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THE ASSASSINATION, recensione

The Assassination TheAssassinationSeanPenn

Ebbene oggi, per i nostri Racconti di Cinema, vi parleremo di una perla, ahinoi, dai più dimenticata, ovvero il bellissimo e sottovalutato The Assassination (The Assassination of Richard Nixon).

The Assassination, opus egregia, presentata al 57° Festival di Cannes nella pregiata sezione collaterale, fuori Concorso quindi, Un Certain Regard.

Opera indipendente del 2004, diretta da Niels Mueller. Regista classe ‘61 che esordì, per un lungometraggio, con questo suo The Assassination, avvalendosi peraltro sorprendentemente delle presenze di due nomi hollywoodiani d’altissima rilevanza, Sean Penn & Naomi Watts, cioè due attori altisonanti e conosciuti giustamente a livello internazionale. Ma il fatto scioccante è il seguente enunciatovi. Malgrado l’ottimo successo di critica ricevuto per questa sua pellicola che, a tutt’oggi, su metacritic.com, può vantare una lusinghiera media recensoria del più che soddisfacente 63% di opinioni largamente favorevoli, Mueller è praticamente scomparso. Anzi, per meglio dire, da allora in poi, ha diretto soltanto un cortometraggio intitolato Wasser lassen e un film pressoché sconosciuto e mai arrivato in Italia, ovvero il quasi ignoto Small Town Wisconsin.

Incredibile e alquanto assurdo, inspiegabile, non credete? Ora, per dovere di cronaca e giustezza argomentativa, dobbiamo anche chiarire un aspetto importante. All’epoca, l’unico attore veramente famoso e già conclamato globalmente era solamente Sean Penn. Naomi Watts, infatti, adesso celeberrima, stava soltanto in quegli anni salendo di carriera e scalando, sebbene assai repentinamente e a passi giganteschi, la montagna attoriale del successo qualitativo e al contempo divistico, per agguantarne la vetta odierna oramai incontestabile e inscalfibile. Come tutti noi sappiamo, il film che la impose veramente all’attenzione del grande pubblico fu Mulholland Drive del 2002.  Annus per lei mirabilis. Mulholland Drive, uno dei grandi capolavori amatissimi di David Lynch, A cui, nel giro per l’appunto d’una manciata d’anni imprendibili, potremmo dire persino per lei fenomenali, seguirono immediatamente due altri film imprescindibili che la consacrarono e per cui ascese vertiginosamente nell’empireo delle dive statunitensi più ricercate del nuovo millennio, cioè The Ring di Gore Verbinski (remake notevole e a stelle e strisce del cult movie di Hideo Nakata) e 21 grammi di Alejandro González Iñárritu sempre con Sean Penn più l’aggiunta di Benicio Del Toro.

Successivamente, Penn & la Watts avrebbero girato l’interessante Fair Game – Caccia alla spia di Doug Liman.

Ma ora torniamo a The Assassination. Da non confondere con l’omonimo (tranne per l’assente articolo determinativo) film con Charles Bronson del 1987. Film quest’ultimo che, negli anni novanta, veniva spesso proposto sulle reti Mediaset, pubblicizzato a non finire in un insensato modo che, col senno di poi, c’appare onestamente irrazionale e giustificabile solo a livello di logiche promozionali legate probabilmente ad accordi commerciali. In quanto, tale succitato film con Bronson è strepitosamente osceno, trash e francamente inguardabile.

A differenza, giustappunto, del film invece da noi qui preso in questione ed analisi.

Come detto, estremamente affascinante per non dire stupendo, altresì non poco inquietante. Malgrado a molti, ai tempi della sua uscita, suscitò non poco fastidio. Un film quindi scabroso e controverso.

Questa la trama di The Assassination. Da noi sintetizzata per brevità logistica e soprattutto per non sciuparvi, d’ingiusti e ingiustificati spoiler superflui e non necessari, le grandi sorprese riservateci durante la sua durata (di novantacinque minuti al cardiopalma e molto emotivamente compatti, coinvolgenti sin allo spasmo) se, eventualmente, questo film non avete ancora mai visto…Naomi Watts Sean Penn Assassination

Siamo negli States, nell’anno 1974. Samuel J. Bicke (uno Sean Penn sbalorditivo) è un uomo d’affari molto indaffarato soprattutto coi suoi casini esistenziali. E allora si dà tragicamente all’esistenzialismo? No, ha da poco divorziato con la moglie Marie Andersen (Naomi Watts), ha recentemente perso il suo lavoro ma ne rimedia altri, uno dietro l’altro, peraltro. Ma non riesce a mantenerne uno che sia uno. Anzi, per correttezza, qui dobbiamo necessariamente porvi una rivelazione. Un lavoro, del quale inizialmente pare vantarsi, più che altro per nascondere le sue insicurezze, Bicke ce l’ha. Ovvero quello del venditore ambulante, assunto da un ricco imprenditore che crede in lui ma… Sempre più travolto dal precipitare della sua situazione, giustappunto, stavolta, sì, esistenziale, non in senso filosofico, bensì prettamente riguardante la sua pericolante esistenza e vita allarmante in caduta libera e totalmente alla deriva, decide di optare, di extrema ratio funesta, per una decisione drastica, anzi omicida e metaforicamente suicida. Vale a dire ammazzare il presidente degli Stati Uniti allora in carica, ovvero Richard Nixon? Forse…

Poiché anche il suo ultimo sogno rimastogli, del tutto utopico, cioè mettere su un’attività col suo amico, il meccanico Bonny (Don Cheadle), va decisamente a farsi fottere. Tutto, nella vita di Bicke, sta andando in malora, cosicché progressivamente ed esponenzialmente cresce a dismisura, incontenibilmente e gravemente, il suo malumore in forma direttamente proporzionale al suo precario… stato mentale assai labile.

Scritto da Kevin Kennedy assieme allo stesso Mueller, The Assassination, prodotto da nientepopodimeno che Leonardo DiCaprio, Alexander Payne, Alfonso Cuarón e dal suo stesso direttore della fotografia, il tre volte premio Oscar Emmanuel Lubezki (Gravity), è un dramma molto intenso che si rifà apertamente a Taxi Driver (Bicke al posto di Bickle/De Niro), emulando, talvolta in modo artefatto, ciò va ammesso, le atmosfere di paranoia di quegli anni tesi pre-Watergate. Però riuscendo a perturbarci non poco per via della sentita prova d’uno Sean Penn ispirato come non mai e in virtù del suo impianto intellettualmente onesto. Ché ci presenta una storia fatalmente scioccante in modo partecipe e al contempo freddamente distaccato. Così come il mondo americano qui descrittoci, indifferente e insensibile dinanzi al prossimo suo. Che sia un ex marito o un amico che forse non era neppure così irrinunciabile. Tutto scorre, le paranoie del personaggio di Penn aumentano mentre il cinico e abietto mondo procede come se nulla fosse… stato. Perché, in fondo, questa è la morale del film, il sistema è marcio e malato ma sei fuori dai giochi se non accetti la mostruosa e tristissima regola di base per cui le regole della partita della vita devi accettarle sin dapprincipio, altrimenti prima o poi sarai spacciato e per sempre finito, oltre che dimenticato o eternamente condannato a un’orribile, sbagliata e distorsiva, brutta nomea appiccicatati e sparsa sulla bocca degli altri, a loro volta perfetti sconosciuti e anonimi, rassegnati passeggeri del viaggio ineluttabile…

Forse, sarai solo ricordato per essere stato tu stesso un mostro, cioè un uomo fin troppo normale, trasformatosi e poi crollato miseramente dinanzi alla crudeltà dei rapporti interpersonali e della verità d’un sistema che è indubbiamente sporco e corrotto ma quasi a tutti va bene così com’è e a cui, volenti o nolenti, soggiacciono, tacendo e addirittura lasciandoselo piacere passivamente. In quanto, ripetiamo, ribellarsi singolarmente serve soltanto ad avviarsi verso la morte più angosciante e terribile. A nessuno, infatti, importa se fosti un uomo giusto, fosti solo uno che non c’è più. Amen.

Nella piccolissima ma centrale parte del fratello Julius di Bicke/Penn, Michael Wincott (Il corvoDisastro a Hollywood).

Wikipedia sbaglia, sostiene che il nome del personaggio incarnato da Penn si chiami Byck e non Bicke.

Invero, trattasi di errore veniale. Difatti, il film s’ispira al realmente esistito Samuel Byck, qui “romanzato” e mutuato in Bicke.

Assassination Penn

di Stefano Falotico

 

UNA VITA IN FUGA (Flag Day), recensione

Flag Day

Ebbene, oggi recensiamo Una vita in fuga, il cui titolo originale è Flag Day. Presentato in Concorso (e subissato, perlopiù, da fischi e sommerso da critiche abbastanza impietose) al Festival di Cannes dell’anno passato, Una vita in fuga rappresenta la sesta opera registica di Sean Penn (Lupo solitario). Perdonateci se, in tale, diciamo, enumerazione, trascuriamo il suo episodio, intitolato USA, del film 11 Settembre 2001. Non perché non sia bello, anzi, ma non è un lungometraggio. Come sopra inseritovi fra parentesi, Una vita in fuga non ricevette una buona accoglienza presso l’intellighenzia presente alla kermesse cannense, riscuotendo però, altresì, opinioni migliori rispetto a Il tuo ultimo sguardo. Quest’ultima, opus con Javier Bardem & Charlize Theron, sempre firmata da Penn e passata a Cannes, completamente massacrata, all’epoca della sua release, da recensioni cattivissime e severe oltre ogni dire. Una vita in fuga, pellicola della durata di un’ora e quarantanove minuti, visionabile nei nostri cinema a partire dal 31 Marzo scorso, tramite la distribuzione della Lucky Red, ha ottenuto critiche, come dettovi, non propriamente lusinghiere eppur non del tutto così crudeli, a differenza di quanto avvenuto, per l’appunto, con Il tuo ultimo sguardo. Per esempio, sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, attualmente riscontra la “votazione”, di certo non eccelsa eppur al contempo neppur così insoddisfacente, del 53%. E, infatti, a ben vedere e così come v’illustreremo brevemente in tale nostra stringata eppur speriamo esaustiva disamina, Una vita in fuga non è affatto disdicevole, malgrado sia ben lungi dal potersi definire un grande film. Tratto, con alcune licenze, dal libro di memorie di Jennifer Vogel, Flim-Flam Man: The True Story Of My Father’s Counterfeit Life, è sceneggiato da Jez Butterworth e John-Henry Butterworth.

Trama, sintetizzata al massimo…

Assistiamo al saliscendi emotivo e al rapporto conflittuale fra un padre sbandato, un uomo gaglioffo e falsario criminale un po’ da strapazzo e involontariamente molto simpatico di nome John Vogel (Sean Penn), e sua figlia, la sensibile e fragile Jennifer (Dylan Penn) durante un vasto e movimentato arco temporale che va dalla metà degli anni settanta sin all’anno ‘92. John, per via del suo “lavoro” particolare, si separò dalla madre di Jennifer quando Jennifer era ancora una bambina. Abbandonandola spesso sola a sé stessa. John è ancora inseguito dall’FBI… riuscirà a rimanere libero e soprattutto a riconquistare l’affetto perduto, perlomeno altalenante, di Jennifer?

Molto romantico, improntato su uno stile malickiano abbastanza evidente e soventemente nauseante, privo di compattezza e d’organica coerenza nel descriverci, troppo sentimentalmente e con frequenti cadute nel patetico più grottesco, Una vita in fuga, pur risultando un’opera peraltro retorica oltre il limite della sopportazione umana, si lascia però vedere, perfino adorare a tratti. In quanto, malgrado il suo impianto melodrammatico troppo forzato e, ripetiamo, non poche volte sdolcinato e ruffiano, paradossalmente vive di lirici momenti autentici. Ove il miglior Sean Penn regista che fu, cioè quello rabbiosamente vero delle sue primissime opere dietro la macchina da presa, salta fuori e sa emozionarci, distillandoci pezzi pregiati, visivamente e visceralmente potenti.

Dylan Penn, sua figlia, qui al suo esordio assoluto, se la cava discretamente, ben guidata dalla mano del padre ma, più che per la sua recitazione, comunque sia comprensibilmente acerba e molto incerta, c’appare bellissima, leggiadra e incantevolmente deliziosa, in virtù dei suoi limpidi occhi magnetici veramente emananti lieve sensualità venerabile, addirittura eroticamente seducenti in modo allusivamente carezzevole…

Eddie Vedder in colonna sonora e fotografia di Daniel Moder.

Nel cast, Josh Brolin, Norbert Leo Butz, Dale Dickey, Katheryn Winnick, Regina King, James Russo e non dimentichiamo Hopper Penn. Sia Dylan Penn che Hopper sono figli, ovviamente, di Sean Penn e della sua ex, Robin Wright.

Dunque: a leggere molte critiche dei soliti incompetenti e prevenuti, mi avevate fatto passar la voglia di guardare e amare questo film. Un film vero, coraggioso, bello. Nonostante la retorica abbondi e si sconfini, spesso, nel patetico più programmaticamente melanconico.

di Stefano Falotico

 

PERICOLO in AGGUATO, recensione

Someone_s_watching_me

Ebbene oggi, per i nostri Racconti di Cinema, vi parleremo di un film di cui quasi nessuno parlò, parla ed è addirittura a conoscenza, ovvero il misconosciuto ma bellissimo, osiamo dire strepitoso e avanguardistico Pericolo in agguato (Sometone’s Watching Me!), firmato da nientepopodimeno che John Carpenter (Il signore del male, Il seme della follia).

Eh già, avete letto bene, non stiamo scherzando. Pericolo in agguato, film, ripetiamo, da quasi nessuno conosciuto ma, perdonateci il gioco di parole voluto, altresì conosciuto a livello dizionaristico col titolo Procedura ossessiva, opus carpenteriana dell’anno 1978, essendo stata una delle prime pellicole, giustappunto, d’un Carpenter giovanissimo, soprattutto, essendo passata per molto tempo soltanto in televisione ed essendo a sua volta un tv movie, fra l’altro, sino al 2007, non reperibile in home video, tantomeno distribuito ovviamente in dvd, è stata considerata un’opera quasi inesistente. Paradossale, nevvero? Specialmente se teniamo conto che Pericolo in agguato porta la firma d’uno dei massimi maestri del Cinema contemporaneo al quale l’autore di tale recensione e seguente disamina dedicò un piccolo ma importante saggio monografico assai sofisticato e perlaceo.

Sceneggiato dallo stesso Carpenter, Pericolo in agguato dura novantasette minuti circa ed è attualmente visionabile in streaming su alcune piattaforme che circolano in rete. Ed è questo al momento, ahinoi, l’unico modo possibile, per l’appunto, per poterlo vedere? Fortunatamente, no. In quanto, come sopra poc’anzi dettovi, non esisteva, fino a poco tempo fa, la sua versione in dvd ma ora, invece, sì. Esattamente dal 2010, anno in cui uscì in dvd (il Blu-ray, però, non c’è) per l’etichetta Cult Media. Sorretto da un’interpretazione sontuosa, maestosa e molto sentita d’una torreggiante, svettante Lauren Hutton sempre affascinante, eccone brevemente la trama, estrapolatavi in tal caso dal pertinente e preciso dizionario Morandini che, in tempi non sospetti, già lo menzionò saggiamente e giustamente nel suo imprescindibile, checché se ne dica, tomo rilevante ed esaustivamente piuttosto completo, malgrado alcune umanissime, inevitabili pecche e dimenticanze comprensibili (non) contenute al suo interno.

Una regista televisiva s’improvvisa detective quando la polizia si rivela impotente nel proteggerla da un ignoto persecutore. Alto tasso di rischio. 1° film per la TV di J. Carpenter. Pur costretto dalla committenza a mettere la sordina al proprio estro visionario, Carpenter è riuscito a fare un dramma claustrofobico di infallibile suspense e di sapiente uso dello spazio, ispirato a Finestra sul cortile (1954) di Hitchcock e citazioni di M. Powell e S. Leone. Edizione italiana tagliata di alcuni minuti.

Teso, adrenalinico, mozzafiato, ispirato al succitato Alfred Hitchcock e ad altre pellicole del passato dalla simile tematica, Pericolo in agguato, pur non inventando nulla ed essendo quindi un’opera debitrice e derivativa, come appena scrittovi, figlia d’antecedenti pellicole profeticamente anticipatrici del “fenomeno” stalking, è straordinariamente interessante per molteplici ragioni e mille motivi anche meta-cinematografici addirittura lungimiranti. Innanzitutto, il film è uscito nello stesso anno di un caposaldo immarcescibile di Carpenter, cioè Halloween – La notte delle streghe. Quest’ultimo, come ben sappiamo, incentrato su un maniaco celeberrimo di nome Michael Myers che, in tale film e nella saga a venire, nei relativi sequel apocrifi e nel reboot con tanto di seguito, a sua volta, e prossimo terzo capitolo per la regia di David Gordon Green, questi, sì, patrocinati da Carpenter stesso, perseguitò la povera Laurie/Jamie Lee Curtis. Ora, Halloween è un horror slasher sanguinario e violento ma anche, a suo modo, un agghiacciante thriller tagliente che, semplicisticamente e per ovvie ragioni di sintesi descrittiva ed esegetica allineata allo spazio a sua volta logisticamente sbrigativo concessosi da un post, potremmo anche inquadrare nell’ottica d’un giallo sui generis, inserendolo nel (sotto)genere del sempreverde e pauroso filone riduttivamente e simpaticamente ascrivibile all’espressione film col mostro che non si mostra in viso ma spaventa, inquieta e terrorizza a più non posso, nascosto al buio, acquattato segretamente e celatosi, in modo invisibile, agli occhi della vittima da lui prescelta e designata.

E in ciò è dunque perfettamente in linea autoriale con la poetica, anzi, per meglio dire, con uno dei massimi, concettuali stilemi peculiari e unici di Carpenter, director inimitabile e personale oltre ogni dire e l’inconcepibile.

Progenitore, involontario o meno, di tanti suoi imitatori e di film a lui debitori, d’epigoni al suo Cinema ispiratisi da lì in poi.

Pensiamo al Brian De Palma di Omicidio a luci rosse. De Palma, per sua stessa sincera ammissione, dichiaratamente e voyeuristicamente, in senso cinefilo e toutcourt, (auto)citazionistico in modus “hitchcockiano”, oppure pensiamo a Sliver di Philip Noyce con un William Baldwin pervertito-guardone e soprattutto una Sharon Stone sexy come non mai subito dopo la sua insuperabilmente sensuale predatrice “manipolatrice” di Basic Instinct.

E noi stessi, guardando al Cinema in profondità e scrupolosità maniacale delle più mirate, ammirandolo a 360° e giocando, non morbosamente, bensì solamente in maniera morbida e colta, di omaggi e prospettive/retrospettive a pellicole, più o meno rilevanti, basatesi su tale tematica espressavi/espressiva o agganciatene in maniera analoga di meta-cinema affine, ci stiamo in forma cinefila e divertita sbizzarrendo a “spiare” la settima arte con sana oculatezza certosina e sopraffina.

Scrutandovi con meticolosità puntigliosa e lucida, molto precisa, osiamo dire chirurgica.

Lauren Hutton è egregia nell’interpretare la parte della tormentata Leigh Michaels, affiancata da un cast di tutto rispetto, formato da David Birney, Charles Cyphers, John Mahon, James Murtaugh, al servizio della sua performance al centro di tale storia tanto brillante quanto inquietante.

Senza naturalmente dimenticare la solita presenza conturbante di Adrienne Barbeau, ex compagna di Carpenter.

Il film, per via del suo impianto televisivo, soffre qua e là di alcune indubbie ingenuità e non tutto, alla fine, torna. Ma è comunque piacevolissimo e sa anche spaventare come solo il maestro John sa fare.

Echi perfino del Cinema di Dario Argento. E chi ha copiato dunque chi? Nessuno dei due, essendo amici da tempo immemorabile.

Perciò, forse non un Carpenter memorabile ma decisamente potente.

Pericolo in agguato, da non confondere con l’omonimo, nella traduzione italiana, altresì noto anche come Un uomo sotto tiro, mentre in quella originale è Man on Fire, film action con Scott Glenn, film degli eighties che ha avuto un’altra versione a cura di Tony Scott con Denzel Washington. Il cui titolo, per l’appunto Man on Fire, è rimasto da noi invariato.

Il Falò ne sa una più del diavolo. Molti haters/stalker mi spiano ma sono io che spio loro. Ah ah.

lauren hutton pericolo agguato

di Stefano Falotico

 

THE BATMAN, recensione

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Ebbene, belli guaglioni e ratti agonadici, se v’imbatterete nel pazzo che sono io, no, nel pezzo sottostante, anzi, già l’adocchiaste di preview disarmante, immantinente penserete… questo è fuori! Chi mai leggerà o vorrà pazientemente leggere, nel 2022, cioè periodo tempestato dalla frenesia e dalla sveltezza “giornalistica” d’accatto, infatti, un papiro pieno di lessicali ghirigori e arzigogoli interminabili, cioè una recensione a mo’ di geroglifico incomprensibile? Da decriptare e decifrare senza che si abbisogni di spiegazioni, lavagnette a scopo didascalico e citazioni fra parent(es)i?

Ora, tanto per essere chiari fin dapprincipio. La prima parte non è mia, non è plagiata ma copia-incollata, cioè digitalmente scritta da questo link che qua vi appioppo: https://www.wired.it/article/the-batman-film-recensione/
Lasciando stare la forma grammaticale dell’articolo riportatovi, abbastanza corretta, va ammesso senz’infingimenti, a prescindere dalle virgole usate ogni quattro righe e congiunzioni nostre neuronali che saltano durante la lettura, che è piuttosto giusta, anzi, fin troppo politically correct, ah ah.

Dopo vi sarà la mia finale freddura… intanto, leggiamo, io l’ho già letta, voi amate i gialletti? No, così, tanto per… chiedere. Ma non perdiamoci in voli da pipistrelli, no, in futili, pindarici voli di calembour non necessari, miei rettili, derelitti e reietti (dis)umani dei più miserrimi.

The Batman, quando Hollywood fa così è da perdere la testa

A sorpresa questa quinta versione del personaggio per il cinema è una delle più coinvolgenti e riuscite in assoluto

The Batman è l’apoteosi delle possibilità a cui oggi tendono i cinecomics e più in generale l’apice di cosa possa ambire ad essere un film di Hollywood pensato per il maggiore incasso possibile. Una volta tanto ci sì trova di fronte ad un film di grande maestria e acute invenzioni che non ha a cuore solo la tenuta psicologica dei propri fan ma che cura anche la propria dimensione visiva con la medesima ricerca estetica dei più particolari e stimati disegnatori di fumetti. E come per i fumetti disegnati meglio anche questo film con le sue scelte cromatiche (ma anche con un sonoro fuori dalla grazia di Dio) è capace di andare oltre la propria storia, oltre i personaggi e oltre gli eventi per creare una dimensione astratta dentro la testa di ogni spettatore, fatta di sensazioni prima che di dialoghi. È la rappresentazione dello spirito di Gotham city, città derelitta in cui niente migliora mai, che sembra esistere solo di notte e con la pioggia, ricettacolo di criminali e corruzione. Un mondo in cui The Batman fa battere un cuore sentimentale soffocato da tutto questo nero. Perché stavolta nonostante la presenza del Pinguino e dell’Enigmista è chiaro che il nemico vero di Batman è questa città ingovernabile nella quale, lo dirà lui stesso, nonostante siano due anni che agisce il crimine è addirittura peggiorato. Gotham è la sua nemesi, il mostro contro il quale si batte e che a tutti i livelli frustra il suo desiderio di fare la differenza e che, in una grande idea finale subirà nelle sue strade e nei suoi spazi la furia degli elementi, come se davvero fosse un personaggio. A questo ben si accosta il fatto che fin da subito questo Batman è adolescente. Nella pratica non lo è, ha circa 30 anni come tutti i Batman (e come il suo attore), ma lo è nell’atteggiamento, perché sia Reeves (il regista) che Robert Pattinson (il protagonista) portano al personaggio delle note da rabbia adolescenziale eccezionali ed inedite. Batman è il ragazzo che non si integra, poco popolare, chiuso in se stesso e nel proprio dolore, Batman ha il trucco nero intorno agli occhi (lo vediamo quando si leva la maschera), Batman in una delle scene più belle viene guardato malissimo da tutti i poliziotti mentre cammina accanto a loro (rappresentazione di autorità), Batman non è accettato dagli altri, Batman è accompagnato da una band simbolo della teen angst, i Nirvana, Batman è un ragazzo che scopre che molto del suo idealismo e di quello che sapeva su di sé e sulla propria famiglia non è vero. E ovviamente Batman trova in Catwoman una sbandata come lui con cui coltivare uno strano sentimento fatto di affinità.

La scena dei due in moto al cimitero è forse uno dei momenti più raffinati e sensibili di tutto il film, che dice tutto (di nuovo) non con le parole ma con le immagini e i movimenti delle due moto che rappresentano due volontà. Sia chiaro che sono tutte cose che già avevamo visto (o più che altro letto) ma che qui si colorano proprio di quella tinta tra Il corvo e Batman: Year One (anche se siamo al secondo anno di attività) che Reeves centra come nessuno prima di lui. Ma come abbiamo detto, The Batman è il trionfo della macchina film sul personaggio. Nonostante quello di Pattinson sia un Bruce Wayne/Batman originale e intrigante, a reggere tutto è quest’aria da detective story classica (anzi da hard boiled, a voler essere cinefili), le indagini, le scoperte e la catena di marcio a tutti i livelli che appassiona lungo una durata apparentemente spaventosa (3 ore) che invece scorre liscia, in un caos notturno creato così bene ad arte da essere eccitante. Ad un certo punto in una stanza d’ospedale senza finestre o sbocchi sull’esterno sentiamo la pioggia battente in sottofondo ad un dialogo. Non è possibile ma è perfetto, la pioggia di Gotham è dentro la testa dei personaggi e quindi nella nostra, è un tappeto quasi musicale che ben si accosta con la colonna sonora di Michael Giacchino che sembra non stare mai zitta. Perché quel mondo marcio e piovoso è l’esternalizzazione dell’intimità traumatizzata e derelitta di Bruce Wayne stesso. The Batman è una vera impresa, un cinecomic come ancora non ne avevamo visti, fortemente d’autore, dotato di una personalità visiva fortissima, unica, e proprio per questo capace di usare quelle figure note per dire qualcosa di diverso e unico. Merito di Peter Craig e dello stesso Matt Reeves che sono riusciti nell’impresa di scrivere un Batman ingenuo senza snaturare un personaggio che ha nella sicurezza nei propri mezzi una caratteristica cruciale. E in questo si rivela perfetta la scelta di Robert Pattinson, con la sua naturale inclinazione verso l’introspezione e un corpo al tempo stesso molto maschile ma anche molto sensibile. Lui recita perfettamente la tenacia e la tensione innaturale di Bruce Wayne verso una missione che è al tempo stesso un trauma e l’inarrestabile forza di una persona sensibile.

Lo stesso purtroppo non si può dire dei villain del film, che ne costituiscono la parte meno incisiva. Il Pinguino di Colin Farrell è ai margini di tutto, un personaggio secondario, mentre l’Enigmista arriva quasi nella seconda metà del film e Paul Dano è subito stonato, l’unico membro del cast in overacting, cioè che recita con un tono carico ed espressionista là dove gli altri invece si tengono più misurati e ancorati ad una certa forma di naturalismo. Sembra appartenere ad un altro film. È così un altro personaggio, a sorpresa, ad emergere, il Carmine Falcone di John Turturro. Criminale con tutto in mano e personalità al tempo stesso dimessa, familiare e corrotta, il polipo con i suoi tentacoli in tutta Gotham, avatar perfetto del padre da tradire e metaforicamente uccidere, quello che mente, truffa e distrugge la vita dei figli. Che poi è una figura che non manca mai nel cinema di ribellione adolescenziale.

pattinson the batman

  1. La mia replica da Joker

Ora, questa recensione è un bidone e niente di quello scrittovi corrisponde al vero. Invero, in verità vi dico, sì, io che non sono onnisciente ma molto sapiente, che poche persone, le quali erroneamente si spacciano per critici frettolosamente, sono veramente intelligenti. Non sono deficienti ma, se vogliamo essere onesti, non sanno quasi niente. Pontificano sulla settima arte e non solo, sparlando anche d’ogni persona con faciloneria da cogl… ni dei più deplorevoli e ignoranti. Attenendoci, comunque sia, a questo articolo sciatto e un po’ tirato via, come si suol dire, The Batman di Matt Reeves è esattamente così come descrittoci. Ah, dunque che dico, deliro e mi contraddico? No, vi suggerisco di aprire gli occhi e attestare, con obiettività e lucida cognizione di causa riflessiva, altresì sanamente recensoria, che proprio in virtù, o a causa, delle ragioni genericamente espresse nell’articolo citatovi e qui ficcatovi, The Batman è un film che poteva piacere al sottoscritto a quindici anni. Ma oggi ne ho 42, quasi quarantatré e ne dimostro 13, eh eh.

No, a parte gli scherzi, Pattinson non è un grande attore, ha una gamma espressiva più limitata di un boomer, il quale scelleratamente sbandiera ai quattro venti di essere dotto (falsità assoluta e tragicomica, oserei dire assurda, forse astratta) ma la cui varietà e apertura mentale, invece, è a sua volta più minuscola di un mollusco.

Sì, il vecchietto ammira, semmai, Pattinson per la sua bellezza e il suo talento in crescita, cosicché dice… uhm, bellino e bravino, smentendosi, cinque minuti dopo, poiché nel frattempo s’è recato su Google e ha rinvenuto le nuovissime foto di lui accompagnato per strada da una bella figliola. Anzi, bando ai francesismi, il vecchietto assistette a Pattinson immortalato assieme a un’enorme figa con tette più grosse di Eva Notty. Che siano fake tits o vere, il risultato non cambia e non importa, il vecchietto arriva… in zona erogena, no, infarto e viene… spappolato di cirrosi epatica per immediato sentimento devastante di antipatia poco empatica.

Lui esplode di rabbia e, in silenzio pensa, sono più bello e bravo io!

Sì, so come sono fatti i vecchi rancorosi. Ché, essendo in andropausa da una vita, rosicano e di rancori ribollono d’ire pericolose che essi scagliano contro i giovani in fiore e a livello ormonale calorosi, al fine, non tanto finissimo, di castrarli in un nanosecondo, urlando perfino loro: dovete ancora mangiarne di pagnotte, siete dei nani onanisti e, se continuerete a masturbarvi, non solo il cervello, non combinando un caz… o da mattina a sega, no, a sera, la vostra vita andrà a mignotte! Per la Madonna! E non bestemmiate, dio Porco!

Mah, se lo dice lui che ha l’abbonamento ai maggiori siti a luci rosse e si lamenta d’essere povero in canna in quanto sputtana tutta la pensione con le puttane, costui va giustamente sputtanato.

Comunque, i porno li guardiamo tutti. E se qualcuno afferma di non guardarli, ah ah, mente spudoratamente. Voyeur, io vi guardo, ah ah!

Ebbene, non tutti i vecchi sono invidiosi, gelosi e bavosi. Non generalizziamo, suvvia, non facciamo di tutta erba un fascista, no, un fascio… di loro nervi poco saldi.

Molti sono così, in effetti, ciò è indubbio. Gli altri sono affetti da demenza senile, son in ospizio oppure sono morti, ah ah. Insomma, se prima furono cazzuti come Danny Glover di Arma letale, ora sono Glover di Nonno scatenato, e ho detto tutto lapidariamente. Più che altro, non sanno neanche più recitare una piccolissima poesia di Natale, in quanto sofferenti di afasia e rimbambimento mentale dei più devastanti, nemmeno una pappardella a memoria. Mangiano la pappina, si fanno chiamare papini e usano il pappagallo. Oppure sono come Willem Dafoe di The Lighthouse e ho detto tutto… per l’ennesima volta.

Per dovere d’onestà e di beltà, Pattinson è un bell’uomo ma erano più belli, rispetto a lui, Brandon Lee e Johnny Depp. Che cosa? Johnny Depp non è mica morto. Praticamente, sì. Amber Heard gli sta divorando il conto in banca, diffamandolo in quanto Johnny non arretra dalla sua pensione, no, posizione… del Kamasutra? No, ideologica, sostenendo difatti che Amber meritava degli schiaffoni pur essendo una sberla, in quanto un puttanone. È vero, Johnny ha ragione. Non rompetegli più i coglioni.

E voi, bambagioni e bambinoni, finitela di pensare che l’adolescenza sia uno stato mentale da bei tenebrosi malinconici tanto idealisti e romanticamente nichilisti quanto speranzosi e nient’affatto cupi, bensì di purezza incantevoli e nei cuori, apparentemente neri, in realtà luminosi. No, io a sedici anni non ascoltavo i Nirvana. Neanche adesso li ascolto. Giammai infatti compresi se soffrii di senilità precoce o di oligofrenia atroce.

Che sia io quindi il Peter Pan di Finding Neverland? Mah, non lo so. Ma veniamo… a noi, figli di tr… ia.

L’incipit di The Batman è identico a Blade Runner, Pattinson, più che figo dall’anima inquieta che piace sempre alle sbarbine che si bagnano più di Gotham City, ché vogliono il topo, no, il tipo dal fisico asciuttissimo ma non economicamente all’asciutto, dunque già arrivato… coi soldoni e il macchinone, dicevo… Pattinson sembra un drogato di Piazza Verdi di Bologna con la differenza che Pattinson/Bruce Wayne non finirà in rovina ma, al massimo, in rehab. Poi, ricatterà un’infermiera in ospedale, chiedendole di dimetterlo subito dietro una sveltina con tanto di lauti quattrini elargiti lei in camuffa con tanto di mascherina… per passare inosservato e recitare la parte del pulitino…

Tornerà a casa, a Beverly Hills, si farà di nuovo… anche la nuova accompagnatrice rimorchiata su un sito di Escort dell’Hollywood hardcore, si rifarà poi il look e sfilerà in passerella con un’altra super-passeron’.

Perché sa che The Batman è un film di merda per nerd e per uomini mai cresciuti che l’osannarono ancora prima di vederlo e che è giusto combattere per una giusta causa… finanziaria. Se considerate questa mia recensione delittuosa e mostruosa, chiamate la neuro e fatevi ricoverare. Siete puttaneschi e non direte mai che il film fa schifo perché vi siete, oramai da una vita, prostituiti da lingue marroni.

Perciò, uomini facilmente impressionabili e suggestionabili, abbindolabili, uomini smidollati, qualunquisti e pressappochisti, cioè pressappoco la stessa cosa di sinonimi, Eraclito sostenne, a grandi linee, dei concetti dicotomici di natura duale ineluttabile. Per esempio: se c’è la normalità, c’è anche la pazzia e viceversa.

Lo/a fanno studiare a scuola, pensa te che roba…

Traslando la stronzata di Eraclito da scoperta dell’acqua calda, Eureka!,  evviva peraltro Archimede, se c’è un Batman depresso cronico da pastiglie Chrono, anche strafatto di artificiale droga, c’è per forza un’impasticcata che vorrà imboccarselo ogni giorno, ogni notte e a ogni orgia, no, scusate, ora.

Per una compenetrazione psico-fi(si)ca/carnale di rapporto non solo sessuale, bensì che ficcata/figata, no, sfogante ogni frustrazione della nostra triste e inesorabile condizione umana imbattibile assai grave e inguaribile.

Altro esempio: un uomo brutto va da una donna brutta e le chiede di uscire con lui. Lei esce subito con lui. Un uomo Pattinson va da una donna brutta e le chiede di uscire con lui. Lei lo prende per pazzo. Anzi, pensa sia Colin Farrell di Miami Vice impazzito e imbruttitosi come Il Pinguino e preferisce leccare… un gelato Mottarello conservato nel freezer della De Longhi.

Pattinson l’amava e non capisce. Perché, effettivamente, non ha una gran testa questo Pattinson qua, eh.

Su Facebook, lessi che Pattinson è il nuovo Daniel Day-Lewis. Certo, di tua sorella. Che sarà, appunto, una in cura a un centro di salute mentale poiché, senza star a sottilizzare di diagnosi psichiatriche, reputa Paul Dano un bel ragazzo e il suo ragazzo, invece, uguale a Oscar Isaac, ovvero il pornoattore Ryan Driller. Sì, Ryan è spiccicato a Oscar. Però non capisco perché James Deen girò The Canyons di Paul Schrader mentre Driller non viene accreditato, su IMDb, come il protagonista de Il collezionista di carte. Adesso, se pensate che ho scritto cazzate, è vero. Era per farvi ridere perché The Batman fa piangere. Ah, dimenticavo… molti di voi impazziscono per Zoë Kravitz. È mille volte meglio Gina Gershon dello storico videoclip epocale della canzone Again

Per finire, Pattinson è un attore mediocre ma Lenny Kravitz è un grande cantante. Se siete invidiosi, sparatevi in testa come Kurt Cobain. Se pensate che vale la pena vivere per il Cinema e la Musica, datevi all’agricoltura. Riceverete meno delusioni. E non sarete potati da ragazzi in fiore da orto botanico.

Questo mondo è andato a bottane. Perciò, giù botte e chi se ne fotte!

Ah sì, tu te ne fotti? Bravo, fottiti. Comunque, voto al film, 7 e mezzo. Ecco il contradditorio.

  1. Stavolta c’è il due senza tre, smentisco il detto e quanto da me, nel capitolo precedente detto, appunto, in quanto sono l’esemplificazione del participio passato contraddetto, forse sono sol interdetto, ah, ma che dico? Fermatemi!

The Batman di Matt Reeves è un bel film, sì, è bello come Pattinson.

Pattinson è bello ma non è bellissimo. Parimenti, The Batman rimane bello e basta. Niente di trascendentale. Voi invece praticate meditazione orientale?

In passato, fui brutto, poi bruttissimo, poi fui carino, per molto tempo non usai l’ocarina e ora sono belloccio. Monica Bellucci era molto bella, adesso è invecchiata e leggermente imbruttita.

Molti di voi vogliono farsi belli agli occhi altrui. Ma è inutile che andiate in palestra a fare… le belle fighe.

Non sapete recitare, non sapete scrivere e non sapete neanche ironizzare sulle vostre quotidiane sfighe.

Vi prendete sempre maledettamente sul serio anche quando uno vi guarda per 3 secondi netti e giustamente pensa che siete degli inetti.

Io sono vendetta?

Macché. Mica sono De Niro di Cape Fear con tanto di tatuaggio che recitò la scritta Vengeance is Mine.

Sono quello di Taxi Driver.

E, su questa freddura finale, v’ho freddato.

Fra pochissimi giorni sarà Pasqua, tutti dicono che in ogni zona d’Italia fa caldo ma io ho il raffreddore.

Sì, quando la gente ha caldo, soprattutto le donne in calore, io ho freddo perché mi piace pensare che la cantante Giorgia ha una bella voce ma è racchia forte.

E poi che dice e urla, da cornacchia frustrata, in quella canzone… Oronero? Stronzo senza fine?

Ma la smettesse questa stronza. Coi soldi che ha, qualche nuovo Pino Daniele da Vento di passioni con Brad Pitt, no, Vento di passione, lo troverà.

Che voglio dire? Che Pino non era un ottimo chitarrista?

No, dico che Giorgia vedrà Pitt col binocolo e che a Laura Pausini preferirò sempre Nic Cage di City of Angels con tanto di Pino Silvestre e bosco coi pini.

Ora, scusate, devo andare alla gelateria Pino in Piazza Maggiore a Bologna. Mi aspetta un gelato alla stracciatella di ottima fattura.

E ricordate: io ululo, latro, come tutte le persone, pis… io e cago nella latrina e bevo tante lattine.

Bevo il latte, mangio il fegato amaro come i gatti e sgattaiolo, facendo pure le fusa. Sono fuso? Macché. Sono fatto così. Se non vi sta bene, identificatevi con Batman, indossate il suo mantello e, fra meno di un mese, essendovi “smantellati” nel cervello, verrò a trovarmi in manicomio e vi offrirò delle caramelle. Fidatevi. Il futuro sarà orrendo come Colin Farrell col trucco da bruttarello. Se fate gli stronzi, contro di me non potete farcela. Fate cagare! Poiché, quando meno ve l’aspetterete, divento Birdman. Ah ah! Finisco con la mia “imprevedibile virtù dell’ignoranza”: Nel Batman di Tim Burton, v’ Michael Keaton e ovviamente anche in Birdman. Nel Batman di Tim Burton, c’è Jack Nicholson, protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo. In cui furono presenti anche Danny DeVito, il Pinguino, e Christopher Lloyd. Lloyd recitò con Keaton in 4 pazzi in libertà.

Dunque, se mi reputate pazzo, prima datevi una calmata, assumete un tranquillante o, in casi gravi, un neurolettico, fatevi una cultura, non solo cinematografica perché, altrimenti, vi dimostrerò di esserlo sul serio, ah ah. Why so serious?

di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema – The Score di Frank Oz con Robert De Niro, Edward Norton e Marlon Brando

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È oggi il turno di The Score, film considerato da molti un filmetto. No, vi sbagliate. Non l’avete visto attentamente e siete stati assai precipitosi, affrettatissimi nel giudizio vostro perentorio e sbadato.

The Score è un gran bel film. Credetemi.

Film del 2001 della durata, abbastanza consistente, di due ore e quattro minuti, diretto dal veterano Frank Oz. Sì, un uomo diventato famoso nell’ambiente per essere stato uno dei padri, diciamo così, di quelle sublimi creature chiamate Muppets, assieme al loro creatore Jim Henson.

Regista talentuoso e sofisticato di commedie nient’affatto trascurabili, divertentissime e molto intelligenti come La piccola bottega degli orroriTutte le manie di Bob con Richard Dreyfuss e Bill Murray, In & Out con uno strepitoso Kevin Kline e il bellissimo Bowfinger con Steve Martin e Eddie Murphy.

Che, con questo formidabile The Score, cambia totalmente genere, spiazzandoci davvero e girando magistralmente un ottimo caper movie, sì, il classico film di rapina da “colpo grosso”, assoldando nel suo cast tre attori di razza pregiatissima, tre campioni imbattili del miglior Metodo, modelli recitativi altissimi appartenenti a differenti generazioni, accomunati però dall’identica forza espressiva, dalla stessa poderosa versatilità, dalla pari poliedrica classe mimetica e dall’eguale, ipnotico carisma, ovvero Robert De Niro, Edward Norton e Marlon Brando, qui purtroppo alla sua ultimissima apparizione cinematografica.

E già basterebbe ciò per reputare The Score un film importante.

Trama…

Siamo a Montréal. Nick Wells (Robert De Niro) è un attempato ladro, una vecchia volpe ritiratasi dalla scena che gestisce un elegante bistrot. Trascorre le sue giornate a leggere il giornale, a scrutare nell’enigmatico turbinio della sua vita or acchetatasi nella mesta, paciosa calma borghese e a incontrare la sua fiamma, l’hostess Diane (la stupenda Angela Bassett).

Durante una bella mattinata plumbea, Nick viene avvicinato loscamente da uno strano figuro che, a prima vista, pare disabile e minorato mentale, Jack Teller (Edward Norton).

Costui gli sussurra mellifluo che qualcuno l’ha richiamato in servizio per un affare lucroso e miliardario, e lo sta aspettando per un appuntamento speciale.

Così, Nick e Jack incontrano Max (un debordante Brando), vecchio socio in affari di Nick, e i tre arditamente, nonostante le mille, iniziali titubanze di Nick, restio a farsi coinvolgere in altri piani criminosi, progettano il furto di un inestimabile scettro prezioso, custodito gelosamente e in momentanea giacenza presso la cantina della dogana cittadina.

Jack si fa assumere, sotto mentite spoglie da persona handicappata, come umile, apparentemente innocuo uomo delle pulizie, al fine di poter carpire meglio e da vicino la situazione all’interno della dogana e imparare a studiare il metodo di sorveglianza dei poliziotti addetti al controllo dello scettro. Al fine di poter eluderli al momento del colpo che sarà effettuato per mano di Nick.

Qualcuno tradirà però spericolatamente gli accordi, romperà rovinosamente i patti e vorrà incoscientemente agire di testa propria. Rischiando di mandar a monte l’intera operazione soltanto per appropriarsi della refurtiva e poi darsela a gambe levate, fuggendo col malloppo.

Ma forse non ha fatto i conti con la scafata esperienza di chi è più saggio e temporeggiatore di lui.

Che film, ragazzi. Chi l’ha detto che i film heist debbano essere per forza dei capolavori assoluti come Heat?

Esistono le raffinate sfumature e The Score n’è un brillante, riuscitissimo esempio.

Certo, vedere i troneggianti nomi in locandina di De Niro, Norton e Brando e poi trovarsi dinanzi a una semplice, lineare pellicola di puro intrattenimento, ha scontentato parecchie persone. E fatto infuriare i critici più esigenti.

Come dire… la montagna ha partorito solo un topolino?

Macché. The Score è un film considerevole, ottimamente orchestrato, godibilissimo. E, per avallare la mia decisa affermazione orgogliosa, cito a tal proposito la recensione, dal suo Dizionario, di Paolo Mereghetti, un critico non sempre simpaticissimo a causa delle sue fin troppo severe vedute ma che spesso c’azzecca…

Fedele al tema della menzogna che attraversa tutta la sua filmografia, Oz confeziona la sua pellicola più matura e incompresa: una variazione sorridente sui cliché del poliziesco crepuscolare e un thriller sui generis a combustione lenta, che divampa in un finale frenetico. La gara di bravura dei protagonisti (tre generazioni dell’Actor’s Studio a confronto, e non a caso il grisbi è rappresentato da un prezioso scettro) sembra quasi uno studio sull’evoluzione dell’arte della recitazione. E il ritmo impresso dalla partitura jazz di Howard Shore avvicina il film a una jam session che sovente si spezza in assoli e duetti…

Superba fotografia funzionale di Rob Hahn.

The Score è il solo film in cui De Niro e Brando hanno recitato assieme. Proprio loro che son stati gli unici due attori diversi a vincere l’Oscar per aver interpretato lo stesso personaggio, Vito Corleone, nella saga coppoliana de Il padrino.

E Norton, sin dai suoi primissimi esordi, è stato subito visto come il loro erede.

Ho detto tutto…

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di Stefano Falotico

 

Racconti di Cinema: Jimmy Bobo – Bullet to the Head di Walter Hill con Sylvester Stallone

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Oggi recensiamo il film Jimmy Bobo – Bullet to the Head del grande Walter Hill, il regista del capolavoro assoluto I guerrieri della notte e di perle come 48 oreDankoJohnny il belloStrade di fuoco, eccetera eccetera.

 Jimmy Bobo – Bullet to the Head, il cui titolo originale è semplicemente Bullet to the Head, da non confondere assolutamente con lo strepitoso Bullet in the Head di John Woo con Tony Chiu-Wai Leung e nemmeno col recentissimo Bullet Head di Paul Solet con Adrien Brody, Antonio Banderas e John Malkovich.

Allora, da dove è spuntato questo Jimmy Bobo? Jimmy Bobo è il nomignolo col quale viene appellato il protagonista della pellicola, James Bonomo, interpretato da Sylvester Stallone.

La Buena Vista International, l’italiana casa distributrice della pellicola, prima della sua uscita nelle sale, indisse un sondaggio, chiedendo ai futuri spettatori quale titolo avrebbero voluto veder affibbiato al film. E la gente scelse il bizzarro Jimmy Bobo. Ecco spiegato l’arcano.

Jimmy Bobo – Bullet to the Head è stato in Italia distribuito il 4 Aprile del 2013 dopo aver avuto la sua prima mondiale al Festival di Roma il 14 Novembre 2012.

Ecco, è il classico esempio di film abbastanza mediocre, dobbiamo essere obiettivi e molto sinceri, il tipico film che i recidivi, irriducibili, nostalgici fan del regista tengono, così come tutte le sue opere, anche quelle meno riuscite ed efficaci, in altissima auge, e che invece vien fin troppo screditato dalla Critica eccessivamente sussiegosa, che lo reputa brutto. Diciamo che, non sempre, Metacritic certifica con la sua media recensoria la giusta validità e il valore di una pellicola ma, in questo caso, il suo 48% di score è perfetto, calza vellutatamente, come i guanti indossati da Stallone nell’incipit, in maniera aderentissima rispetto all’esatta, media levatura di tale pellicola.

Un film che dunque non è un capolavoro e nemmeno si può liquidare in modo altezzosamente snob come invece il pubblico, qui da noi, ha erroneamente fatto. E che non meritava, in home video, lo squallido trattamento che gli è stato riservato poiché Jimmy Bobo – Bullet to the Head nel nostro Paese non ha mai avuto la sua edizione in dvd e neppure quella in Blu-ray. Ed è solo attualmente visibile, prima che scompaia e lo rimpiazzeranno presto con un altro film di Stallone, statene pur certi, sul catalogo Netflix.

Film della durata di un’ora e trentadue minuti, sceneggiato da Alessandro Camon e tratto dalla graphic novel scritta da Alexis Nolent e illustrata da Colin Wilson.

La genesi di questo film è stata davvero peculiare. Inizialmente il film doveva intitolarsi Headshot e a dirigerlo era stato designato Wayne Kramer (Crossing Over) ma, in seguito a scontri con la produzione e con Sly soprattutto, Kramer fu fatto fuori, Sylvester Stallone incontrò dunque privatamente Walter Hill e lo convinse ad assumerne la regia. Hill accettò di buon grado la proposta offertagli da Sly e tornò dunque dietro la macchina da presa dopo nove anni dalla sua ultima, bellissima fatica, Undisputed del 2002. Sì, Jimmy Bobo – Bullet to the, come detto, ha avuto la sua premiere nel 2012 ma le riprese si sono svolte l’anno precedente, da fine Giugno ad Agosto 2011.

Inoltre, l’antagonista di Sly nel film doveva essere Thomas Jane ma poi si optò per un partner asiatico, Sung Kang, per creare una strana coppia multietnica. Un po’ come avvenuto, appunto, per 48 ore con l’unica differenza che Eddie Murphy, ovviamente, era nero, afroamericano.

Dopo questa lunga, necessaria parentesi introduttiva, passiamo alla trama.

Di una semplicità linearissima e al contempo dagli sviluppi piuttosto ingarbugliati e non poco affrettati e confusi. Perché i protagonisti e i personaggi di contorno della vicenda sono pochi ma lo script, onestamente, è parecchio incomprensibile.

Jimmy Bobo (Stallone) è un sicario professionista, un criminale arrestato ventisei volte e con varie condanne all’attivo che, assieme al suo collega, Louis Blanchard (Jon Seda, sì l’attore di Verso il sole di Cimino), in piena notte ammazza Hank Greely (Holt McCallany, Mindhunter), uno sbirro corrotto che si stava apprestando a far baldoria e sesso bollente con una prostituta. Jimmy risparmia la vita della prostituta.

Poco dopo, in un pub, Blanchard viene a sua volta sgozzato e ucciso da un corpulento macho di nome Keegan (Jason Momoa).

Nei giorni seguenti, il poliziotto coreano Taylor Kwon (Kang) giunge sul posto per far chiarezza sull’omicidio di Greely. Ed entra immediatamente in contatto con Jimmy Bobo.

Kwon dovrebbe arrestare Bobo per il suo mestiere criminoso e per il fatto che ha ammazzato il suo amico Greely ma scopre che ciò non gli conviene. Perché c’è del marcio in città e Bobo è l’unico che, nonostante i suoi modi assassini e bruschi, può sgominare i corrotti.

Bobo ha una figlia, Lisa (Sarah Shahi) che, dopo aver mollato la facoltà di Medicina, ora svolge la professione di tatuatrice. E Kwon se ne innamora. Così Jimmy e Kwon si alleano, smascherando un avvocato truffaldino (Christian Slater) e arrivando alla resa dei conti finale.

Che dire? Walter Hill sa di girare un film su commissione e non s’impegna più del dovuto, a parte filmando riprese aeree dei grattacieli, concedendosi qualche sollazzo visivo e alcuni affascinanti, sbrilluccicanti effetti ottici che giocano, di saturazioni fotografiche, con le luci dei fari e delle insegne notturne. E realizza un compitino decoroso, ma non glorioso, memore del Cinema naïf a base di cazzotti e action anni ottanta, costruito sull’icona Stallone, un buzzurro tutto muscoli dalle maniere rudi, sbrigative ma eccezionalmente risolutive. Permettendogli di spogliarsi ed esibire alla sua avanzata età il torso perfettamente muscoloso, con tanto di tartaruga.

Il film è tutto qua. Se provate, appunto, nostalgia per il Cinema degli eighties e volete trascorrere una serata in compagnia di un film muscolare e virile non troppo impegnativo, Jimmy Bobo – Bullet to the Head è il film adatto a questo genere di vostri gusti. La visione migliore che potete avere.

Basta che teniate a mente che i capolavori di Hill sono altri.

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di Stefano Falotico

 

Alì, recensione

Oggi, recensiamo lo splendido Alì firmato dal geniale Michael Mann (Heat – La sfida, Miami Vice, L’ultimo dei Mohicani). Una delle sue inarrivabili perle cinematograficamente più potenti e indimenticabili.Alì Mann Will Smith Alì Michael Mann

Ebbene, mentre impazza oramai da due settimane il “caso” Will Smith, in seguito al suo istintivo, discutibile gesto clamoroso ai recenti Oscar, ovvero l’oramai tristemente celebre pugno da lui sferrato allo standup comedian à la Don Rickles, cioè Chris Rock, gesto per il quale è stato severamente, non sappiamo però se giustamente, sanzionato fortemente, per l’appunto, dal cilindro magico delle cinefile memorie più incantate e cristalline, ripeschiamo tale capolavoro, sì, lo è indiscutibilmente, ovvero, inutile ridirlo, Alì. Checché se ne dica e, a prescindere da quanto, potremmo dire, recentissimamente, scabrosamente successo a Will in seguito al suo incontenibile, punibile e punito, chissà se sbagliato o solamente smodato, raptus di “follia” irosa, un film contenente una delle sue più sentite, strepitose, incredibili performance d’attore. Insomma, uno dei migliori Will Smith di sempre, incarnatosi straordinariamente e camaleonticamente in una prova recitativa, parimenti e al contempo, in forma antitetica rispetto al suo gesto, eclatante da applauso e stupore a scena aperta.

Alì, film della robusta e corposa durata di due adrenaliniche, romantiche, appassionanti e ardimentosamente entusiasmanti ore e trentasette minuti veramente eccezionali con uno Smith corpulento e allo stesso tempo sorprendente nei panni del mitico e leggendario Muhammad Ali, ovviamente. Alì, sceneggiato mirabilmente dal premio Oscar Eric Roth (Forrest Gump, Dune) e dal duo composto da Christopher Wilkinson & Stephen J. Rivele, già writer unitisi, professionalmente, per Gli intrighi del potere – Nixon, a partire da un soggetto e una storia ad opera di Gregory Allen Howard (Il sapore della vittoria – Uniti si vince), è naturalmente un biopic, d’alta scuola cineastica e finissima regia di classe veramente ragguardevole, incentrato su colui che viene quasi unanimemente considerato il più grande pugile di tutti i tempi, ça va sans dire, il già appena menzionato Muhammad Ali, nato però all’anagrafe come Cassius Marcellus Clay Jr. E ribattezzato Alì (accentiamo come nel titolo italiano, in originale non lo è) per ragioni ai più note e palesateci, narrate nella suddetta pellicola di Mann da noi qui disaminata, speriamo con esemplare acutezza e chiara asciuttezza esaustiva e precisa.

Trama, sintetizzata al massimo per non rovinarvi le sorprese e soprattutto le emozioni che certamente vivrete intensamente se, prima d’ora, non avete mai visto questo film mastodontico e maestoso…

Semplicemente, ci viene raccontata, col solito stile mirabolante di Mann, cioè fiammeggiante, romantico e sontuoso, assai classico eppur veloce, intriso di flashback spiazzanti come un jetlag scagliatoci furentemente nel momento più inaspettato, stavolta inteso in senso lato e in senso, giustappunto, emotivamente sorprendente, la cronistoria di Cassius Clay (un titanico Will Smith). Più esattamente, ribadiamo, mediante salti temporali pazzeschi e bellissimi, si salta, come il ballerino del ring Ali, dal 1964 a ‘74. Anno storico del celeberrimo e monumentale trionfo del redivivo Clay, detronizzato dello scettro di re del pugilato e ingiustamente scippato della sua cintura di campione dei pesi massimi, contro il suo antagonista più ostico e forse cattivo, George Foreman (Charles Shufford), avvenuto a Kinshasa, nello Zaire, qui scandito dall’incalzante Tomorrow di Salif Keita.

Cosicché, in quest’arco temporale constante d’un periodo apparentemente breve, cioè consistente soltanto di una decade, assistiamo a una sarabanda stupefacente d’eventi, dall’ascesa del futuro Ali/Clay che vince il titolo contro Sonny Liston, ribaltando ogni pronostico, fino alle sue controverse amicizie con Malcolm X (Mario Van Peebles) e altri personaggi di rango, fra cui il cronista sportivo Howard Cosell (un magnifico Jon Voight), il quale diverrà il suo primo fan sfegatato oltre che amico inseparabile, dal suo altalenante rapporto col suo personal trainer Angelo Dundee (Ron Silver) e col suo cornerman (Jamie Foxx), dal suo primo amore con Sonji Roi (Jada Pinkett, la vera moglie di Smith nella vita reale) alla sua scabrosa relazione con Veronica Porché (Michael Michele), col nel mezzo la sua conversione all’Islam e, da ciò, la sua decisione di cambiarsi nome da Clay ad Ali e, conseguentemente, la sua drastica scelta di non partire per il Vietnam che gli costò il ritiro del titolo di campione mondiale, da Ali riagguantato proprio sconfiggendo Foreman nel match sopra dettovi.

Incandescente ed elegante fotografia di Emmanuel Lubezki e serrato montaggio mozzafiato di William Goldenberg per un capolavoro manniano trasudante passione sfrenata non solo per la settima arte più pregiata.

Un grintoso tour de force superbo per un Smith in forma smagliante, fisica e attoriale delle più mirabili.

Un film dall’andatura crescente, inframmezzato dall’ottima partitura jazzistica di Lisa Gerrad e Pieter Bourke.

Nel variegato cast stratosferico, anche Jeffrey Wright e Mykelti Williamson nei panni di Don King.

Alì Will Smith Voight Alì Will Smith

di Stefano Falotico

 

DIABOLIK, recensione

eva kant miriam leone diabolik

Ebbene, finalmente ho visto il cinecomic italiano dell’anno par excellence, iper-annunciato, pubblicizzato di battage promozionale impari, nelle sale rimandato a casa, no, posticipato causa Covid, forse perfino rimontato, da molti esaltato e da altrettanti snobbato, in fretta e furia liquidato, impietosamente stroncato, mal guardato o, di contraltare, straordinariamente e inspiegabilmente osannato e, a spada tratto, appoggiato.

Diabolik che cos’è? Un gran bel film? No, nella maniera più assoluta. È pessimo? No, di certo, di ciò ne sono estremamente sicuro e ne ho ragione da vendere. E, nelle prossime righe, forse interminabilmente prolisse, in merito a tale pellicola, forse non emerita, certamente non brutta, altresì nemmeno bella, molte parole a riguardo, da me scritte ovviamente, se vorrete leggerete, riserberò e spero vogliate leggerle con attenzione… se tempo da perdere av(r)ete, cioè da sperperare o spendere? Ah ah. Ora, se tutto andrà bene, come si suol dire proverbialmente, mi si vedrà nel secondo capitolo di tale suddetto film, sì, avete letto bene, in Diabolik 2 comparirò da comparsa e spero che non sia stata futile la mia giornata spesa al Teatro Duse, qui a Bulåggna. M’auguro infatti vivamente che qualche ottima inquadratura al mio viso, semmai di primo piano carismaticamente ammiccante, mi sarà onorevolmente riservata in modo omaggiante la mia partecipazione straordinaria davvero entusiasmante, eh eh, oserei dire veramente eccezionale, non so però se eccellente o, a livello recitativo, pertinente e/o (s)misurata, ah ah. Detto ciò, dopo essermi avventurato nottetempo, di prima mattina invernale e assai rigida climaticamente, all’interno del dedalo sotterraneo dell’autostazione della mia natia città felsinea, cioè negli studi Mompracem, ubicati in uno pseudo-terrone, no, terrapieno, no, specie di seminterrato rialzato a sua volta, giustappunto, situato a mo’ di Bat-caverna, in uno spettrale e cupo meandro del bolognese più occultato, oserei dire celato, sostanzialmente in un luogo apposito per la prova costumi non svergognata ma giustamente da mantenere segreta e non pubblicamente denudata, eh eh, m’inoltrai, con stoica volontà infermabile e assai ammirabile, in quel del sopra citato Duse per una scena girata di molteplici scene, successivamente da montare e accordare digitalmente, similarmente filmate a mo’ dell’Opera argentiano/a.

Dopo questo strampalato e bislacco periodo sintattico, no, temporale (eppur non piovve) episodio personale, cioè falotico di superflua aneddotica per voi irrilevante, in quanto, tranne a me stesso, credo che delle mie disavventure e /o peripezie, professionali e non, non freghi un ca… zo a nessuno, detta sinceramente con onestà disarmante, passiamo alla Critica-recensione del capostipite originario, ovvero all’origine della mia disfatta, no, della saga a venire, dai Manetti Bros. pian piano concepita, ideata, trasfigurata e in immagini, da lor rielaborate dal celeberrimo, omonimo fumetto delle sorelle Angela & Luciana Giussani, allestita, non so se studiata meticolosamente in ogni versione a puntate, no, inappuntabile dettaglio incriticabile.

Quindi, dopo la mia ennesima “faloticata”, quest’ultima celebre, come no, espressione oramai entrata di diritto nel collettivo immaginario cine-fumettistico, no, in ogni vocabolario Treccani-Zingarelli-Devoto-Oli che si rispetti, poiché denotatrice d’un modus vivendi irreversibilmente proteso alla stronzata geniale e più sorprendentemente inaspettata, occupiamoci di me stes(s)o, semi-disoccupato e disperato che, in un mo(n)do o nell’altro, nella maniera più disparata anche senza buone maniere e manierismi di finto bon ton poltically correct, deve pur sbarcare il lunario, arrabattandosi alla bell’è meglio per raggranellare du’ spiccioli al fine di poter, un giorno, avere le possibilità economiche per scopare Miriam Leone (sì, donna esigente, annoiata come Eva Kant, la quale necessita non tanto di detersivi, no, diversivi à la Diabolik per spassarsela lontana dalla sua apatia esistenziale veramente da depressa deprimente, bensì abbisogna di un re-g-ale riccone che non sia ricchione) o soltanto per non finire barbone e, di conseguenza, salvarsi/mi grazie a scopate in Via Indipendenza da operatore ecologico che preserva quel minimo di habitat umano ancora decorosamente collegato a una dignità fantozziana, no, finanziaria-sociale non miserevole e degradante delle più umilianti e agghiaccianti.

Ah, si finisce sulla lastra, no, sul lastrico e si dà lustro a uomini poco illustri, qui io ciò v’illustro in modo socialmente pedagogico e moralmente assai nobile, in quanto son uomo che, essendo amante contemplativo, metafisico inaudito e, giocoforza, poco volentieri maudit, divenuto tale a causa di sopra dettevi (s)fighe inenarrabili da morir dal ridere, perciò uomo autoironico, diciamocela tutta, tragicomico in senso toutcourt, che sdrammatizza da “volpone” gli eventi tristi occorsigli in maniera grottescamente meritevole d’un applauso a cerniera, no, cena, no, a scena aperta grandiosa delle più inconcepibili, sì, da uomo “scemo” riapertosi alla vita (quale vita?) in modo suicidario con “onore”, scrive or ivi un diario di riflessioni e memorie, no, a mo’ di sussidiario ripieno di dolore, no, vergherà qualcosa di seriamente, meravigliosamente recensorio che possa essere tramandato alle lapidi della Certosa (famoso cimitero bolognese che, in questo film e nel suo sequel, si vede sovente) o ai poster(i) più (im)mortali e pen(s)osi.

Mah, di mio, so di avere pene d’amore e poco pane, ripeto, per non finire trombato dalla Leone?

No, dalla vita troia. E ho detto tutto in modo gratis et amore.

Andiamo avanti, suvvia, tiriamo a campare, non m’importa una sega se mi segherete. Sì, peraltro piaccio pure ai gay. Eh già, costoro, chissà quante segretamente se ne tirano su di me. Io non me la tiro e per gli omosessuali non mi tira, sebbene, ribadisca, attualmente son messo a pecora. Sì, a novanta, esistenzialmente parlando, sì, parliamoci chiaro come un mar lindo dei più adamantini e puliti.

Uomini e donne sporchini, ricordate che, come la giri la giri, chi più chi meno, lo prendiamo tutti in culo. È così, c’est la vie. Fottetevi. Me ne fotto!

Pensiamo, orsù, alla salute e non rattristiamoci giammai, non chiudiamoci da orsi nelle melanconie da La Mer. Peraltro, che (r)esistenza-resilienza più precaria di un uomo precario in Stato… italiano, cioè esiziale, moralista, catto-borghese dei più retrivi e pericolosi, farisei e ipocriti.

Ma finché c’è vita c’è speranza, dobbiamo aprire gli orizzonti, non essere limitati, circoscrivendo le nostre visioni al passato orribile, dobbiamo vedere oltre con armonia, ammirando forsanche il balcone per un salto giù dalla terrazza di enorme fragore atroce. Fidatevi. Ah, che visione panoramica, com’è bella quella baldracca a lato b scoperto sulla copertina di Panorama, nevvero? Ah, Vittoria! Vittoria Belvedere, che sedere! Da qui si vede la basilica di San Luca e anche una più ricca viziata, non so se viziosa, della Leone che si sta facendo bombare, a tapparelle alzate e in bellavista ignuda, da un puttanone che ereditò una fortuna senza fare un cazzo dalla nascita. Lui, sì, che mai si fece il culo ma se le fa tutte, sbattendosene alla grande… dell’etica o sbattendosi qualsiasi “donna” di ogni razza, sesso e religione. Una vera “pulizia” etnica, ah ah!

La vita è bellissima, perché vi lamentate? Non vi manca nulla. Guardate Diabolik e non rompete i coglioni.

Sì, la sua storia acchiappa, dobbiamo tifare per un ladro che ammazza le persone senz’alcuna ragione e, alla fine, fotte chiunque, sbattendolo fra le chiappe, nei titoli di coda, anche alla Kant. Donna incantevole, sì, t’incanta anche se codesta non sa neppure chi sia Immanuel Kant. Ma ha lo yacht questa splendida mignott’.

C’è poco da filosofeggiare. Eva afferma che gli uomini sono tutti delle merde, pensano solamente a fare soldi per farsi una come lei. Lei odia i maschi(listi) porci e bugiardi, fetidi e bastardi. Ma chi è? Una casaling(u)a che, dopo essersi goduta allo specchio per l’appunto desnuda, prendendolo fra le cosce, no, assumendo contentezza e contezza, sì, coscienza di essere sexy to die for e hot like hell, ha al contempo compreso che non deve più assumere farmacologiche compresse antidepressive ma può riciclarsi come modella fuori tempo massimo da Milf âgée per cinquantenni frust(r)ati che le urlano virtualmente un… ammazza quanto sei bona, che spettacolo, tanta robbbaaa!

Lei è una donna di classe, intendiamoci bene. Non ha mai subito un TSO, ha il quoziente intellettivo di chi guarda le telenovele, ama le veline, legge Novella 2000 e venera Dallas, lei, sì, che ha capacità d’intendere e volere, spende e spande, non guida una Panda, spedendo in rehab tutti i “machi” cazzuti, soprattutto cazzoni, i quali, impazziti per lei, soffrono immantinente d’infermità non solo mentale, bensì anche di mano sulla lor quaglia masturbat(ori)a in un nano… secondo da schizzati di questa società della nostra beneamata minch… ia!

La Kant non può innamorarsi di Stefano Pesce, il prosecutore. Altrimenti, la sua vita non avrebbe prosecuzione. È capace che questo qua, un baccalà, subirà presto un processo per concussione. Che tristone!

Questo bambagione si comporta con lei quasi da stalker, sì, è un maniaco sessuale persecutore. Mille volte meglio, allora, Diabolik, un uomo “vero” che sa distrarla e farla divertire grazie al gusto per l’adrenalina più fina e figa. È un uomo giammai in casina, non è un ratto del serraglio e agonadico, è incasinato ma frenetico e sensualmente selvatico, svaligia ogni casinò, è figo come Vasco Rossi quando canta… voglio una vita spericolata, la voglio piena di guai.

E poi c’incontreremo al Roxy Bar… a proposito di Bologna, miei uomini da Ugo Fantozzi, no, Ugo Bassi! Bassissimi! Ma, in Topolino, c’è perfino la banda Bassotti! E il commissario Basettoni!

Sì, Diabolik canta spesso alla Kant… sono l’uomo più semplice che c’è… son un uomo solo, sono l’uomo giusto per te.

Ti posso offrire sempre un buon tè, un superbo caffè, cene di lusso e ville lussuose con camere in cui giocheremo d’amplessi ricolmi di lussuria molto godibile, soprattutto voglio regalarti un diamante inestimabile in quanto son un grande amante veramente imbattibile e inafferrabile. Non son inchiappettabile.

Ho anche, oltre alla porca, no, alla Porsche, tre Ferrari. Inoltre, sulla mia auto di scorta, una Maserati, è installata un’autoradio da diecimila Euro. Così che potrai, mia cara con gioielli da mille carati, quando vuoi e vorrai, a tutto volume perfettamente calibrato, ascoltare la tua cantante preferita, Elettra Lamborghini! Ma quanto è (o)carina! Ma che vamp svampita! Tutti vampirizza! Che bella sbarbina-bambina-bambolina!

Mica, come dicono a Bologna, bruscolini! Socmel e dio porz’FUCK THE WORLD! Dio Cristo!

Lo vedi quello sfigato lì? Lo vedi lui là? Alziamogli subito il dito medio e prendiamolo in giro, dai, su! Lo vedi quello scopatore, lì, sì, quello spazzino di merda? Mettiamolo sotto, asfaltiamolo e dal Pianeta Terra spazziamolo, sì, ‘sto strunz’.

Siamo Bonnie & Clyde ante litteram, siamo gli (anti)eroi del nuovo millennio, siamo i Millennial che non sanno chi fu Orson Welles ma venderebbero la madre per un autografo di Robert Pattinson. T’al dec mesoccia, visto che cartola? Dio bonin’, se l’è fig’, è un grande attore! Ma quant’è bonazzo! … Azz!

Allora arriva un uomo della Basilicata che non conosce Andrea Pazienza e, spazientito da un nerd che legge giornaletti dù caz’, urla, imprecando Gesù e tutti i santi: tu sì Paz! a leggere cussù dù! Uh uh!

Sì, Pattinson sembra Ronn Moss di Beautiful ma, a differenza di Ridge Forrester, recitò con registi come Cronenberg e Robert Eggers. Quindi, dev’essere bravo “a bestia”, per furzzzz! Oh, a casa mia, due più 2 fa 4. Dunque, non ci si può sbagliare. È un attore con le palle, deve avere du’ marron’ com’un toro, dà la paga a tutti, forse tranne al suo maggiordom’…

A parte gli scherzi, Diabolik parte in quinta, carbura benissimo, l’incipit funziona alla grandissima, di brutt’. Va liscio come l’olio o il burro? Il burrone! Trattasi di inseguimento stradale orchestrato con maestria e decumane con tanto di via Marconi e traverse laterali intrecciate a scorci e squarci dei viali di Milano.

Poi, adocchiamo la comparsa di nome F. Colomb… ti alla Montagnola con tanto di ciuffettino alla Paolo Limiti resuscitato. Ci manca Ornella Pavoni per tal pavone! Abbiamo anche la zona Fiera di via Stalingrado ove i culattoni lo danno via ai pervertiti coi soldoni!

Il film non ha ritmo per un’ora e mezza, ne dura 45 min. di più ma, in virtù di cinquemila splitscreen, al caveau che fa molto To Catch a Thier di zio Alfred Hitchcock, si sa, Alle donne piace ladro (Dead Heat on a Merry-Go-Round) e alla fine, giustappunto, ci sta.

Non è male! A te è piaciuto? Sì, dovremmo trovarci nell’immaginaria Clerville ma, tre comprimari su cinque, parlano come se ci trovassimo a Casalecchio di Reno.

Be’, Marinelli fa il piacione ma se lo può permettere. In effetti, ha un naso più lungo del Falotico ma hai visto, però, che sguardo? Che occhi più profondi in cui annegare come se non sapessimo nuotare!

Perché non hanno chiamato Stefano Accorsi, uomo ripieno, oltre che bolognese d.o.c., di donne Maxibon come l’ex Laetitia Casta. Stefanuccio, che è molto credibile come malato di mente in Marilyn ha gli occhi neri. E poi vogliamo mettere il suo “perfetto” Dino Campana da Coppa del Nonno, no, Coppa Volpi!?

Certamente… Fra l’altro, in quella serie televisiva… non sodomizzava Miriam?

Sì, Stefano è un tipo da clinica psichiatrica Ottonello, da Villa Baruzziana, da “ospizio” Oleandri e da “manicomio” Malpighi. No, ma soprattutto Stefano Falotico è uno che, quando meno te l’aspetti, ti caccia fuori questo:

E ora tutti i boomer, dal cervellino piccolo come Sbirulino, se lo prendono nel cul… ino!

Ma sì, se vogliamo piangere e dirci la verità, non so scrivere né leggere, non so argomentare, non so lavorare per 5 Euro all’ora, non so prostituirmi e sono un pirla con una faccia da pirla, sono un co(ni)glione, un “vile malfattore”, un freak, un oligofrenico incurabile.

Ma se vogliamo invece essere “onesti”, in buona (so)stanza, fa bene Diabolik a fare il ladro.

Vi meritate questo e (non) altro, cioè Rai Cinema. Pura fiction in formato “grande schermo”.

Ah, ricordate: Buona Domenica ed evviva le lasagne, abbasso le lagne, vai di besciamella e mortadella, guarda che bellina la conduttrice cosciona, che bonazz’ e che vestitino! Per la madonnazza vacc… zza! Dammi or da bere un caffettino Lavazza. Domani, dobbiamo lavurar’, straccio e ramazza!

Per quanto mi concerne, salutatemi a soreta! So bene, assai bene che quando qualcuno vuol farti la morale-paternale, eh già, ti grida: non vali un ca… o!

Se lo dice lui? Porta a spasso i disabili, cioè molti di voi, perché non sa ammettere a sé stesso di non sapere nulla di Cinema, non sa nulla di Letteratura ma è una bravissima personcina… Capisc’?! Così facendo, si redime dalle sue limitatezze.

E di nuovo ho detto tutto alla Peppino De Filippo! Che cosa? Oh, signur, quello lì sta con una “malafemmina!”. Oddio, che disgrazia! Scandaloooo! Vai col retro-pensiero bigottooo!

In tutta franchezza, ecco a voi l’Italia. Era così ai tempi di Totò ed è rimasta così dopo cinquant’anni. Con l’unica differenza che le nuove generazioni conoscono a menadito ogni cine-fumetto ma non hanno mai visto un film col principe di Gotham? No, della risata. Sono un Joker… ellone. Se vi sto donando un po’ di vita, poveri morti viventi e tontoloni, vi chiedo perdono, mettetemi in manicomio! V’imploro in ginocchio!

P.S.: voglio fare i complimenti a Francesco Gabbani per la sua splendida, nuova canzone, intitolata Volevamo solo essere felici.

 

marinelli diabolik character poster mastandrea ginko diabolik

In conclusione: Non è malvagio, non è cattivo, sì, il film. Ma forse anche Diabolik non è un criminale. Trattasi, invero, di povero (dis)graziato. Per fortuna, lui si è salvato da un mondo di beceri uomini qualunquisti e di donne che recitano la parte della Madonna ma sono più false di un gioiello falso. Falsari! Diamoci alla Banda degli onesti!

di Stefano Falotico

 

LICORICE PIZZA, recensione à la Falotico

Licorice Pizza

Ah, che filmettino ipocritino e cretino. Anderson, mister bugiard(in)o. Arriva lui, capito, il perfettino, a farci i manifesti amorosi pulitini. Ma vedi questo porcellino!

Dopo il sig. Tarantino che, con la sua bischerata su Hollywood e i sogni illusori ed effimeri che crollano dinanzi alla durezza evidente d’una realtà che ti ammazza, su commissione, a livello (s)figurato più di Charles Manson, ecco un altro esaltato cineasta, molto sopravvalutato, che crolla miseramente, checché se ne dica, nel Magnolia della sua tristezza esistenziale sempre più lapalissiana e imbarazzante, ovvero il signor Paul Thomas Anderson.

Sì, libero qui da vincoli editoriali, da sempre remoto da ogni convenzionalità bolsa, da ogni istituzionale dettame sociale e genitoriale, distante anni luce dalle ruffianerie oscene e dalle falsità bestiali fintamente amicali, posso qui scrivere liberamente cosa penso dell’ultima opus del regista di Boogie Nights. Quest’ultima, opera invece meritevole e ampiamente divertente, grottescamente geniale e, sebbene durante più di un’ora rispetto a tale sciocchezza, cioè Licorice Pizza, incommensurabilmente più intrisa, anche involontariamente, di schiettezza sincera, di onestà intellettuale e di ruspanti esagerazioni gradevolissime.

Licorice Pizza, mi spiace e notevolmente dirlo onestamente, per l’appunto, è una pellicola bruttina. Più stomachevole d’una pizza capricciosa mal impastata. Anzi, non voglio essere politicamente corretto. Mi fa piacere che questo film non mi sia piaciuto quasi per niente e non per far il figo-bastian contrario che, in totale disaccordo con l’intellighenzia critica internazionale, scrive ciò con franchezza (dis)umana veramente abissale.

Paul Thomas Anderson, malgrado m’ammaliò non poco con Il filo nascosto, incantandomi col suo sofisticato e sensibile romanticismo delicatissimo e d’antan, pur non considerando tale appena citato film un capolavoro, a differenza quindi di quanto si legge quasi dappertutto, viene tragicamente paragonato a due compianti e ben più grandi registi trapassati decisamente molto più saggi, equilibrati e sanamente spudorati, sebbene antipatici e misantropi. Vale a dire Robert Altman e, che ve lo dico a fare, Stanley Kubrick. Premetto, così come già peraltro dissi qui e in altre sedi, che nemmeno Altman & Kubrick mi fecero e fanno impazzire. Adoro Altman per Il lungo addio e forse poco altro, eh eh, amo Kubrick per Arancia meccanica e lo ringrazio da quaggiù, pur essendo ateo, ah ah, per averci donato il nudo integrale di Adrienne Corri, red head da leccar(si)… i baffi, cioè la signora Alexander molto eccitante di tale capolavoro appena succitato, e di Julianne Moore (anche lei rossa), no, di Julienne Davis in Eyes Wide Shut.

Ora, a molta gente piacque il lato b della Kidman ignuda, a me non è mai piaciuto Lolita ma, a quanto pare, per meglio dire da quel che si vede e salta all’occhio all’istante, il figlio dello scomparso Philip Seymour Hoffman, alias Cooper Hoffman, è uguale a Warren Clarke, sì, il drugo ciccione di A Clockwork Orange. Mentre la signorina Alana Haim, discreta raccomandata con un viso più ovale dei suoi surriscaldati ovuli da signorinella che, in Licorice Pizza, ha venticinque anni ma par averne meno del co-protagonista a livello ormonale, in quanto sempre in cerca di maschi di ogni razza e religione, è pressoché identica a Leelee Sobieski versione mora.

Sto scrivendo cazzate per farvi eccitare, no, ridere? Sì, bravi. Facciamo i seri, dunque.

Atteniamoci a un pezzo di f… a vera come Dominique Swain del Lolita di Adrian Lyne (una che spronò a realizzare molti remake/rifacimenti con lei a letto in tutte le  versioni, eh eh), no, scusate, a un pezzo scritto con inappuntabile serietà priva di volgarità di sorca, no, di soreta, no, di sorta.

Comunque, sia chiaro, al drugo Alex/Malcolm McDowell, preferirò sempre la Sobieski, no, Lebowski e, al latte del Korova Milk Bar, quello della Granarolo. Parzialmente scremato come qualcosa di granuloso, denso e succoso che (av)viene fra Mickey Rourke/Henri Chinaski/Bukowski & Faye Dunaway di Barfly dopo che lei accavallò le gambe ma nulla si vide per motivi di censura. Dissolvenza e “castrazione”. Se volete vederlo, basta che noleggiate o scarichiate un film con Adrienne Corri, no, con Adriana Chechik.

Costei, donna giovanissima molto precoce, classe ‘91 ed espertissima del 69. Mentre Paul Thomas Anderson, ritornando nella sua San Fernando Valley del suo film con Mark Wahlberg, secondo me, non capì un cazzo in quanto realizzò un ‘68 in salsa nostalgica adatto a tardo ultra-cinquantenne più frust(r)ati di lui stesso. Sì, Paul Thomas Anderson dev’essere uno che finge amabilmente, no, animalmente di essere un uomo sensibilissimo, sentimentale e romanticissimo ma in verità vi dico che non solo, in casa sua, conserva i dvd di tutte le migliori puntate di Baywatch con Pamela Anderson, bensì spende tutti i suoi soldi con le migliori pornostar americane e non. Come faccio a saperlo? Facilissimo, sì, più facile delle dive della Hollywood a luci rosse. Basta vedere questo suo Licorice Pizza per capire che fa l’elegantone e il romanticone (bugiardone) per piacere ai ragazzini, troppo ingenui per sgamarlo, e a quelli della sua generazione, troppo rincoglioniti per non venerarlo.

Sì, quando s’invecchia, si diventa sdolcinati e patetici. Ecco allora che, in colonna sonora, ficchiamo Jim Morrison e i migliori rocker dell’epoca, inserendo nel film perfino il cammeo di Tom Waits per completare la leccata di culo ai suoi fan della mi… chia. A proposito, ci sono anche i Led Zeppelin? Mentre la protagonista indossa le zeppe, facendo la ragazza zuccherosa per uomini viziati, viziosi e amanti delle zoc… le, no, metaforiche zeppole, sì, le “dolcezze” più sessualmente vomitevoli. Non avete capito nulla di quello che ho appena scritto? Non avevo dubbi, oramai siete involgariti come Bradley Cooper, ignorantone arricchito, di questo film con tanto di pantaloni a zampa di elefante e più suonati di Barbra Streisand.

Diciamocela, dopo una prima mezz’ora bella e godibile, Licorice Pizza diventa un pastrocchio improponibile e indigeribile. Fra eccitazioni, no, citazioni fuori luogo di Taxi Driver, uno Sean Penn messo lì tanto per, come si suol dire. Ché, essendo andato a trovare Anderson durante le riprese, non sapendo Anderson che ca… o stava facendo, fu assoldato in maniera improvvisata per poco più d’una stupida comparsata nella parte del produttore attempato che manco risulta arrapato e traviato ma soltanto andato e ubriaco fradicio. Poi, scusate, il protagonista non doveva essere Bradley Cooper? Stando ai primi annunci ufficiali che furono, sì. Poi Anderson, forse, pensò… no, questo Cooper non può reggere da solo un film, a differenza di Daniel Day-Lewis, non sa recitare come lui, riscriviamogli il ruolo e diamogli il character d’un puttanone. Cosicché, giriamo un film sull’ammmmooooorrreeee!

Eh sì, Anderson vuole celebrare i sentimenti puri ma conosce, da furbacchione, le regole puritane.

Al che, Gary Valentine, all’inizio della storia, ha 15 anni sebbene lui ne dichiari sedici. Mentre lei, Alana Kane, come già sopra dettovi, 25. No, così non si può fare. Sarebbe peggio d’un film hardcore chiamato Incestuous o Mamma’s Toy. Facciamo passare, perciò, tre cinque anni. Ora e finalmente, Valentine, il Rodolfo Valentino dell’oratorio, può fare all’amore con Kleio Valentien. No, scusate, con la Kortney Kane che fu. No, perdonatemi, con un alano, no, che schifo la zoofilia. Dicevo, con Alana. Ragazza che, cavolo, ha capito che gli uomini sono tutti degli stronzi e che forse è meglio stare con uno che, di certo, non è atletico e un superbo centometrista come il mitico Carl Lewis, ma dai, quando corre, con tanto di ralenti da film pseudo d’autore e carrellate a raffica da Jules and Jim dei poveri, nonostante la pancetta, è già un uomo vero. Sì, è un po’ ancora inesperto e bambinone ma ha un cuore grande… è specialeee! Ma per piacere! Basta, Paul Thomas Anderson, questo tuo film fa pen’. Sei un fakeLicorice Pizza è una vergognosa pellicola “arty” che lecca i nostalgici e, giustappunto, i falsi.

Nella vita, d’altronde, ho imparato a non fidarmi di certe personcine, cioè quelle che ti dicono… sei un uomo che mi piace perché vero. Sì, certo. Però non hai i soldi di quelli che ti dicono ciò, falsissimamente, e finisci troppo maturo per i ragazzi e troppo poco stronzo per chi, da puro che era, è divenuto un figlio di puttana che si è fatto il culo (solo uno?) per essere arrivato dove sta.

Licorice Pizza live let die Fleming

di Stefano Falotico

 

IL MIGLIO VERDE, recensione

Bonnie Hunt miglio verdeThe Green Mile Tom Hanks Clarke Duncan

Ebbene, in concomitanza con la straordinaria sua uscita in Blu-ray 4K, vi parliamo oggi de Il miglio verde (The Green Mile), firmato da Frank Darabont. Regista particolarmente famoso per aver diretto un’opera cinematografica oramai celeberrima e indimenticabile, ovvero Le ali della libertà. Parimenti a quest’ultimo film citatovi, Il miglio verde è un adattamento tratto da Stephen King. Differentemente però rispetto a Le ali della libertà, pur essendo ugualmente ambientata in un carcere, Il miglio verde è una pellicola che se ne discosta notevolmente per atmosfere, ben più cupe e macabre ma al contempo più oniriche e visionarie, perfino soprannaturali, e soprattutto per via della sua durata ben più mastodontica, esagerata, forse perfino spropositata, smisurata e leggermente eccessiva, consistente ovvero di tre ore e dieci minuti circa, francamente, per quanto appassionanti e visivamente mozzafiato, alquanto insostenibili seppur, ripetiamo, estremamente affascinanti. Darabont, dirigendo Il miglio verde, forse allettato dall’idea di bissare il successo planetario di The Shawshank Redemption (questo il titolo originale de Le ali della libertà), pur ottenendo un altrettanto lusinghiero, sebbene un po’ inferiore, successo di Critica, mirando evidentemente e nuovamente agli Oscar, non guadagnò invece i favori totali del pubblico, rimanendo peraltro all’asciutto agli Academy Awards. Perlomeno per quanto concernette le nomination maggiori. Invero, a essere precisi, Le ali della libertà, pur venendo candidato a sette ambite statuette dorate e pregiate, alla fine non incassò nessun premio e fu sconfitto in tutte le categorie per cui fu nominato. Alla pari de Il miglio verde, d’altronde, che però ottenne quattro nomination. In entrambi i casi, sia Le ali della libertà che Il miglio verde furono candidati come Miglior Film e per la miglior sceneggiatura non originale ad opera di Darabont stesso per tutte e due le sue pellicole che furono escluse stranamente per quanto riguardò la miglior regia. Incredibile coincidenza assai peculiare, non credete? Detto ciò, opportuno avervi segnalato aneddoticamente tale particolare curiosità interessante, passiamo alla sua trama dalle mille sorprese che, per non rovinarvi nell’eventualità che tale film non aveste mai visto, ci limiteremo assai sinteticamente a delinearvi genericamente in poche righe, speriamo però precise ed esaustive: Tom Hanks congeniale, nato per questo ruolo e da favola, interpreta Paul Edgecombe, una guardia carceraria che lavora nel braccio della morte d’una durissima prigione di Cold Mountain. In Louisiana, nel 1935 furono barbaramente uccise e trucidate due bambine figlie d’un contadino. Dell’orrido crimine imperdonabile, fu accusato e conseguentemente imprigionato il nero John Coffey (Michael Clarke Duncan). Forse Coffey non merita la pena capitale mentre sta aspettando terribilmente, ingiustamente, la sua esecuzione lapidaria, scontando un disumano calvario nell’attesa atroce d’un patibolo mostruosamente penoso e aberrante, mostruoso. Forse è soltanto un gigante buono dotato di poteri divinatori. Chi è John Coffey? Intanto, in questo carcere enorme e labirintico, parimenti a un dedalo, anche metaforicamente esistenziale, tanto sorprendente quanto allucinante, scorre la vita dei secondini e della moltitudine sterminata dei carcerati, ognuno con la sua croce personale. Molti celano le loro cattive coscienze dietro un’apparente, integerrima integrità morale non pulita, altri sono nitidamente e irrimediabilmente innocenti, altri ancora sono sadici e spietati, gravemente nel loro animo putrido assai malati.

Fotografato magnificamente e con grande eleganza formale da David Tattersall (The Majestic), Il miglio verde avvince e tiene incollati alla sua visione dal primo all’ultimo minuto, malgrado, come già detto, sia un’opera indubbiamente sfilacciata e retorica, in molti punti addirittura sbagliata e sbilanciata, sfilacciata e ripiena di digressioni spesso inutili che allungano solamente il brodo. Sorretta dall’ottima interpretazione d’un Hanks ispirato come al solito e soprattutto illuminata da una gigantesca, in ogni senso, prova struggente e molto sentita del compianto Clarke Duncan (candidato al Golden Globe), Il miglio verde trova i suoi punti di forza nella sua potenza visiva e si avvale d’uno stratosferico cast eccezionale, come si suol dire, delle grandi occasioni, che annovera tra le sue fila un parterre d’attori e caratteristi imbattibili, fra cui Barry Pepper, David Morse, Sam Rockwell, Bonnie Hunt, James Cromwell, Patricia Clarkson, Gary Sinise, Doug Hutchison, Harry Dean Stanton.

Barry Pepper miglio verde

di Stefano Falotico

 
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