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RITORNO AL FUTURO, recensione

Back to The Future

Ebbene oggi recensiamo un film capitale della Storia del Cinema, una perla assoluta delle più indimenticabili e imprescindibili della settima arte più leggiadra e fantasiosamente onirica, una strepitosa e immortale commedia fantascientifica eternamente incastonata non soltanto nella memoria adolescenziale d’ogni spettatore mondiale, ovvero Ritorno al futuro (Back to the Future). Pietra miliare datata anno 1985 ma film, per l’appunto, che non sarà mai datato e giammai passerà di moda, non sarà cioè mai anacronistico a prescindere dal tempo intercorso fra la sua release nelle sale e ogni, potremmo dire simpaticamente e in forma citazionistica, “flusso canalizzatore” del continuum spazio temporale presente e/o prossimo venturo. Un film avanguardistico, Ritorno al futuro, che ai tempi della sua uscita, per l’appunto, riscosse immantinente un colossale successo di pubblico straordinario, totalizzando incassi da capogiro a livello planetario in maniera spasmodicamente universale, giustamente. Poiché Ritorno al futuro non è soltanto una delle vette più apoteotiche, fantasmagoriche e strabilianti del suo regista, il mirabolante e sempre lungimirante Robert Zemeckis, bensì rappresenta lo zenit, tuttora irraggiungibile e inviolato, imbattuto e supremo, d’ogni maggiore pellicola sui viaggi temporali e sulla soave beltà mnemonica del dover ricordare perennemente a noi stessi che il nostro destino non è già scritto, è continuamente suscettibile di possibilità revisionistiche. Noi però, pur avendo visto mille e più volte Ritorno al futuro, nonostante l’abbiamo oramai riguardato interminabilmente, non rivedremo mai la sacrosanta e nettissima affermazione secondo cui Ritorno al futuro, per l’appunto, come sopra già evidenziatovi chiaramente, fu ed è, rimarrà un masterpiece intoccabile e inamovibile che resisterà vita natural durante all’usura e all’avanzamento del tempo, conservando, in modo inscalfibile, cristallinamente il suo infrangibile valore marmoreo e la sua immacolata, abbacinante forza di suggestione adamantina. Un capolavoro cristallizzato indissolubilmente nella bacheca antologica del nostro averlo, in forma granitica, gelosamente custodito nella nostra pura biblioteca cinefila che lo eternerà, sino alla fine di tutti i tempi, all’interno del nostro averlo ascritto al nostro stesso vissuto indivisibile. Perdonateci se, in tale frangente, siamo stati ermetici o ridondanti, leggermente. Ma Ritorno al futuro, rimarchiamolo, è un film degno d’essersi conquistato, per l’appunto, nel corso del tempo, il perentorio suo posto d’onore nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti nel National Film Registry. La nostra non è eccessiva magnificazione nei riguardi di Ritorno al futuro, bensì equanime venerazione onestamente inequivocabile. In quanto, nessun uomo al mondo non può che amare alla follia questo capolavoro impareggiabile e insuperato. Per quanto tutti voi, presumo, l’avete visto, ci limiteremo a delinearvi la trama in pochissime righe, letteralmente estrapolandovela dal buon Dizionario dei Film Morandini che gli assegna un lusinghiero ma non eccelso voto di tre stellette, comunque sia, piene, sinteticamente giudicandolo assai positivamente: «Un diciottenne (Michael J. Fox) fa amicizia con uno strambo inventore (Christopher Lloyd) che, con la sua macchina per viaggiare nel tempo, lo manda indietro nel 1955, facendogli correre il rischio di far l’amore con la sua futura mammina. Sotto la scorza del racconto fantastico, è un film nel segno della nostalgia, a mezza strada tra la critica di costume e l’elogio del perbenismo. Divertente, perfetto congegno a orologeria. Scritta dal regista con Bob Gale, la sceneggiatura fu candidata all’Oscar. 2 seguiti».

Che dire, il compianto Morandini, il cui tomo dizionaristico è or stato ereditato dalle figlie Laura e Luisa che, invariabilmente, ne lasciano intatto il suo netto giudizio, ci trova concordi, ovviamente parzialmente.

Poiché, sebbene così come sottolineato anche dal suo rivale “enciclopedico” Paolo Mereghetti, Ritorno al futuro risenta, certamente, d’una indubbia leziosità hollywoodiana dall’happy end consolatorio (non è spoiler, d’altronde, come detto, Ritorno al futuro l’ha visto chiunque, non solo fra l’altro una sola volta) e, in fondo, d’una morale retorica e sdolcinatamente un po’ ruffiana, malgrado fosse stato cucinato per il grande pubblico non soltanto borghesemente americano, mantiene invece integro il suo fascino magicamente affabulatorio, è un film ammaliante, pazzescamente divertente e, detta come va detta, geniale. Capace di cambiare molti registri in una mescolanza di generi che vanno speditamente dall’action alla commedia brillante, dalla science fiction più spigliata al Cinema d’avventura più coloratamente avventuroso e pieno di sorprese esaltanti.

Musiche del compositore di colonne sonore preferito di Robert Zemeckis (Benvenuti a Marwen), cioè l’immancabile Alan Silvestri (Forrest Gump), fotografia di Dean Cundey. Anch’egli frequente collaboratore di Zemeckis, vedasi, per esempio, Chi ha incastrato Roger Rabbit e La morte ti fa bella.

Nel cast, Lea Thompson, Crispin Glover, rispettivamente nei panni di Lorraine Baines e George McFly, cioè i futuri genitori del personaggio principale, ovvero Marty McFy, vale a dire Michael J. Fox, Thomas F. Wilson nel ruolo del mitico, antipaticissimo e al contempo esilarante e buffissimo bullo Biff Tannen, perfino un giovanissimo Billy Zane (Titanic) e la bella Claudia Wells as la fidanzata di Marty, Jennifer Parker. Che sarà poi sostituita dall’ancora più attraente Elisabeth Shue.

Fra i produttori, se mai ce ne fosse il bisogno di dirlo, quel geniaccio inaudito di Steven Spielberg.

backfuture

di Stefano Falotico

 

HOUSE OF GUCCI, il secondo trailer ufficiale

Ebbene, dopo la grandeur rinomata di The Last Duel, film molto bello, anzi eccelso, pare che Ridley Scott ci sfornerà invece un film decisamente inferiore, kitsch e trash. Almeno, a giudicare da queste immagini. Un trailer orribile, brutto a dir poco, oserei dire pacchiano.

The Gucci family had it all. She wanted more. Watch the new #HouseOfGucci trailer now, starring Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Jeremy Irons, Al Pacino, and directed by Ridley Scott. Only in theaters This Thanksgiving. Based on the book by: Sara Gay Forden Directed by: Ridley Scott Story by: Becky Johnston Screenplay by: Becky Johnston and Roberto Bentivegna Cast: Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Jared Leto, Salma Hayek, Ca

houseofgucci lady gaga

 

IL MOSTRO DELLA CRIPTA, recensione


P.S., anzi ante scriptum: chi ha scritto questa recensione, eh già, ha appena pubblicato un libro, intitolato Bologna POLAR, in cui cita chiaramente Rupert Everett di Dellamorte Dellamore, soprattutto Anna Falchi. Amanda Campana è carina ma Anna stimolava di più l’ocarina…
cripta

Ebbene, oggi recensiamo Il mostro della cripta (The Crypt Monster), film della consistente, un po’ sfilacciata e forse prolissa durata di un’ora e cinquantasei minuti ad opera di Daniele Misischia.

Regista romano, classe ‘85, con all’attivo oramai un carnet filmografico di tutto rispetto e, soprattutto, una lunga serie di cortometraggi e lungometraggi, specialmente improntati in direzione orrifica, notevole per vastità produttiva, al di là delle nostre possibili considerazioni, positive o meno, in merito. Solamente per citare qualche suo titolo, End Roll e, ovviamente, la pellicola antecedente a tale sua nuova opus, ovvero The End? L’inferno fuori. Quest’ultimo, film non esente da molti e vistosi difetti, perfino grossolani, però non privo al contempo d’un suo particolare fascino naïf nient’affatto disprezzabile o irrilevante che dir si voglia. Opere, le sue, spesso intrise di sapido, macabro umorismo nero mixato a una buona conoscenza dei meccanismi narrativi tipici dei più famosi film dell’orrore e “di paura” contemporanei e non, internazionali o nostrani. Misischia, spesso, allestisce difatti grotteschi potpourri granguignoleschi forse non magniloquenti o precisamente compiuti magistralmente, eppur assai interessanti e, ribadiamo, affascinanti per gli amanti dell’underground cinefilo più esuberante di vividezza ricercatamente artigianale…

Il mostro della cripta è uno strambo, cosiddetto guilty pleasure piacevolmente, studiatamente rozzo e allo stesso tempo lontano, paradossalmente, da certe pellicole invece solamente dozzinali e ridicole involontariamente, che mescola arditamente, forse però non sempre perfettamente, commedia, action e horror in salsa, potremmo dire, citazionistica d’impianto nostalgicamente adolescenziale.

Quindi, Il mostro della cripta è perlopiù destinato a un pubblico di teenager amanti dei fumetti bonelliani à la Dylan Dog e affini similari. Dunque, conseguentemente, è un film dedicato non solo alle nuove generazioni, bensì anche, per l’appunto, ai ragazzi degli anni ottanta e novanta oramai cresciuti, perlomeno all’anagrafe, eppur irrimediabilmente legati alla loro adolescenza oggi finita da un pezzo ma giammai nell’animo loro davvero estintasi. Scritto a varie mani, cioè dai Manetti Bros. (Diabolik), alias Antonio & Marco, peraltro fra i produttori principali, assieme ad Alessandro Pondi e Paolo Logli con le collaborazioni dello stesso Misischia e di Cristiano Ciccotti, Il mostro della cripta è un film sperimentale molto coraggioso, va detto onestamente e riconosciuto, questo sì, lodatamente e obiettivamente senz’alcun ruffiano infingimento di sorta, che s’arrischia ad esplorare e tentare di rivivificare non soltanto l’horror, bensì molto Cinema del presente e del passato, centrifugandolo in molteplici generi a loro volta non solo cinematografici. Infatti, le citazioni contenute al suo interno non si limitano solamente agli ammiccamenti, per l’appunto, cinefili. Ma riguardano il pop tutto e guardano indietro in modo toutcourt, sebbene molto alla buona…

Ma ora passiamo alla trama e non perdiamoci in sofistiche chiacchiere superflue. Per semplice comodità, ve la trascriveremo direttamente da IMDb, al fine di risparmiarci l’’impellenza e l’onere, in tal caso, di utilizzare parole nostre, in quanto la sinossi riportatavi, ci pare già efficace e precisamente concisa, assai pertinente e sufficiente a sintetizzare e centrare, a racchiudere, in pochissime righe, il fulcro focale della vicenda narrataci e da Misischia, in forma divertita e scanzonata, dinamicamente mostrataci.

Un adolescente secchione che sfoglia un fumetto vede paralleli tra la storia e gli orrori della vita reale nel villaggio in cui vive. Lui e alcuni amici cercano di indagare.

Ecco qui ora la nostra disamina. Ah, prima però approntiamo subito una piccolissima correzione alla lapidaria trama espressa da IMDb. Il protagonista non è affatto un secchione, bensì un nerd, vivaddio, sanamente ingenuone ma forse un credulone sognatore… Il mostro della cripta ovvia, e ci pare ovvio, al budget limitato, escogitando un paio di stratagemmi diegetici per niente malvagi, aggirando perciò tale suddetto ostacolo in virtù delle sue idee godibilmente strampalate che si rifanno, per l’appunto, a tutt’un immaginario d’apparato nostalgico e al sincretismo culturale che andava per la maggiore in quei convulsi, confusionari eighties rutilanti e casinari.

E, in questo, Il mostro della cripta è a sua volta emulativo di Stranger Things, diciamo, effettuato, anzi rielaborato però all’amatriciana con tanto d’ambientazione nell’assai italiana Bobbio, durante l’anno 1988.

Conseguentemente, è marcatamente, diciamo, maccheronicamente virato al provinciale con accenni e accenti relativi della Padania…

Bobbio, ameno e ridente, anche annoiato borgo emiliano-romagnolo di poco meno di quattromila abitanti in provincia di Piacenza, situato nel bel mezzo della Val Trebbia. Ove Marco Bellocchio ambientò il suo primo e considerevole film, I pugni in tasca. Bobbio è anche la città natia di Bellocchio.

Bravino il suo protagonista, più che altro simpatico, cioè Tobia De Angelis nei panni di Giò Spada, piacente la presenza dirompente e sgallettante, perfino pepata e piccante, della pimpante Amanda Campana nel ruolo di Vanessa.

A un certo punto, il nostro Giò, convintosi che il fumetto da lui letto e amatissimo, vale a dire l’albo fittizio, intitolato Squadra 666, scritto e disegnato dal suo idolo, Diego Busirivici (Pasquale Petrolo, più comunemente noto come Lillo), racconti una storia vera e non sia frutto di pura, spaventevole finzione mera, essendo disperato, fra l’altro dopo aver assistito al macabro omicidio, forse di natura rituale, della sua amica Sara (Alice Bortolani), violentemente squartata e morta dissanguata, decide di rivolgersi nientepopodimeno che a Diego stesso. Andando a trovarlo in corriera.

Curiosità: il fumetto Squadra 666 è stato creato ad hoc per Il mostro della cripta ma non è stato, naturalmente, disegnato da Busirivici/Lillo, bensì è stato ideato, congegnato e appositamente allestito da lekos Reize e Alfredo Castelli, quest’ultimo inventore del celeberrimo Martin Mystère.

Fra i produttori esecutivi, Pier Giorgio Bellocchio (da non confondere col Piergiorgio dall’identico cognome, costui letterato, scrittore e critico letterario), figlio del celebre regista Marco. E non per niente, difatti, in apertura di film, viene omaggiato Marco Bellocchio stesso. Il quale, come sappiamo e come ci viene puntualmente riferito, nell’incipit per l’appunto de Il mostro della cripta che lo omaggia, come sopra riportatovi, realizzò il suo primo film, assai importante e imprescindibile, cioè I pugni in tasca, esattamente a Bobbio. La cittadina ove, così come sempre sopra dettovi, se ne svolge gran parte dell’ambientazione.

Musiche di Isac Roitn, fotografia di Angelo Sorrentino.

I cinefili impazziranno di gioia e non solo nel districarsi nella miriade di citazioni che riempiono Il mostro della cripta. Che vanno dai poster di Non aprite quella portaLa casa e Moonwalker con Michael Jackson che campeggiano nella cameretta di Giò, alla locandina di Nightmare 4 – Il non risveglio, col terribile, eterno babau Freddy Krueger, arrivando, nettamente ammiccanti, a Ritorno al futuro – Parte II e al cult movie L’implacabile con Arnold Schwarzenegger. Senza dimenticare, ci pare ovvio e ci viene mostrato anche nel trailer, l’epocale Che cavolo stai dicendo, Willis?, tratto da Il mio amico Arnold.

mostro cripta

Forse però il sapiente gioco “cinefiliaco” (usiamo lo stesso linguaggio giovanilistico e un po’ forzatamente gergale del film) di Misischia & company, sebbene arguto e ricercato, non basta pienamente a reggere il peso d’un film che parte in quinta, viaggia speditamente per la prima ora, carbura immantinente pur con molte ingenuità e alcune scene scontate ma, in tutta franchezza, poi si perde farraginosamente per strada, rivelandosi troppo lungo e spesso mal recitato dai comprimari. I quali si limitano a scandire i pezzi del copione, a loro rispettivamente assegnati, semplicemente preoccupati di non sbagliarne le battute più che sentirle e farle proprie veramente. Insomma, a nostro avviso, una recitazione decisamente parrocchiale, specialmente scolastica e non opportunamente diretta, degli attori di contorno, sciupa non poco Il mostro della cripta. Misischia, in tale circostanza, avrebbe dovuto avere più polso nell’imporre la sua direzione attoriale, altresì comprendiamo che, probabilmente, era più interessato ad organizzare, vagliare, ponderare e architettare l’intricata e complicata messa in scena e al doversi giostrare nell’uso difficile degli spazi e delle diverse location.

Dunque, questa sua discutibile distrazione registica, a riguardo esclusivamente, sia ben inteso, del lavoro sugli attori, gliela possiamo perdonare anche se col beneficio del dubbio…

Nel cast, Chiara Caselli as la “matta” Fabienne.

Gli echi e i riferimenti di cui è pregno Il mostro della cripta, ribadiamolo, sono svariati e innumerevoli.

Inoltre, è abbastanza palese che Misischia s’ispiri a maestri come Dario Argento e, notevolmente, Michele Soavi (Dellamorte DellamoreLa chiesa) deve averlo parecchio influenzato di ottimo ascendente.

Infatti, i trucchi e gli effetti speciali sono a cura del grande Sergio Stivaletti.

E abbiamo detto tutto, sinceramente.

Anzi no. Misischia sbertuccia, platealmente, due icone totemiche oramai dei nostri padri, cioè Nanni Moretti e il compianto (da chi?) Guccini.

Sostanzialmente, vuole implicitamente lanciare un messaggio inequivocabile: basta con la falsa cultura, tristemente sinistroide, dei boomer.

Personalmente, dei tristoni come Moretti e di Guccini, io non so che farmene, forse anche Misischia si è rotto le scatole. Ha ragione da vendere.

E ricordate: mai risvegliare dal sonno o dal letargo, una creatura “mostruosa”.

Sì, prima di augurarvi buonanotte, vi racconto un aneddoto riguardante il sottoscritto.

Il mio ex parroco, Don Giuliano, a sedici anni, durante la benedizione pasquale, entrò in casa mia e, per curarmi dalla “schizofrenia” di sua sorella e delle sue suore, mi consigliò di regredire e darmi a Topolino.

Qualche anno fa, Don Giuliano morì. Sono l’unico al mondo che, osservandolo dritto negli occhi, all’epoca, seppe che, dopo le prediche e le sue messe, la sera tardi andava con le topone.

Lo so, uno così mette i brividi. Ed è per questo che mi dicevano di soffrire di “danni neuronali”. La suggestione catechistica è un modo orrendo che hanno gli “adulti” di fermare ciò che non è umano.

Sì, non sono normale, ringrazio dio. I coglioni credono in Gesù.

Ah ah.

Di contraltare, se nella mia vita da peccatore, sbagliai, vi chiedo scusa e vi supplico di mettermi nuovamente in croce.

Ah ah. Volete bruciarmi come le streghe che vi siete sposati?

Ah ah.

di Stefano Falotico

Chiara Caselli mostro della cripta

 

THE LAST DUEL & HOUSE OF GUCCI, una doppietta immediata: panoramica su Ridley Scott

HouseofGucciEbbene, siamo ancora piacevolissimamente storditi e immensamente estasiati nel rimembrare, con forte ammirazione, l’ultima e recentissima opera di Ridley Scott, cioè l’epico e mastodontico The Last Duel, da noi opportunamente recensito e, giustamente, incensato di sacrosante lodi.

A breve, inoltre, lo stacanovista Ridley Scott non solo compirà la veneranda e, aggiungiamo noi, venerabile età di ottantaquattro primavere, bensì uscirà prestissimo nei cinema mondiali, per Natale, esattamente, con un altro film da lui firmato e parimenti molto atteso, vale a dire House of Gucci con Lady Gaga e mr. Jacques LeGris/Adam Driver del succitato, straordinario The Last Duel. E un cast altisonante da far impallidire chiunque. In quanto, può annoverare, oltre alle presenze appena dettevi della Gaga e di Driver, nomi come quello del mitico Al Pacino, del grande Jeremy Irons e, fra gli altri, di Salma Hayek e Jared Leto.

Qual occasione migliore dunque per celebrare e brevemente illustrarvi, a grandi linee, la carriera pazzesca, per l’appunto dell’immarcescibile e sempre brillante Ridley Scott l’infermabile?

Nato a South Shields, contea rinomata della florida Inghilterra, nel giorno del 30 Novembre dell’anno 1937, fratello del compianto Tony Scott, regista di The Fan, ahinoi suicidatosi nel 2017, dopo il diploma, Ridley lavorerà come scenografo, approdando presto alla direzione di telefilm per la BBC. Dopo alcuni spot, ecco che nel 1977, dunque all’età di quarant’anni, riuscirà a dirigere il suo primo film ed è subito capolavoro, I duellanti.

Un esordio fantasmagorico e magnifico a cui seguiranno altri due lungometraggi, possibilmente, ancora più belli, importanti e leggendari, Alien (1979) e l’irraggiungibile Blade Runner (1982).

Una tripletta impressionante, interrotta purtroppo da quello che viene considerato un suo grosso passo falso, forse però a torto, Legend. Film, quest’ultimo, del 1985, interpretato da un giovanissimo, quasi irriconoscibile Tom Cruise, da Tim Curry e dalla bellissima Mia Sara (l’avvenente e sexy Melissa del sottovalutato Timecop – Indagine dal futuro).

A cui seguirà un altro flop abbastanza clamoroso, Chi protegge il testimone. Con protagonista, neanche a farlo apposta, la storica ex di nientepopodimeno che Tom Cruise, la milf Mimi Rogers.

Cosicché, a metà anni ottanta, la carriera di Ridley Scott, partita alla grandissima, subì un’improvvisa marcio d’arresto, perlomeno apparentemente.

Sono pochissimi i registi che, nella storia della settima arte, possono vantarsi degli esordi cineastici di tale livello e, quindi, soltanto dopo un paio di pellicole che lasciarono perplessi, la stella luminosa di Ridley parve inaspettatamente appannarsi.

Poco male, però, poiché Ridley avrebbe saputo riprendersi alla grande, sfoderando tutta la sua classe con lo splendido Black Rain con Michael Douglas & Andy Garcia. Seguito istantaneamente da un altro bel successo commerciale di Critica e pubblico, Thelma & Louise con Susan Sarandon, Geena Davis e un praticamente esordiente Brad Pitt.

Detto ciò, ecco che Ridley Scott, di nuovo, sbaglia i film successivi, almeno parzialmente. In quanto l’ambizioso 1492 – La conquista del paradiso, Soldato Jane e soprattutto L’Albatross – Oltre la tempesta saranno mal accolti ai tempi della loro release in sala.

Poco male, per l’ennesima volta. Difatti, alla faccia dei suoi ostinati detrattori ingrati, Ridley Scott, sul finire dei nineties, azzecca un film sbanca-botteghino iper-oscarizzato, Il gladiatore. Altresì resuscitando a sorpresa un genere passato di moda alquanto, cioè il peplum.

Sostanzialmente, da allora in poi, a eccezion fatta di qualche scivolone, definiamolo pure film incompreso oppure onestamente sbagliato, come per esempio Un’ottima annata, Ridley Scott non sbaglia quasi nulla.  Regalandoci perle quali Black Hawk Down, lo stupefacente e geniale, è il caso di dirlo, Il genio della truffa, American Gangster e The Martian. Perciò, gli perdoniamo tranquillamente suoi film indubbiamente poco efficaci come Nessuna verità. Se a questo, per di più, aggiungiamo che Ridley Scott è finanche un produttore instancabile dei più prolifici, ci paiono maggiormente irriguardose, anzi, veramente esecrande le critiche che alcuni, a tutt’oggi, ottusi e ignoranti più delle più stolte capre, continuano scriteriatamente a muovergli contro. Per finire, Ridley Scott, immantinente girerà un altro colossal dal budget faraonico, Kitbag. Biopic su Napoleone con Joaquin Phoenix e la protagonista di The Last Duel, Jodie Comer. Avete ancora dei dubbi in merito alla sua grandezza non solamente registica? Qualcosa da dire…? Ci pare giunta l’ora che i suoi stupidi haters, per l’appunto come si suol dire, prestamente s’ammutoliscano. Sì, per piacere, stiano subito zitti.

Altrimenti, chiameremo Il gladiatore 2… attualmente in fase di preparazione, eh eh.

di Stefano Falotico

 

PIG, recensione

Nicolas Cage PIG

Ebbene, oggi recensiamo il sorprendente e struggente Pig, film della durata di un’ora e trentadue minuti decisamente trascinanti che ci hanno fortemente emozionato, intenerito, ripetiamo, vivamente commosso e oltremodo stupito, in quanto Pig, opera prima del finora quasi sconosciuto Michael Sarnoski, è difatti firmato da un regista apparentemente proveniente dal nulla, sebbene avesse diretto alcuni interessanti cortometraggi ed episodi della serie tv Olympia. Che con tale sua opus ed esordio alla regia (ovviamente, intendiamo per un lungometraggio cinematografico), in modo clamoroso, ha lasciato positivamente senza parola la Critica mondiale. La quale, infatti, ha incensato Pig di commenti entusiastici, sperticandolo di lodi senza pari.

Addirittura, non pochi opinionisti, statunitensi e non, hanno gridato al capolavoro. Ecco, forse la parola capolavoro ci pare, sinceramente, un po’ esagerata, va detto altresì certamente che Pig è un film molto bello e, ribadiamo, altamente emozionante. Ed è interpretato, da protagonista assoluto, onnipresente dalla prima all’ultimissima scena, da un Nicolas Cage che, nuovamente, dopo tante prove cosiddette alimentari in film oggettivamente inguardabili e/o addirittura impresentabili, azzecca un’altra prova attoriale veramente gigantesca e notevole.

Andando, così facendo, ad alimentare puntualmente la sua fama oramai d’attore qualitativamente inclassificabile. Poiché alterna, con facilità incredibile, performance eccellenti, anzi eccezionali e memorabili, ad altre oltremodo scadenti, anzi eufemisticamente imbarazzanti. Sì, imbarazzanti è un eufemismo se accostiamo tale aggettivo alla sua penosa, fiacca recitazione in robaccia mostruosa come, per esempio, Jiu Jitsu o 2030 – Fuga per il futuro, film, quest’ultimo, forse visto da tre persone sul Pianeta Terra, eh eh.

Insomma, che razza di attore è, in ogni senso, il grande Nic Cage? Per l’appunto, un oggetto non ben identificato e più indecifrabile d’una allucinante, aliena navicella spaziale.

Ma la pazzia interpretativa di Cage ci garba un sacco e ne andiamo, a nostra volta, matti.

Tornando a Pig, scritto dallo stesso Sarnoski assieme alla sceneggiatrice Vanessa Block, eccone stringatamente la trama: Rob (Cage) è un barbuto eremita cacciatore di tartufi che vive, in una capanna fatiscente, solitariamente nell’Oregon più selvaggio e boschivo. Standosene, solo soletto, nella sua decrepita e scricchiolante abitazione ai piedi di secolari querce forestali. All’improvviso, torna nella sua natia Portland, mettendosi alla ricerca del suo amatissimo maiale scomparso, anzi, più precisamente rapito.

Straordinaria fotografia magistrale di forte impatto e di suggestiva atmosfera a cura di Patrick Scola (accreditato soltanto come Pat) e incantevoli musiche firmate da Alexis Grapsas & Philip Klein.

Pig ha una trama all’apparenza risibile e molto scarna a livello di risvolti narrativi praticamente inesistenti. Eppur travolge dall’inizio alla fine in modo meravigliosamente toccante.

In quanto, sorretto da un magnetico Cage datosi anima e corpo al personaggio da lui qui egregiamente incarnato, diretto da un Sarnoski ispirato e illuminato, com’appena sopra dettovi, da toni fotografici ipnotici, basa molto del suo fascino sull’impianto visivo, oniricamente trascendente.

Come se Pig fosse, più che un film vero e proprio, una strepitosa ode melanconica visualizzata in immagini risuonanti, nei nostri cuori, di vivido e corposo, grandioso impatto emotivo dei più soavemente inconsci. Un’opera delicata, stupenda con un Cage che, per l’ennesima volta, spiazza chiunque, smentendo soprattutto i suoi ostinati detrattori. I quali, volenti o nolenti, dinanzi a questa sua prova, non potranno oramai più negare l’evidenza. Cioè semplicemente questa: Nicolas Cage è una leggenda vivente.

Così è, non si discute. Il resto sono futili, stolte chiacchiere da bar e sciocchezze dette ingenerosamente da gente che di Cinema non capisce niente.

Pig non è per tutti, anzi, è per pochissimi. Echeggiante atmosferiche suggestioni à la Terrence Malick, malickiane se preferite, in alcuni tratti assomiglia a un’altra pellicola con Nicolas Cage stesso, ovvero Joe. Quindi, incede in lunghe zoomate e panoramiche assai lente che ai più potranno apparire soporifere e indigeste.

Ma va ammesso incontrovertibilmente che, malgrado la prima mezz’ora abbastanza ostica per via, appunto, del suo ritmo fin troppo blando, verso gli ultimi quarantacinque minuti prende il volo sensibilmente e s’impenna ancor più liricamente, toccando alte vette di poesia di gran quota.

Spiazzandoci con una serie di twist inaspettati.

Se non sopportate un Cage con la recitazione in sordina ma amate il Nic scatenato in overacting, ovviamente Pig non fa per voi. Soprattutto, se adorate i film d’azione dinamici e scoppiettanti e non guardate di buon occhio i film dalla trama praticamente ridotta all’osso, basati quasi esclusivamente sulle suggestioni, lasciate perdere.

Nel cast, co-protagonista Alex Wolff e Adam Arkin (A Serious Man), quest’ultimo nei panni del padre del personaggio di Wolff.

Nicolascagepig

di Stefano Falotico

 

MEDIUM, recensione

MediumEbbene oggi recensiamo Mediumopus n. 2, in termini di lungometraggio, del promettente e/o volenteroso Massimo Paolucci, fattosi notare, perlomeno per gli aficionado degli horror molto sui generis nostrani, con la pellicola Photoshock del 2017. Dunque, sbagliano in tanti ad affermare che Medium è la sua opera prima.

Già produttore, peraltro, del Dracula di Dario Argento e di Hard Night Falling di Giorgio Bruno col mitico Dolph Lundgren. Quest’ultimo, inoltre, dovrebbe presto e quanto prima rincontrare il nostro Paolucci per il progetto top secret dal titolo Malevolence. In tal caso, le parti però s’invertiranno, diciamo, e Lundgren ne sarà regista, mentre Paolucci comparirà come producer.

Tornando invece al film da noi, in questa sede, preso in questione, ovvero Medium, trattasi di una pellicola della scorrevole e non molto lunga durata di un’ora e mezza, scritta da Lorenzo De Luca. Sceneggiatore, fra gli altri e fra l’altro, di Jonathan degli orsi di Enzo G. Castellari con Franco Nero e di Bastardi, sempre con Nero e, nel suo ricco cast, Giancarlo Giannini e addirittura Don Johnson. Prossimamente, per la regia dello stesso Franco Nero, De Luca firmerà, in veste di writer, anche l’attesissimo L’uomo che disegnò dio. Film che segnerà, per di più, il ritorno sul grande schermo di Kevin Spacey. Il quale, come sappiamo, è stato estromesso da Hollywood per motivi discutibili, ahinoi, scandalosamente noti. E non aggiungiamo altro in merito al puritanesimo bigotto e fuori tempo massimo d’una grande Mecca alquanto ipocrita e ingrata. Velatamente, sottintendendo la nostra chiara opinione in merito.

La trama di Medium è la seguente, riassunta brevemente per evitare inutili spoiler di sorta: due ragazzi mascherati, oltre che scapestrati e ladri un po’ improvvisati, Walter (Emilio Franchini) e Ivan (Pierfrancesco Ceccanei), compiono una rapina in un bar periferico. Ad aspettarli in macchina, un’avvenente girl

I due non tanto provetti malavitosi, fin da subito, nell’incipit di Medium, entrano in contatto con un personaggio misterioso, nei loro riguardi alquanto altezzoso e sprezzante, eppur magnanimo. Scopriremo che costui si chiama, anzi, s’auto-battezza Cagliostro (Tony Sperandeo). Nome decisamente roboante, echeggiante di fastose leggende ammantate di torbida malvagità nefasta.

Ebbene, Cagliostro, malgrado i due ragazzi succitati fossero per l’appunto celati dietro delle maschere, scopre presto la loro identità. Pura coincidenza, fatalità del destino dallo stesso Cagliostro forse profetizzato per ragioni divinatorie o d’altra natura sovrannaturale? Oppure per semplici coincidenze appartenenti alla stranezza della vita quotidiana nella sua rutilante carambola imprevedibile e al contempo angosciosa e perturbante?

Cagliostro ricatta la piccola banda dettavi, cioè questo terzetto formato dai due boys, forse criminali da strapazzo, più la ragazza sopra menzionatavi di nome Patrizia (Martina Marotta).

Quello di Cagliostro è un ricatto sin a un certo punto, in quanto pecuniariamente si palesa assai allettante. Cagliostro lascia infatti ai nostri cosiddetti ladri la piccola refurtiva a lui derubatagli, essendo Cagliostro il proprietario del bar svaligiato da tale trio elencatovi, dicendo al gruppetto dei ragazzi “mariuoli” di considerarla un acconto affinché possano presto invece compiere, su sua commissione, un ladrocinio ben più remunerativo, anzi, milionario. Cioè svaligiare la villa di un cinese, situata sui colli romani. Per meglio dire, sottrarre da quest’abitazione una preziosissima gemma dall’economico valore inestimabile.

Cagliostro ha scelto casualmente loro perché incensurati? Dunque, in caso di sfortunosi posti di blocco, non preventivati, attuati dall’eventuale polizia lungo il tragitto dalla loro casa a quella del ricco cinese, essendo per l’appunto costoro non ancora schedati, passerebbero inosservati, a differenza degli altri ben più preparati sgherri di Cagliostro, probabilmente molto più esperti di loro, per l’appunto, in materia dei grossi colpi rapinatori, ma già segnalati e di conseguenza tenuti d’occhio costantemente dalle forze dell’ordine che su di essi vigilano vita natural durante, molto attentamente.

A questo punto, ci fermiamo qua, cosa succederà?

I ragazzi cercano una giada luminosa, capace di donare poteri salvifici e forse miracolosi? Chi è Sofia (Martina Angelucci), figlia del proprietario della magione (Hal Yamanouchi/Hung)? Chi sono, rispettivamente, Asia (Dafne Barbieri), la sensuale ex di Walter, la conturbante Barbara (Barbara Bacci) e il silenzioso giardiniere Bruno (Bruno Bilotta)?

Medium, fotografato da Matteo de Angelis, non si può dire un film riuscito ma il suo inizio, in stile alla Stefano Calvagna, è abbastanza divertente e recitato ottimamente dal veterano Tony Sperandeo (Johnny StecchinoLa scortaMery per sempre) nei panni del mefistofelico Cagliostro. Poi il film diventa un cialtronesco concentrato, imbarazzante, di heist movie e giallo all’amatriciana con ridicole venature grottescamente orrifiche, gigantescamente risapute e molto orride.

Che alterna scene girate con ritmo a soluzioni registiche incomprensibili che non sanno se copiare il miglior Michele Soavi o scegliere confusamente una ricerca d’una originalità kitsch mortifera più d’un nebbioso cimitero di zombi viventi, stavolta intesa sul piano metaforico di una sterile, assai arida natura prettamente estetica.

Comunque sia, Medium si lascia guardare. È un piccolo gioiello, paradossalmente, nel suo essere uno scult movie di matrice trash con elementi visivi non sempre banali. E lascia il segno. Nel bene e nel male.

Idolatrare e iper-venerare il nuovo, grande film di Ridley Scott e poi guardare questa roba, è qualcosa di diabolico. Ma io sono un critico a 360° gradi anche se, a un occhio, mi mancano alcune diottrie. Non ho dottrina, ma son uomo di acuità e acume, la mia vita non rispetta le simmetrie.

Son uomo di fantasia, simpatia e anche antipatia.

di Stefano Falotico

 

THE LAST DUEL, recensione

Ebbene, oggi recensiamo l’attesissima nuova opus di Ridley Scott, vale a dire The Last Duel.jodie comer last duel

The Last Duel è un film dalla corposa, incalzante e avvincente durata considerevole di due ore e trentadue minuti netti che scorrono assai piacevolmente ove Ridley Scott, regista ovviamente da noi molto amato e che non necessita d’ulteriori presentazioni superflue, avendo infatti lui firmato, durante la sua brillantissima carriera mirabile, a prescindere dal suo stesso excursus cineastico qualitativamente altalenante e non poche volte difettoso e zoppicante, opere dal valore ineguagliabile e altamente addirittura seminali, cinematograficamente parlando, quali I duellantiAlien e Blade Runner. Oltre a, ça va sans dire, inutile e quasi pleonastico rimarcarlo, un profluvio infinito e densissimo di opere più o meno riuscite ma, comunque sia, assai importanti e senza dubbio perfino epocali come Il gladiatoreBlack RainBlack Hawk Down, solo per citarne alcune. Ridley Scott l’infermabile, stacanovista nato, immarcescibile director inarrestabile e creativamente ipertrofico a livelli spaziali. Il quale, alla veneranda e ottimamente stagionata età di 83 primavere (ottantaquattro, il prossimo e imminente 30 Novembre), egregiamente indossate con stile e inoppugnabile eleganza non soltanto registica, continua imperterritamente a sfornare film a tutt’andare e senza soluzione di continuità. Ciò ha dell’impressionante. Difatti, prestissimo, quasi in contemporanea con The Last Duel, uscirà nei cinema mondiali anche il suo affascinante, sebbene a prima vista forse troppo commerciale e marchettaro, biopic House of Gucci con Lady Gaga.

The Last Duel, presentato in pompa magna e buona accoglienza dalla Critica (sul sito aggregatore recensorio metacritic.com ha ottenuto la lusinghiera, sebbene forse non eccelsa, media valutativa equivalente al 65% di giudizi positivi), nella sezione Fuori Concorso alla recentissima 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un colossal (un tempo, soprattutto e più precisamente nei nineties, l’avremmo definito un dispendioso blockbuster) dal budget faraonico, ambientato nel Medioevo.

La cui potente trama, nelle seguenti righe, sintetizzata in maniera molto stringata per non sciuparvi le molte inaudite sorprese del suo sapido intreccio diegeticamente distillateci attraverso un ritmo di robusto piglio narrativo appassionante, v’enunceremo in forma saliente: nella rutilante e oscurantistica Francia del XIV secolo, una misteriosa, conturbante e fascinosa donna chiamata Marguerite de Thibouville (la brava e bellissima, fotogenica Jodie Comer), denuncia pubblicamente di essere stata violentata dal miglior amico di suo marito. Suo marito è lo sfregiato in viso Jean de Carrouges (Matt Damon) mentre l’amico, imputato dalla donna dello stupro avvenuto a suo danno, è lo scudiero Jacques Le Gris (un mellifluo, ambiguo e qui molto convincente Adam Driver). La donna, per tale sua accusa infamante, potrebbe essere bruciata sul rogo. Al che, in questa torbida storia di vendetta, ricerca della giustizia e disfide all’ultimo sangue, specialmente per combattere i demoni metaforici d’anime perennemente combattute e combattive, entra in ballo anche l’arcigno conte Pierre d’Alençon (un Ben Affleck inedito e platinato).

Film grintoso, violentissimo, sanguigno e sanguinario, passionale oltre ogni dire e dall’afflato epico d’altri tempi, fotografato vertiginosamente da un ispirato Dariusz Wolski (oramai il cinematographer designato, potremmo dire, vita natural durante, da Ridley Scott, perlomeno da Prometheus in poi, dopo aver lavorato, fra gli altri e fra l’altro, dapprima col compianto fratello di Ridley, Tony, per Allarme rosso e The Fan), The Last Duel, oltre che essere interpretato da Matt Damon e Ben Affleck, è stato da loro stessi sceneggiato assieme a Nicole Holofcener, che hanno per l’occasione adattato The Last Duel: A True Story of Trial by Combat in Medieval France, da noi edito col titolo L’ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale, firmato da Eric Jager.

Dunque, a differenza dell’Oscar, ottenuto da Affleck & Damon per la loro sceneggiatura originale di Will Hunting – Genio ribelle, stavolta i nostri colleghi amiconi inseparabili dai tempi del liceo, hanno, sì, scritto sempre di loro pugno lo script di The Last Duel ma, in tal caso preciso, si sono “limitati” a romanzare una storia già scritta. Liberamente, come si suol dire, adattandola a loro gusto.

The Last Duel, così come avvenuto per altri film storici di Scott, vedasi Il gladiatore, anche gli anacronismi e le molte licenze più o meno opinabili, persino ridicole, di Tutti i soldi del mondo, è stato già accusato da più fronti e fonti, diciamo, di essere, sì, alquanto verosimigliante nella ricostruzione della vicenda letteraria narrataci da Jager, però  al contempo inattendibile, per l’appunto, sul versante della realistica veridicità di molti elementi storicamente ritenuti improponibili.

Malgrado la sua lunghezza un po’ spropositata e qualche scena dispersiva, girata probabilmente con troppa enfatica retorica secondo gli stilemi consueti, soventemente eccessivi ed estetizzanti di Scott, a dispetto di alcuni dialoghi tirati per le lunghe e non sempre centranti il bersaglio, The Last Duel ammalia e possiede un fascino e un respiro notevoli.

Se, a prescindere da tutto, ripudiate però a priori un Ben Affleck nei panni d’un nobile imbarazzante, esteticamente, con la chioma bionda, eppur, ammettiamolo, anche qui bravo e capace da un punto di vista invece prettamente attoriale e interpretativo, soprattutto assai perfetto per il ruolo da lui stesso cucitosi addosso genialmente, se odiate i film in costume con castelli, imbroglioni, doppi giochi, complotti, tradimenti e annessi, inevitabili inganni, se mal digerite le vicende incentrate su fate damigelle bellissime donne spacciate per bugiarde, ripiene di estenuanti lotte all’ultimo sangue a fiotti, The Last Duel non fa di certo per voi, e statene dunque naturalmente lontani e alla larga.

Curiosità: nel 2006, l’adattamento di The Last Duel, da trasporre registicamente per il grande schermo, suscitò un fortissimo interessamento da parte di Martin Scorsese. Che, allora, sembrò assai prossimo a dirigerlo per la major Paramount.

Poi, tale progetto cadde nel dimenticatoio e Scorsese, come sappiamo, si diede ad altro. The Last Duel, quindi, ora è un film di Ridley Scott, a tutti gli effetti. Anzi, più esattamente un film di Scott con Matt Damon ed Affleck, non solamente protagonisti e, come detto, principali artefici e sceneggiatori. Bensì, insieme allo stesso Scott, in prima linea produttori.

Inoltre, la montatrice di The Last Duel, vale a dire Claire Simpson, che lo è anche del succitato House of Gucci, professionalmente affiliatasi, diciamo, a Scott molti anni addietro per Chi protegge il testimone (1987), poi abbandonata da Scott medesimo e ritrovata, anzi richiamata soltanto da quest’ultimo recentemente per Tutti i soldi del mondo, lavorò anche con suo fratello Tony per il sopra menzionato The Fan – il mito.

The Last Duel incede, da più prospettive, troppo insistentemente sulla scena dello stupro, disgustosa e brutale. Mostrandocela completamente più volte e avremmo preferito non guardarla. Non per moralismo, bensì perché Scott dovrebbe sapere benissimo che è molto più perturbante il suggerito dallo spiattellatoci in faccia ripetutamente e volgarmente.

Detto questo, The Last Duel, dopo una parte centrale tediosa e forse non necessaria, spicca il volo negli ultimi trenta minuti, diventando grandioso nel finale palpitante e struggente. Da pelle d’oca.

Morale: Ridley Scott firma il suo miglior film da tempo immemorabile a questa parte. Forse dura troppo e il film perde molti colpi per via della brutalità della scena, diciamo, incriminata e chiave. Eh eh. Ma questo è un film che emoziona, da leccarsi i baffi, non quelli di Driver, si spera, eh eh.

di Stefano Falotico

 

IL GIOCO DI GERALD, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo un film piuttosto recente, cioè Il gioco di Gerald.

Firmato dal regista di Doctor Sleep, ovvero Mike Flanagan.

Il gioco di Gerald (Gerald’s Game) è un film targato Netflix. Distribuito, da tale appena dettavi piattaforma, nell’anno 2017. Ed è il libero adattamento, vale a dire la trasposizione cinematografica, con alcune licenze e inevitabili modifiche in sede di sceneggiatura, realizzata dallo stesso Flanagan e dal writer Jeff Howard, dell’omonimo e celeberrimo capolavoro letterario di Stephen King. Un thriller psicologico con venature orrifiche di natura puramente ancestrale delle più macabre e inquietanti.

La trama è molto semplice e scarnificata, eh eh, no, scarna:

Gerald Burlingame (Bruce Greenwood, RamboIndian – La grande sfidaThirteen Days e lo stesso su citato e successivo Doctor Sleep) e l’avvenente, seducente moglie, Jessie (Carla Gugino, Sfida senza regoleOmicidio in direttaWatchmen) sono, per l’appunto, una coppia di coniugi già in crisi matrimoniale. Gerald e Jessie decidono di trascorrere un weekend diverso dal solito. Il loro diversivo, se così possiamo definirlo, sarà recarsi nella loro casa vicina a un lago per godersi spensieratamente e “ludicamente” il fine settimana. Al che Gerald ha la balzana, un po’ perversa idea di sperimentare dei torbidi, irruenti e leggermente sadici e trasgressivi giochi d’adulti con la sua consorte. Ammanettandola al letto per gustare irruentemente con lei, lascivamente e inizialmente giocosa e consenziente, passionalmente e probabilmente in modo troppo arditamente sessuale, una giornata a base di sano divertimento piccante dei più stuzzicanti e morbosi. Osiamo dire, in maniera spinta e osé, al limite della fantasia proibita d’uno stupro inscenato per piacere sensualmente ludico. Dunque, all’improvviso, Gerald subisce un infarto, sì, un letale arresto cardiaco fulmineo e fulminante. Accasciandosi sul colpo e stramazzando al suolo, inerme.

Jessie, all’inizio, crede che lui stia scherzando. Poi, dopo pochi istanti, s’accorge invece che suo marito è morto sul serio. Poiché avvista immantinente il suo sangue fuoriuscirgli dal cranio.

Jessie si trova dunque legata agli stipiti del letto, mezz’ignuda, infreddolita nel calare impietoso della notte più spettrale delle sue solitarie angosce destinate, purtroppo per lei, a materializzarsi in un incubo a occhi aperti da cui pare non esservi via di scampo e da cui sembra non possa uscirne incolume mentre perfino un cane lupo solitario e affamato di carne fresca, spaventevolmente, le fa inaspettata visita.

Jessie, in preda al terrore e all’incalzante panico, non riesce più a distinguere la realtà oggettiva e umanamente sensoriale dall’immaginazione più allucinatoria, crollando lentamente eppur in modo crescentemente allarmante dentro la tetra, soffocante e ansiosa spirale d’una spasmodica angustia emotiva e doglianza percettiva via via più devastante.

Il gioco di Gerald, parimenti al romanzo di King, di cui tutto sommato è una fedele elaborazione efficace che smentisce quindi coloro che non pensavano fosse possibile trasferire visivamente l’opus suddetta di King, in quanto quest’ultima era allestita quasi esclusivamente sulle dinamiche, potremmo dire metaforicamente, atmosferiche dell’animo umano perturbato da infernali frangenti imponderabili e, in forma raccapricciante, in tal caso, dell’impaurita e incolpevole, povera Jessie, le cui emozioni, nel corso della sua tremenda avventura scioccante, cangiavano in modo precipitevolmente preoccupante, è un film più che meritevole della nostra attenzione e sostanzialmente più che decoroso, perciò abbastanza encomiabile.

Innanzitutto, com’appena scrittovi, non era facile rendere in immagini un libro che, a eccezion fatta del suo incipit, è pressoché privo di dialoghi, inoltre Flanagan (Il terrore del silenzio) dimostra di saper maneggiare con ottimo ritmo la narrazione onirica e al contempo sfuggente d’un materiale così, ripetiamo, a prima vista intraducibile e difficilissimamente intelligibile in chiave filmica.

Giostrandosi fra intelligenti trovate registiche di valente efficacia, perfino suggestivamente rilevanti. Infatti, Flanagan ricevette addirittura il plauso di nientepopodimeno che lo stesso Stephen King in carne e ossa, eh eh, il quale infatti spese molte parole d’elogio per tale da lui ammirato Il gioco di Gerald, in quanto lo definì perfettamente riuscito e ipnotico.

Molto del merito, comunque, della sua effettiva riuscita va alla performance d’una Carla Gugino a sua volta magnetica, bravissima e consuetamente, fisicamente stupenda e sensualissima, oltre che morbidamente, fascinosamente brillante, in senso attoriale parlando.

Il gioco di Gerald non è un grande film ma è un film figlio d’un regista ben conscio di non essere Stanley Kubrick (l’allusione comparativa, ovviamente, non è casuale). Il quale, ribadiamo, non ambendo per l’appunto a pretenziosità autoriali da incorniciare nei cinematografici annali della settima arte più memorabile, si limita distintamente a confezionare un buon prodotto d’entertainment con alcuni picchi immaginifici per niente malvagi…

Un buon film checché ne dicano molti incompetenti. Il film talvolta spaventa e rabbrividiamo dinanzi non tanto al lupo cattivo, bensì dirimpetto alla solita procace e arrapante Carla Gugino, una donna talmente bona da stimolare appetiti succulenti veramente piccanti. Eh eh. Non amo i lupi, sono una volpe. Ricordate: la volpe ottiene l’uva.

 

di Stefano Falotico

 
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