnozzi… Come andrà a finire?

Anora poster Anora Mikey Madison

Sorretto dalla pimpante, sensualmente torbida Madison, travolgente, ovviamente molto ardito ed osé nella prima sensuale ora abbondante di nudi a iosa e scene fortemente piccanti ai limiti della censura, come si diceva una volta, Anora possiede financo una parte centrale fenomenale per ritmo, grottesca e umoristica vivacità scoppiettante, per sapientissimo uso degli spazi e delle suggestive location, fra cui un’Asbury Park languidamente immersa in morbide atmosfere crepuscolari dallo strepitoso impatto visivo.
Cosa non funziona in Anora

Anora, dopo il suo elettrizzante incipit caleidoscopico e giocosamente, eroticamente e non, conturbante, si squaglia come neve al sole e banalizza ogni stoica provocazione nel tedioso segmento finale ove si trasforma in un moralistico, pedante e prevedibile guazzabuglio di retorica a buon mercato che frana nella scontata drammaticità più furbesca, fuori luogo rispetto ai suoi leggeri presupposti semplicemente scanzonati, perfino romanticamente eccelsi e coloratamente svagati, stilisticamente briosi, mutando stonatamente registro di punto in bianco e virando faticosamente nella direzione dello sterile, programmatico pamphlet pseudo socio-culturale, falsamente impegnato e politicamente corretto.
Peccato!

 

ONE BATTLE AFTER ANOTHER, il primo TRA(iler) del film di Paul Thomas Anderson (PTA) con Leo DICAPRIO

DiCaprio One Battle after AnotherDiCaprio onebattleafteranother