SOLO DIO PERDONA (Only God Forgives), recensione
Ebbene, anzi, orsù! Ivi sganciato da costrittivi, forsanche pedanti legami editoriali, in attesa, la settimana prossima, di vedere About My Father (poi recensendolo, mi auguro, di testata attestata con nome e cognome miei firmati), scelleratamente intitolato Papà scatenato con De Niro, memore io di essere, malgrado tutto e dopo tanta acqua, come si suol dire, sotto i ponti trascorsa, sì, passata, l’incarnazione, in passato e, ribadisco, a tutt’oggi di Hugh Grant di About a Boy, prodotto da De Niro stesso, ravvisando lo spopolare di meme e foto di Ryan Gosling di Barbie, su Facebook e altrove, decisi, in codesto oramai terminato pomeriggio del 19 luglio (leggerete questo pezzo nel dì seguente, ovvero quello presente e in corso attualmente, eh eh, di ribaltamento lessicale delle parole o solo spazio-temporale), di assistere alla visione, finalmente completata(ta), del film seguentemente da me disaminato. Anzi, scusate, prontamente rettifico per dovere di mnemoniche cronache mie da Blade Runner 2023 e non 2049, di tal Only God Forgives comprai, un paio d’anni or sono, perfino il Blu-ray ma non ne completai, giustappunto, giammai la visione. Solamente, precisamente, appena l’iniziai. Non so perché. Non ricordo bene…
Che io mi ricordi invece perfettamente, dopo il clamore succitato, no, suscitato dalla coppia artistica Nicolas Winding Refn + Gosling dell’acclamato (non da Paolo Mereghetti, però) Drive, la “combo” tornò a lavorare assieme quasi istantaneamente, ripresentandosi al Festival di Cannes, in Concorso…
A differenza di Drive (2011) che, alla kermesse cannense appena sopra nominatavi, piacque molto a pubblico e Critica, aggiudicandosi meritatamente il Prix de la mise en scène, addirittura scontentando i più che avrebbero voluto vincesse nientepopodimeno che la Palma d’oro, Solo Dio perdona (2013) fu bombardato di sonori fischi e pesantissimamente ingiuriato. Ancora adesso, il sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, ne riporta un’assai insufficiente media molto grave e oso dire “gravosa”, ovverosia equivalente all’ingiusto 37% di pareri nettamente negativi. Sì, una media non congrua al valore del film che meritava e merita ampiamente una “votazione” maggiore ma intendiamoci, al contempo, su un altro aspetto imprescindibile… A me Refn piace abbastanza ma non appartengo alla lista di suoi estimatori incalliti e miopi che hanno il prosciutto davanti agli occhi e si lasciano troppo accecare dalle sue celebri luci stroboscopiche. Perdendo visivamente le sue immagini, no, smarrendo la loro stessa “vista” obiettiva. Solo Dio perdona dura poco, cioè a malapena un’ora e mezza, ciò non è affatto un male ma ha evidenti difetti e, specie all’inizio, è soporifero in maniera indigeribile. La prima mezz’ora, sì, “allunga” il minutaggio di questa pellicola in modo indicibile. Non è dunque un capolavoro, neppure un bel film. Eppur non è brutto come riportatovi e riportatoci. Riportandovi invece sottostante la sinossi rilasciataci da IMDb:
Julian, uno spacciatore di droga che prospera nel mondo della malavita di Bangkok, vede la sua vita complicarsi ancora di più quando la madre lo obbliga a cercare e uccidere il responsabile della recente morte del fratello.
A proposito di Mereghetti, ostinato e ottuso detrattore di Refn, in merito, ai tempi della presentazione di Only God Forgives a Cannes, nell’editoriale del Corriere della Sera, tronfiamente asserì quanto segue: «Una scelta, quella di voler ribadire a tutti i costi il proprio “messaggio”, che invece Nicolas Winding Refn cavalca con testarda protervia. Se Drive era costruito sul tentativo di ridurre il film noir ai minimi denominatori, depurandolo di ogni elemento superfluo per mostrarne solo le caratteristiche fondative, questo Only God Forgives (Solo Dio perdona) si sforza di andare oltre: lunghi primi piani muti, improvvise esplosioni di violenza e una catena di vendette incrociate a partire da una ragazzina stuprata e uccisa. Ma per vendicare l’uccisione dello stupratore, non della vittima! Così vuole la madre di due fratelli (l’assassino senza un perché e un catatonico Ryan Gosling) interpretata da una Kristin Scott Thomas agghindata come Donatella Versace (regista dixit), mentre tutti si muovono come in un acquario. Il risultato è molto più che irritante, fintamente cinefilo e naturalmente misogino. Ma soprattutto sprovvisto di senso. Oscar Wilde amava ricordare che gli armadi chiusi possono anche non nascondere niente. Winding Refn ci conferma che quell’osservazione vale anche per i film. Soprattutto per il suo».
Parafrasando il citato Wilde, il “citazionista” Mereghetti ci conferma che l’affermazione di Wilde potrebbe rispecchiare la vacuità e stolta vanità di molte sue sterili uscite fuori luogo e senza senso logico.
Ora, chiarito questo, diciamo anche che Only God Forgives vale più di quello che si dice e meno di quello che i fanatici di Refn dicono ma questo l’avevo già detto.
Ci presenta un Gosling edipico, stordito, nei panni di un personaggio coglione sin in fondo, un fratello “Tetsuo”, interpretato per pochi minuti, nell’incipit, da Tom Burke, sì, molto sessualmente dotato anche se non glielo vediamo, uno con un c… zo enorme, stando alle parole della “madre”-amante di entrambi, una Kristin Scott Thomas probabilmente incestuosa di tutti e due i figli stronzi, una Scott Thomas mai così “troia” e bella, e un villain imbattibile e impagabile che non sarà ucciso da nessuno, sarà lui a uccidere tutti perché è giusto così, gli hanno barbaramente stuprato la figlia e macellata. Allora, lui diventa un macellaio per mano di “dio”. È Chang, incarnato da un magnetico e insospettabilmente atletico Vithaya Pansringarm.
La fotografia, a cura di Larry Smith, mette i brividi, la Scott Thomas, ancora evidenziamolo, è una grande attrice e una donna maliarda dal fascino irresistibile (anche se son passati esattamente dieci anni da allora e non è più come a quei tempi), le musiche di Cliff Martinez (pre-Stranger Things e sapete perché) parimenti ipnotiche.
Refn pecca di compiacimento per la violenza, come sempre. È un suo violento orpello, metaforicamente parlando e perdonatemi per il voluto gioco di parole, più fastidioso della sua messa in scena ripiena di violence.
Cosicché, dopo la prima visione, a caldo o a freddo, fate voi, può sembrare che Refn ci abbia preso platealmente per i fondelli. Per non dire altro. E che sia stato più triviale, in alcune battute, del solito e disgustoso di un lato messo lì, “alla culo”, del peggior Tinto Brass.
Ma Solo Dio perdona rimane stranamente dentro, angoscia ed è uno sleeper spaventoso, agghiaccia, scuote, perturba, non assomiglia a niente visto prima sebbene scopiazzi mezzo Cinema orientale mischiato a quello scandinavo e statunitense, perfino nostrano ed europeo, così peraltro come molti sostengono, non del tutto a torto.
di Stefano Falotico
INDIANA JONES & il Quadrante del Destino, recensione
Ivi, sganciato da vincoli editoriali, libero come un delfino, inseguo la creatività recensoria più libera. Giocando, nel finale, di voluta demenzialità, per modo di dire, innocua. Scrivendo quindi una review tipicamente mia.
Ebbene, il sig. Harrison Ford, autodefinitosi sboccio ritardato, classe ‘42, il quale dunque compirà ottantatré primavere nell’immediato, ovvero la prossima settimana, più precisamente nel dì del 12 luglio assai venturo, qui è catapultato in una nuova avventura del professor Jones. Uno dei suoi maggiori personaggi iconici, il più rappresentativo della sua vasta, eppur a ben vedere nemmeno così prolifica, filmografica carriera attoriale. Forse, perfino il più importante a livello d’immaginario collettivo suscitato non solo nella generazione appartenente alla collocazione temporale de I predatori dell’arca perduta. In ordine cronologico, no, storico, no, per l’appunto iconico, Indiana Jones primeggia infatti, a mio discutibile avviso, al primo posto del podio fordiano, svettando fra Han Solo (Ian, nella versione italiana della saga di Guerre stellari) e il suo “androide” umanissimo, detective privato avveniristico di Blade Runner. Capolavoro immarcescibile di Ridley Scott che non fu sviluppato in un franchise ma originò l’impensato, qualche anno fa finalmente realizzato, interessante, anche se probabilmente irrisolto, di certo non irrisorio, sequel denominato… 2049, da Denis Villeneuve firmato e, ovviamente, dallo stesso director del capostipite e di Alien… patrocinato. Tornando invece a questo quinto capitolo dedicato alle peripezie del dr. Jones, dopo la tetralogia a cura di Steven Spielberg, quest’ultimo, sempre immancabilmente produttore (che furbone), consegna a James Mangold tale proseguo. Mangold, un nome che, ahinoi, a distanza oramai di quasi quattro decadi da Dolly’s Restaurant, malgrado il notevole, all’epoca sottovalutato però, Cop Land, e tante pellicole più o meno pregevoli, quali per esempio il biopic su Johnny Cash, intitolato Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line con Joaquin Phoenix, i suoi due movies dedicati a Logan, alias Wolverine con Hugh Jackman, oppure Le Mans ‘66, è inspiegabilmente un nome che non dice quasi nulla ai cosiddetti cinefili. Soprattutto dell’ultima ora. Ma cinefili di che? Se non conoscete Mangold, peraltro autore del bel remake Quel treno per Yuma, lasciate stare la settima arte e prendete una foto di Liv Tyler degli anni novanta e dell’esordio mangoldiano succitato per eccitarvi, strabuzzare gli occhi e muoverli come Pruitt Taylor Vince, ah ah.
Indiana Jones and the Dial of Destiny dura la bellezza di 154 minuti netti, abbastanza scorrevoli e godibilissimi, checché ne dicano le malelingue e, per l’appunto, gli improvvisati, pseudo-critici di oggi. Che Carmelo Bene, se fosse ancor in vita, definirebbe così come già definì quelli di allora, cioè dei becchini-monatti senz’arte né parte, eletti a giornalisti forse della loro mortuaria vita fac-simile rispetto a un’esistenza vera e propria. Il critico di ieri e di oggi, infatti, è uno zombi vivente, una specie di uomo non senziente, quindi demente. Le ridicole considerazioni di questa falange di esseri putrefatti, perciò, in merito a questo film, sono inesistenti, oso dire inconsistenti. Fragilissime ed evaporanti come neve al sole. Per quanto mi concerne, mi par invece irrilevante starvi a specificare i dettagli di tal Indiana… Sarei pleonastico e immotivatamente, giustappunto, banalmente giornalistico…
Per saperne la trama, guardate il film, altresì, per conoscere i writers della sua sceneggiatura e per venire a conoscenza di qualche curiosità e/o dettaglio tecnico, affidatevi a Wikipedia. Ne ricaverete una sommaria infarinatura da Matusalemme mausolei qual siete, cari uomini e donne privi di fantasia e soprattutto, ripeto, morti dentro da tempo immemorabile e irrecuperabile più del Graal…
https://it.wikipedia.org/wiki/Indiana_Jones_e_il_quadrante_del_destino
Allora, avete letto tutto, analfabeti e archeologi del vostro essere delle mummie imbalsamate da Carbonio-14? Partiamo dagli attori, innanzitutto tenendo Harrison quasi per ultimo…
Phoebe Waller-Bridge è sexy? Macché, è insipida e financo poco simpatica. Comunque, se si spogliasse interamente ignuda dinanzi a me, mi darei a un’ispezione da “speleologo”. Mads Mikkelsen è un bravo attore ma non mi piace molto. Piace invece alle donne. Ca… li loro, anzi, il suo se glielo darà, no, sempre che glielo dia, se dio o lui vuole, ah ah. All’appello ci mancava solo Antonio Banderas, oramai mister prezzemolino ma, specialmente, sempre più bruttino e vecchiettino. Mentre Harrison invecchia come il buon vino? Purtroppo, no. Sembra più stagionato d’un pessimo Chianti da Hannibal versione Mikkelsen o in quella insuperabile, originale, a prescindere da Brian Cox di Manhunter, di Anthony Hopkins? Poi, diciamoci la verità, per quanto Julianne sia e fosse bella, non poté e non può competere con Jodie Foster, mentre sir Anthony girò Hannibal del già menzionato Ridley Scott soltanto per ubriacarsi, da ottimo ex alcolista redentosi (?), scolandosi, in quel di Firenze e appenino toscano limitrofo, eh eh, non solo i vini migliori, bensì anche le donne da osteria più adatte alla sua “signorilità” da Balanzone ubriacone. Ma che sto dicendo? Non perdiamoci… Il film si perde nella parte centrale ove Mangold, memore degli impresentabili inseguimenti stradali di Innocenti bugie con Tom Cruise, in tali strade, no, in questa circostanza rocambolesca e non poco grottesca, non si dimostra all’altezza dei vari Mission: Impossible… Per Harrison pare impresa improba, diciamo pure inverosimile, essere credibile nelle scene d’azione senza ringiovanimento facciale ma l’incipit di tale pellicola è superbo. Sì, non scherzo. Potrete e possiamo assistere, infatti, al “nano” Toby Jones (sì, ha lo stesso cognome di Indiana) che corre su e giù per un treno, anche sopra esso, con destrezza da controfigura di Harrison Ford del tempio maledetto… Prodigioso, oso dire, una stronzata clamorosa! Boyd Holbrook… non è quello del Predator non ca… to da nessuno e il “figlio” del personaggio di Ed Harris in Run All Night con Liam Neeson? Sì, in quest’ultima pellicola, veniva quasi subito fatto fuori. Ca… o, pensavo fosse morto! Ancora lo chiamano per “recitare?”. Non era stato invece assunto, da redivivo, alla gelateria del quartiere Lame, Belli Freschi? Naturalmente, hanno anche richiamato Karen Allen. La quale giammai si riprese dopo aver perso il suo “doppio” Jeff Bridges di Starman. Da allora, infatti, vagò e vaga da sola in casa, impazzita totalmente e vedendo, in modo allucinatorio, soprammobili volanti a mo’ di UFO di Incontri ravvicinati del terzo tipo, inoltre riguardando Poltergeist di Tobe Hooper. Ma quale Hooper! È di Spielberg con la firma del regista di Non aprite quella porta. Sì, meglio non aprire la porta di casa di Karen Allen. Oggigiorno, la sua faccia fa più paura di quella di Leatherface. The Texas Chainsaw Massacre! No, non voglio massacrare… il Quadrante del Destino, è completamente salvabile, non va stroncato o segato ma, ribadisco, con tutta onestà, dovete credermi, è molto amabile. Ah, scusate, mi son dimenticato di John Rhys-Davies. Aveva già la faccia del vecchio in… The Last Crusade, adesso riappare, no, appare più giovane, senza CGI, di quando era, fisicamente, più rimbambito del Ford odierno.
In conclusione: ne vogliamo parlare perché mai Banderas decise di parteciparvi per 10 min. scarsi? Voto 7 e, bando alle ciance e alle ipocrisie, la sgallettante Waller-Bridge se non avesse, come me, il naso lungo e non sfoderasse spesso espressioni da S. Chiumenti, ovverosia una mia ex compagna delle scuole elementari secchiona e, francamente, rimasta racchiona, sarebbe un’incontestabile figona e sensuale guagliona arrapante. Il corpo c’è tutto, il corpus recitativo assai meno e il viso fa schifo al c… o. No problem, basta un cuscino sopra. Anzi, per me il problema non sussiste. Non ho i soldi per invitarla a cena, se mai eventualmente un giorno la incontrassi al Festival di Venezia. Credo, infine, che Calista Flockhart sia stata gelosa di Phoebe durante le riprese di questo film. Perché Harrison è ancora un bell’uomo? No, perché Phoebe, pur di sistemarsi definitivamente a Hollywood, un servizietto al Matusa da sarcofago… probabilmente glielo avrebbe fatto e, chissà, glielo fece perbene…
Da cui il “filmino”, ricercato più di …The Lost Ark e del “vaso di Pandora” d’Archimede, vale a dire Indiana Jones & l’ultima trombata... in ogni senso, anche quello b. Ah ah. Il film non merita un hip–hip–urrà ma sicuramente un Eureka?
di Stefano Falotico
IL CAIMANO, recensione
Doveva essere il film più cattivo e lapidario di Nanni Moretti sulla sua ossessione maggiore dai primi anni novanta in poi, cioè Berlusconi. Invece è, se non il suo film peggiore, il più scioccamente pretenzioso, banale e inconcludente. Sebbene, a tratti, addirittura struggente.
Ebbene, come sappiamo, il cavaliere Silvio Berlusconi morì lo scorso 12 Giugno in quel dell’Ospedale San Raffaele, a Milano. Città, peraltro, ove nacque, sì, natia. Insomma, che gli diede i natali, ovvero esattamente nel giorno, per nulla nefasto per la Sinistra italiana e per i benpensante catto-borghesi moralisti, del 29 Settembre del ‘36.
Il caimano, firmato da Nanni Moretti, che si ritaglia una piccolissima apparizione (anche altro ma vi dirò poi), da lui stesso scritto, inevitabile suo punto d’approdo e compromesso fra Cinema impegnato-scanzonato con echi malinconici à la Aprile, ove divenne emblematica quella sua frase sibillina… D’Alema di’ (seconda persona singolare da non confondere con dì, cari illetterati) qualcosa, e ideologico pamphlet vagamente accusatorio anti-berlusconiano, ruffiano verso il suo pubblico forse radical–chic e i suoi irriducibili aficionados incalliti e duri a morire, è una pellicola del 2006, sopraggiunta decisamente prima di Loro per la regia di Paolo Sorrentino che, immediatamente, ivi interpreta il marito di Aidra (Margherita Buy), personaggio fittizio appartenente alle pellicole (a metà strada fra il trash più becero e pre-tarantiniani b movies nel peggio o soltanto godibilmente rozzi, volutamente naïf), celebrate dal reale Tatti Sanguineti, nell’incipit, del suo vero consorte, Bruno Bonomo (il cognome è alquanto esplicativo ed è inutile aggiungervi altro). Col quale, però, sta divorziando malgrado vivano ancora, forse per poco, assieme e coi due figli piccoli in casa di lei. Durante una panchina del pargoletto calciatore in erba o da campo sterrato, no, durante una pacchiana, anacronistica, patetica e triste serata di gala in onore di Bonomo, presieduta dal debordante, forse troppo magnificante relatore succitato (Sanguineti, critico nella vita reale e qui critico di fantasia che si chiama Beppe Savonese), una giovane ragazza, di nome Teresa (Jasmine Trinca), gli lascia un copione. Importante? Forse incentrato su Berlusconi? Certamente… Bonomo se lo prefigura, forse inconsciamente, nei suoi incubi a occhi aperti, secondo le fattezze di Elio De Capitani ma, nella pellicola diretta dall’esordiente, per il lungometraggio Il caimano, già autrice di due shorts, Teresa, sarà incarnato dal filibustiere attore fallito Marco Pulici (Michele Placido), un adoratore sfegatato di Gian Maria Volonté. O forse no? Da Moretti stesso con manie di protagonismo e idolatrie verso un farisaico comunismo-solipsismo? L’Italietta, così definita da Jerzy Sturovsky (Jerzy Stuhr), pantomimica e messa su puttanescamente e burlescamente, potremmo dire, da Silvio Berlusconi, burattinaio pinocchiesco, sta andando a farsi fottere più d’una futura Ape Regina. Sabina Began? Sarebbe, costei, venuta con Silvio, sarebbe arrivata… dopo o finse orgasmi col “cavaliere” per occupare un posto di sedere o di potere? Anche il matrimonio di Bonomo sta colando a picco, sta andando a puttane mentre il “finto” capitano di polizia della Guardia di Finanza, alias Cesari (Valerio Mastandrea), si sputtanò e vendette più di una maîtresse da villa Arcore. Bonomo e Teresa ci mettono il cuore in un mondo ove un ex Presidente del Consiglio davvero si fece il culo per avere molti deretani sodi e glutei torniti, oppure corruppe e fu corrotto dalla mafia per pararselo del tutto? Coprendo le sue vergogne e le magagne dietro barzellette imbarazzanti? Il caimano è un film paraculo, un meta-cinematografico biopic, tutto sommato sterile, che dice tutto e dice niente e, con la scusante di fare cultura e informazione, con la furbata di smascherare il premier, diviene soltanto una mezza occasione sprecata e l’ennesimo film di Moretti costruito intorno alla sua ruffianeria nei riguardi innanzitutto di sé stesso, dunque dei suoi fan e nei confronti del suo simpatizzato, sbandierato schieramento politico da uomo che dice e fa la cosa giusta, più ipocritamente (anti)politically correct di Berlusconi stesso. Ha dei momenti lirici indubbiamente poetici, si segue volentieri e financo, a tratti, risulta divertente, galoppando frequentemente su alti registri sottili e delicati. Ma, nella sua completa amalgama, si squaglia, è inconsistente, ripeto innocuo e dimenticabile presto. Non rimane affatto impresso e, in fin dei conti, risulta per l’appunto più fake del lifting di Silvio. È Cinema “cerone”, che si presenta bello e di valore ma nasconde la gelida scheletricità, perfino schematicità, d’una superba falsità che fa più paura del cammeo di Paolo Virzì ed era già più vecchio di Giuliano Montaldo all’epoca. V’è anche Anna Bonaiuto avvocatessa fottuta fra un Matteo Garrone pre-notorietà cineastica, Antonio Catania, Cecilia Dazzi, Carlo Mazzacurati, Toni Bertorelli e chi più ne ha più ne metta.
di Stefano Falotico
THE FABELMANS, recensione
Ebbene, la questione Spielberg ritorna puntuale. A scadenze regolari? No, appena un suo nuovo film esce. Che poi è quasi la stessa cosa. Cosicché, si ripresenta, inquietante ma interessante, un instant classic, no, una classica domanda presso i cinefili e i cosiddetti addetti ai lavori, ovvero la seguente: Steven è veramente un genio, è quello d’un tempo o, addirittura, non è mai stato nessuno e perfino le sue opere più celebrate son invero, riviste e giudicate col senno di poi, delle simpatiche sciocchezzuole e delle pellicole, ai tempi della lor uscita, sopravvalutate in modo spropositato e ai confini della realtà, oltre ogni immaginazione più irreale? Esistono ed esisteranno sempre, anche quando avverrà, comunque sia tristemente, la dipartita di Spielberg, per l’appunto, gli spielberghiani inossidabili ed eterni, ridenti, non redenti, sì, irredimibili dei più irriducibili. Ovvero coloro legati all’idea, chissà se giusta o sbagliata, secondo cui il Cinema non ha e non deve avere una funzione maieutica, potremmo dire financo propedeutica e/o istruttiva, sebbene da Schindler’s List in poi, con le prove generali anteriori de Il colore viola, Spielberg stesso non è più il portavoce dell’aforisma: la settima arte deve far sognare.
Ciò dobbiamo, senza dubbio, subito puntualizzare. Aggiungendo inoltre una frase forse non propriamente simpatica ma apodittica e onestamente veritiera: Spielberg è rincoglionito. Così come, ahinoi, accade alla maggior parte della gente dalla settantina in poi. Tralasciando, ovviamente, i giovani vecchi che adorano Munich, considerandolo un capolavoro quando invero è un mattone tremendo, peraltro poco emozionante e dalla durata indigeribile. Come direbbe un boomer di Bologna… roba da spappolare i maroni.
Roba, dico invece io, solo per fanatiche di Daniel Craig prima maniera ed Eric Bana figo per finte fanatiche di Cristo come la ragazza fintamente educanda di tale The Fabelmans. Quasi unanimemente, The Fabelmans è stato reputato un gran bel film. Diciamo che ha dei momenti stupendi alternati a banalità sconcertanti e menate scopiazzate dallo stesso zemeckesiano Ritorno al futuro (ma guarda un po’) con l’immancabile totem della cultura WASP per eccellenza: il romanticissimo, angosciante, temuto eppur idealizzato, tremendo ballo della scuola. Brian De Palma, amico di Spielberg, a tal proposito, ci regalò la Spacek di Carrie, il pappa & ciccia di Steven, alias Francis Ford Coppola, Peggy Sue Got Married, John Travolta fu bullo nell’appena succitato, “sottotitolato” in italiano, lo sguardo di Satana, e poi il mitico tamarro Danny Zuko di Grease. Danny Zuko, personaggio per cui la prima scelta fu Henry Winkler/Fonzie/Arthur Fonzarelli di Happy Days. E ho detto tutto. In Italia, avemmo anche Antonello Venditti e Giorgio Faletti professore in Notte prima degli esami. Che c’entra? Attualmente, i collegiali, no, non solo i liceali italiani, stanno sostenendo il temibile Esame di Maturità. O hanno già finito? Mah. Fabrizio Bracconeri, Bruno Sacchi de I ragazzi della 3ª C, perse venti chili per lo stress degli orali e, dopo essere stato trattato alla pari d’una merda dagli insegnanti, soprattutto dal bastardino, partenopeo docente di italiano (incarnato da Antonio Allocca, cioè Tonino, ah ah) e dai suoi compagni di classe, finita l’interrogazione, trascorse un’intera settimana ad evacuarne sulla tazza del cesso il peso devastante. Pesante, parola odiata da Christopher Lloyd/Doc di Back to the Future. Parola invece amatissima da Michael J. Fox di Voglia di vincere, no, Marty McFly. The Fabelmans non è pesante come Amistad e non fa cagare ma non è nemmeno il capolavoro che molti pensano sia. Il personaggio di Seth Rogen è un viscido, per di più è comprensibile immediatamente che ha una relazione nascosta con quello di Michelle Williams, mentre il padre di “Spielberg” sapeva tutto? Jeannie Berlin/Haddash Fabelman aveva già capito… che, come si suol dire, brutta com’è, poteva giocoforza sol interpretare il ruolo dell’avvocatessa cazzuta, ma inculata, in The Night Of. Judd Hirsch non è giovane come Emile Hirsch ma forse, dopo il liceo, il suo personaggio voleva ribellarsi ai dettami scolastici e famigliari, per vivere à la Easy Rider, specialmente Into the Wild. Cosicché diede la caccia ai nazisti come in This Must Be the Place, aiutando il glaciale pagliaccio Cheyenne/Sean Penn a trovare il maiale, forse Ralph Fiennes di Schindler’s List giammai morto e divenuto una mummia come lo stesso Penn, però non del film di Paolo Sorrentino appena sopra scrittovi, bensì di Licorice Pizza. Ivi, capace di “sfoderarci” una performance più imbalsamata di Tutankhamun.
Spielberg girò Jurassic Park, tratto da un celeberrimo romanzo di Michael Crichton, mentre Yul Brinner fu il protagonista de Il mondo dei robot, scritto e diretto dal writer… che ve lo (ri)dico a fare?
Brinner non fu Tutankhamun in The Mummy, no, ne I dieci comandamenti di Cecil B. De Mille, bensì Ramesse, ma, a differenza del protagonista, all’epoca bambino di The Fabelmans, che vede Il più grande spettacolo del mondo con mamma e papà, quando per la prima volta assistetti alla visione di The Ten Commandments, programmata alla televisione, ancor prima della pubertà, compresi che mia nonna s’eccitava dinanzi a mr. Ben-Hur… Charlton Heston, mentre mio nonno tradì il comandamento Non desiderare la donna d’altri appena vide apparire, dinanzi ai suoi occhi, Anne Baxter/Nefertari. E, col pensiero, se la scopò. Io andai in bagno a fare la popò. Siamo sicuri… solo questa? C… zo, non è possibile. Avrò avuto solo 7 anni ma quella faraona me la sarei cucinata assieme ad altre patate al forno.
Io, i miei genitori e i miei nonni materni guardammo, tutti insieme appassionatamente, I dieci comandamenti dopo una luculliana cena a base di polli allo spiedo. Cioè tutte le persone che, non solo all’epoca, bensì a tutt’oggi, adorano i peplum. Io odio pure i “sandaloni” delle donne più belle, detesto le scarpe aperte con tanto di piedi femminili mostrati in bella vista e annessa puzza indigesta. Fra l’altro, rimanga fra noi, cari feticisti, Uma Thurman di Pulp Fiction & Kill Bill, le girls di Death Proof e Margaret Qualley di C’era una volta a… Hollywood hanno dei feet più disgustosi di Stuntman Mike/Kurt Russell.
Gabriel LaBelle è “Spielberg” in The Fabelmans. Ma non sarà mai un bell’uomo come Indiana Jones/Harrison Ford, non sarà mai un genio come John Ford e come Lynch che fa Ford. O forse sì. Che significato ha questa recensione? Forse nessuno. E che valore ha ancora il Cinema in un mondo che ha perduto la “purezza” dei nostri nonni? È possibile, oggigiorno, sognare ed essere romantici come Spielberg e, tutto sommato, rimanere fedeli a dei valori importanti come quel “Fantozzi” geniale di Paul Dano, in un mondo ove un trentenne medio non ha mai visto Sentieri selvaggi e L’uomo che uccise Liberty Valance? E che non vede un futuro davanti a sé ma solo i didietro di quelle su Instagram? Certo, poiché parafrasando Lynch/Ford: When the horizon’s at the bottom, it’s interesting. When the horizon’s at the top, it’s interesting. When the horizon’s in the middle, it’s boring as shit. Now, good luck to you. And get the fuck out of my office!
Se non capite questo, non potete capire questa recensione. Se non capi(s)te The Fabelmans non importa. È bello ma è sinceramente il film d’un director oramai senile, morto artisticamente parlando. Il quale, in tutta franchezza, non crede, or come ora, neppure alla magia di E.T. Spielberg è diventato, infatti, spiacevole doverlo ammettere, Dustin Hoffman di Hook – Capitan Uncino che vuole auto-convincersi di essere ancora capace di emozionarsi ed emozionarci come ai tempi de Lo squalo e d’Incontri ravvicinati del terzo tipo. Lo ringraz(iam)o per tutto ma sarebbe anche arrivato il momento di lasciare posto a un suo erede. Non posso essere io, mi chiamo Stefano e non Steven, non sono Stephen King e penso che, stasera, continuerò a recitare l’audiolibro a venire di questo: https://www.amazon.it/commissario-Fal%C3%B2-macabra-indagine-personale-ebook/dp/B0C948W5ZD
Ho quasi 44 anni, quindi non ho niente da perdere. Forse, neppure da guadagnarvi. Sì, e allora? La linea d’orizzonte può stare sotto o sopra, mai in mezzo. Ricordate.
di Stefano Falotico
AIR – La storia del grande salto, recensione
Ebbene, svincolato ivi da canoni editoriali, un po’ sganciato da tutto, come mia consuetudine, recensirò in modo flamboyant tal assai gustoso movie che vale il prezzo del biglietto, offrendo alle nuove generazioni la mia preziosa e imperdibile chance di ricordare loro chi fu Michael Jordan e cos’ha rappresentato per tutti noi, invece, boys degli eighties a cavallo dei nineties quando la sua stella, già fulgida e sempiterna, fu all’apice del suo magnifico e imbattibile nitore. Dandoci la possibilità di tornare indietro nel tempo e giocare ancora, no, perlomeno di godere appieno, dal vivo e in diretta cinematografica, di quello spettacolo vivente chiamato, ripetiamolo a gran voce, Michael Jordan. Mito giammai battuto, campione imbattuto, con una “battuta” da cestista spacca-canestro veramente insuperato.
Ma che bel film, caro Ben Affleck. Sì, malgrado sia esageratamente retorico, ingenuo, a tratti, un dolciastro e buonista inno speranzoso alla grandezza in senso lato, scambiato però malignamente per un capzioso spot promozionale alle eterne scarpe Nike ascritte indelebilmente al suo marchio leggendario in virtù specialmente di the greatest Basket player of all time, che ve lo ridico, per l’ennesima volta, a fare? Il sig. Jordan.
Saltando come Mike, no, a piè pari su Wikipedia, estraendovene la trama qui riportata e, sottostante, per comodità, copia-incollatavi, con apportate mie correzioni alla punteggiatura…
«1984, Beaverton (Oregon). Nella sede della Nike il manager Sonny Vaccaro, esperto di basket, è alla ricerca di giovani talenti a cui proporre un contratto di sponsorizzazione per rilanciare il marchio che all’epoca era fortemente votato al running e con quota di mercato nel settore del basket nettamente inferiore ai colossi come Converse e Adidas. Sonny decide di investire tutto il budget messogli a disposizione dalla dirigenza per chiudere un contratto con la stella emergente del basket: Michael Jordan. Per riuscire nel suo obiettivo Sonny deve vincere le resistenze del suo CEO Phil Knight, del manager di Jordan e dello stesso Michael, all’epoca molto più attratto dalle sirene dell’Adidas. La strategia di Sonny si rivela azzardata ma vincente quando decide di far breccia nei sentimenti della mamma di Michael, proponendo per il figlio un ruolo in assoluto primo piano nelle strategie commerciali della Nike ed inventando una scarpa ed una linea di abbigliamento, la Air Jordan, appunto, progettata esclusivamente per il campione».
Dinamico, scoppiettante, dal ritmo eccezionale malgrado le sue quasi 2h nette di durata che, invero, ci mostrano solamente qualche brevissimo spezzone delle partite di pallacanestro che coinvolsero il fenomeno suddetto, specialmente concernenti il suo periodo pre-successo, sottolineandone l’inarrestabile ascesa, evidenziata in un colpo storico, quando militava tra le fila del North Carolina, alla sola età di diciotto anni. Poi, sarebbe avvenuta fulminante la detonazione deflagrante del campione vincente dei Chicago Bulls. Ma questa è un’altra storia, anche probabilmente personale.
Poiché, memore della mia adolescenza, peraltro ancora non terminata, essendo infatti il sottoscritto un uomo senz’età, grazie al talentuoso, oramai inutile negarlo, Ben Affleck sia dietro che davanti la macchina da presa, nonostante il suo riccioluto look forzato, ringrazio lui stesso, autore, e questo suo “joint” alla Spike Lee (che si vede nei titoli di coda à la He Got Game), ovverosia un gorgeous, arguto opus di puro entertainment senza stolte velleità pseudo-artistiche da imbonitori cineasti arroganti e inutili… dicevo, ah, mi son perso e, perdendomi tra le scorribande mie mnemoniche alla Falotico, resuscito me medesimo di quei tempi remoti eppur, rimarco, in mente risortimi d’incanto.
Quando, pivot della squadra della mia scuola media, tra i felsinei fortitudini sfigati, tifavo per la Virtus e il suo idolo delle folle, alias Predrag Danilović, detto simpaticamente Sasha.
Cosicché, mentre il figlio della signora Fiorini del settimo piano del mio pazzo, no, palazzo, giocava per l’appunto tra le giovanili della squadra bolognese scudettata e appena nominatavi, molti anni prima della musicale hit “strappa mutande” If You Believe, firmata dal lituano, no, tedesco, Sascha Schmitz, prima d’incantarmi in un’esistenza oggi rinata, però all’epoca suonata, assai rintronata e fottutamente dai miei coetanei bullizzata, derisa, schivata, schiavizzata e perfino schifata, a volte giocavo con le palle nell’ammirare le più sexy tenniste, non solo di Wimbledon e del Roland-Garros, per un onanistico Grande Slam da ottimo slurp…
Pardon, scusatemi per questa parentesi superflua e stupida, forse solo da seg… olo ridicolo, non smarriamoci in balle e cazzate sesquipedali, questo film è una figata assoluta. In alcuni momenti, più eccitante di Maria Sharapova quando fu gran topa al suo top. Ebbene, ragazzi da Topexan e dermo-lavaggio per curarvi dalle asperità del vostro viso butterato, cari brufolosi topi che preferite un topless alle cosce di Camilla Giorgi, Flavia Pennetta, in verità una “pennona” così come dicono qui, in quel di bona, no, Bononia, cioè Bologna, e di un’Anna Kournikova che sprona all’alcova, gatta ci cova quando un critico, semmai anche femminile che ovula, si permette di stroncare un film così gentile e cazzuto come questo. Non è affatto, a differenza di ciò che si legge in giro, un ratto, no, un ritratto a mo’ di biopic su Jordan, nemmeno un’ode al capitalismo, care oche. È Cinema a stelle e strisce di ottimo stile garbato, godibile mainstream nel senso più cool, per nulla spregiativo, della parola. La sceneggiatura di Alex Convery è volutamente, spesso, addirittura infantile e mette in bocca, nel prefinale, alla grande Viola Davis, effettivamente, ciò che risuona più fake di Scottie Pippen. Che voglio dire con questo? Pippen era un falso? No, un grande amico di Michael, altresì era geloso da morire del suo friend. Mentre Matt Damon non nutre alcuna gelosia nei riguardi di Ben. Damon, un attore strepitoso, considerato dalle persone insulse sol un attore insignificante e anonimo. Che atrocità e immonda falsità veramente ingrata e ignobile. Non è bono come Affleck e non vuole esserlo, così come l’eccellente Jason Bateman, nei panni di Rob Strasser, non incarna un personaggio stronzo alla Patrick Bateman…
Chris Tucker non è un champion della recitazione ma è indubbiamente simpatico ed è da sempre conscio che non poteva essere il new Jordan se, alla recitazione, per l’appunto, avesse preferito il basketball. Non è Richard Pryor, neppure la versione black di Bill Murray. Quest’ultimo comparente, nei titoli di testa, in un frame iconico da The Ghostbusters e non da NBA Jam fra uno Sly Stallone che duetta con Dolly Parton e un Hulk Hogan da memories wrestling e non quello di Rocky III. Sebbene si veda poi Mr. T e si citi apertamente Eye of the Tiger dei Survivor… Non scorgiamo e non c’è Martina Navratilova ma, nel cast, v’è Barbara Sukowa. La fotografia di Robert Richardson è semplice ma funzionale, malgrado non c’illumini con pindarici svolazzi da Bringing Out the Dead e da Oliver Stone. Prima che quest’ultimo, per Ogni maledetta domenica, scegliesse Salvatore Totino, lasciando Richardson a Quentin Tarantino.
Air è un filmino? È un filmone o solo un filmetto? È imperfetto ma giammai ampolloso, è diretto come un blockbuster degli anni novanta tipicamente proveniente dagli States, non è forse nulla di che ma intrattiene di brutto. Infine, Damian Young assomiglia a Michael Jordan alla pari di Mike Moh, nei panni di Bruce Lee, in C’era una volta… a Hollywood. Cioè, Young è diversissimo da Michael. Anche perché non viene mai inquadrato, se non di spalle, ah ah.
Ecco, il Falotico, invece, il quale va in giro a dire che era più forte di Marco van Basten e Diego Armando Maradona, essendo stato davvero un calciatore, sebbene non abbia mai giuocato in Serie A, è un pazzo senza contezza di esserlo e va, quanto prima, internato? Può essere oppure potrebbe essere, a proposito di Sylvester Stallone, ancora in forma, come Rocky Balboa nel quinto episodio della sega, no, saga arcinota e non da Circolo Arci. Al che, se qualche stronzetto irriconoscente come Tommy Gunn gli si rivolta contro, urlandogli “lo distruggo quel fallito!”, semmai attaccando la sua famiglia, gli risponde: – Bravo, l’hai messo giù, ora perché non ci provi con me, ragazzo?
No, la sua risposta sarà inaspettata, simile a quella di John Rambo, quando in First Blood, tutti gli idioti, pensano che sia morto… Ora, poveri smemorati…
di Stefano Falotico
THE NICE GUYS, recensione
Ebbene, finalmente, in totale rilassatezza, a distanza di qualche anno dalla sua uscita nei cinema, ho visto en souplesse questo scoppiettante, esilarante e intrigante film che, all’epoca, giustappunto mi sfuggì. Parimenti a molto altro, scivolatomi di mano per via della mia mente, a quei tempi, obnubilata e ottenebrata da foschi pensieri più cupi d’un noir tanto maliardo quanto inquietante. Firmato dall’emerito e assai brillante Shane Black (Hawkins di Predator, l’unico e inimitabile, assolutamente originale, targato John McTiernan, eppur da lui riplasmato nel reboot, forse brutto, del 2018), creatore dei personaggi del franchise Arma letale, sceneggiatore, fra gli altri, de L’ultimo boy scout, di Iron Man 3 & Kiss Kiss Bang Bang, dunque una penna eccentrica e al massimo inventiva, funambolica e sardonica, graffiante e specializzata in battute e dialoghi ficcanti, in freddure micidiali e capace d’imprimere impressionanti cambi di registro dinamici e veloce ritmo positivamente atroce ai suoi script, sovente ineccepibili e congegnati con encomiabile stile, qui ancora una volta, oltre che in cabina di regia, per l’appunto, screen–writer e soggettista in collaborazione fruttuosa con Anthony Bagarozzi. Con The Nice Guys, in modo indubbio, assolutamente incontrovertibile, realizza il suo opus migliore. Tant’è che, a tutt’oggi, si parla d’un sequel che, stando alle ultime news, dovrebbe quanto prima concretizzarsi. E, sinceramente, non ved(iam)o l’ora. Ora, scusate per il voluto gioco di parole, come sopra vi dissi, giammai, sin all’altra sera, questa strepitosa pellicola dapprima vidi. Ma poco male, per l’appunto la visionai, me ne esaltai e nelle seguenti righe, in mood falotico la disaminerò, un po’ fuori da vetusti canoni fintamente istruttivi e standardizzati della barbosa intellighenzia critica, spesso priva di brillantezza e ironia. Senza farvi spoiler, semplicemente appioppandovi sottostante, per convenienza, l’assai concisa eppur pertinente sinossi estratta da IMDb: Nella Los Angeles degli anni 70, due detective privati vanno alla ricerca di una ragazza, la cui scomparsa è legata alla morte misteriosa di una pornostar.
Gli investigatori in pensione, no, in questione, rispondono ai nomi di Jackson Healy & Holland March, rispettivamente incarnati da un Russell Crowe molto in carne e da un Ryan Gosling sorprendente e dal simpatico, fascinoso carisma, come consuetudine, atipico, entrambi, per la prima volta faccia a faccia, anzi, da classica strana coppia, uno a fianco dell’altro in un film. Tutti e due, peraltro, in uno dei loro primissimi ruoli anomali. Sì, perché in questa bislacca e rutilante vicenda torbida altamente investigativa ed affascinante, in questa losca storia da giallo quasi hitchcockiano, specialmente “colorato” (splendida fotografia di Philippe Rousselot), soprattutto mascherato da commedia leggera, si disimpegnano istrionicamente, vicendevolmente e contemporaneamente, alternando una recitazione briosa e svagata a un modus attoriale da Philip Marlowe à la Humphrey Bogart, seppur con le dovute differenze e aggiornamenti in senso tout–court. The Nice Guys ricalca dichiaratamente le atmosfere, perfino sensualmente evocative, d’un thrilling con sotto-testo scabroso, reinventato da L.A. Confidential (non a caso, la presenza di Kim Basinger in un ruolo chiave, antitetico rispetto alla sua prostituta Lynn Bracken del film di Curtis Hanson per cui fu oscarizzata). Cosicché Crowe, riprendendo in forma ante litteram, il suo character Bud White, ivi ne diviene una prosecuzione ideale e fantasiosa in geniale variazione tematica. È altrettanto manesco, burbero ma di buon cuore. Mentre Gosling, perfettamente calzante per la parte assegnatagli, è un private eye molto sui generis che anticipa il suo mr. K di Blade Runner 2049. L’ottima media recensoria, riscontrata sul sito aggregatore metacritic.com, equivalente esattamente al 70% molto lusinghiero di critiche favorevoli, a nostro avviso, è perfino scarsa. In quanto, The Nice Guys è un capolavoro. Dura, per l’esattezza, un’ora e cinquantasei minuti, praticamente 2h ma avvince, diverte e non annoia mai. Ci presenta una Margaret Qualley pre-C’era una volta… a Hollywood e soprattutto un’Angourie Rice eccelsa. Però, sottolineiamo questo, inderogabilmente. Crowe e Gosling sono due pezzi da novanta. In particolar modo, ci tengo qui ad evidenziare che chiunque sostenga che Gosling sia soltanto un biondino belloccio e insulso, è forse lo stesso demente, chissà chi, eh eh, che inizialmente considerò Kevin Costner e Leo DiCaprio alla stessa maniera. Reputandoli, giustappunto, solamente dei posaceneri…
di Stefano Falotico