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L.A. CONFIDENTIAL, recensione

Ebbene, oggi per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo sino ai nineties, sì, c’immergeremo negli anni novanta, disaminando brevemente, altresì esaustivamente, rapidamente un grande film, giustappunto, del ‘97, firmato dal compianto Curtis Hanson (Wonder Boys), ovverosia il magnifico L.A. Confidential, opus perlaceo della consistente, lunga eppur mai noiosa, bensì avvincente e molto intrigante durata di due ore e diciassette minuti.La Confidential DeVito Spacey

Un film dalla trama, peraltro, intricata eppur perfettamente congegnata. Ben memori di tale pellicola pregiata, L.A. Confidential, ivi vogliamo analizzarla minuziosamente, fornendovene un promemoria recensorio adeguato e, ci auguriamo, ben omaggiante questo bel e imprescindibile classico della cinematografia mondiale. Tratto, molto liberamente e con non poche poetiche licenze, dal celeberrimo ed omonimo romanzo noir firmato da James Ellroy (lui è l’autore dell’epocale novel famosa, Black Dahlia, da cui Brian De Palma ne trasse la sua trasposizione filmica), maestro indiscusso dei torbidi polizieschi dalle vicende narratevi tanto contorte quanto maliarde, perlopiù imperniate su scuri intrecci a base di poliziotti corrotti e ripiene di dark ladies fascinose e sensualmente ipnotiche, L.A. Confidential fu sceneggiato dallo stesso Hanson in collaborazione con Brian Helgeland (Assassins, Mystic River, curiosamente writer anche di Spenser Confidential, ovviamente similare nella dicitura ma notevolmente differente nell’intreccio dell’enunciatovi titolo da noi preso in questione). I quali, per questo loro mirabile lavoro ottennero l’Oscar, naturalmente, per la miglior sceneggiatura non originale. L.A. Confidential, giustamente molto incensato dall’intellighenzia critica, all’epoca, ottenne per l’esattezza nove nomination agli Academy Awards, fra cui le candidature come Miglior Film & Migliore Regia ma, oltre alla dorata, vinta statuetta poc’anzi dettavi, s’aggiudicò “soltanto” quella andata a una delle sue sorprendenti interpreti femminili, cioè una sfavillante e abbacinante Kim Basinger, premiata come miglior attrice non protagonista. Potremmo riportarvene dettagliatamente gli eventi presentatici, peraltro ingarbugliati e difficilmente esponibili con precisione ma, se siete fra coloro che non hanno ancora mai visto L.A. Confidential, ve ne sciuperemmo le molte sorprese snocciolatecene. Quindi, in tal caso, riteniamo più pertinente trascrivervi testualmente la concisa sinossi da IMDb, limitandoci perciò a suggerirvela, sperando che, rimanendone attratti e suggestionati, possiate quanto prima guardarlo e, parimenti a noi, grandemente ammirarlo: Tre poliziotti del dipartimento di polizia di Los Angeles, dove impazza la corruzione, investigano una serie di omicidi a modo loro.

La Confidential Cromwell Crowe Pearce Spacey

I tre poliziotti corrispondono ai nomi del romantico macho picchiatore, difensore delle donne, Bud White (Russell Crowe), a Ed Exley (Guy Pearce) e allo scafato ed irreprensibile lupo di mare Jack Vincennes (Kevin Spacey, Il momento di uccidere, I soliti sospetti, American Beauty). C’è del marcio a Los Angeles ed è stato compiuto un delitto efferato, è stata effettuata macabramente una carneficina sanguinaria al bar Nite Owl. E, nella luccicante eppur peccaminosa città degli angeli, s’aggirano ambigui personaggi tanto eccentrici quanto furbi e non pulitissimi. Cosicché, nel caravanserraglio di maschere grottesche, sovente perfino inquietanti, oltre al trio di sbirri tutti d’un pezzo sopra elencativi, sinuosamente sfila serpentesca tutta una galleria, osiamo dire antologica e indimenticabile, di “comparse” che celano non pochi neri scheletri nell’armadio, fra il torvo e mellifluo, ricchissimo protettore delle prostitute d’alto bordo che assomigliano alle dive di Hollywood, cioè Pierce Patchett (David Strathairn, Good Night, and Good Luck, Nomadland), il capo detective Dudley Smith (James Cromwell), l’avido e navigato cronista del pettegolezzo per antonomasia, Sid Hudgens (Danny DeVito, The Comedian) e, naturalmente, la magnetica mantide e femme fatale, identica a Veronica Lake, alias Lynn Bracken (Kim Basinger).Kim Basinger L.A. Confidential

Egregiamente fotografato dal nostrano mago delle luci Dante Spinotti, recitato divinamente e diretto magistralmente, ricolmo d’incredibili atmosfere crepuscolari da gran poliziesco d’annata, L.A. Confidential, sebbene forse non sia un capolavoro, a distanza di quasi trent’anni dalla sua uscita, mantiene intatto il suo granitico e incontestabile charme da film bellamente profumato di celluloide purissima, lieve e suadente come una morbida maîtresse godibilmente irresistibile.

 

LO STRANGOLATORE DI BOSTON (Boston Strangler), recensione

Ebbene, oggi recensiamo l’inquietante, intrigante e affascinante, sebbene forse non appieno convincente, Lo strangolatore di Boston (Boston Strangler), corposo e sanguinario, teso e avvincente thriller dalle forti tonalità noir e poliziesche, scritto e diretto dal regista Matt Ruskin. Dal 17 marzo scorso, distribuito in streaming, su Disney+.strangler falo

The Boston Strangler -- The film follows Loretta McLaughlin (Keira Knightley), a reporter for the Record-American newspaper, who becomes the first journalist to connect the Boston Strangler murders. As the mysterious killer claims more and more victims, Loretta attempts to continue her investigation alongside colleague and confidante Jean Cole (Carrie Coon), yet the duo finds themselves stymied by the rampant sexism of the era. Nevertheless, McLaughlin and Cole bravely pursue the story at great personal risk, putting their own lives on the line in their quest to uncover the truth. Loretta McLaughlin (Keira Knightley), shown. (Courtesy of Hulu)

The Boston Strangler — The film follows Loretta McLaughlin (Keira Knightley), a reporter for the Record-American newspaper, who becomes the first journalist to connect the Boston Strangler murders. As the mysterious killer claims more and more victims, Loretta attempts to continue her investigation alongside colleague and confidante Jean Cole (Carrie Coon), yet the duo finds themselves stymied by the rampant sexism of the era. Nevertheless, McLaughlin and Cole bravely pursue the story at great personal risk, putting their own lives on the line in their quest to uncover the truth. Loretta McLaughlin (Keira Knightley), shown. (Courtesy of Hulu)

Lo strangolatore di Boston, da non confondere con l’omonima pellicola del ‘68 di Richard Fleischer con un grande Tony Curtis. Quest’ultimo film, differente nella trama, eppur vertente, parimenti a tale pellicola da noi presa in questione e nelle seguenti righe disaminata, così come intuibile e comprensibile facilmente dal titolo, sul tristemente celebre e macabro assassino seriale di nome Albert DeSalvo. Per anni, DeSalvo fu, peraltro, l’ossessione “proibita” di Brian De Palma (Black Dahlia) che, vanamente, tentò di realizzarne un biopic riguardante i suoi mostruosi delitti brutali e glacialmente efferati. Discretamente accolto dall’intellighenzia critica statunitense, riscuotendo infatti un buon ma non del tutto lusinghiero responso sul sito aggregatore metacritic.com, esattamente equivalente al 60% di opinioni favorevoli, Lo strangolatore di Boston dura un’ora e cinquantadue minuti e, negli States, è stato vietato ai minori di sedici anni per via d’alcune sue scene altamente perturbanti e raccapriccianti. Sintetizzandovene, fin all’osso, la cronachistica trama, tale pellicola percorre l’iter indagatorio, in merito per l’appunto al serial killer succitato, della coriacea e volitiva, inarrendevole giornalista, realmente esistita, Loretta McLaughlin (un’eccellente Keira Knightley). Colei che, per prima, in un’epoca dominata dal potere maschile, ebbe il coraggio d’addentrarsi all’interno e all’inferno dei meandrici anfratti d’una vicenda tanto oscura quanto aberrante e scabrosa. La McLaughlin, infatti, fu la prima donna e persona, in assoluto, a riuscire pian piano, in virtù della sua ferrea abnegazione infermabile e del suo fiuto infallibile, a collegare tutti gli omicidi avvenuti e commessi da DeSalvo, detto Boston Stangler, svelandone l’identità.

Un lavoro, il suo, arduo, assai rischioso e improbo, ivi romanzatoci da Ruskin e filmicamente espostoci con eleganza e puntiglio impeccabili. Prodotto da Ridley Scott, meravigliosamente fotografato da Ben Kutchins e sostenuto dalla magistrale prova recitativa della Knightley, Lo strangolatore di Boston possiede un buon ritmo incalzante malgrado le sue numerose parentesi al chiuso (perlopiù, infatti, si svolge fra le anguste e impolverate pareti degli uffici), appassionandoci e tenendoci col fiato sospeso dall’inizio alla fine. Le atmosfere cineree e plumbee sono congeniali, trasudano tensione e spettrale senso mortifero e la bravura del cast ne elevano la qualità. Fra un Chris Cooper (Il momento di uccidere, American Beauty) egregio nei panni del sulfureo, duro ma  saggio, caporedattore di Loretta, Carrie Coon in quelli della sua miglior amica, Alessandro Nivola (Wizard of Lies) che incarna, con recitativa sapidità, il detective Conley, Bill Camp (The Night Of, Joker) nell’oramai usuale ruolo del commissario, stavolta di nome McNamara, Morgan Spector in quello del marito amorevole e accondiscendente, paziente di Loretta e, naturalmente, David Dastmalchian, dapprima ripreso solo di spalle, in quello dello strangolatore che, finalmente, viene rivelato in volto soltanto a tre quarti d’ora dalla fine. Ma è solo lui il colpevole degli strangolamenti? Chi sono i suoi due “amici” Daniel Marsh (Ryan Winkles) e George Nassar (Greg Vrotsos)?

Altresì, è assai difettoso e presenta momenti decisamente, se non del tutto soporiferi, perlomeno superflui, perdendosi in alcune futili digressioni poco funzionali alla vicenda raccontataci.

Inoltre, a prescindere dalla sua stupenda nitidezza formale, la trama presenta pochi snodi e segue una monotona linearità alquanto prevedibile, non distinguendosi quindi per spiccata originalità. Ricordando, troppo spesso, sicuramente il film preso a modello ispirativo, ovvero Zodiac di David Fincher, attingendo peraltro, in versione compressa, allo stesso Mindhunter.

di Stefano Falotico

 

 

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, recensione

Michelle Yeoh Everything Everywhere

Ebbene, ivi sganciato da dittatoriali regole editoriali, no, semplicemente stringato e liberissimo di esprimermi a piacimento in merito a questo film “pornografico”, no, strampalato e, a mio avviso, perfino mal congegnato, sebbene inventivamente molto colorato, considerato emerito, invero sopravvalutato in modo abnorme e disumano, apprezzato a dismisura e, prossimamente, da me miniaturizzato, no, soltanto liquidato in fretta e furia, dico per l’appunto la mia in maniera disinteressata.

L’Academy, che gli ha assegnato sette statuette dorate, oscarizzandolo peraltro nelle categorie maggiori, perlomeno fra le principali, è impazzita? No, non credo al suo valore istituzionale e subissare tale pellicola di premi non plus ultra è stato però, di certo, un affronto sconsiderato, oserei dire scandaloso, nei riguardi di film e attori, probabilmente (il dubbio è lecito), in gara, assai più quotati e mirabili.

Il mio tifo sfrenato, nella Notte delle Stelle (poco di Hollywood, stavolta, datesi i risultati finali dal sapore fortemente orientale, orientamento, inoltre, assai in voga degli statunitensi globalizzatisi negli Awards), andò a Colin Farrell de Gli spiriti dell’isola, vistosi rubare l’ambito scettro dal bravo ma troppo truccato, in senso toutcourt, Brendan Fraser. Ingrassato ma non come si vede nel film, pompato dai suoi beniamini dell’ultima ora, ovverosia, paradossalmente, gli stessi che gli crearono meme poco “avvenenti” per storpiarlo malignamente e in modo bullistico, deridendolo illegalmente.

Detto ciò, Everything Everywhere All at Once è una bischerata di proporzioni ciclopiche che, per via della sua accozzaglia d’immagini sparateci a raffica nella nostra retina visiva, accecò la vista di molti suoi ammiratori sfegatati, compresi i votanti degli Oscar che, rimbambiti più del comunque mitico ed immarcescibile, redivivo e vivissimo James Hong, alias David Lo Pan di Grosso guaio a Chinatown, lo incensarono, giustappunto perdendo di vista sé stessi.

Ora, nel “multiverso” della bizzarra carriera caleidoscopica di Hong, il quale qui interpreta la parte del padre, di nome Gong Gong (nel cast non v’è Gong Li, ah ah, però, oh oh), bigotto e rintronato di Evelyn Wang, incarnata da Michelle Yeoh, oltre al suo leggendario villain del succitato capolavoro carpenteriano, prima e dopo quest’ultimo, vi sono, in un excursus filmografico da pelle d’oca, le sue parti come maggiordomo di Evelyn (non la Yeoh dettavi, bensì Faye Dunaway) in Chinatown, Hannibal Chew di Blade Runner, Quan di Tango & Cash, Gung (non Gong) Tu in China Girl di Abel Ferrara e, “soprattutto”, Adam Chance nel grande “masterpiece” del Cinema soft core par excellence, vale a dire il misconosciuto, da voi, non certamente da me, Scandalous Behavior, altresì conosciuto come Singapore Sling. Filmaccio di bassa lega, per molte ex mie seghe, con una Shannon Tweed stratosferica e strafiga come non mai. La quale, a detta dei maliziosi, in tal sudata, no, suddetta pellicola quasi a luci rosse, non simulò affatto una scabrosa, assai spinta scena di sesso col suo vero compagno, cioè Gene Simmons dei Kiss, bensì con un lucky guy figlio di putt… issima, motherfucker che rese cornuto il povero Gene. In this infamous scene, è visibile, se avvisterete bene, per pochi infinitesim(al)i istanti, quelli giusti e tosti, il pene di costui che entra e fa su e giù nella vagina liscissima della vellutatissima Shannon. Ché già il name Shannon te lo fa diventare duro.

Hong, classe ‘29, quindi vicino al “centenario” della sua nascita. La stessa età, pressappoco, del suo Lo Pan che, a quanto pare, voleva ancora usar il pen’ con una ragazza cinese dagli occhi verdi. Lo Pan, un uomo ambiguo dalla carica sessuale eterna alla pari di David Bowie di China Girl, non di Ferrara, bensì del videoclip diretto da David Mallet (da non confondere con David Mamet).

I panni (s)porchi si lavano in famiglia? Lo sa Evelyn/Yeoh, la quale gestisce una lavanderia a gettoni, lei de La tigre e il dragone, ed è sposata a Waymond Wang, ovvero Ke Huy Quan, nientepopodimeno che il bambino cresciutello de I Goonies e d’Indiana Jones e il tempio maledetto. Il quale, quando domenica scorsa vinse l’Oscar, piangendo come un neonato, guardò Steven Spielberg, il grande sconfitto della serata, e gli alluse un non poco stronzo…:  – Vedi, ora sono un uomo, prenditelo in culo, nel tuo film mi trattavi da nerd che, fra un ciak e l’altro, si masturbava sulla tua futura moglie Kate Capshaw.

Trama, secondo IMDb, di questo film della durata di due ore e venti minuti interminabili, scritto dagli stessi suoi directors, Daniel Kwan & Daniel Scheinert:

Un’anziana immigrata cinese viene coinvolta in un’avventura folle, in cui lei sola può salvare il mondo esplorando altri universi che si connettono con le vite che avrebbe potuto condurre.

Perché mai anziana? La Yeoh è del ‘62, un po’ attempata, sì, ma sicuramente più giovane di Jamie Lee Curtis. Onestamente poco più vecchia, essendo nata nell’anno 1958, ah ah. La quale, dopo il Leone d’oro alla Carriera, assegnatole recentemente al Festival di Venezia, viene finalmente or considerata la grande attrice che è sempre stata. Per troppo tempo identificata, ahinoi e purtroppo, solamente come Laurie Strode della saga di Halloween, ovviamente per la regia sempre di Carpenter, e del rispettivo reboot di David Gordon Green

La quale, forse, non sa che un giornalista italiano, nel giorno successivo alla sua vittoria come miglior attrice non protagonista, scrisse che è la figlia di Tony Curtis (fin qui, ok, difficile infatti sbagliare, il cognome si prende “di solito” dal padre) e di Vivien Leigh di Via col vento. Eh già, ah ah, si sa, Michael Myers di Halloween altri non è che una versione aggiornata e, possibilmente, ancora più slasher di Norman Bates/Anthony Perkins (non Hopkins) di Psyc(h)o. Dunque, Janet Leigh/Marion Crane del capolavoro di Alfred Hitchcock di chi è madre? Forse di colei che interpreta la moglie di Arnold Schwarzenegger in True Lies ove si esibisce in uno spogliarello più eccitante della “prostituta” nuda, con le bocce di fuori, di Una poltrona per due?

Everything Everywhere All at Once è strambo, un inconcepibile e indegno videogioco cinematografico davvero nauseante con velleità, addirittura, in certi momenti, da Cinema di Wong Kar-wai? Sì, è così.

È il Cinema della modernità, della nostra società che è impazzita e ha perso ogni senso dell’orientamento e del discernimento. Hollywood, questo, l’ha capito.

Quindi, per farla breve, Hollywood ha visto invece giusto, a differenza di ciò che si dice erroneamente in giro. È stanca di Spielberg, non se l’è sentita di premiare Martin McDonagh (ancora leggermente presuntuoso e a tratti lezioso, nonostante The Banshees of Inisherin sia indubbiamente magnifico). Hollywood è stufa dello stesso mondo che “lei”, la fabbrica dei sogni, ha retoricamente e fasullamente creato e che non ha premiato Ready Player One.

Sa che la colpa è sua. Che consiste nell’aver ingannato il mondo con questa storia edulcorata e buonista secondo cui la Settima Arte deve far sognare, deve consolare, deve intrattenere e commuoverci. Spesso in modo falso e paraculo.

Ne L’infernale Quinlan (vi è anche Janet Leigh, che ve lo dico a fare…), d’altronde, echeggia la lapidaria frase… Avanti, dimmi il mio futuro. Non ne hai più: […] il tuo futuro non esiste più.

Hollywood non ha più Marlene Dietrich, snobbò Ana de Armas as Marilyn Monroe nell’orrendo Blonde di Andrew Dominik, premiò Cate Blanchett nei panni di Katharine Hepburn in The Aviator ma non se la sentì di darle, dopo Blue Jasmine, un altro Oscar per Tár.

Se siete infelici e mosci, noleggiate il film A Woman Scorned con Shannon Tweed e butterete via dei soldi. Anche dello sperma.

James Hong Everything Everywhere All at Once

Perché mai anziana? La Yeoh è del ‘62, un po’ attempata, sì, ma sicuramente più giovane di Jamie Lee Curtis. Onestamente poco più vecchia, essendo nata nell’anno 1958, ah ah. La quale, dopo il Leone d’oro alla Carriera, assegnatole recentemente al Festival di Venezia, viene finalmente or considerata la grande attrice che è sempre stata. Per troppo tempo identificata solamente come Laurie Strode della saga di Halloween, ovviamente per la regia sempre di Carpenter, e del rispettivo reboot di David Gordon Green

La quale, forse, non sa che un giornalista italiano, nel giorno successivo alla sua vittoria come miglior attrice non protagonista, scrisse che è la figlia di Tony Curtis (fin qui, ok, difficile infatti sbagliare, il cognome si prende “di solito” dal padre) e di Vivien Leigh di Via col vento. Eh già, ah ah, si sa, Michael Myers di Halloween altri non è che una versione aggiornata e, possibilmente, ancora più slasher di Norman Bates/Anthony Perkins (non Hopkins) di Psyc(h)o. Dunque, Janet Leigh/Marion Crane del capolavoro di Alfred Hitchcock di chi è madre? Forse di colei che interpreta la moglie di Arnold Schwarzenegger in True Lies e, ivi, si esibisce in uno spogliarello più eccitante della “prostituta” nuda, con le bocce di fuori, di Una poltrona per due?

Everything Everywhere All at Once è strambo, un inconcepibile e indegno videogioco cinematografico davvero nauseante con velleità, addirittura, in certi momenti, da Cinema di Wong Kar-wai? Sì, è così.

È il Cinema della modernità, della nostra società che è impazzita e ha perso ogni senso dell’orientamento e del discernimento. Hollywood, questo, l’ha capito.

Quindi, per farla breve, Hollywood ha visto invece giusto, a differenza di ciò che si dice erroneamente in giro. È stanca di Spielberg, non se l’è sentita di premiare Martin McDonagh (ancora leggermente presuntuoso e a tratti lezioso, nonostante The Banshees of Inisherin sia indubbiamente magnifico). Hollywood è stufa dello stesso mondo che “lei”, la fabbrica dei sogni, ha retoricamente e fasullamente creato e che non ha premiato Ready Player One.

Sa che la colpa è sua. Che consiste nell’aver ingannato il mondo con questa storia edulcorata e buonista secondo cui la Settima Arte deve far sognare, deve consolare, deve intrattenere e commuoverci. Spesso in modo falso e paraculo.

Ne L’infernale Quinlan (vi è anche Janet Leigh, che ve lo dico a fare…), d’altronde, echeggia la lapidaria frase… Avanti, dimmi il mio futuro. Non ne hai più: […] il tuo futuro non esiste più.

Hollywood non ha più Marlene Dietrich, snobbò Ana de Armas as Marilyn Monroe nell’orrendo Blonde di Andrew Dominik, premiò Cate Blanchett nei panni di Katharine Hepburn in The Aviator ma non se la sentì di darle, dopo Blue Jasmine, un altro Oscar per Tár.

Se siete infelici e mosci, noleggiate il film A Woman Scorned con Shannon Tweed e butterete via dei soldi. Anche dello sperma.

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE Jamie Lee Curtis cr: Allyson Riggs/A24

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE
Jamie Lee Curtis
cr: Allyson Riggs/A24

di Stefano Falotico

 

THE WHALE, recensione

Ebbene, oggi finalmente recensiamo il controverso, da alcuni acclamato, da altri invece fortemente e ferocemente stroncato, The Whale, firmato da Darren Aronofsky (The Wrestler, Il cigno nero). Da noi, sinceramente, non molto amato. O forse no, in quanto adorato negli ultimi venti minuti finali in cui, con un colpo d’ala, plana altissimo come un angelo della speranza.Brendan Fraser The Whale

Presentato in Concorso all’ultima edizione del Festival di Venezia, per l’esattezza la 79.a, The Whale è un corposo psicodramma di centodiciassette minuti netti, scandito dal vibrante e commovente one man show d’un redivivo Brendan Fraser che, per tale sua mastodontica interpretazione, ha appena vinto l’Oscar. Il quale, nell’appena trascorsa Notte delle Stelle, agguerritamente contese il suddetto e da lui meritatamente vinto scettro, soprattutto, con gli strenui rivali Austin Butler di Elvis & Colin Farrell de Gli spiriti dell’isola. Coloro che furono i suoi più temibili “nemici” in gara e i più quotati e papabili per la vittoria finale nel “contenzioso”, più che altro, nella competizione e nella categoria di miglior attore protagonista per cui, sebbene assai più defilati nei pronostici, furono presenti anche Bill Nighy e Paul Mescal.

The Whale è una teatrale opera omonima del drammaturgo Samuel D. Hunter che, per l’occasione, ha trasposto per il grande schermo, per la direzione di Aronofsky, giustappunto, il suo stesso opus. Assieme a The Wrestler, The Whale è l’unico film di Aronofsky non scritto da sé stesso. Ed è però, a differenza di The Wrestler, quest’ultimo bello e potente, sebbene retorico e anch’esso melodrammatico e non sempre bilanciato, il film, a nostro avviso, peggiore e più brutto di Aronofsky. Ripetiamo, per tutta la sua lunga durata tranne nel finale che ne ribalta in toto lo scarso valore, dato per assodato. Capovolgendone il giudizio in maniera miracolosa.

Sì, secondo noi, così come meglio esplicheremo più avanti, The Whale è una pellicola oltremisura ricattatoria, “pornografica” e assolutamente irrispettosa del dolore umano, messo capziosamente in scena da Aronofsky al solo scopo d’imbonire gli spettatori, commuovendoli ed estenuandoli con le più subdole ed enfatiche strategie subliminali. Atte, a loro volta, quasi a costringerlo ad emozionarsi falsamente. Aronofsky utilizza biecamente la trappola, ripetiamo, ingannevole e bugiarda del ricatto emotivo, giocando sporco con lo spettatore, instaurandogli e profondendogli artefatta pietas mediante il classico e subdolo processo d’identificazione empatico, in lui furbamente innescato in maniera poco sincera e troppo calcolata. Non v’è nulla di nudo e crudo in The Whale, niente di veramente struggente, se non l’illimitata e scabrosa, questa sì, voglia morbosa di Aronofsky di descriverci tanto minuziosamente quanto ributtantemente, sul piano dell’onestà etica e poco intellettuale, la disgrazia e l’inesorabile disfatta di un uomo sempre più vicino al baratro esistenziale e in avanzante, infermabile stadio psicofisico debilitato e prossimo all’annunciato suicidio imminente.

Trama:

Charlie (Fraser) è un professore universitario oramai reclusosi nella sua claustrofobica abitazione non angusta, però cupa. L’unico contatto con la realtà esterna avviene in maniera virtuale. Ovverosia, Charlie sostiene videoconferenze coi suoi allievi a debita distanza e soltanto in forma telematica. Charlie però non si fa vedere e tiene perennemente spenta, accortamente disattivata, la sua webcam. Non si mostra mai in viso e naturalmente neppure si rivela a figura intera, in quanto profondamente si vergogna di essersi fisicamente lasciato andare considerevolmente, ingrassando a dismisura. L’unica persona che vede quotidianamente e realmente è Liz (Hong Chau), personale infermiera che lo accudisce e puntualmente gli consiglia di recarsi dal cardiologo. Qualcheduno, di tanto in tanto, entra inaspettatamente nella sua vita amorfa e piatta, scombussolandogli saltuariamente l’esistenza sua “inesistente”. Charlie ha perduto oramai ogni sogno o illusione che sia. Tremendamente disilluso e autodistruttivo, nutre però in cuor suo una sola, forse importantissima e salvifica speranza ultima rimastagli.

Cioè coltiva il flebile eppur giammai domo, vitalistico sogno di poter riprendere i rapporti con la sua unica figlia adolescente, Ellie (Sadie Sink, Stranger Things), avuta da Mary (Samantha Morton, Miinority Report, The Libertine). Charlie ebbe poi una relazione omosessuale con un suo ex studente deceduto. La cui morte lo gettò nella depressione più nera e fu la causa principale della sua rovina psicofisica. Intanto, nella sua casa, spesso gravita il giovanissimo Thomas (Ty Simpkins), fervente e accanito missionario della New Life Church che cerca di redimerlo e convertirlo al suo Credo inerente l’imminente, profetizzato ritorno sulla Terra di Cristo. Thomas è davvero chi dice di essere?

Che cosa accadrà? Charlie, in ogni senso, ce la farà o lentamente morirà?

Non ve lo sveleremo, ovviamente.

Ci siamo già sopra espressi, sebbene riduttivamente, sul nostro giudizio in merito a The Whale e, seguentemente, meglio esegeticamente vi diremo. Anzi, sinteticamente ci limiteremo, per dovere di stringatezza necessaria, a non aggiungervi molto di più. In quanto, The Whale ci è apparso mortalmente e moralmente insostenibile, spesso inguardabile e, rimarchiamo ancora, addirittura eticamente repellente. Sino agli ultimi minuti nei quali sorprende e ipnotizza, emozionando veramente.

Perché mai, infatti, dovremmo assistere al progressivo deterioramento di un uomo alla deriva, filmatoci da Aronofsky con insistito e indicibile sciacallaggio sadico e scevro di qualsivoglia sguardo, non solo cinematografico, ivi arido se non assente totalmente, compassionevole e minimamente umano? Oppure, per meglio dire, pietisticamente così umano da risultare, paradossalmente, mostruoso e altamente, imperdonabilmente disumano? Aronofsky riprende, fintamente, la denudataci “vita” di Charlie in modo clinico e freddamente impietoso così come un mero, gelido pornografo filmerebbe insulsamente una scena di sesso senza passione o un briciolo di romanticismo. Con l’unica, grave differenza che, per l’appunto, a un pornografo non si chiede di essere romantico mentre da un regista di Cinema vero e proprio si pretende giustamente che ci proponga, in forma autoriale, un minimo di poetica e di sincero trasporto emotivo.

Cosicché, malgrado alcuni momenti ricattatoriamente toccanti, forse studiatamente creati appositamente con furbizia e cinico mestiere, The Whale non è mai davvero emozionante. Rimanendo, assurdamente, un character study superficiale, perfino psicologicamente dozzinale, immerso in lugubri atmosfere da mortifero kammerspiel inerme. Ma, alla fine, qualcosa succede. Qualcosa di grandioso che lo rende magico e svela le sue carte in maniera portentosa. Forse è troppo tardi o Aronofsky voleva questo?

Fraser sostiene gigantescamente la parte assegnatagli e la sua prova, oltre che vibrante, è sentita e rilevante.

The Whale… Atterrendoci, ripetiamo, per la sua sconsolante piattezza mortificante ed estasiandoci nel prodigioso ed estatico finale ogni certezza nostra ribaltante. Suggestiva fotografia di Matthew Libatique, capace qua e là, malgrado l’ambientazione monotona e grigia, di donarvi guizzi pindarici e luce marmorea…Sadie Sink The Whale

di Stefano Falotico

 

OSCAR 2023, tutti i vincitori!

From Deadline.

Brendan Fraser wins the Oscar for Best Actor for "The Whale" during the Oscars show at the 95th Academy Awards in Hollywood, Los Angeles, California, U.S., March 12, 2023. REUTERS/Carlos Barria

Brendan Fraser wins the Oscar for Best Actor for “The Whale” during the Oscars show at the 95th Academy Awards in Hollywood, Los Angeles, California, U.S., March 12, 2023. REUTERS/Carlos Barria

BEST PICTURE
Everything Everywhere All at Once (A24)
A Hot Dog Hands Production
Daniel Kwan, Daniel Scheinert and Jonathan Wang, Producers

ACTRESS IN A LEADING ROLE
Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once
(A24)

ACTOR IN A LEADING ROLE
Brendan Fraser in The Whale
(A24)

DIRECTING
Daniel Kwan & Daniel Scheinert
Everything Everywhere All at Once (A24)

FILM EDITING
Everything Everywhere All at Once (A24)
Paul Rogers

MUSIC (ORIGINAL SONG)
Naatu Naatu from RRR
(Variance Films/Sarigama Cinemas)
Music by M.M. Keeravaani Lyric by Chandrabose

SOUND
Top Gun: Maverick (Paramount)
Mark Weingarten, James H. Mather, Al Nelson, Chris Burdon and Mark Taylor

WRITING (ADAPTED SCREENPLAY)
Women Talking (Orion Pictures/United Artists Releasing)
Screenplay by Sarah Polley

WRITING (ORIGINAL SCREENPLAY)
Everything Everywhere All at Once (A24)
Written by Daniel Kwan & Daniel Scheinert

VISUAL EFFECTS
Avatar: The Way of Water (Walt Disney)
Joe Letteri, Richard Baneham, Eric Saindon and Daniel Barrett

MUSIC (ORIGINAL SCORE)
All Quiet on the Western Front (Netflix)
Volker Bertelmann

PRODUCTION DESIGN
All Quiet on the Western Front
(Netflix)
Production Design: Christian M. Goldbeck
Set Decoration: Ernestine Hipper

ANIMATED SHORT FILM
The Boy, the Mole, the Fox and the Horse (BBC and Apple Original Films)
A NoneMore and Bad Robot Production
Charlie Mackesy and Matthew Freud

DOCUMENTARY SHORT FILM 
The Elephant Whisperers (Netflix)
A Netflix Documentary/Sikhya Entertainment Production
Kartiki Gonsalves and Guneet Monga

INTERNATIONAL FEATURE FILM
All Quiet on the Western Front (Germany)
A Netflix/Amusement Park Film in co-production with Gunpowder Films in association with Sliding Down Rainbows Entertainment/Anima Pictures Production

COSTUME DESIGN
Black Panther: Wakanda Forever (Walt Disney)
Ruth Carter

MAKEUP AND HAIRSTYLING
The Whale (A24)
Adrien Morot, Judy Chin and Anne Marie Bradley

CINEMATOGRAPHY
All Quiet on the Western Front (Netflix)
James Friend

LIVE ACTION SHORT FILM
An Irish Goodbye (Network Ireland Television)
A Floodlight Pictures Production
Tom Berkeley and Ross White

DOCUMENTARY FEATURE FILM
Navalny (Warner Bros./CNN Films/HBO Max)
A Fishbowl Films/RaeFilm Studios/Cottage M Production
Daniel Roher, Odessa Rae, Diane Becker, Melanie Miller and Shane Boris

ACTRESS IN A SUPPORTING ROLE
Jamie Lee Curtis in Everything Everywhere All at Once
(A24)

ACTOR IN A SUPPORTING ROLE
Ke Huy Quan in Everything Everywhere All at Once
(A24)

ANIMATED FEATURE FILM
Guillermo del Toro’s Pinocchio
(Netflix)
Guillermo del Toro, Mark Gustafson, Gary Ungar and Alex BulkleyLee Curtis Oscar

 

LA STRANEZZA, recensione

Ebbene, oggi recensiremo un bel film italiano, ahinoi, passato abbastanza inosservato, ovvero La stranezza, firmato dal rinomato e valente regista Roberto Andò (Il manoscritto del principe).

Qui, al suo nono e, aggiungiamo, miglior opus senz’ombra di dubbio. In quanto, così come nelle prossime righe enunceremo, brevemente ma esaustivamente disaminandolo, La stranezza ci è parso un film compatto e sorprendentemente anomalo nel desertico e asfittico panorama cinematografico italiano, quest’ultimo incapace purtroppo, se non da tempo immemorabile, perlomeno da molti anni a questa parte, di proporci, salvo rarissime eccezioni, intriganti vicende originali e sapientemente congegnate con acume registico e leggiadra leggerezza. Film opachi, le cui noiose storie, quasi obbligatoriamente e pedantemente, in forma nauseante, si sposano sempre e spesso sterilmente con trame e intrecci melodrammatici e/o soltanto tragici.

La stranezza, pellicola della godibile durata giammai noiosa di 103 minuti, scritta dallo stesso Andò assieme ad Ugo Chiti & Massimo Gaudioso, è un piacevole e sorprendente, positivamente atipico e genialmente anacronistico dramedy che mescola, con brio ed arguzia, segmenti seriosi ad altri più svagati e perfino esilaranti.

Sintetizzandovene al massimo la vicenda narratavi, al fine di non sciuparvene le sorprese e i sensazionali colpi di scena distillatici, eccovene in pochissime righe la sua sinossi:

Il famoso scrittore e celeberrimo drammaturgo Luigi Pirandello (un ottimo Toni Servillo), residente a Roma, trovandosi poi in quel della Sicilia per un momentaneo soggiorno, incappa nella bislacca eppur proficua e inaspettatamente rivelatoria conoscenza di due simpatici, strepitosi attori dilettanti, vale a dire Sebastiano Vella e Onofrio Principato, incarnati dalla coppia formata da Ficarra e Picone, i quali sono alle prese con le prove del loro nuovo spettacolo. Saranno quindi invitati, in forma specialissima, alla prima pirandelliana, giustappunto, di Sei personaggi in cerca d’autore ad opera del futuro, immediato premio Nobel per la Letteratura?

Ne succederanno delle belle, potete scommettervi.

Servillo, ivi non gigioneggiando troppo e rimanendo invece gustosamente misurato e con la sordina, primeggia e al solito stupisce nella sua immedesimazione del nazionale Pirandello storico, non da meno, anzi, sovente a rubargli scena, è la premiata ditta Ficarra/Picone succitata. Cioè, i veri protagonisti di questa strampalata e al contempo sofisticata commedia dolceamara, sottotitolata in molti punti in dialetto per via della stretta parlata vernacolare, capaci di sorprenderci e spiazzarci fra il serio e il faceto, cimentandosi rispettivamente in performance sia divertite che sentite. Al loro fianco, tutta una lodevole galleria d’altri attori altrettanto efficaci, navigati e di richiamo che cesellano, a loro volta, i personaggi da lor interpretati, con pittoresco istrionismo e bravura impeccabile. Fra cui, sono da menzionare Giulia Andò nei panni di Santina, l’apparizione fulminea della fotogenica Donatella Finocchiaro in quelli di Maria Antonietta, la moglie pazza di Pirandello, Renato Carpentieri, Galatea Ranzi, Aurora Quattrocchi, Filippo Luna, Paolo Briguglia, Fausto Russo Alesi, Rosario Lisma, Brando Improta (accreditato come Ildebrando), Tuccio Musumeci e Luigi Lo Cascio. Cammeo della stupenda Tiziana Lodato dell’indimenticato L’uomo delle stelle.

La stranezza, sia chiaro, non è un capolavoro e forse neppure un film indimenticabile ma funziona alla grande e si lascia vedere con estremo piacere, sbagliando pochissimo.

Da citare, inoltre, la perfetta, suggestiva e assai funzionale fotografia del veterano Maurizio Calvesi che, con questo lavoro, ha firmato il suo film numero centouno in veste di cinematographer di pregio.

Ragioni plausibili per non vederlo, in effetti, non esistono ma comprendiamo che le lunghe parti in dialetto potrebbero renderne la visione ostica.Stranezza film ficarra picone servillo

di Stefano Falotico

 

UN UOMO SOPRA LA LEGGE (The Marksman), recensione

Ebbene, oggi per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, non ci spingeremo molto in là, a ritroso cioè nel tempo, parlandovi infatti d’un film non malvagio, uscito nei cinema soltanto due anni or sono, ovvero The Marskman. Questo il suo titolo originale, da noi divenuto Un uomo sopra la legge.Neeson Winnick marksman Marksman LiamNeeson

Diretto da Robert Lorenz, per più d’una decade, l’ex direttore della fotografia di Clint Eastwood (suoi i lavori, per esempio, in Mystic River & Gran Torino), col quale lavorò, con Clint in veste però attoriale, per il suo esordio registico dietro la macchina da presa, ovverosia Di nuovo in gioco.

Qui, Lorenz, al suo secondo opus dopo quello appena succitato, si trova alle prese, sotto la sua direzione, con un altro pezzo da novanta dello star system hollywoodiano, ovvero nientepopodimeno che il coriaceo, sempre prestante e sempiterno, immarcescibile ed eccellente, britannico Liam Neeson (La preda perfetta). Il quale, in tale Un uomo sopra la legge, film action con crepuscolari tonalità thrilling della consistente ma avvincente durata corposa di 108 minuti netti, scritto dallo stesso Lorenz assieme alla premiata ditta formata da Chris Charles & Danny Kravitz, incarna il personaggio di nome Jim Hanson. Ex cecchino mirabile e infallibile, in passato appartenente al corpo dei marines, ritiratosi a vita privata nel suo ranch solitario situato vicino alla linea di confine demarcante il Messico dall’Arziona. Jim, or allevatore, disilluso e affranto per la recente perdita della moglie, rischia perfino di essere sfrattato. Così, per smaltire le disillusioni esistenziali, si dà sconsolatamente al bere ma, vivaddio, viene sempre tirato su di morale dall’affettuosa e bellissima sua figlia (la magnetica Katheryn Winnick). Sino a che, un bel giorno, incappa, per fortuite circostanze del fato, in un avvenimento che gli cambierà la vita. Si troverà, giocoforza, costretto ad aiutare un bambino, Miguel (Jacob Perez), che sta sfuggendo a dei pericolosi narcotrafficanti. Divenendone il protettore e il vendicatore…

Ottima fotografia suggestiva di Mark Patten ed efficaci musiche d’atmosfera di Sean Callery, recitazione rocciosa e sentita dell’impeccabile e perfetto Neeson per un film d’azione perlopiù ambientato in ore diurne altamente solari e torride, mescolate poi a sapide riprese notturne diluite fra rosseggianti tramonti dell’imbrunire più dolcemente melanconico, Un uomo sopra la legge è un film dalla trama e dall’andamento narrativo piuttosto convenzionali, non proponendoci niente di trascendentale o memorabile. Come si suol dire, giocando di parole, non v’è nulla di nuovo sotto il sole. Eppur regge la tensione delle sue 2h circa in virtù del suo forte ritmo e di grintose scene ad alto tasso di pura adrenalina furente.

Spesso sbanda e, a tratti, risulta noioso. Ma, sostanzialmente, funziona.

Paragonabile, per certi versi e involontarie analogie, a Cry Macho di Clint Eastwood, in quanto distribuiti quasi in contemporanea, fra i suoi pregi maggiori, ribadiamo, un Neeson laconico ma espressivo come pochi, e nitide immagini ritmate e ben fotografate. Il suo difetto più evidente, purtroppo, consiste nel poco empatico Jacob Perez.

Nel cast, Juan Pablo Raba e Teresa Ruiz.

Neeson The Marksman Winnick Marksman

di Stefano Falotico

 

HONEST THIEF, recensione

Ebbene, oggi per il nostro consueto e regolare appuntamento coi Racconti di Cinema, disamineremo un film recentissimo, non certamente eccelso eppur al contempo assai interessante, a nostro avviso passato leggermente inosservato, ovvero Honest Thief, il cui titolo originale è identico e, per l’appunto, per la distribuzione italiana, avvenuta tramite Notorious Pictures, rimasto immutato.Honest Thief poster Neeson

Honest Thief, uscito nei cinema soltanto tre anni or sono, ovverosia nel 2020, è un decoroso e spericolato thriller poliziesco, ripieno di suspense, della breve ma adrenalinica e scoppiettante durata netta di novantanove minuti, diretto con robusto mestiere dal misconosciuto ma valente Mark Williams che ne scrisse la sceneggiatura originale assieme allo screenwriter Steve Allrich.

Eccone, sinteticamente, la trama:

Tom Dolan (Liam Neeson) è un ladro tanto infallibile quanto dal cuore tenero. Un gaglioffo dall’anima pura che, per le avverse circostanze del caso e della necessità, svaligiò molte banche, accumulando in totale, tra un furto e l’altro, l’ingente somma di nove milioni di dollari.

Nell’incipit di quest’opus convenzionale ma rocambolesco, perfettamente allineato agli stilemi consueti del Cinema più hollywoodiano di genere, assistiamo al primo incontro fatale tra Tom e la sua futura compagna, l’avvenente e simpatica Annie (Kate Walsh). Al che, Tom, innamoratosene perdutamente, oramai braccato e da tempo immemorabile ricercato dall’FBI, finalmente e segretamente decide di cambiare vita, costituendosi alla giustizia, confessando i suoi crimini nella speranza che, così facendo, cioè restituendo il maltolto a chi dovere, potrà ricevere un’incarcerazione umanamente accettabile e una condanna minima in modo tale da potersi quanto prima ricongiungere con la sua amatissima Annie. Qualcosa, però, forse non andrà secondo il suo studiato e meticoloso piano e un agente corrotto di nome John Nivens (Jai Courtney), indebitamente, s’approprierà della sua refurtiva, tradendo gli accordi e cacciando Tom in una situazione altamente rischiosa e compromettente.

Imprevedibile, dal ritmo rutilante e spiazzante, impostato su un canovaccio manicheo abbastanza scontato eppur non del tutto banale, Honest Thief appassiona dal primo all’ultimo minuto e sia diverte e stupisce che avvince per via della sua trama bislacca spesso ai limiti dell’inverosimile, miscelataci e distillata però con brio, arguzia narrativa e speditezza gustosissima.

Honest Thief parte come una commedia rosa, perfino sdolcinata e mielosamente romantica, per poi accelerare in una pochade peculiare, a tratti esilarante, divampando all’improvviso nel carburar turbinosamente in un esplosivo action che mischia frenetiche scene d’inseguimento automobilistiche a colpi di scena nient’affatto, come si suol dire, telefonati.

Sorretto dalla rocciosa interpretazione del sempre carismatico Neeson, illuminato dalla bellezza atipica ma fascinosa della brava Walsh, ben fotografato da Shelly Johnson (Wolfman), Honest Thief non è, ribadiamo, nulla di che ma si lascia guardare che è un piacere ed è molto scorrevole, ottimamente ritmato, orchestrato e ingegnosamente filmato.

 Nel cast, Jeffrey Donovan (Changeling), Anthony Ramos & Robert Patrick (Cop Land, Terminator 2).Kate Walsh Liam Neeson Courtney Honest Thief Neeson honestthiefKate Walsh Honest Thief

di Stefano Falotico

 

BUSSANO ALLA PORTA (Knock at the Cabin), recensione

Ebbene, essendo in tal sede, stavolta, sganciato da vincoli editoriali, posso scrivere di questo film in totale libertà senz’attenermi dunque a esigenze standard in chiave SEO. Anche se debbo confessarvi la verità, cari invidiosi e maligni, solitamente mi attengo sol a me stesso, recensendo secondo il mio unico stile peculiare. Apprezzato o ingiuriato, ridondante e/o eccessivo, odiato che sia, mal oliato, illeggibile o piacevole da leggere, non è la mia una scrittura leggera. Ah ah.

Andiamo avanti!Knock at the Cabin poster

Finalmente, a scoppio ritardato, come si suol dire, essendo io peraltro un conclamato ritardat(ari)o, appunto, no, scusate, forse semplicemente uno poco inizialmente interessato a tal film di M. Night Shyamalan, vidi tale suo nuovo opus. Da molti osannato, incensato, glorificato, forse sopravvalutato e fin troppo ingiustificatamente magnificato. Eh già, oltremodo. Poiché, a conti fatti, mi ha deluso, perlomeno parzialmente. Sì, è “carino”, si lascia vedere volentieri ma sostanzialmente non è un granché, eh eh. Shyamalan ha fatto decisamente (di) meglio anche se, in buona fede, credo nell’Altissimo? No, penso fermamente che non realizzerà mai un capolavoro in quanto, pur riconoscendogli di essere resuscitato da cineasta redivivo dopo essersi, professionalmente, seppellito vivo, in seguito ad alcuni suoi kolossal mal riusciti e conseguenti sonori flop colossali, sono convinto che il suo Cinema non ascenderà mai in paradiso e non andrà al di là… d’una certa mediocrità. Perdonatemi affinché possa io ricevere la salvazione eterna, no, padrone dell’universo, Padreterno, no, pardon, mi spiego meglio affinché possiate concedermi una cristiana, miei poveri cristi, assoluzione, voi, fedelissimi, sì, aficionados inossidabili del regista di E venne il giorno per cui reputate Shyamalan un dio.

Ora, a parte gli scherzi (da prete?), tal Knock at the Cabin (questo il suo titolo originale), sceneggiato, come consuetudine, dallo stesso Shyamalan, stavolta assieme a Steve Desmond & Michael Sherman, è il libero adattamento del romanzo di Paul G. Tremblay, intitolato The Cabin at the End of the World e da noi edito col “title”, eh eh, La casa alla fine del mondo.

Per quanto concerne la trama cinematografica, beccatevi questo link da Wikipedia e, dato, ripeto, che ivi non debbo usare parole mie, leggetevela, se volete, in tutta la sua interezza. Se incorrerete in qualche spoiler, altresì sappiate che possedete il libero arbitrio. Dunque, non accusatemi di essere Satana se ciò qui vi dico… il personaggio di Jonathan Groff, alla fine, si suicida:

https://it.wikipedia.org/wiki/Bussano_alla_porta

D’altronde, Keyser Söze, alias Kevin Spacey de I soliti sospetti, è il diavolo e io non sono un santo, ah ah.

Mentre Shyamalan la dovrebbe finire di realizzare film col climaxtwist finale da paraculo che, spacciandosi per geniale, sceglie, così facendo, paradossalmente le strade più scontate e (b)anali.

Dave Bautista sorprende ma so da tempo immemorabile che era bravo. A differenza di voi, miscredenti e come San Tommaso. Groff è altrettanto ottimo e, parimenti a quanto appena sopra dettovi, anche questo sapevo dopo averlo visto in Mindhunter. Stesso discorso dicasi per Eric Bana. Ah no, perdonatemi ancora. Volevo dire e scrivere Ben Aldridge, cioè il fratello zotico, no, Falotico, no, monozigotico, omozigoto, di Ettore in Troy. Non capisco però perché Bana e Aldridge non portino lo stesso cognome. Ah, ora capisco. Il primo, cioè Eric, è muscoloso come Brad Pitt/Achilles (latinizzato e in english) mentre il secondo ha, come “figo”, no, figurativamente parlando, più talloni di Achille. Essendo fisicamente un po’ meno dotato. Comunque, la formula di Shyamalan è sempre la stessa e la CGI degli aerei che si schiantano al suolo, purtroppo, pessima. Ma sorvoliamo…

La migliore del cast è la bimba Kristen Cui. Nikki Amuka-Bird assomiglia alla pallavolista, dapprima ritiratasi e ora ritornata anche in Nazionale, Paola Egonu, mentre Rupert Grint è antipatico e non ha molta recitativa grinta.

(from left) Andrew (Ben Aldridge), Wen (Kristen Cui), Eric (Jonathan Groff) and Leonard (Dave Bautista) in Knock at the Cabin, directed by M. Night Shyamalan.

(from left) Andrew (Ben Aldridge), Wen (Kristen Cui), Eric (Jonathan Groff) and Leonard (Dave Bautista) in Knock at the Cabin, directed by M. Night Shyamalan.

di Stefano Falotico

 

LA PROMESSA (The Pledge), recensione

Ebbene, oggi disamineremo il bellissimo ed inquietante La promessa (The Pledge).La promessa posterThe Pledge Nicholson Nicholson La promessa

La promessa, pellicola del 2001, della consistente ma avvincente durata di due ore e quattro minuti netti, opus n. 3 (perlomeno in termini prettamente inerenti un lungometraggio per il grande schermo) di Sean Penn regista (Una vita in fuga), dopo il magnifico Lupo solitario e l’altrettanto notevole, sebbene assai sottovalutato ai tempi della sua uscita, Tre giorni per la verità. Tale film da noi preso in questione, liberamente adattato da Jerzy & Mary Olson-Kromolowski a partire dal celeberrimo romanzo omonimo di Friedrich Dürrenmatt, vede come protagonista principale uno strepitoso Jack Nicholson, qui alla sua seconda prova attoriale, dopo il succitato e appena sopra menzionatovi film, per la direzione del suo amico Penn. La promessa rimane, a tutt’oggi, a nostro avviso, la migliore opera in assoluto nel cineastico carnet filmografico del discontinuo e altalenante, eppur sempre interessante, Penn in veste di regista. Non siamo, peraltro, i soli a reputarlo il film più riuscito di Penn director. Infatti, è pressoché parere unanime, avvalorato inoltre dall’ottima media lusinghiera attestata dal sito aggregatore di opinioni recensorie, metacritic.com, equivalente al più che soddisfacente 71% di pareri positivi, a pensarla in questo modo.

Trama, brevemente enunciatavi per non sciuparvi le sorprese se siete fra coloro che non hanno mai visto questo film:

Il coriaceo e arrugginito, invecchiato e stanco, eppur al contempo ancora lucido e molto intuitivo poliziotto Jack Black (Nicholson), in quel delle aspre e brulle montagne nevose del Nevada, sta indagando in merito a un misterioso, brutale assassino di una bambina. Dapprima, la polizia del luogo sospetta di Toby Jay Wadenah (Benicio Del Toro), pellerossa menomato che, colto dal panico, accerchiato psicologicamente dai duri e inquisitivi interrogatori impietosi degli sbirri, finisce con l’autoaccusarsi, poi tragicamente suicidandosi. Jack fu l’unico dei poliziotti a pensare, fin dapprincipio, che Toby non fosse il responsabile del barbaro massacro compiuto ai danni della povera infante. Ma non fu ascoltato dai suoi colleghi, innanzitutto dal suo capo. Convinto che l’omicida vero, probabilmente seriale, sia ancora a piede libero, sicuro che il mostro colpirà ancora terribilmente, forse immantinente, se ne mette sulle tracce. Girovagando col suo fuoristrada e giungendo a un’amena località ove conosce la barista Lori (Robin Wright, all’epoca moglie di Penn), avvenente e matura, sebbene molto più giovane di lui e con una figlia pressoché della stessa età della bimba uccisa sopra dettavi. Jack e Lori s’innamorano l’uno dell’altro. Jack, ripetiamo, fidandosi del suo fiuto, a suo avviso infallibile, agendo cocciutamente di testa propria, forse userà però la figlia di Lori a mo’ di esca per acchiappare il serial killer che, secondo lui, indisturbato e impunito, s’aggira da quelle parti. Come andrà a finire, in maniera terribile e scioccante? Il killer sarà catturato oppure accadrà qualcosa d’agghiacciante e nefasto? Qualcosa andrà storto e qualcuno andrà incontro, irreversibilmente, al più totale impazzimento devastante per colpa d’una mossa tanto rischiosa e coraggiosa quanto letale?

Teso, perturbante, un indimenticabile pugno allo stomaco, raschiante, metaforicamente, le nostre viscere emotive più profonde in maniera lancinante e struggente, La promessa è feroce e stupendo, la sua macabra e allo stesso tempo romantica vicenda cupa ci appassiona e tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto, immergendoci fra le nere spirali d’una detection abissale, specialmente sul versante puramente angosciante. Penn dirige con rara sobrietà, perdendosi soltanto, qua e là, in svolazzi registici troppo melodrammatici e caricati d’eccessiva enfasi non sempre ben bilanciata.

Cast straordinario ove, se il titano Nicholson giganteggia da par suo, non da meno gli sono gli altri numerosi interpreti che vanno da Patricia Clarkson ad Aaron Eckhart e Tom Noonan, da Helen Mirren a Dale Dickey (Wash Me in the River), dal memorabile e commovente cammeo di Mickey Rourke a Sam Shepard, dal compianto Harry Dean Stanton a Vanessa Redgrave.

Fotografia impeccabile di Chris Menges e belle musiche di Klaus Badelt & Hans Zimmer.

THE PLEDGE, Benicio Del Toro, 2001. ©Warner Brothers

THE PLEDGE, Benicio Del Toro, 2001. ©Warner Brothers

Rourke The Pledge NicholsonThePledge Robin Wright The Pledge

di Stefano Falotico

 
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