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OPPENHEIMER, recensione

Nolan Oppenheimer Murphy Nolan Cillian Murphy

Ebbene (intestazione tipicamente mia, assolutamente dunque personale, di certo opinabile ma voglio sempre apostrofarvi, no, approcciarmi a voi, lettori, in tono confidenziale), come volevasi dimostrare, lo spettatore medio s’è subito precipitato in sala per assistere, condizionato dal potente battage pubblicitario inneggiante a Nolan oramai da tempo immemorabile, giustappunto, per assistere all’ultimo opus del regista di Inception. Quest’ultimo film, peraltro, fra i più sopravvalutati delle ultime due decadi così come, parimenti, la filmografia nolaniana quasi in toto. Che puzza, a mio avviso, sempre indissolubilmente di artificialità, no, d’artefatta grandeur non poco tronfia e insopportabilmente retorica. Nolan, al solito, ivi non si smentisce, riproponendoci senz’alcun guizzo d’originalità i suoi stilemi “arty” da cineasta montato, da me invece smontato e non per far il bastian contrario. Semplicemente perché non mi va a genio mentre la massa informe, naturalmente uniforme e piatta, lo consideri quasi unanimemente un intoccabile, totemico genius in forma indiscutibile. Suvvia, non scherziamo, è un furbissimo e poco simpatico cialtrone, un imbonitore del gusto medio e conformistico fra i più commerciali che maschera la sua pochezza e la sua pressoché totale assenza di poetica e cinematografico sguardo autentico, veramente passionale, dietro un’immensa coltre, per l’appunto, a base di studiata e fredda calcolazione e dietro una facciata da artista filosof(ic)o dei poveri. Malgrado sempre più s’arricchisca in maniera esponenzialmente atomica, sfruttando la dabbenaggine del suo popolo di tonti aficionados da lui manovrati e perennemente buggerati a cui fa credere di essere il Kubrick odierno. Ma per carità, poveracci(o)! Oppenheimer, infatti, altri non è che il biopic di sé stesso magnificato, trasfigurato e personalizzato, tramite un cervellotico processo d’identificazione psicologico, adattando(si), in forma solipsistica e romanzata, la “storia del realmente esistito, raccontato però a modo suo, Robert Oppenheimer, obviously. In poche parole, specialmente spicciole, per spicciarmi più che altro e per farvi capire sinteticamente in modo conciso e preciso la questione riguardante tale volpone inenarrabile, costui, pur narrandoci le zone oscure dell’inventore dell’atomic bomb, celebrandolo, comunque sia, come un assoluto genio coi suoi tanti difetti, altresì con i propri immani pregi sto(r)ici, s’immedesima nell’Oppenheimer da sé stesso sceneggiato. E ho detto tutto. Sì, perché Nolan vuole essere visto come un genio tanto ombroso, ermeticamente indecifrabile, quanto enormemente affascinante e dal carisma ipnotico, oso dire apoteotico, alla pari del Falotico, no, degli occhi magnetici, invero vuoti, e scuri d’un Cillian Murphy inespressivo come pochi. Al che, Nolan lo pedina, gli si attacca con la macchina da presa e lo riprende (da) vicinissimo, propinando noi, pedissequamente, primi piani giganteschi e ossessivi à la Sergio Leone ante litteram in ambito pseudo-scientifico su inquadrature desertiche in senso toutcourt. Dietro Murphy non v’è la Monument Valley di C’era una volta il West malgrado gli orizzonti grandangolari del Grand Canyon a sfondo romantico della love story fra Oppenheimer e sua moglie, e a dispetto del fatto incontrovertibile che le iridi di Murphy assomiglino a quelle di Charles Bronson/Armonica, bensì assistiamo, desertificati, appunto, solamente allo sconfinato ed arido panorama desolante del suo Cinema mortifero e più algido dell’inesistente sex appeal di Emily Blunt. La quale è, sì, bellissima, ma non riesce mai a risultare davvero sensuale e arrapante in quanto la sua bellezza, non di plastica ma poco comunicativa, da attrice imbambolata e perfettina, non sprigiona alcuna carica eroticamente maliziosa ed evocativa. Stessa cosa dicasi per Nolan, il suo Cinema è formalmente perfetto come La Gioconda ma non appassiona come Julianne Moore. Quest’ultima non propriamente impeccabile nei suoi lineamenti del viso, una beltà, diciamo, non canonica, altresì sesquipedalmente più invogliante all’esplosione ormonale e spermatica d’una scissione nucleare.  Ah, che fissato che sono, che fissione, no, con Julianne desidero un’esplosiva er… ne e anche tutta la fusone. Ma non facciamo confusione!  Poiché le sue muscolose e al contempo longilinee gambe stupende, la sua carnagione più pallida del volto ceruleo di Murphy, le sue superbe lentiggini esagerate, appaiate alla sua rossissima pigmentazione pilifera e alla sua capigliatura fulva, le sue vellutate braccia morbide, intonate in modo asimmetricamente armonico al suo viso da troia alla Boogie Nights, in me scatenano solamente una reazione deflagrante. Osé, anche oso dire tendente al molto piccante, voglio esserle ficcante!Murphy Oppenheimer

E, se un uomo non vuole scoparsela (allora è omosessuale o eunuco), no, se non vuole presto scoppiare, deve non guardarla oppure frizionarsi del ghiaccio sulle palle. Ora, procediamo con la recensione scoppiettante. Scusate, mentre scrissi le righe soprastanti, pensando intensamente a Julianne, ebbi una furente, incontenibile ed istantanea erezione, ivi scrivo tal parola appieno, e dovetti asciugarmi le mutande bagnatemi che le strapperei senza starvi a pen(s)are troppo in modo pedante, ah, che top(p)a e quella mia cosa fra le mie gambe, più rossa di lei, mi esplose in infinitesimali istanti, eh già, pochi c… zi, ragazze, no, ragazzi, debbo metterglielo quanto prima dentro, no, debbo ammettervi francamente, furono brevissimi ma densissimi mo(vi)menti tanto veloci quanto infinitamente godibili ed estasianti. Dolcemente calienti! Ah, le sfilerei i collant e le sarei colante. Ora facciamocela, no, facciamola finita con le cazzate, anche porcate, facciamo i seri e recensiamo questa pellicola che altri non è che una porcata, no, una ridicolaggine presa troppo sul serio da chi di Cinema capisce poco e, in forma direttamente, anzi, inversamente proporzionale alle sue sessuali proporzioni, no, coerente con la sua scarsa conoscenza in materia della settima arte più da atti impuri, no, pura, colto da eia… one, no, esaltazione figlia della sua ignoranza madornale, addirittura può arrivare a pensare che la Blunt sia più bella e brava della Moore. Sono serissimo, non sto scherzando, sebbene dapprima, come appena dettovi poc’anzi, qualcosa fu eiaculante, osé, no, oserei dire schizzante. (C)azz! Mi par giunto il momento di recensire il film. Che, come ampiamente detto all’inizio di tal mio pazzo, no, di questo pezzo, sta spopolando e sta entusiasmando chiunque. Tranne me. Che, anziché, no, anzi, ché, dopo averlo visto, son rimasto scioccato, praticamente sconvolto dalla sua mediocrità assoluta più disarmante. Chiarisco subito, a scanso di equivoci, Oppenheimer non è affatto brutto. È, assieme al lontano, nelle stelle, no, nel tempo oramai remoto dei primi anni duemila, Insomnia, quest’ultimo reputato dai fan di Nolan un remake scialbo e il opus suo peggiore, figurarsi che “fanatici” esperti, il miglior film di Cristo di dio, no, di Christopher. E ho detto tutto. Figuratevi gli altri, eh eh. Sto iperbolizzando, senza dubbio, altresì riconoscendo una teoria della relatività, no, una verità poco relativistica. Avevamo già avuto, qualche anno l’Orsa Maggiore, no, ora ho sonno, no, or sono, il film Oppenheimer per la regia di Nolan, ovverosia Interstellar. Soltanto che adesso Nolan l’ha girato con Murphy, cioè lui stesso in vesti attoriali, al posto di Matthew McConaughey. Per comprendere tale mia freddura, da appurare se in effetti lo sia, bisognerebbe viaggiare nel tempo e, alla velocità della luce, no, del suono, no, all’unisono, capire quando partì l’assurdo fanatismo per Nolan, paragonabile solamente a quello da molti di voi, eh già, nutrito per Paul Thomas Anderson, ovvero un altro venditore di cagate spaziali. Torniamo nel futuro, no, torniamo al film che… oltre a proporci dei cammei ingiustificati, come quelli inutili di Kenneth Branagh e Matthew Modine, di Rami Malek & company, quasi delle comparsate, e degli attori redivivi che sono più bravini di quando furono vagamente sulla cresta dell’onda o sulla rampa di lancio d’un successo mai veramente avvenuto (mi riferisco a Josh Hartnett, sì, bravi, comunque Josh è stato bravo, eh eh), questa biografia su Oppenheimer, in realtà su Nolan stesso da lui diretto, co-finanziato come sempre e scritto, (auto-ri)tratto dal libro Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato a cura di Kai Bird e Martin J. Sherwin, con dialoghi da pelle d’oca per la loro bruttezza imbarazzante (Nolan è una pessima penna), scevri cioè di qualsivoglia guizzo d’originalità e nella prima ora più stereotipati e impresentabili di quelli di A Beautiful Mind con una fiera delle banalità pseudo-scientifiche da impietrirmi più della mono espressività d’un Murphy paralizzato sol in due pose, una con gli occhi strabuzzati e una à la Benito Mussolini ebreo che sconfisse sul tempo Adolf Hitler che, a sua volta, per via del suo mostruoso e arcinoto antisemitismo contro Albert Einstein, no, Karl Marx, no, Sigmund Freud, no, Werner Karl Heisenberg, si lasciò fregare, Oppenheimer ci presenta un Robert Downey Jr. che, quasi sicuramente, vincerà l’Oscar come miglior attore non protagonista ma se l’aggiudicherà perché è dimagrito spaventosamente, divenendo scheletrico come Murphy stesso, e in quanto è stato truccato da vecchio quasi decrepito. È “mostruoso!”.

Già ci appar(v)e vecchio, aggiungo io, a inizio film quando Oppenheimer/Murphy era giovanissimo mentre quest’ultimo, puntualizzo in modo necessario, rimane abbastanza giovane, a eccezion fatta dei capelli leggerissimamente brizzolati, anche alla fine con l’aggiunta del pelato, quasi come nell’incipit che parte dal pre-finale. Downey Jr. è un grande attore, questo non si discute ma meritava la statuetta molto tempo prima per parti più belle, maggiormente sentite e, a conti fatti, perfino meglio e con più cuore interpretate. Qui è lezioso, recita, sfoderando moine a tutt’andare.

Ho letto e sentito che Oppenheimer sarebbe analogo a JFK di Oliver Stone. Ah ah, macché. Che c’entra un caso complottistico di natura filmica, lungo quasi uguale ma lineare e non discontinuo nei suoi rimbalzi delle pallottole sulla testa di John Fitzgerald Kennedy, no, non altalenante nei suoi coerenti saltelli temporali non astrusi, con una macchinosa, squinternata, sempliciotta e convenzionale storia assai tediosa che, dopo innumerevoli flashback che provocano più indigestione dei funghi atomici, no, dei funghetti porcini ammuffiti, nuovamente ci ammorba e stomaca con un’interminabile, verbosissima parte processuale da latte alle ginocchia? Fra l’altro, Jason Clarke recita permanentemente da seduto ma è meno imbalsamato della regia fermissima e piatta di Christopher. Se Downey Jr. vincerà un po’ immeritatamente l’Oscar come best supporting actor, sarebbe parimenti, no, immensamente davvero insopportabile, questo sì, eh eh, ancor più stomachevole, che Murphy trionfasse nella categoria di Miglior Attore ai prossimi Academy Awards. Murphy mi sta simpatico, tutto sommato, ma, sottolineo di nuovo, ivi recita da monolito di 2001: Odissea nello spazio con un look da patito del Biafra che, nei primi venti minuti del film, sembra George McFly/Crispin Glover di Ritorno al futuro, quindi subito dopo il ragazzo timido, “scienziato pazzo” di Peggy Sue si è sposata che voleva scoparsi, per l’appunto, insomma, darvi dentro con Peggy, alias Kathleen Turner. Con l’unica, devastante differenza che Murphy, malgrado la sua timidezza, anzi, atimia da imbranato alla Falotico, no, catatonico e, a prima vista, interessato solo agli atomi, ai neutroni, agli isotropi e non alle patate delle bombe sexy, dette altresì grandi tope, riesce, col solo potere delle sue iridi glauche azzurre sul verde smeraldo, a trombarsi bellamente Florence Pugh, la quale qui è più bona dell’ex pornoattrice Jodi Taylor, a lei assai somigliante, e nientepopodimeno che Emily Blunt. Che, come dettovi, non è Julianne Moore ma è più bella di Florence Pugh e ho ridetto tutto ancora una volta. Sì, Murphy/Oppenheimer pare John Nash schizofrenico del succitato, sopravvalutato A Beautiful Mind, non ha il fisico di Russell Crowe dell’epoca che trombava Jennifer Connelly ma, solo dopo 45 min., da studioso di Fisica e meccanica quantistica, scopiamo, no, scopriamo essersi trasformato in un fottuto adoratore della figa, un lucky bastard impenitente, un donnaiolo incallito e un “maiale” comunista che vuol far il culo ai nazisti. Per di più, prima è al liceo, due minuti dopo è laureato e dottore, tre scene successive è a capo del Progetto Manhattan. Calcoliamo che, nel brevissimo lasso temporale, ribadisco, ha avuto anche il tempo di scopare Florence Pugh e di sposare Emily Blunt. Un real genius!

I migliori della compagine attoriale sono James Remar, Gary Oldman as Harry S. Truman, il regista-attore Tony Goldwyn e basta. Peccato che si vedano solo, rispettivamente, per una manciata di minuti. Velo pietoso invece per Benny Safdie. Il quale, a proposito di PTA (acronimo di Paul Thomas Anderson coniato dagli andersoniani e nolaniani), dopo averci disgustato in Licorice Pizza, ivi recita da scemo più scemo del suo handicappato del film In Good Time girato in veste cineastica assieme al fratello.

A proposito, ripeto quest’espressione, infine, di fratelli famosi… Chi sostiene che il qui presente, inesistente, Casey Affleck sia più bravo di Ben Affleck è uno che non scoperà mai Jennifer Lopez. Ben Affleck, eterno amico di Matt Damon. È Damon che tira su il film e lo salva grazie a un paio di scene pregiate da great actor navigato e carismatico. Sì, Damon è carismatico. Chi dice, da una vita, che è insignificante è lo stesso topo, no, tipo d’uomo che preferisce Casey a Ben e Christopher Nolan ad Einstein. Nolan, per non rendere caricaturale e macchiettistico Einstein, lo fa interpretare a Tom Conti. Che assomiglia a un agricoltore della Basilicata che non ha mai non solo sfogliato un libro di Fisica, bensì ha a stento la quinta elementare. Ecco, caro Nolan, torna a scuola, non solo di Cinema.Emily Blunt Oppenheimer

di Stefano Falotico

 

Il commissario Falò 2 – Una macabra indagine personale, un libro noir di natura cinematografica

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Ebbene, in attesa prossimamente di assistere al Marlowe di Neil Jordan (Intervista col vampiro) con Liam Neeson (La preda perfetta), sceneggiato dal writer di The Departed, ovverosia William Mohanan (Fuori controllo), vogliamo sinteticamente, altresì esaustivamente, presentarvi un libro di matrice analoga e speculare, perfino speculativo in merito al concetto d’investigazione nel senso toutcourt della letterale sua accezione, inoltre assai inerente, giustappunto, le torbide atmosfere noir e l’urban crime più puri. L’autore di quest’articolo è la stessa persona autrice di tale opus letterario, sottostante descrittovi nella sinossi fedelmente riportatavi e trascrittavi testualmente, e ivi recensore di molte pellicole cinematografiche di valore. Trattasi non d’autoreferenziale celebrazione futile o ambiziosa magnificazione irrisoria, bensì d’una sincera esposizione anticonvenzionale di un’opera di narrativa gialla che il sottoscritto reputerebbe delittuoso non pubblicizzarvi con piena, emotiva partecipazione e sentito, irrefrenabile desiderio d’illustrarvela con ardore. Eccone la sinossi nella sua quarta di copertina enunciatavi:

Neeson Marlowe

Un uomo indagatore tra i più fini e supremi, un commissario scrutatore all’interno degli infernali anfratti, apparentemente insondabili, dell’incubo umano incarnato da una società buia e cupamente celante molti neri scheletri nell’armadio. Il quale, passeggiando cogitabondo nei suoi dedali neuronali, inabissandosi mentalmente fra i decumani spettrali d’una propria esistenza vivisezionante esistenzialmente i meandri d’un mondo afflitto in modo pestilenziale e forse irreversibile da una tetraggine tanto incurabile quanto esiziale, ne perlustra le oceaniche e glaciali criminosità terrificanti, amleticamente e infinitamente proteso intimamente a indagarvi in maniera coscienziosamente vera e senziente, primordialmente e visceralmente ostinato e implacabile, impietoso nella sua più profonda e misterica detection scevra da ogni compromesso e incorruttibilmente severa da investigatore à la Philip Marlowe modernamente ricreatosi e rincarnato dalla sua stilografica penna analoga allo stile raffinato e impeccabile di Raymond Chandler. Un Hercule Poirot alla Agatha Christie di natura e matrice ante litteram, un Benoit Blanc che, a differenza dei glauchi occhi bleu di Daniel Craig, possiede cangevoli e languide iridi scure allineate al suo noir vivente in mezzo al perpetuo hardboiled metaforico di questa nostra vita ripiena di duri enigmi ostici similmente e apparentemente irrisolvibili come in un fascinoso, romantico eppur al contempo gelido giallo d’antan. Il commissario Falò, un uomo che non rinunzia alla sua altezza morale in un mondo che di nobiliare ed eticamente pregevole non ha più niente, smarritosi come fu, infatti, da tempo oramai immemorabile, in una lancinante perdizione pressoché indelebile e mortificante in modo universalmente abominevole e terribile. Su quale caso sta or indagando? Forse sul sensuale senso della vita che assomiglia a una dark lady magnetica e sfuggente, inafferrabile ed eccitante…Branagh Poirot

Tale libro è la continuazione del suo capostipite e, da quel che sopra leggeste, ne avrete immediatamente compresa la sua natura cinefila ampiamente citazionistica. Ne Il commissario Falò 2 – Una macabra indagine personale, infatti, soventemente si fa esplicito riferimento alla settima arte, specialmente quella, per l’appunto, investigativa e nera. In questa novella, dall’intreccio volutamente delirante e contorto, peraltro, vengono menzionate pellicole e lor presenti personaggi che, se non propriamente ascrivibili a qualcosa di marcatamente giallo, hanno perennemente un’attinenza profonda con la misteriosa ricerca della verità più profonda e, a prima vista, poco nitida.

Che sia, per esempio la verità concernente un caso o una situazione da risolvere lucidamente per svelarne l’arcano e scoperchiare nere ed enigmatiche realtà celate e/o agghiaccianti, riemerse in tutto il lor abbacinante nitore glaciale, oppure la verità nuda e cruda, umanissima, prettamente riguardante il disvelamento di denudatesi anime esse stesse, metaforicamente, dapprima non facilmente decriptabili in totale chiarezza cristallina…

Cosicché, ne Il commissario Falò 2, fa capolino addirittura Nicolas Cage di Next e di tanti altri film più o meno cupi mentre l’amalgama del suo narrativo andamento assomiglia non poco al citatovi Strade perdute di David Lynch.

In questa pindarica giostra immaginifica, in tale tourbillon e lessicale epifania incontenibile, infine, a un certo punto, si va a parare persino su I guerrieri della notte e John Wick 4.

Ovviamente, vivamente consigliato e disponibile sulle maggiori catene librarie online nei formati cartaceo e digitale, presto su Audible, personalmente recitato.

 

 

THE EQUALIZER 2 – Senza perdono, recensione (in attesa del terzo, mentre il primo?)

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Ebbene, amici e fratelli della congrega, vale a dire la mia, quella cinefila, cari cinofili e uomini lupeschi, non solo amanti dei cani e cari miei esseri cagneschi in cerca d’affetto come cagnolini ma affetti dalla malattia del Lombroso, orsù, men (non) ombrosi, ivi sganciato da oscure paure e ubbie da medioevalistica Gubbio che fu, no, scevro da oscurantistiche ed editoriali, quasi dittatoriali regole SEO e via dicendo, vi parlerò senza filtri, in modo assolutamente personale e assai chiaro, d’un film con un nero per antonomasia, ovverosia mr. Denzel Washington. Marcantonio versatile sul fronte recitativo, molto colorito in senso toutcourt, interprete di fame, cioè sempre affamato di celluloide, no, di fama mondiale che, da una vita, rappresenta e incarna, peraltro è or molto in carne e non solo è rilucente, splendido splendente come il Sole più ardente, di “abbronzata” carnagione ne(g)ra, il simbolo dell’emancipazione da ogni apartheid razzistico dei più ignobili ed esecrandi. Denzel, nobiluomo non più residente ad Harlem, che di cognome fa Washington, non è ovviamente e visibilmente un bianco, non ha fatto il presidente nella Casa Bianca (White House) a Washington, per l’appunto, ma è l’attore che personifica, di simbiosi molto metafisica, no, di osmosi psichica, no, di somiglianza fisica, no,  in forma metaforica, l’eterno Barack Obama del suo popolo da Malcolm X d’ogni Spike Lee che si rispetti, che venga rispettato e strenuamente, come nel suo Barriere, combatte/a per i suoi diritti, in passato e tristemente a tutt’oggi calpestati, à la He Got Game. Per un mondo libero da ogni schiavitù castrante ove, così come avviene da molti anni a questa parte, un nero alla Jesus (questo è il nome del personaggio di suo figlio nel film appena succitato) possa diventare il nuovo Michael Jordan e scopare, alla maniera di Isiah Maxwell, perfino Jill Kelly & Chasey Lain all’unisono, infilando tutte le palle da pallacanestro, no, appartenenti alla maschile zona erogena ribollente in modo spermatico di testosteroni calienti, cioè, in poche parole prosaiche, i testicoli tosti e a livello ormonale funzionanti da omone di colore, soprattutto in calore, in tutti i buchi delle più arrapanti ed eccitanti b(i)on(d)e. Ora, non voglio sovreccitarmi, bensì di questo film parlarvi in modo pacato, no, accalorato, quasi (da) drogato, a mo’ di Denzel Washington che, nella pellicola Verdetto finale, ebbe e filmò una scena a coiti, no, a conti fatti, praticamente a luci rosse con un puttanone della madonna. Molto con lei gli crebbe ma dovette poi fare veramente il duro per dimostrare di essere più innocente di Santa Maria Goretti. Washington, specializzatosi da ani, no, come dettovi, già tanti anni fa, in fottuti ruoli da macho cazzuto che tutti prende a cazzotti. Spaccando tutt’ cos(ce). Un attore che si fa il culo… però, soltanto di sua moglie con cui felicemente sta e tromba da una vita. Fottendosene… delle altre. Ah, che cazzata micidiale ma al contempo esilarante! Washington che, dopo American Gangster, reciterà di nuovo per Ridley Scott ne Il gladiatore 2. Nella parte di Nerone? Ah ah. Chissà… rincontrando Pedro Pascal, forse scontrandosene. Pedro che qui è Dave York. Saltando a piè pari il capostipite di tale franchise, ovvero il seguente, The Equalizer, disamineremo il secondo capitolo, sottotitolato Senza perdono. Specifichiamo inoltre, utilizz(and)o or il plurale maiestatico, che prima della regia di Antoine Fuqua, si pensò a Russell Crowe, suo antagonista nel sopra menzionatovi film di Scott, per il ruolo assegnato a Washington, alias Robert McCall. Anche il regista, prima che subentrasse Fuqua, amico di Washington dai tempi di Training Day, fu il director di Blade Runner & Alien? Mah, informatevene e, semmai, recatevi su Wikipedia, anche per leggerne la trama, stavolta del 2, ih ih:  https://it.wikipedia.org/wiki/The_Equalizer_2_-_Senza_perdono

Per dovere di cronaca, non nera come la pelle di Denzel, bensì solamente giornalistica, la prossima settimana, precisamente l’imminente e vicinissimo 30 agosto, uscirà da noi The Equalizer 3 – Senza tregua, ma non perdiamoci in dettagli alla Fuqua, no, (f)utili. Secondo invece IMDb, ecco la trama di questa seconda adventure ripiena, al solito, di scazzottate potenti e infinite sparatorie interminabili con tanto di spappolate budella e dita mozzate: Robert McCall serve una giustizia risoluta per gli sfruttati e gli oppressi, ma quanto lontano andrà quando si tratta di qualcuno che ama?Washington Pascal Equalizer 2 Equalizer 2 Denzel Washington

Beh, una sinossi veramente stringata e più spicciola dei modi di McCall/Washington. Uno che, se lo fai incazzare, non va tanto per il sottile, come si suol dire… lui te le suona, infatti, ed è più vendicativo, sanamente e giustamente cattivo di Creasy in Man on Fire – Il fuoco della vendetta.  Quest’ultimo film fu diretto, come sappiamo, dal compianto Tony Scott, ex frequente regista “preferito” di Denzel, fu dalla Critica amato in maniera controversa, parimenti a questa sega, no, saga. Da molti, difatti, aspramente stroncata e accusata, senza mezzi termini, di essere troppo violenta in forma gratuita e sovente ingiustificata, da altri, per l’esattezza la restante metà, invece, di contraltare e in maniera diametralmente opposta, assai amata e di lodi incensata. Sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, riscontra attualmente un discreto, sebbene di certo non ottimo, tantomeno lusinghiero, 50% di opinioni favorevoli. A dimostrazione estremamente riassuntiva del nostro assunto poc’anzi esplicatovi. McCall, come nella serie televisiva originaria, è un Charles Bronson ante litteram, un redivivo Giustiziere della notte più scuro in viso di Denzel stesso? Ah ah, no, caratterialmente brusco e irascibile, indomito e guerrigliero, rabbioso a morte e punitore infallibile in un mondo ricolmo di stronzi e andato puttanescamente, no, parlandovi figurativamente, a mignotte. Denzel fotte… i figli di troia, non è un lucky bastard come un “rinomato” porn actor col muscolo perennemente (s)tirato, bensì è lui stesso un motherfucker della min… ia, c… zo! È elegante, comunque, quando lavora, veste in tiro. Ecco, adesso passiamo alla trama, sì, sono ripetitivo? No, falotico e quindi dico la mia: Robert McCall, naturalmente ex agente della DIA (da non confondere con la CIA e non fate gli “agenti segreti” dei poveri che cercano il pelo nell’uovo), reinventatosi come tassista notturno, financo diurno, a Roxbury, in quel di Boston, non hai mai dimenticato la morte della moglie e, per elaborare il lutto, stranamente fa il Batman di turno. Dopo una sua revenge di missione in Turchia, ove salvò la vita della figlia della sua libraia di fiducia, a fargli visita è la sua unica amica rimastagli, Susan Plummer (Melissa Leo). Che gli consiglia di darsi pace. Susan è sposata con lo scrittore Brian Plummer (Bill Pullman), da cui ha preso il cognome. Spoiler: Susan viene assassinata. Facile immaginare quel che succederà… la sua furia vendicatrice, senza requie e sosta vietata, no, alcuna, si scatenerà. Poiché McCall è memore di Travis Bickle/De Niro di Taxi Driver? O perché Fuqua & company saccheggiano e scopiazzano mezza storia del Cinema, mixando il tutto in un potpourri di riciclato, pasticciato, sanguinolento déjà vu? A sua volta da non scambiare col titolo di uno dei film dell’accoppiata Scott/Washington? Tony, non Ridley, eh eh. In Alien, il personaggio di Sigourney Weaver si chiama(va) Ripley. Fotografato benissimo da Oliver Wood (Face/Off), morto a febbraio di quest’anno, sceneggiato alla buona e in modo grossolano, datane la trama per l’appunto risibile, dal quasi “ignoto” Richard Wenk, recitato grandiosamente da Denzel, il film regge quasi esclusivamente su di lui e sul suo immarcescibile carisma indiscutibile da nero, no, da puro uomo vero e duro!  L’intreccio, banalissimo, è costituito da continui pretesti per giustificare il perpetuo reiterare di violenze senza fine (è vietato ai minori di 16 anni) intervallate a “sketch” buonisti ove l’accanito vendicatore solitario, altresì lettore sfegatato, nostro beniamino e antieroe McCall, tanto acculturato quanto “sofisticato” nelle compiaciute sue brutte maniere, manesche a dir poco, per pulirsi la coscienza, elargisce consigli paternalistici al prossimo suo, specialmente a Miles Whittaker (con due t) che non è interpretato da Forest Whitaker, bensì dal giovane Ashton Sanders. Il quale par ivi il ragazzo bisognoso di qualcuno che lo indirizzi sulla buona strada a mo’ del neretto di Smoke redentosi da un’esistenza da sbandato per merito del character di Whitaker stesso. Il quale, dopo avervi litigato e dopo averlo severamente sgridato, lo coccolò da pupillo, assegnandogli vari lavoretti da schiavetto. Il film, dunque, nel suo sviluppo narrativo inesistente è insulso come Pascal, attore che a me non dice francamente nulla. Ma Denzel spinge… sul pedale dell’acceleratore… delle macchine a tutto spiano, gigioneggiando da par suo senza freno a mano, no, inibitorio freno, sparando da ebefrenico, no, freneticamente, uccidendo senza sprezzo del pericolo, ed è sempre l’orgoglio nero fattosi persona perfino citato e glorificato da John Turturro di The Night Of. Turturro, amico di Denzel, che in He Got Game non fu Jesus ma, ne il Grande Lebowski, eccome, sì, un omonimo che però tradì il detto nomen omen. Infatti, nel film dei fratelli Coen fu un pervertito pedofilo poco cristologico. Dio santo!Melissa Leo Washington Equalizer 2

di Stefano Falotico

 

MILLENNIUM – Uomini che odiano le donne, recensione

DanielCraigRooneyMara

Ebbene, ivi sganciato da vincoli editoriali limitanti, cari fratelli della congrega appartenenti agli uomini disossati da tale vita spolpante le nostre pie anime prodigantesi per la beltà totale in un mondo sempre più carnale, sessualmente aberrante da catalogo Instagram di Postalmarket e annessa esposizione fiera, vanagloriosa di fiere da Manzotin, ovvero di uomini e donne prosciutti, no, prostituitisi al mercimonio globale, svilendosi alla strega, no, alla stregua di prodotti commerciali da mercerie, no, macellerie online, in attesa febbricitante di assistere al nuovo opus di David Fincher, cioè The Killer, recensirò il film del titolo di questa recensione, coming soon, ovverosia prossimamente, disaminato, forse vivisezionato in modo sia goliardico che poetico. Inoltre, cari smemorati e poco di dio timorati, sebbene io sia convinto ateo irredimibile oramai in modo irreversibile, posso però intellettualmente asserire, forse soltanto pontificare moralisticamente con tanto di sovrabbondante retorica a tamburo battente, che vidi lo svedese The Girl with the Dragon Tattoo nel 2009, sì, or mi riferisco all’adattamento del primo capitolo letterario ad opera del compianto (da chi?) Stieg Larsson per registica mano di Niels Arden Oplev con Noomi Rapace, scusate, dicevo, perdonate se sono massimalista come il parimenti deceduto, forse più geniale, David Foster Wallace, riprend(iam)o il discorso… quando la mia coetanea Noomi Rapace, invero leggerissimamente più giovane di me di qualche mese, non suscitava in me alcun turbamento poiché fui considerato asociale, sì, poco socievole, anzi, “socialmente pericoloso” come Lisbeth Salander, eh eh, in quanto poco consono a una società di “adulti” che canta Sara di Pino Daniele a tutto volume nella notte di San Silvestro ma è affetta da una malinconia, no, mascolinità più tossica di un liceale italiano che, ad Amsterdam, durante le vacanze, natalizie e/o estive, pratica turismo sessuale, tifando per la migliore Coca-Cola à la Vasco Rossi e per la più cazzuta “eroina”, e all’unisono “sniffa”, forse snobba, probabilmente, perfino ubriaco fradicio, intona barcollante La mia signorina di Neffa. Dicevo, (non) mi sono fatto… una alla Rapace… pur confessandovi che adoro le donne tatuate come Karma (Palmer) Rx & Katrina Jade, al contempo disdegnando i finti, non molto fini, machi che reputano Natalie Portman di Léon una bambina ma se la farebbero… nelle mutande dinanzi ad Anne Parillaud di Nikita, sparandosi poi il cosiddetto trip, sì, viaggio nella capitale suddetta dell’Olanda eppur non conoscendo Autopsia di un sogno. Ah ah. Ora, se andate da un uomo medio italiano e gli chiedete qual è invece la capitale della Svezia, vi risponderà Helsinki che è della Finlandia, quindi non giustamente Stoccolma. Comunque, esiste sempre l’eccezione che conferma la regola. Se agli uomini medi come me piacciono i tatuaggi sui corpi femminili, a Vittorio Sgarbi piace da morire la Venere di Botticelli ma, tanti anni fa, Elenoire Casalegno lo lasciò perché Vittorio la offese, dandole, come sua consuetissima abitudine, la patente di “troia” dopo che lei si tatuò una caviglia. Vittorio, veramente un esteta della venustà, anche del suo coglione sto(r)ico, forse solo quello di Destra? Vittorio, un uomo che celebra i grandi pittori dei santi e sa castrarsi al fine di non usare, per molto tempo, il suo “pennello”. Lo stesso Sgarbi che, a Porta a Porta, insultò Gabriel Garko, definendolo una bellezza per gay prim’ancora che Garko facesse coming out sebbene Eva Grimaldi e Manuela Arcuri non avessero mai sospettato sui gusti sessuali dell’interprete d’un celeberrimo film di Tinto Brass. Ma che c’entra?

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Dicevo… che mi crediate o meno, andai a vedere la pellicola eccitante (mica tanto) con Garko, no, quella dapprima succitata con la Rapace assieme a dei felsinei tizi eterosessuali che sognavano di girare un porno alla Marc Dorcel, malgrado, per dirla in bolognese, non funzionasse molto il lor ucc… ll’ perché assumevano droghe? No, drugs. È la stessa cosa? No, intendo gli psicofarmaci… In tal caso, gli psichiatri ebbero ragione a reputarli pazzi. Erano e sono dei casi umani senza speranza. Nel caso, invece, del sottoscritto, molte persone credettero che io fossi misogino, sì, che odiassi il gentil sesso, così che costoro, dei malfattori, vollero troppo ingentilirmi. Ah ah, avete capito la freddura? Sì, credo che questi qua, in vita loro, siano stati fortunati, a differenza dei poveri, appena dettivi, poveri cristi sfortunati… Se avessero incontrato uno psichiatra, anche della mutua, sarebbero stati ritenuti matti? No, solamente Bruno di Sacha Baron Cohen, eh eh.

Ora, facciamo i seri. Perché prima non lo fumo, no, fummo, se volessi usare il plurale maiestatico? Dunque, non fate i furbi, come si suol dire, della “min… hia”.

Ecco, il film svedese sopra citato non mi piacque molto e non vidi gli altri due. Fino a ieri, invece, non avevo visto per intero questo film di Fincher. Il quale, ai tempi della sua uscita, dichiarò che la sua trilogia sarebbe stata, non solo migliore di quella svedese, bensì fra le più belle della storia del Cinema. A tutt’oggi, non c’è nessuna trilogia, come ben sap(r)ete, neppure il sequel. Fincher fu tra gli inventori della serie tv Netflix, anch’essa interrottasi, Mindhunter, ça va sans dire. Che, se per esigenze logistiche e di sintesi dovessi(mo) riassumervela in pochissime righe, potrei e potremmo delinearla da profiler, no, entro questa seguente e assai concisa sinossi esigua: l’FBI, per catturare i maniaci a piede libero, studia le menti dei maniaci in carcere e/o ospedali psichiatrici.

Aggiungo io, spiritosamente, altresì comprendendo che Fincher stesso ha una mente più contorta di quella di Charles Manson.

A parte gli scherzi e le esagerazioni, in Italia tradussero il libro e i capostipiti di tale trilogia, però non fincheriana, eh eh, con tale (sotto)titolo… Uomini che odiano le donne. Ovviamente. In quanto, mi scoccia ripetermi, l’italiano medio, in effetti, odia le donne ma passa la maggior parte del tempo libero a desiderare perfino quelle degli altri. Se a uno di questi gli si dice la verità, vale a dire che è un puttaniere, no, soltanto un guardone, lui ti dà del maniaco, urlandoti “vi(ri)lmente” in faccia che lui è un credente della Sacra Bibbia. Anche del Nono Comandamento? Ah ah. È lo stesso che asserisce, orgogliosamente, di adorare i film sui maniaci perché lo eccitano a dismisura e stimolano mentalmente ma, forse, pensa che Zodiac sia un film di merda perché alla fine il cattivo non viene inculato e fottuto.

Morale della fav(ol)a: in effetti, c’è molta coerenza negli italiani, non c’è che dire. Se, nel Belpaese, per modo di dire, ti piace qualche canzone di Elton John, se va fatta bene, non ti prendi del “frocio” ma sicuramente la patente di femminuccia. Se invece sei disposto a pagare 500 Euro per andare a vedere, insieme alla tua compagna molto fedele, Chris Martin dei Coldplay perché la tua ragazza si bagna mentre lui, cioè Cristo, no, Chris, canta, sei un uomo vero e che della vita hai capito tutto. Potresti anche aver capito molto, suvvia, soprattutto che sputtanasti 1000 Euro, essendo andato, per l’appunto, al concerto con la tua topa, no, tipa. In particolar modo, dopo il concerto, lei, ancora sovreccitata, financo impasticcata, ti sbranò a letto e tu ne venisti piacevolmente divorato. Il mattino seguente, però, capisti che lei scopò, col pensiero, Chris Martin.

Ma ora devi portare i figli a scuola e non hai tempo per entrare in paranoia a mo’ di Tom Cruise di Eyes Wide Shut. Anche perché, dopo averli accompagnati, al lavoro, fra una pausa e l’altra, guardi su Instagram le ex di Chris Martin. Sei “in vena”, cosicché compri i “prodotti” di Gwyneth Paltrow da regalare a tua moglie per alimentare la serata hot. Infatti, i figli sono, questa sera, dalla nonna. La quale, stanchissima, si addormenta e non li porta a letto. Alla tv, ripassa Halloween di Carpenter. I figli crescono troppo in fretta come la Salander. A una certa età, i genitori li porteranno dal dr. Loomis, no, da qualche psicologo perché non credono ai “valori”, sono stati scoperti a fumare erba e, anziché ascoltare Elton John, no, solo canzoni d’amore buoniste delle più dolciastre, mettono su la musica dei Nine Inch Nails. Adesso, Trent Reznor, però, non è figo ma è “sol” il compositore preferito di Fincher, e la vostra la figlia femmina gli preferisce il contemporaneo Damiano David, mentre quello vostro maschio va matto per Victoria De Angelis. Tutto ok, fin qui. Il problema è che, il frontman e la chitarrista dei Måneskin piacciono rispettivamente pur a questi genitori, sì, alla madre e al padre di tali figli che non amano più la buona musica di una volta, il vero rock alla Led Zeppelin e il metal tosto alla Bauhaus e Joy Division, c… o! Allora, tutti insieme appassionatamente, si sparano… un altro concerto dei Coldplay. Semmai, al padre piacciono, adesso, Whitney Houston e Aretha Franklin. All’epoca, per non sfigurare coi suoi amichetti razzisti, sosteneva che gli facevano schifo. Ma sia lui che i suoi amici sbrodolavano per Alicia Keys.

Secondo la telegrafica trama riportataci da IMDb: Il giornalista Mikael Blomkvist è assistito dalla giovane hacker Lisbeth Salander nella sua ricerca di una donna che è scomparsa da quarant’anni.

Vietato ai minori di quattordici anni per via di alcune scene violente e scabrose, adattato ed è un televisivo sceneggiato, no, sceneggiato per la trasposizione cinematografica dal grande Steven Zaillian (The Irishman, regista di The Night Of, etc. etc.), assai stereotipato però in molti punti nella caratterizzazione dei personaggi, specialmente secondari (vedasi, per esempio, Nils Bjurman, alias il tutor(e) assistente sociale marpione e porcone incarnato dall’attore Yorick van Wageningen, peraltro molto in carne), nella prima mezz’ora assomiglia a Cena con delitto – Knives Out, ah ah. Pardon, naturalmente il film appena menzionatovi di Rian Johnson è venuto dopo. Johnson, autore anche dello script, fu candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Originale? Praticamente copiata e mutuata da Fincher/Zaillian. Poiché Benoit Blanc/Daniel Craig e Harlan Trombley/Christopher Plummer sono ricalcati sulla falsa riga di Mikael Blomkvist ed Henrik Vanger. Inoltre, ad essere sinceri di mente investigativa e meta-cinematografica, dopo lo “scandalo” Kevin Spacey, Ridley Scott, per Tutti i soldi del mondo, chiamò Plummer forse dopo aver visto Millennium. Con le importanti e dovute differenze, infatti, Vanger e J. Paul Getty sono molto simili…

Rooney Mara/Salander scopre che Blomkvist pratica il cunnilinguo ad Erika Berger/Robin Wright e poi viene costretta dall’eccitato, no, succitato Bjurman ad effettuargli una fellatio.

La fotografia di Jeff Cronenweth è magnifica e impeccabile, il film, onestamente, meno. È un buon film ma non eccezionale, forse troppo lungo. Infatti, a mio avviso, due ore e trentotto minuti è un minutaggio eccessivo per un thriller così costruito, sebbene quello svedese durasse pressappoco uguale.

Lo svedese ha inoltre una media recensoria, su metacritic.com, un pelino, come si suol dire, superiore ma non troppo. E, nel suo essere più autentico, meno artefatto ed elegante, è forse addirittura migliore di questo di Fincher. Tale film di Fincher ottenne, va però sinceramente ammesso, ottime critiche ma inferiori, per l’appunto, al film con la Rapace. E, sebbene la Mara sia brava, la Rapace funzionava di più.

È per questo che Fincher decise di lasciar perdere con gli altri due, originariamente concepiti, seguiti? Mi seguite?

Nel cast, Julian Sands. Come sappiamo, trovato morto recentissimamente dopo essere scomparso a lungo. Qui è sconvolto per colpa della tragedia avvenuta.

Invece, nella parte di Martin Vanger, Stellan Skarsgård. Per finire, Joely Richardson è Harriet o Anita Vanger? Eh eh. Secondo me è bona.

In conclusione: moralistico e terribile nella scena del tatuaggio I am a rapist pig.Craig Millennium uomini donne CraigMillennium Daniel Craig Millennium DanielCraig uomini che odiano le donne

di Stefano Falotico

 

ZODIAC, recensione

Ebbene, ancora libero ivi da costrittivi vincoli editoriali, in attesa di assistere al nuovo opus di David Fincher, ovverosia The Killer, che debutterà in laguna, al Festival di Venezia a venire, compiendo veloce promemoria, conti celeri alla mano, credo di aver visto tutte le opere di Fincher. Compresa la sua creazione Mindhunter, serie tv di sopraffino stile, ahinoi, interrottasi, pare in forma definitiva alla seconda stagione, in cui rifulse la beltà magnetica della stupenda Anna Torv. Serie ideata dal regista di Fight Club, quest’ultimo, probabilmente, il suo film più controverso e probabilmente il “peggiore” assieme a Panic Room, diretta da lui stesso in alcuni episodi chiave. Fincher, il quale ancora spacca la Critica per The Game, un regista ostracizzato, no, molto amato, oscarizzato per il suo film all’apparenza meno fincheriano, vale a dire The Social Network, uno con la testa “matta” che adora le storie pazzesche soventemente, per l’appunto, incentrate su torbide e contorte, dedaliche indagini in forma di detection nerissima e spettrale, inerenti la ricerca e relativa scoperta di uomini lombrosiani o soltanto ombrosi, acquattati al buio, lupi solitari che par languiscano nel silenzio mortifero e, all’improvviso, estraggono dal cilindro, semmai, un romanzo pindarico, financo esoterico, bislacco, sia ironico e goliardico che citazionistico, autistico, no, artistico e figlio d’un uomo lucido, altresì allucinato, forse solamente à la Falotico più pregiato, eh eh: https://www.ibs.it/commissario-falo-vol-2-libro-stefano-falotico/e/9791221487848

robertdowneyjrzodiac gyllenhaal zodiacIo son uno che non effettua promozione occulta? Può darsi oppure evidentemente, stando ai fatti probatori, in senso metaforico, del link sopra immessovi, nulla occulta pur dandosi, talvolta, al nullismo e al feroce, cinico, probabilmente sol romantico nichilismo più sanamente cristallino. Ecco, a vedervi chiaro, non terminai mai la visione di Millennium – Uomini che odiano le donne. Ma provvederò quanto prima. Chissà mai, inoltre, se Fincher completerà tal trilogia finita appena iniziata, giammai finita, e dunque non tale. Ma torniamo a noi, ritorniamo in noi, non smarriamoci nella fosca notte dei miei deliri recensori e pubblicitari, eh eh. Potrei essere, in fondo, lo Stieg Larsson italiano e, un domani, qualche regista, forse me stesso, trasporrà in saga per il grande schermo il “franchise” letterario del commissario Falò. Infatti, dopo i primi due capitoli, attualmente per l’appunto disponibili alla vendita sulle maggiori catene librarie online, prossimamente, non tradendo il detto non c’è due senza tre, vi sarà un’altra avventura imperdibile di proporzioni titaniche, ciclopiche o tragicomiche. Se la trasposizione dovesse accadere, la protagonista non sarà Noomi Rapace, neppure Rooney Mara. Al massimo, le due appena menzionate ex signorinelle adesso signore a tutti gli effetti e inevitabile, reciproco invecchiamento, potranno apparire in ruoli secondari se accetteranno di prenderne parte, eh eh. In quanto, il commissario verte su qualcosa di molto autoreferenziale, probabilmente neanche troppo. Michael Fassbender, dopo il flop immenso ma immeritato di Snowman, tratto dall’omonima novella di Jo Nesbø, oltre a essere in The Killer, se il sottoscritto non se la sentisse d’incarnare sé stesso, potrebbe rimpiazzarmi. Se trovassi i soldi, lo pagherei a peso d’oro e, nella clausola contrattuale concernente il suo accordo, con tanto di firma in calce, apporrò un “bonus” riguardante me, ovvero il seguente:

«Lì (data ovviamente da stabilire), il sig. Fassbender s’impegna con tale atto firmato a interpretare il film Il commissario Falò per la cifra milionaria pattuita. Se il film dovesse superare i 100 milioni di dollari d’incasso a livello globale, Fassbender promette di consegnare sua moglie, alias Alicia Vikander, al signor Falotico per una notte di sesso selvaggio. Di contraltare, il Falotico, non essendo un maniaco come Zodiac, qui dichiara fedelmente a Fassbender che tratterà benissimo la sua compagna anche se non può giurargli che, dopo la notte avuta con lui, Alicia non voglia chiedere a Fassbender il divorzio. Il sig. Fassbender, dunque, spera naturalmente che il film vada bene ma non troppo, altrimenti, se non volesse divorziare, Alicia potrebbe “confiscargli” la casa a Beverly Hills, intestata peraltro a lei, quindi sostanzialmente sol prenderlo a pedate affinché lui ne smammi, casa per di più in cui Michael e lei convivono or felicemente, e intestarla al suo nuovo compagno.

Se il sig. Fassbender dovesse tradire gli accordi ivi presi e tale serio impegno, pagherà la penale e non vi sarà motivo oltremodo d’indagare a mo’ dei “commissari” giornalistici di Zodiac. Infatti, in caso di defecazione, no, defezione, al sig. Fassbender penderà il potente gravame d’un durissimo capo d’imputazione».sevigny zodiac Brian Cox Zodiac

A parte gli scherzi, credo che Fassbender e la Vikander (non) stiano assieme, no, non so se hanno una casa in quel di Los Angeles ma, a distanza di molti anni da quando lo vidi per la prima volta in dvd su una specie di tablet, cioè quando fui “internato” in “manicomio”, poche ore fa, ora ho sonno, no, poche or or sono (piaciuto il gioco di parole?) rividi la pellicola in questione e presa in esame.

Zodiac è del 2007, io del ‘79 e tale omicida seriale dello Zodiaco non si sa bene, a tutt’oggi, quando nacque. Se fosse, così come quasi certamente fu, Arthur Leigh Allen (incarnato da John Carroll Lynch), l’anno di nascita lo sapremmo? Controllate su Wikipedia, anche in merito alla fin troppo particolareggiata però, tutto sommato, “indiziaria” trama inseritavi. Poiché, per chi non lo sapesse, con l’immediato mio spoiler, immantinente saprete che lo Zodiac(o) non fu mai catturato. Sebbene forse fu individuato e perfettamente identificato, atrocemente sospettato, giammai incriminato, processato, arrestato e alla pena capitale condannato. In California, informatevene, c’è la pena di morte? Tutto inizia infatti, macabramente, a Vallejo, durante la triste serata agghiacciante del 4 luglio del 1969, nel dì notturno della festa del giorno dell’Indipendenza quando una giovanissima coppietta (lei è spostata, no, sposata, ma tradisce il marito con un “bimbo”, è pedofila?) decide di non sostare a un drivein ma, per sbaciucchiarsi, limonare, eroicamente ed eroticamente, sinceramente trombare fottutamente, si apparta in una zona lontana, per modo di dire, da sguardi indiscreti di possibili guardoni frustrati. Viene vilmente e tragicamente aggredita da un uomo che noi spettatori non vediamo in viso. Lo stesso uomo che, sempre in California, nell’apparentemente tranquillo pomeriggio del 27 settembre dello stesso anno suddetto, in quel del placido lago Berryessa, nella contea di Napa, assalta mostruosamente altri due ragazzi isolatisi per amoreggiare in santa pace e per viversi serenamente una giornata di baci e coccole spensierati. Lo stesso uomo, per di più, che comincia a recapitare al San Francisco Chronicle delle missive preoccupanti, allarmando il giornale, chiunque e scotendo l’opinione pubblica. Ad occuparsi di lui, nel tentativo di stanarlo pian piano, l’eccellente e scafato, sebbene ubriaco debosciato, Paul Avery (Robert Downey Jr.) che, nel frattempo, stringe amicizia col “ritardato” (così viene testualmente, poco simpaticamente appellato) vignettista e puro Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal). Presto, interverrà, in merito alle indagini sullo Zodiaco, anche il risoluto, chissà se poi arrendevole, investigatore della Squadra Omicidi di nome Dave Toschi (Mark Ruffalo). In un intrecciarsi spasmodico e inquietante di colpi di scena a raffica, di battute taglienti e investigazioni al cardiopalma, in un crescendo rossiniano e palpitante d’emozioni instillateci e distillate da un Fincher assai ispirato, elegantissimo e capace di forgiare un impressionante ritmo mozzafiato a un film di due ore e mezza nel quale, dopo la prima mezz’ora, non assistiamo paradossalmente a nessun altro spargimento di sangue (fra l’altro, le scene di violenza iniziali son già sparute, volutamente edulcorate e trattenute, quasi stilizzate e ben asciugate), Zodiac arriva alla fine e avvince grandiosamente. Zodiac è un capolavoro e non si discute. Rimane dentro a distanza di parecchio tempo dalla sua visione ultimata, strazia le viscere e colpisce duro. Eccezionale fotografia di Harris Savides che, dopo The Game, rincontra qui Fincher per poi non incontrarlo più, chissà perché.

Il cast fa più paura dello Zodiaco. In quanto, oltre ai tre pezzi da novanta succitati e a un Brian Cox mellifluo e incisivo malgrado i pochi minuti in scena, sfilano Elias Koteas, Philip Baker Hall, Anthony Edwards, Dermot Mulroney, Jimmi Simpson alla fine prima che diventasse famoso, Charles Fleischer e una magnifica, dolcissima Chloë Sevigny.

downey jr jake gyllenhaal zodiac

Fincher va a nozze coi profiler che sempre vi prendono ma non sempre lo stronzo acciuffano. Vedasi, il succitato Mindhunter. In Zodiac, nei panni del realmente esistito Melvin Belli, v’è il sopra dettovi Brian Cox, alias Hannibal Lecter di Manhunter. Il ruolo, inizialmente, fu però proposto a Gary Oldman. Che prima firmò e poi lasciò. Chissà, forse intimorito da qualche clausola pericolosa a mo’ di quella sopra da me scrittavi. Ah ah.

Se The Killer sarà presentato, in Concorso ufficiale, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Zodiac concorse per la Palma d’oro al 60º Festival di Cannes.

Specificato ciò, fu accolto molto favorevolmente dall’intellighenzia critica planetaria e ne concordo appieno, così come già suggeritovi. In quanto, ribadisco, è il miglior film di Fincher in assoluto, parimenti il più ostico e meno spettacolare. Ed è basato su un soggetto di Robert Graysmith (il personaggio di Gyllenhaal), autore di molti libri sullo Zodiaco, sceneggiato da James Vanderbilt e, mi par ovvio, filmato e adattato dal regista de L’amore bugiardo – Gone Girl.

Nota di merito, per concludere, da dedicare proprio a Gyllenhaal. Che, nel 2007, sembrava ancora un po’ “stordito” come in Donnie Darko per cui nessuno avrebbe onestamente immaginato che, a prescindere da Jarhead, venuto prima di Zodiac, sarebbe diventato un palestrato sempre più bravo, peraltro, a livello prettamente attoriale.

All’epoca, infatti, assomigliava addirittura a Tobey Maguire di Wonder Boys, a proposito di Robert Downey Jr…

Tobey Maguire di Wonder Boys era quasi uguale a me. Che, nel 2017, invece assomigliò al Gyllenhall di Stronger. Poiché, dopo essere stato denunciato, anni prima, da imbecilli che non volevano uno scrittore, bensì un maschione da caserma militare alla The Covenant, finii quasi disabile e in terapia riabilitativa per essere omologato alla comune massa di tonti. Oggi come oggi, rimango buono di cuore come Gyllenhaal di The Covenant e fedelissimo al modus operandi dello Zodiaco, no, della scrittura creativa del Michael Douglas di Wonder Boys. Michael Douglas è stato strepitoso ne Il metodo Kominsky e, detta fra noi, a Charles Bukowski e al suo alter ego Henry Chinaski, preferisco (il) Basic Instinct. Se apro le gambe come Sharon Stone, la gente capisce che non sono una donna, neppure un trans e, verso i coglioni che mi bramano eppur contro di me tramano, adotto lo stesso stile dello Zodiaco, no, di Catherine Tramell. Cioè, lascio che vogliano fottermi come il detective Nick Curran/Douglas per poi ribaltare la posizione e metterli sotto.

Buonanotte.Sharon Stone Basic Instinct mark ruffalo zodiacSharonStone

di Stefano Falotico

 

AMERICAN GANGSTER, recensione

brolin washington american gangster Armand Assante American Gangster

Ebbene, nuovamente ivi dissociato da vincoli editoriali, libero, creativamente, di scrivere remoto da ammorbanti regole SEO, libero di redigere il tutto, diciamo, in modo non canonico, scriverò una recensione alla Falotico (invero, già scritta, sotto immessa, eh eh), riguardante questo bel film, però non eccezionale, firmato da Ridley Scott nel 2007. Da me già visto, credo, se non ricordo male, l’anno dopo. Oppure nel 2009? A voi certamente non importa questo trascurabilissimo dettaglio mio temporale-mnemonico, quasi da smemorato o (im)perfettamente memore dei miei trascorsi cinefili. Questi, sì, non affatto dimenticati. Spero invece che possa interessarvi la mia disamina peculiare e, ribadisco, fermamente sottolineo immantinente, tal review finalmente non propriamente classica, pedante e noiosa. Con qualche inevitabile svolazzo pindarico.

Orsù, American Gangster, film della durata interminabile di 170 minuti abbondanti, nella sua versione rimontata ed estesa, forse solo netti, miei inetti, film sopravvalutato, soprattutto da Paolo Mereghetti che, all’epoca, gli assegnò 3 stellette e mezza sicuramente esagerate e figlie d’un entusiasmo non ponderato ma circostanziato alla sua visione affrettata e troppo magnificante l’opus di Scott? Il film presenta nel cast, oltre ai due attori protagonisti, tre ottime figliuole che poi enunceremo singolarmente, lodandone le beltà sensuali. Donne peccaminose? No, scatenanti voglie libidinose. I due interpreti principali sono Denzel Washington & Russell Crowe, che marcantoni, entrambi premi Oscar e due maschi alfa, tutti e due or ovviamente invecchiati e perfino ingrassati, irrecuperabilmente il secondo, aggiungo e preciso, io. I quali, anni or sono, furono rispettivamente rappresentanti della virilità fatta persona e sex symbol(s) in carne e ossa, no, incarnanti la mascolinità razzisticamente agli antipodi. No, non ho scritto una cosa razzista. Appartengono infatti e oggettivamente a due palle, no, allo stesso sesso ma hanno pelli diverse, cromaticamente parlando a riguardo del loro colore epidermico. Washington, attualmente, sta girando Il gladiatore 2 (nella parte di Nerone?, ah ah) mentre, che ve lo specifico a fare, Russell ottenne l’Academy Award come Best Actor per Gladiator, prima sua collaborazione con Scott. Per Washington, American Gangster, dopo tanti film girati col fratello compianto di Ridley, ovverosia Tony Scott, fu la prima sua esperienza col regista di Alien. Mentre per Crowe fu la terzultima sua collaborazione col director’s cut, no, director e basta, di Blade Runner che, come sapete, presenta varie versioni. Quasi tutte approntate da Scott stesso? No, solo una è stata approvata dal regista di molti film che doveva invece cancellare dal primo all’ultimo minuto, in quanto inutili e filmati, come si suol dire, con la mano sinistra. A cui andrebbero inclusi Nessuna verità e Robin Hood, le ultime due pellicole, per l’appunto, della coppia Scott-Crowe? Sceneggiato egregiamente da Steven Zaillian (regista di The Night Of, writer di The Irishman e Schindler’s List), malgrado qualche dialogo didascalico e scontato, diretto con buon piglio da uno Scott inedito (poche volte, infatti, si cimentò con un gangster movie vero e proprio, tralasciando le incursioni in ambienti malfamati, vedasi, per esempio, Black Rain), American Gangster è prolisso, spesso troppo manicheo, ripieno di superflue digressioni messe un po’ a casaccio per allungare il brodo, con un impresentabile Cuba Gooding Jr. nei panni del realmente esistito Leroy Barnes e un assurdo cammeo inspiegabile assolutamente da parte di Norman Reedus in quelli del detective di nome (ma guarda un po’ che fantasia ad assoldare lui) Norman, e un Washington che cita e mostra una foto di Martin Luther King per ricordarci Malcolm X, gigioneggia a tutto spiano oltre il legalmente cinematografico accettabile, rendendosi sovente insopportabile e antipatico alla pari del character da lui interpretato, alias Frank Lucas. Inizialmente, all’apparenza, un normale “manovale” della criminalità più bieca del New Jersey. Autista inseparabile del suo boss Bumpy Johnson che gli muore, nell’incipit, tetro e suggestivo, quasi fra le braccia, malgrado la chiamata tardiva dell’ambulanza. Paragonabile a Scarface di De Palma, probabilmente ricalcatone nel canovaccio, il film segue l’ascesa al potere da narcotrafficante del Lucas/Washington suddetto. Contrastato dal coriaceo poliziotto Richie Roberts (un Russell Crowe sorprendentemente con la sordina ma, con una pettinatura perfettina che poco si confà al suo fisico taurino da picchiatore indomabile e già, d’innata costituzione fisica, poco tendente al magrino).

Lucas, in men che non si dica, in virtù d’un coraggioso intrallazzo con un mammasantissima del Triangolo d’oro thailandese, importando da quest’ultimo eroina purissima, diviene un temuto uomo di potere glaciale.

Un iceman che si vendicherà brutalmente anche dello stronzo mr. Tango (Idris Elba) e sposerà una giovane fanciulla prelibata, bella ma forse illibata e molto ambita, Eva (Lymari Nadal).

Di mezzo c’è financo l’ambiguo ma fascinoso, forse facilmente corruttibile, investigatore Trupo (Josh Brolin). Richie, intanto, durante le sue indagini, oltre a lottare contro Lucas, tentando di acciuffarlo, più che altro inchiodarlo, deve combattere in tribunale con l’ex moglie Laurie (Carla Gugino) perché lei vuole proibirgli di vedere suo figlio. Nel frattempo, Richie, in apprensione eppur al contempo sbattendosene legalmente, no, leggermente, si sbatte tranquillamente la sua fottuta avvocatessa del c… zo (KaDee Strickland, la quale assomiglia alla pornostar Pristine Edge).

Ecco, ho appena eccitato, no, succitato le tre sexy women che dapprima citai. Nessuna di esse però mostra nudamente le sue grazie. Solamente l’ultima eccitata, no, da me poc’anzi citata, cioè la Strickland, esibisce a malapena le sue gambe mentre Richie/Crowe “le dà dentro” e se l’ingroppa bellamente. Che ottima monta(ta), no, che supremo e sincronizzato montaggio di Pietro Scalia.

La fotografia, eccellente e chiaroscurale, atmosfericamente plumbea e demodé, di Harris Savides, è di certo la cosa migliore d’un film piacevole, sebbene dispersivo e affetto da una tediosa lungaggine non necessaria. Sì, American Gangster è, evidenzio ancora, un buon film, altresì nulla di che. Allineato, abbastanza banalmente, ai triti e ritriti stilemi consunti della classicità hollywoodiana più prevedibile e frequentemente monocorde. Con molte scene telefonate, stupidamente violente in forma gratuita e ingiustificata. Con un Washington, come di consueto, sì, bravo eppur spesso e volentieri sopra le righe fastidiosamente, rimarco. Che forse faceva le prove generali per Equalizer. E che, da Man on Fire in poi, specialmente, pare divertirsi un mondo (noi, onestamente meno, lo preferiamo nel suo Barriere) a indossare il ruolo del duro e del figo cazzuto figlio o di troia o machiavellico contro i figli di puttana più bastardi e irredenti.

L’ex di Mara Venier, il villain di Sylvester Stallone in Dredd – La legge sono io, sua brutta copia senza muscoli, (in)dimenticabile in Gotti, incarna un personaggio à la Lorenzo il Magnifico dei poveri e dei narcos. Brolin, inoltre, prima di Sicario di Denis Villeneuve e del sequel del nostro Stefano Sollima, Soldado, imita il Benicio Del Toro di quasi tutta la filmografia di quest’ultimo. In quanto, il grande Benicio è oramai tristemente chiamato quasi esclusivamente, da Traffic in poi, a essere o uno che combatte i cartelli di droga, messicani e non, oppure il dottor Gonzo drogato di Paura e delirio a Las Vegas, arrivando quindi a essere il re degli spacciatori come in Escobar di Andrea Di Stefano. Ridley Scott, a ottanta primavere, ancora ce la fa a scopar’ Gian(n)ina Facio? A volte, forse pensa, fra sé e sé… non più gliela faccio. Allora mi faccio, no, giro un altro film e bevo una cioccolata calda della Ciobar. Il suo Napoleon sarà forse più brutto del lifting della Facio? Impossibile. E Il gladiatore 2? Francamente, con tutta la stima possibile per Paul Mescal e Washington, un gladiatore senza Russell Crowe e Joaquin Phoenix, sarà come Harrison Ford in Blade Runner 2049. Guardabile ma anche no. Ora, scusatemi, non amo la mescalina e non conosco benissimo tale Mescal. Vado a fumare una sigaretta Philip Morris Blu e lascio stare la droga di Lucas/Washington, qui denominata Magic Blue. Amai di più il fu Magic Johnson e, detta fra noi, a Denzel Washington, preferisco il Tartufone Motta. Alle donne, Denzel, invece, piace molto. Avrà un ucc… ne? Non è dato saperlo. Nel film, Ricochet, non glielo vediamo fra le cosc’ ma ha una scena di sesso interrazziale, dopo essere stato narcotizzato, con una bionda whore a mo’ di Isiah Maxwell. Quest’ultimo ce l’avrà anche lungo ma, quando scopa, pare che non goda molto, sarà per colpa del fallo, no, fatto che, per girare “tremila” (iperbolizzo) film per adulti al mese, con ogni probabilità, assume(rà) sostanze stupefacenti che lo fanno venire, inoltre, poco. Ma che c’entra ciò con il resto?

Alle “donne” di Maxwell, soventemente, non c’entra…

Ah, dimenticavo, perdonate per lo “spogliarello”, no, lo spoiler seguentemente dettovi: Richie/Crowe, alla fine, incula Lucas/Washington. Sì, Russell lo fotte. Allo stesso modo, parzialmente lo salva e il culo gli para. Quindi, non è razzismo, le cos(c)e andarono così.

Per finire, He Got Game di Spike Lee fa alquanto schifo. Malgrado Jill Kelly & Chasey Lain si esibirono in una quasi R Rated scene… con un neretto, vezzeggiativo di Nerone. Ah ah. Infatti, costui interpretò il pargoletto di Denzel.

E ho detto tutto…

Russell Crowe American Gangster

carla gugino american gangsterLymari Nadal American Gangster KaDee Strickland American Gangster

di Stefano Falotico

 

 

HAMMAMET, recensione

Ebbene, ivi nuovamente sganciato da pedanti, costrittivi, spesso limitanti vincoli editoriali, mi cimenterò ancora una volta in una recensione flamboyant riguardante il film presto, ovvero nelle righe a venire, personalmente disaminato, spero in forma originale, “istruttiva” e al contempo tra il serio e il faceto. Ma la parola falotico, in italiano, esiste? Sì, è il mio cognome e, se consulterete un buon vocabolario, comprenderete che è sinonimo di stravagante, bizzarro e fantastico. Da cui, (cog)nomen omen. Eh eh.

Coniugando, come si suol dire, l’utile al dilettevole, mescendo la serietà a qualche tocco immancabile d’ilare “follia” recensoria non demenziale, bensì esilarante, ecco a voi una review giocosa.hammamet locandina

Sto iniziando un percorso “faviniano”, cioè pian piano sto recuperando i film con Pierfrancesco Favino che, per un motivo o per l’altro, sfuggirono alla mia visione ai tempi della loro uscita nelle sale. In attesa di assistere, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, all’ultimo opus con Favino, giustappunto, assoluto protagonista, vale a dire Comandante di Edoardo De Angelis, dopo aver visto, nelle scorse ore, Hammamet di Gianni Amelio (Così ridevano), voglio parlarvene… in maniera politicamente scorretta in senso lato. Forse b? Con qualche puntata televisiva? No, nel trasgressivo più innocuamente goliardico.

Dopo Il traditore di Marco Bellocchio, da me recentissimamente analizzato, ripeto, in forma sempre molto personale, film quest’ultimo dell’anno precedente, ecco che Favino collaborò con un altro cineasta della “vecchia guardia”, il succitato Amelio, il quale, parimenti a Bellocchio, è da sempre affascinato da tematiche socialiste, eh eh, no, socio-politicamente spinose e rilevanti. Così che, se Bellocchio ritrasse Tommaso Buscetta secondo la sua ottica, addentrandosi in una scabrosa narrazione peculiare, perfino opinabile ma del tutto coraggiosa, di Cosa Nostra, il director de Il ladro di bambini si diede a nientepopodimeno che al “criminale” Bettino Craxi. Sebbene, così come opportunamente osservato su Wikipedia…

La pellicola racconta gli ultimi sei mesi di vita del politico italiano Bettino Craxi, interpretato da Pierfrancesco Favino.[1] Nel film nessuno dei personaggi direttamente ispirati alla realtà è chiamato con il proprio vero nome; la figura di Fausto Sartori non fa riferimento a nessun personaggio reale ed è un espediente narrativo voluto dal regista in funzione di “antagonista”.[2]Hammemt Favino Gerini Livia Rossi Favino Hammamet

Allo stesso modo de Il traditore, basato su un soggetto e una sceneggiatura originali ad opera dello stesso suo registico autore, Amelio, per questo Hammamet, ne scrisse di suo pugno lo script, avvalendosi però, a differenza di Bellocchio (totale factotum), della collaborazione di Alberto Taraglio. Da non confondere con Marco Travaglio…

A proposito, invece, della sopra menzionatavi Wikipedia, se voleste affidarvene per leggerne “dettagliatamente” la trama, recatevene e forse, malgrado la celeberrima sommarietà della famosa enciclopedia generalista appena suddetta, se non avete mai visto il film, per colpa degli spoiler in essa inseriti, specialmente nel finale della stessa, vi sciupereste tutto in men che non si dica… Ecco che, come ne Il traditore, le musiche sono firmate da Nicola Piovani in un intersecarsi di amicizie, non mafiose ma, giocoforza, scaturitesi per lavorative conoscenze e legami comuni a loro volta ingenerati dall’inevitabile bazzicare, professionalmente e poi consequenzialmente in termini, giustappunto, amicali nativi, la solita cricca di onesti ruffiani…

Ecco perché Luigi Lo Cascio, qui però assente, fu per esempio presente ne Il traditore e ne Il signore delle mosche, no, formiche… Hammamet è in Tunisia, è ovvio, e in questo Stato la gente prega nelle moschee. Anche a Bologna se è musulmana. Infatti, da molti anni oramai a questa parte, hanno elevato una sinagoga nel quartiere Lame-Navile a poche centinaia di metri da casa mia.

Ogni venerdì santo prima di Pasqua, nel periodo quaresimale, no, nel giorno di preghiera per i credenti in Allah che mi salutassero Hammamet, no, a mammata, per dirla in meridionale un po’ triviale, le vie della mia zona s’intasano a dismisura, creando una congestione stradale e varie spaccature nel mio fegato, già da tempo immemorabile, eh eh, amaro, soprattutto sollecitando enormemente la “fermentazione” di questi coglioni islamici, no, dei miei testicoli spappolati in rotta d’esplosione.

E il sottoscritto, pur essendo ateo, bestemmia e urla p… co Dio!

All’unisono, gridando:

– Toglietevi dalle palle e togliete, maiali, il burka alle vostre donne. Non mangiate carne di maiale, non solo durante il Ramadan ma in tutto l’ann’, e le vostre donne forse non sono delle porcelline ma meritano di farsi vedere in viso, alcune sono delle fighe della madonna, maledetto Giuda ladro! Almeno, se dobbiamo sostare mezz’ora perché attraversate, a passo di lumaca, le strisce pedonali, desideriamo che non escludiate dalla circonvallazione, no, dai vostri riti tribali, le vostre compagne “castrate”. Sì, esse non sono ammesse al culto dei maschi che pregano… affinché una loro “moglie” non sia bella come Halima Aden. Mădălina Diana Ghenea, invece, è rumena e i rumeni non piacciono a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini. Ma l’ex donna di Salvini fu Elisa Isoardi e, sebbene sia antipatica, va ammesso che non ci sono santi che tengano, è bella in modo paradisiaco e sprona indubbiamente a qualcosa di “caldo” come l’inferno e la lava (ri)bollente d’un eruttivo vulcano deflagrante. È difficile essere Buddha e raggiungere la pace dei sensi spirituale, il cosiddetto Nirvana della min… hia, dirimpetto all’Isoardi che, semmai su un’Elisa, no, isola tropicale, mostra il suo bikini da sexy bomba atomica e fa l’occhiolino da birichina monella assai volpina… Comunque, non è una sgualdrina. Sì, Salvini fu razzista perché l’Isoardi è una bellezza al bagno, no, come direbbero i porcelloni di Bologna, italiani di origine controllata, “da stupro” e da espressioni come Dio porz e maial’. Matteo, da maschilista irredento, all’epoca del fidanzamento con Elisa, eh già, molto ridente, voleva cacciare via dall’Italia tutti gli extracomunitari per cancellare almeno una buona fetta degli ammiratori della sua bella fig… tta. Ciò fu evidente. Tutt’ora, Matteo fa la prima donna e predica, (d)a San Pietro, no, da finto Dalai Lama per il “bene” della nazion(al)e. Criticando lo Stivale, no, gli stivaloni delle donne più rifatte d’un trucco alla Sergio Leone, no, Stivaletti. Come dico io, se vota(s)te certa gente ipocrita, avrete pene e poco pane, per consolarvi, leggerete i saggi orientali come Osho e non quelli monografici su Bellocchio & Amelio, mentre la Meloni vi tratterà da bambagioni, non avrete neanche i soldoni per mangiare prosciutto e melone. Giorgi(n)a dichiarò che, dopo l’alluvione in Emilia-Romagna, avrebbe sanato la situazione, elargendo molti milioni… Siamo arrivati ad Agosto e gli unici quattrini che gli alluvionati hanno “avuto”, eh già, li hanno visti col binocolo dei suoi leccaculo sullo yacht.

D’Alema non aveva i baiocchi di Berlusconi, certo, ma viveva comunque molto agiatamente nel (Bel)paese dei Balocchi. Recitando sia la parte di Lucignolo che di Pinocchio, di Mangiaf(u)oco e de Il gatto e la volpe. Pontificando assieme a Nanni Moretti che gli dava manforte ma, in Aprile, lo spronava a rispondere all’amico di Bettino… Che gran casino. Nel mezzo, c’era anche di Pietro Tonino. Ci fu Il caimano, Tangentopoli e Paperopoli, il Falotico non è un cretino ma a Bologna, ripeto, bisognerebbe fare come quello di Taxi Driver, alias Travis Bickle, sì, De Niro ma io non deliro. Ora ci sono gli Euro ma la gente ha sempre, in tasca, poche lire. Io amo la scrittura lirica. Sì, basta con la prostituzione non solo minorile a mo’ de Il ladro di bambini, dei farisaici uomini che non vogliono che le loro donne siano libere, basta persino con quelli che ce l’hanno profumato, no, con quelle persone che ce l’hanno contro pellicole del c… zo come Barbie ma stanno assieme alle sbarbine.  E Renato Carpentieri, stagionato, eccome, eppur sempre rinomato, non fa il carpentiere, neppure il cameriere, forse ascolta Sergio Cammariere, non è Nic Cage di Stregata dalla luna, alias Cammareri, bensì è un gran attore dal navigato mestiere ma lavorò sia con Sorrentino, a Napoli vicino a Sorrento, che con Sophia Loren nella sua ultima interpretazione da ex donnone ora, sinceramente, vecchiona. Capito… la Scicolone?

Prima di morire, recitò la parte dell’ex put… one divenuta gran signora buona di cuore, diretta di nuovo dal figlio Edoardo Ponti in La vita davanti a sé. Quale? Eh eh.

Ora, facciamo i seri e analizziamo questo filmone. Insomma, buon film ma non eccezionale, spesso lento, banale eppur a suo modo affascinante e al contempo superficiale. Ma procediamo con calma. Sintetizzandovene la trama in poche ma esaustive righe, mie figliuole.

Il film inizia nell’89 con Bettino (innominato, non dei Promessi Sposi, qui denominato solamente Il Presidente), ancora allo zenit del suo splendore o all’inizio del suo definitivo tramonto e tracollo agghiacciante. Bettino si trova al quarantacinquesimo Congresso del Partito Socialista Italiano. Dopo tal suo comizio tenutosi all’Ansaldo di Milano, terminato con successo e applausi a scena aperta, forse farisei, viene avvicinato dal malinconico, probabilmente sol amaramente realista e tremendamente obiettivo, Vincenzo Sartori (Giuseppe Cederna). Che lo mette in guardia, riferendogli che i suoi amici altri non sono che doppiogiochisti pericolosi. Sartori vuole suicidarsi.

Dunque, con un veloce salto temporale, arriviamo in quel di Hammamet ove Bettino è stato esiliato per le ragioni a noi tutte note. Nella sua reggia eremitica, vive con la moglie (Silvia Cohen) e sua figlia Anita (Livia Rossi). È perennemente scortato e a vista guardato, tranne quando permette ai suoi sorveglianti di non “rompergli oltremodo e illecitamente le palle”, eh eh, poiché, qualche volta, devono pur permettergli di gironzolare a piede libero, tanto non può scappare. Che andassero in qualche bettino, no, bettola.

Oramai, Bettino è condannato alla sua fastosa prigionia ergastolana in seguito allo scandalo di Mani Pulite. È un Napoleone Bonaparte ante litteram. Fu uno stratega e un imperatore sesquipedale, un gigante or nanizzato e ostracizzato. Ma è arrabbiato in quanto convinto che non era il solo che meritava tale fine ingloriosa e questa incarcerazione sui generis, altresì dolorosa e ignominiosa. Prova ad aiutare un bambino, proclamandolo suo beniamino ed elevandolo al rango, si fa per dire, di Generale. Tentando di salvarlo dalla sua timidezza triste e angosciante. Lo fa per pulirsi la coscienza o perché, semplicemente, malgrado tutto, è un uomo che, seppur stanco, affaticato, malato di diabete ereditario, psicologicamente distrutto e vinto, crede alla purezza in un mondo inquinato alla base da una mefitica, inestirpabile colpa ancestrale? Intrattiene anche lunghe conversazioni e instaura una bella, empatica amicizia con un ragazzo problematico, un po’ spostato o forse troppo sensibile e a posto in un mondo, ripetiamo, lercio e sporco, un ragazzo da poco dimesso dall’ospedale psichiatrico ove fu momentaneamente internato e ricoverato. Il ragazzo si chiama Fausto (Luca Filippi) ed è il figlio del suo ex amico suicidatosi (?) e succitato, Vincenzo. Fausto riprende Bettino con una videocamera e Bettino, a briglia sciolta e in totale, cruda schiettezza, in piena e disarmante sincerità a tratti financo commovente, confessa e confida a Fausto la sua ingiustizia, svelandogli le ipocrisie di un sistema, non solo politico, completamente marcio e bugiardo.

Assistiamo anche all’apparizione della sua amante giovane (Claudia Gerini) e, verso il finale, viene a fargli visita un uomo, chiamato Il Politico (Carpentieri).

Ripieno di battute ficcanti, di memorabili, sebbene troppo apodittici e scontati, aforismi sia divertenti che velleitari, Hammamet dura due ore e sette minuti pieni, non annoia mai ma, va a messa, no, ammesso, rimane un film inutile e sterile. Che non dice nulla su Craxi, in fin dei conti. Forse non era, infatti, questo l’intento di Amelio. Però, il suo character study sul Bettino sfiorito e melanconico, è addirittura agiografico e, anziché guardarlo umanamente e soprattutto con occhio critico, per non essere moralista, rischia di risultare soltanto quasi patetico e poco artistico. Favino è eccellente, a dispetto del notevole makeup che lo “sfigura”. Sebbene, talvolta esageri in tic e manierismi ai limiti del macchiettistico più ripetitivo.

Nell’ultima mezz’ora, Hammamet diventa molto onirico, scegliendo la strada più facile della metafisica per dire tutto e dire niente. Lapidaria e molto bella, però, la frase pronunciata da Roberto De Francesco, medico della clinica manicomiale ove viene nuovamente internato il ragazzo “disturbato”: i malati di mente non guariscono perché non sono malati.

di Stefano Falotico

 

 

IL TRADITORE, recensione

Traditore Favino Bellocchio

Ebbene, siete pronti per la nuova kermesse veneziana e festivaliera? Poiché, come i ben informati sanno, in extremis, no, all’ultimo minuto, Guadagnino, per ragioni diramateci e assai note, è stato sostituito con Edoardo De Angelis che, all’80.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, presenterà, ovviamente, in world premiere, cioè anteprima mondiale, il suo opus intitolato Comandante con l’oramai onnipresente ma indiscutibilmente eccellente Pierfrancesco Favino. Forse il miglior attore italiano in circolazione, attualmente. Specializzatosi, infatti, vertiginosamente in performance via via in crescendo esponenzialmente perennemente, lavorando, sempre meglio, con registi d’alto profilo, insindacabilmente, Favino è, checché ne dicano i suoi odiatori, ahinoi, questi sì, tremendi e deficienti, un attore che, apportando, chirurgicamente e pian piano, migliorie significative al suo stile recitativo, soventemente ma soprattutto inizialmente con la sordina e con una voce “così così”, malgrado ne L’ultima notte di amore qua e là tentenni, nella “dizione” adattata forzatamente nella calabrese cadenza, specialmente, in tal Il detrattore, eh eh, no, Il traditore, sfodera e sfoggia una prova mastodontica, brillando di fulgida luce propria, cementandosi, con esiti da applausi a scena aperta, come si suol dire e, diciamo, in gergo, con un personaggio difficile sotto ogni punto di vista, con molte ombre, ovverosia nientepopodimeno che Tommaso Buscetta, detto Masino.

Film del 2019 di Marco Bellocchio, cineasta che, naturalmente, non necessita d’ulteriori presentazioni superflue, reduce peraltro, assai recentemente, dall’imperfetto ma decisamente ammaliante, perturbante, in gran parte estasiante, Rapito. Pellicola da me recensita appena in sala uscì che, perlomeno nella prima ora e mezza, totalmente mi rapì, deludendomi soltanto, parzialmente, aggiungo e puntualizzo precisamente ivi, verso la fine, in quanto, a mio avviso, si smarrì troppo didascalicamente in digressioni prolisse e irrilevanti ai fini dell’intreccio da Bellocchio illustratoci. Recuperato ora, tramite Netflix Italia, per l’appunto su tale piattaforma per cui, alla faccia dei romantici, più che altro anacronistici fautori della visione esclusivamente sul grande schermo, pago regolarmente e mensilmente l’abbonamento, Il traditore è un signor film da disaminare finemente e per niente da snobbare facilmente. Se non l’avete mai visto e vole(s)te conoscerne la trama in molti dettagli, recatevi qui su Wikipedia ma, ugualmente, ne ricaverete informazioni approssimative e verrete a conoscenza d’alcuni spoiler sgraditi: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_traditore_(film_2019).Alesi traditore Falcone

Romantico in senso lato o prettamente letterale, romanza parecchio, certamente. Eppur, parimenti, affascina grandemente nella sua sottile amalgama fra il documentaristico e il neorealistico più bellocchiano. Poiché Bellocchio, al solito e ottimamente, permea la sua materia filmica di pathos raffinato, narrandoci i fatti “realmente avvenuti” attraverso i suoi immancabili topos a base d’incubi in piena notte e scene sia allucinanti che allucinatorie, improvvisamente inquietanti. Su tutte la raccapricciante e inaspettata scena, da pelle d’oca, dell’arrivo della prostituta bona e super mignotta in carcere col “fedele”, giammai veramente pentito Masino/ Buscetta/Favino che, fra le sbarre da poco ma ospitato in una camera confortevole, forse non propriamente in una suite d’albergo a 5 stelle, però allo stesso tempo corredata di buon televisore e “accessoriata” dignitosamente a misura d’uomo e non di mafioso moralmente sia onorevole che misero, dopo la telefonata registrata ma erotica con la moglie (la sexy Maria Fernanda Cândido, invero poco candida nel suo torbido character da caliente bastarda, la quale, sbattendosene di essere dai poliziotti ascoltata, si tocca totalmente ignuda e sudata, con la f… ga accaldata e, chissà, profumata), non resiste più all’astinenza della carne e il suo matrimonio presto profana, sì, lo manda a puttane, è il caso di dirlo, con la bagascia eccitata, no, succitata. E, indisturbato, barbaramente e burberamente le chiede imperiosamente di spogliarsi, scopandosela nel bel mezzo della prigione più stronza di Palermo.

Insomma, schizzandovi, no, scherzandovi sopra, appena dopo l’estradizione e l’incarcerazione, non vediamo la sua fottuta erezione (non siamo in Diavolo in corpo con annessa fellatio storica) ma assistiamo, comunque, a una serena, mostruosa trombata da “motherfucker” di “Cosa Nostra”.

Attenzione, dirimpetto a Giovanni Falcone, in una delle sue prime confessioni della sua istruttoria, Buscetta vi tiene a specificare che l’organizzazione criminale in questione si deve chiamare esattamente con la sua giustizia, no, giusta espressione. Giustappunto, Cosa Nostra, e non mafia. Per dovere di cronaca giornalistica e/o mafiosa, sulla giustezza del termine esatto, sarebbe da domandare a Francis Ford Coppola con la sua “famiglia” de Il padrino, a Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi e perfino a Luc Besson di The Family, altresì conosciuto, anzi, da noi distribuito col titolo Cose nostre – Malavita. Con un boss di nome Don Lucchese che non è lucano, non è basilisco, forse è siculo, eh eh, è semi-analfabeta ma legge La Repubblica (incredibile!), ah ah, e De Niro che si chiama improbabilmente Giovanni Manzoni (la colpa non è di Besson, attenutosi fedelmente al libro dello scrittore Alessandro de I promessi sposi, no, di Tonino di Pietro, no, di Benacquista) e, al cineclub, riguarda sé stesso nell’appena scrittovi, poc’anzi, Goodfellas.

Non è morbosità… la mia… ma la scopata con la zoccola, prima descrittavi, è una scena fra le più emblematiche e disturbanti dell’intera opera presa in anale, no, Analyze This, no, analisi. Che riassume al meglio lo spirito ambiguo di questo film porco, no, volutamente equivoco che rivela i panni sporchi delle merde e li smerda, sputtanandoli in toto. Contemporaneamente, accusando lo Stato “impunito” e magnaccia, anzi, costituito da magna magna. Poiché Bellocchio non magnifica Buscetta ma neppur lo condanna… Lo riduce quasi a santino e dunque lo santifica, lo perdona per le sue “marachelle?”. Buscetta di tutto se ne fotté, persino del maiale Totò Riina. Qui interpretato da Nicola Calì. Da non confondere con Pippo Calò/Fabrizio Ferracane. E ne pagò le conseguenze. Morendo da solo come un cane o per colpa d’un impietoso Cancro?

Mentre il suddetto Falcone è lo stesso attore che interpreta, anzi, poi avrebbe rivestito i panni del padre disperato di Edgardo Mortara in Rapitoalias Fausto Russo Alesi. Luigi Lo Cascio, invece, qui siculo d.o.c., memore de I cento passi, è Salvatore Contorno. Sopra, ho menzionato Terapia e pallottole. Lo Cascio/Contorno, dopo essere stato momentaneamente liberato, trova un lavoro da venditore d’auto costose a mo’ del Paul Vitti/De Niro di Analyze That, vale a dire Un boss sotto stress.

Giulio Andreotti è Pippo Di Marca. Parafrasando Paolo Bonacelli in Johnny Stecchino, per cui la più grande calamità vergognosa della Sicilia è o sarebbe la siccità, ah ah, no, lo stesso suo autore-attore Roberto Benigni, Di Marca non c’assomiglia pe’ niente! E sembra più una macchietta del Bagaglino à la Pippo Franco. Scritto dallo stesso Bellocchio, su soggetto originale, con suo figlio Pier Giorgio nel piccolo ruolo di Cesare, e l’incursione nel pre-finale di Bebo Stori as avvocato Franco Coppi, Il traditore è molto didascalico, si adagia su toni melodrammatici da fiction (essendo prodotto, non a caso giuridico-penalistico, no, in modo televisivo, da Rai Cinema), in alcuni momenti e attinge, cronachisticamente, processualmente metaforicamente, a programmi appartenenti pressappoco alla collocazione temporale delle varie vicende snocciolateci, come per esempio Un giorno in pretura. Vi è anche un cammeo della bella Miriam Previati.

Il traditore è prolisso, Favino è superlativo, ha tantissimi difetti, comprese alcune sequenze girate ingiustificatamente in digitale (Bellocchio non è Michael Mann di Nemico pubblico), fotografate però superbamente da Vladan Radovic, è stato musicato egregiamente da Nicola Piovani (La vita è bella, ah, sempre Benigni di mezzo, oh oh), andava scorciato e meno retoricamente filmato. Nel suo insieme fatto di andirivieni soprattutto emozionali, inchioda dal primo all’ultimo minuto, esagera sovente e carica eccessivamente d’enfasi ma, alla fin fine, sostanzialmente, è un film importante. Forse non memorabile ma giustamente angosciante.

di Stefano Falotico

 

Venice Film Festival 80. il programma ufficiale

Da Deadline:poster festival venezia 80

VENEZIA 80 COMPETITON

The Promised Land, dir: Nikolaj Arcel
DogMan, dir: Luc Besson
La Bête, dir: Bertrand Bonello
Hors-Saison, dir: Stéphane Brizé
Enea, dir: Pietro Castellitto
Comandante, dir: Edoardo de Angelis (opening night film)
Maestro, dir: Bradley Cooper
Priscilla, dir: Sofia Coppola
Finalmente L’Alba, dir: Saverio Costanzo
Lubo, dir: Giorgio Diritti
Origin, dir: Ava DuVernay
The Killer, dir: David Fincher
Memory, dir: Michel Franco
Io Capitano, dir: Matteo Garrone
Evil Does Not Exist, Ryusuke Hamaguchi
The Green Border, dir: Agnieszka Holland
Die Theorie Von Allem, dir: Timm Kroger
Poor Things, dir: Yorgos Lanthimos
El Conde, dir: Pablo Larrain
Ferrari, dir: Michael Mann
Adagio, dir: Stefano Sollima
Woman Of, dirs: Malgorzata Szumowska, Michal Englert
Holly, dir: Fien Troch

OUT OF COMPETITION

Fiction

Coup de Chance, dir: Woody Allen
The Wonderful Story of Henry Sugar, dir: Wes Anderson
The Penitent, dir: Luca Barbareschi
L’Ordine del Tempo, dir: Liliana Cavani
Vivants, dir: Alix Delaporte
Daaaaaal!, dir: Quentin Dupieux
The Caine Mutiny Court-Martial, dir: William Friedkin
Aggro Dr1ft, dir: Harmony Korine
Hit Man, dir: Richard Linklater
The Palace, dir: Roman Polanski
Snow Leopard, dir: Pema Tseden
Society of the Snow, dir: J.A. Bayona (closing film)

 
credit