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IL MOSTRO DELLA CRIPTA, il Trailer

il mostro della cripta locandina

Ebbene, dopo il sorprendente e spiazzante The End? L’inferno fuori, pellicola horror di matrice zombesca, memore dei fasti di George A. Romero e affini epigoni, pellicola certamente non esente da difetti e da forti ingenuità, sebbene coraggiosa e a suo modo autoriale, il giovane regista Daniele Misischia sta per debuttare sui nostri grandi schermi con un’altra opus assai interessante, nient’affatto trascurabile, ovvero Il mostro della cripta.

De Il mostro della cripta, co-scritto dallo stesso Misischia in collaborazione con Cristiano Ciccotti, a loro volta in associazione coi fratelli Antonio & Marco Manetti, più comunemente noti al grande pubblico semplicemente come Manetti Bros. (Diabolik), qui in veste anche di produttori, è stato mostrato, poche ore fa, il primo attesissimo trailer ufficiale tramite la Vision Distribution. Noi ve lo proponiamo seguentemente, copia-incollandovi testualmente la presentazione e la sinossi ufficiale rilasciata:

Un film di Daniele Misischia Soggetto dei Manetti Bros. Con Tobia De Angelis, Lillo Petrolo, Amanda Campana, Nicola Branchini e con Chiara Caselli, Giovanni Calcagno, Eleonora De Luca, Alice Bortolani, Gianluca Zaccaria, Riccardo Livermore e con Ludovico Girardello con la partecipazione straordinaria di Gisella Burinato. È il 1988 e il giovane Giò (Tobia De Angelis), nerd poco più che adolescente, sfogliando l’ultimo numero del suo fumetto preferito, “Squadra 666 – Il Mostro Della Cripta”, scritto e disegnato da uno dei suoi idoli, Diego Busirivici (Lillo Petrolo), si accorge di alcune analogie tra la storia raccontata in quelle pagine e gli atroci avvenimenti che stanno seminando morte e terrore nel paesino in cui vive. Un inquietante mistero condurrà Giò e il suo strampalato gruppo di amici in un’avventura fuori dal comune.

1 minuto e 27 secondi, equivalenti alla durata esatta del filmato in questione, sono troppo pochi affinché possiamo farci un’opinione precisa in merito al valore qualitativo, da appurare o meno, de Il mostro della cripta.

Però, da quel poco che abbiamo potuto vedere e dunque intuire, pare che stavolta Daniele Misischia abbia tentato un’operazione alquanto stimabile.

Poiché Il mostro della cripta si palesa ai nostri occhi come una folcloristica, stravagante, inquietante e al contempo esilarante storia orrifica di natura mysterythriller mista alla commedia più sapidamente e volutamente demenziale, un po’ all’amatriciana in salsa gore, potremmo azzardare a dire.

Il mostro della cripta uscirà il prossimo il 12 Agosto.

Vi terremo aggiornati.

di Stefano Falotico

 

LIFE ACHIVEMENT Golden Lion to Jamie Lee Curtis, HALLOWEEN KILLS Trailer and Venice Premiere

Jamie Lee CurtisGenere: Horror
Cast: Jamie Lee Curtis, Judy Greer, Andi Matichak, Will Patton, Thomas Mann e Anthony Michael Hall
Diretto da: David Gordon Green
Scritto da: Scott Teems & Danny McBride & David Gordon Green, basato sui personaggi creati da John Carpenter e Debra Hill
Produttori: Malek Akkad, Jason Blum, Bill Block
Produttori esecutivi: John Carpenter, Jamie Lee Curtis, Danny McBride, David Gordon Green, Ryan Freimann

Nel 2018, Halloween di David Gordon Green, con Jamie Lee Curtis, ha sbancato il box office, incassando oltre 250 milioni di dollari in tutto il mondo, diventando il capitolo con il più alto risultato nei 40 anni del franchise e fissando un nuovo record come miglior weekend di apertura nella storia degli horror con una donna come protagonista.
E la notte di Halloween in cui ritorna Michal Myers non è ancora finita.

Alcuni minuti dopo che Laurie Strode (Curtis), sua figlia Karen (Judy Greer) e la nonna Allyson (Andi Matichak) hanno lasciato il killer mascherato Michael Myers imprigionato e in preda alle fiamme nello scantinato della casa, Laurie viene portata d’urgenza in ospedale con ferite potenzialmente letali, credendo di aver finalmente ucciso il suo incubo di un’intera vita.

Ma quando Michael riesce a liberarsi dalla trappola di Laurie, riprende il suo bagno di sangue rituale. Mentre Laurie combatte il suo dolore, si prepara a difendersi da lui e prepara tutta Haddonfield a ribellarsi contro il loro mostro inarrestabile.

Le donne Strode si uniscono a un gruppo di altri sopravvissuti alla prima furia di Michael che decidono di prendere in mano la situazione, formando una folla di vigilanti che si propone di dare la caccia a Michael, una volta per tutte.

Il Male muore stanotte.

Universal Pictures, Miramax, Blumhouse Productions e Trancas International Films presentano Halloween Kills, con Will Patton nel ruolo dell’agente Frank Hawkins, Thomas Mann (Kong: Skull Island) e Anthony Michael Hall (Il Cavaliere Oscuro).
Oltre al ritorno del team che ha portato al fenomeno globale del 2018, Halloween Kills è scritto da Scott Teems (SundanceTV’s Rectify), Danny McBride e David Gordon Green, sulla base dei personaggi creati da John Carpenter e Debra Hill. Il film è diretto da David Gordon Green e prodotto da Malek Akkad, Jason Blum e Bill Block. I produttori esecutivi sono John Carpenter, Jamie Lee Curtis, Danny McBride, David Gordon Green e Ryan Freimann.

HALLOWEEN KILLS

HALLOWEEN KILLS

 

DJANGO UNCHAINED, recensione


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Ebbene oggi, per il nostro consueto e periodico appuntamento coi Racconti di Cinema, vi proponiamo la recensione di un film dalla rilevante, assoluta importanza insindacabile, comunque sia e a prescindere dai vostri gusti, a loro volta opinabili o meno, ovvero Django Unchained. Django Unchained, pur essendo uscito in tempi piuttosto recenti, cioè nell’ultima decade ed esattamente nell’anno 2012, è entrato subitaneamente nell’immaginario collettivo dei fan tarantiniani e non, altresì assurgendo immediatamente a vetta totemica, a ragione per i suoi grandi estimatori, a torto ovviamente per la sua compagine di detrattori accaniti e cinefili eternamente perplessi riguardo le capacità, da loro smentite e confutate, di Quentin Tarantino stesso, della nuova cinematografia mondiale di matrice dichiaratamente citazionistica e postmodernista. Django Unchained, distribuito in Italia dalla Warner Bros. Pictures a partire dal giorno 17 gennaio dell’anno suddetto, fu finanziato, così come regolarmente avvenuto per tutte le opere di Tarantino precedenti la sua ultima opus, cioè C’era una volta… a Hollywood, dall’ex Miramax e a sua volta ex Weinstein Company. Non saremo pleonastici, dunque ci pare superfluo specificare perché tale appena nominatavi casa di produzione non esista più. Accolto assai benevolmente, anzi, lodato entusiasticamente dalla Critica planetaria, raccogliendo infatti l’alta media recensoria lusinghiera, equivalente all’87% di valutazioni positive sul sito aggregatore Rotten Tomatoes, Django Unchained fu un campione d’incassi al botteghino, malgrado la sua notevolissima, per taluni spettatori molto ostica, durata considerevole di due ore e quarantacinque minuti. Parimenti a tutte le pellicole di Tarantino, Django Unchained si avvale d’una sceneggiatura totalmente originale, generata dalla fervida e illimitata penna fantasiosa di Quentin stesso. Con la sola eccezione che conferma la regola, come si suol dire e ça va sans dire, naturalmente di Jackie Brown. Film, quest’ultimo, sempre scritto da Tarantino ma adattato da una famosa novella di Elmore Leonard.

Remake decisamente sui generis, anzi, potpourri di sapida, mai insipida, genialmente folle reinvenzione omaggiante il nostro celeberrimo Django di Sergio Corbucci con Franco Nero, il quale compare qui in un delizioso e geniale cameo, Django Unchained rappresenta, a modesto avviso di chi scrive quest’articolo, il film migliore di Tarantino di sempre dopo l’insuperabile trilogia degli esordi, constante del superbo Le iene, del rivoluzionario ed epocale Pulp Fiction e dello stesso poc’anzi accennatovi Jackie Brown. Ho scritto migliore. Però, attenzione. Non ho detto affatto capolavoro. Più avanti ve ne esplicherò brevemente le ragioni secondo le quali Django Unchained, sì, è un film saliente nell’excursus cineastico di Tarantino, primeggiando ai primi posti fra le sue opere più considerevoli e meritevoli, altresì è pieno di grossolanità imperdonabili e macroscopici difetti che analizzeremo nel corso di questa recensione. Ricordo inoltre che il sottoscritto, pur apprezzando (però con le dovute riserve) Bastardi senza gloria, pur ammirando A prova di morte, non è invece mai, anche dopo innumerevoli visioni, rimasto pienamente convinto del suo dittico Kill Bill (da considerarsi comunque come un unicum in tutti i sensi), tantomeno del sopravvalutato C’era una volta… che reputa invece, a esservi assai onesto, la sua opera peggiore senz’ombra di dubbio personalissimo. Essendo Django Unchianed un vero e proprio “joint” tarantiniano al mille per mille, trattasi di film enormemente stratificato, la cui trama contorta e ricolma di risvolti spiazzanti e sorprendenti, arabeschi e labirintici, non è racchiudibile in un’esaustiva descrizione adeguata, dettagliatamente accurata. E non ce ne voglia Wikipedia… Perciò ci limiteremo semplicemente a tracciarvela, diciamo, in un paio di righe. Anche per non rovinarvi le molteplici sorprese…  Ricavandovene una testuale traduzione, da IMDb, della sua sintetica sinossi opportunamente da noi tradotta in italiano con l’aggiunta del nome dei suoi personaggi principali e dei rispettivi attori a interpretarne le relative parti: con l’aiuto di un cacciatore di taglie tedesco, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz), uno schiavo liberato ribattezzato Django (Jamie Foxx) si propone di salvare sua moglie (Broomhilda von Shaft/Kerry Washington) da un brutale proprietario di schiavi, residente in una fastosa piantagione nel Mississippi, cioè il terribile, sadico e sanguinario Calvin J. Candie (Leonardo DiCaprio).

Ne succederanno delle belle, delle spericolate e delle cruente fra colpi di scena perfino demenziali, ricordanti la comicità slapstick addirittura di Mel Brooks o Chaplin, mixati e scanditi puntualmente con timing filmico-recitativo da applausi a scena aperta, il tutto condensato di sapiente mistura appassionante, shakerato con grintoso, picaresco mordente avvincente diluito nel proverbiale, caustico black humor tipico del Tarantino style per l’appunto goliardico e corrosivo.

Cosicché, fra le cinefile apparizioni di Tarantino stesso (non vi riveliamo quando), di James Remar (I guerrieri della notte, Cruising), Tom Savini (Dal tramonto all’alba), Robert Carradine, James Russo, Walton Goggins & Bruce Dern pre-The Hateful Eight, fra un redivivo Big Daddy/Don Johnson quasi irriconoscibile in quanto qui bravissimo, un Jonah Hill (non accreditato) in mezzo a esilaranti corsiere del Ku Klux Klan e uno splendido, volutamente patetico Samuel L. Jackson irresistibile, Django Unchained intrattiene con gusto, illuminato dalla morbida e chiaroscurale, perennemente fascinosa fotografia del mago Robert Richardson.

Però nell’ultima ora, dopo un primo tempo scintillante e profumato di Tarantino vividissimo, luccicante e incantevole in virtù delle sue spassose, spiazzanti trovate esuberanti e ipnotiche, Django Unchained perde leggermente e gravemente quota, avvitandosi in un intreccio soporifero e scarsamente interessante. Tale inizio di forte caduta di tono e ritmo, purtroppo, coincide forse casualmente con l’entrata in scena del character incarnato da DiCaprio. Qui per la prima volta villain.

Non è stata colpa di DiCaprio. Perlomeno non del tutto. Il suo personaggio è bidimensionale, poco per l’appunto psicologicamente caratterizzato, tagliato esageratamente con l’accetta. E non gli giova la recitazione d’uno stesso DiCaprio spesso insopportabilmente gigionesco e di maniera a cui Tarantino ha chiesto espressamente di recitare così, sfoderando cioè smorfie e risate granguignolesche di natura compiaciuta, dunque artefatte e impostate registicamente in modo fine a sé stesse. Grazie soltanto al carisma di DiCaprio, il suo insostenibile Candie regge e illumina.

Dunque, Django Unchained, sebbene sia un’opera di classe invidiabile, stenta parecchio verso la fine, anzi sbanda e rischia di sbriciolarsi, smantellato e spogliato della sua iniziale, granitica interezza, adagiandosi diegeticamente in un plot conclusivo abbastanza pacchiano, risaputo, mal calibrato e quindi arricciato. Sanguinolento in maniera immoderata, in tal caso non necessaria, e improntato alla spettacolarizzazione più truculenta e volgarmente splatter. Afflosciandosi e franando in un the end dolciastro e poco verosimigliante. Poco peraltro emozionante e, paradossalmente, a livello di pathos, stilisticamente anodino, ruffiano e anemico.

Peccato davvero. Non ci aspettiamo che Tarantino sia cinico a tutti i costi, nemmeno però così retorico e buonista.

Nonostante ciò, Django Unchained rimane un ottimo film. Ripetiamo, il quarto miglior film di Tarantino su una scala da 1 a 9, fino a questo punto.

Ecco, colui che è l’autore di tale recensione, dicendovi quanto appena dettovi, vi ha paurosamente freddato?

Poiché s’evince che, sebbene qualche volta ami alla follia Tarantino, allo stesso modo non riesce sino in fondo ad amarlo appieno quando lo stesso Tarantino si ama troppo e smarrisce, così facendo, anzi a causa del suo strafare, il suo grandioso talento in giocattoloni puerili, inutili ed esacerbati.

Come si suol dire, in Django… vi è troppa carne al fuoco. Non solo quella delle sue carneficine efferate a cui assistiamo e delle esplosive sparatorie interminabilmente noiose e telefonate.

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di Stefano Falotico

 

SPIRITI NELLE TENEBRE, recensione

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Ebbene oggi recensiamo Spiriti nelle tenebre (The Ghost and the Darkness), diretto dal veterano Stephen Hopkins, regista di grandi ambizioni e su cui noi cinefili nutrivamo forti aspettative, purtroppo oramai smarritosi ed oscurato nel limbo del dimenticatoio malgrado avesse sempre lasciato intravedere il suo talento cristallino, sebbene altalenante, prodigandosi con ingegno, impegno e ferrea abnegazione nient’affatto disdicevole eppur non rimarchevole, nel realizzare pellicole forse non straordinarie e annoverabili fra i capolavori della Settima Arte più inestimabile, non pienamente compiute, probabilmente irrisolte e perfino a tratti irrisorie, esageratamente kitsch ma allo stesso tempo assai interessanti e non prive d’una attraente, peculiare, originale e personale inventiva in esse da lui profusa. Il carnet filmografico di Hopkins, infatti, lasciava intendere e presagire, ancora evidenziamolo e fortemente annotiamolo, una carriera, se non strepitosa e perfetta, perlomeno ben più qualitativamente appagante. In quanto diresse film notevolmente difettosi, sì, eppur decisamente a loro modo brillanti come Predator 2Cuba Libre – La notte del giudizio e Blown Away.

Spiriti nelle tenebre doveva essere, difatti, uno dei film evento dell’annata in cui uscì e da noi fu distribuito sotto Natale del ‘96. Poiché in molti pensarono, per l’appunto, che nonostante l’argomento principale della trama e i suoi sviluppi ben si discostassero dal lieto e dolciastro periodo natalizio, sarebbe stato opportuno rilasciarlo nelle sale in un periodo nel quale la gente, in massa, si riversa nei cinema.

In parole povere, anche da noi in Italia s’optò per una release date da pienone e blockbuster delle grandi occasioni festive.

Ma Spiriti nelle tenebre non solo non divenne un campione d’incassi, bensì fu anche sonoramente stroncato dalla maggior parte della Critica. Comunque, non andò malissimo al botteghino.

Spiriti nelle tenebre, come stavamo accennando, lasciò dubbiosa e assai perplessa molta Critica, però a torto poiché, come cercheremo di specificare e brevemente disaminare nella nostra sintetica ma speriamo esaustiva analisi di tale seguente nostra opinione sottostante, il film da noi preso in questione, vale a dire naturalmente Spiriti nelle tenebre, con tutta probabilità non meritava assolutamente le pesanti stroncature che, all’epoca, ricevette in forma impietosa in quasi tutte le mondiali, micidiali e spietate, ricevute recensioni negativamente implacabili.

Sceneggiato dal compianto William Goldman, imprescindibile writer di molti rilevanti film con Dustin Hoffman degli anni settanta, quali ad esempio PapillonTutti gli uomini del presidente e Il maratoneta, anche di Butch CassidyMisery non deve morire e Potere assoluto, suadentemente ma non memorabilmente musicato da Jerry Goldsmith (Rambo), soprattutto fotografato dal superbo maestro delle luci Vilmos Zsigmond (Il cacciatoreBlack DahliaLo spaventapasseri), Spiriti nelle tenebre dura un’ora e cinquanta minuti che, a dispetto di quel che disse e tuttora dica molta snobistica intellighenzia superficiale e sbrigativa, avvincono e appassionano grazie alla sapiente, congegnata mistura diluitavi nella narrataci vicenda, tratta peraltro da una storia incredibilmente vera. Una vicenda avventurosa robustamente sorretta da un duo d’interpreti ottimamente affiatati e in discreta forma attoriale alquanto ineccepibile, cioè Val Kilmer e Michael Douglas. Il film si basa, in forma decisamente romanzata e adattata per il grande schermo alle hollywoodiane esigenze spettacolari non poco retoriche, insomma all’acqua di rose, sulle memorie del colonnello John Henry Patterson (interpretato da Kilmer). Il quale, a sua volta, romanzò per l’appunto un episodio realmente accaduto, riguardante la caccia efferata a dei maledetti leoni feroci.

Trama, ridotta all’osso per evitarvi disturbanti spoiler: l’ambizioso e valente, infallibile ingegnere Patterson viene assunto da un ricco magnate di nome Robert Beaumont (Tom Wilkinson), spregiudicato e cinico oltre ogni dire, affinché si rechi in Kenya, esattamente su una sponda del fiume Tsavo, per costruire un ponte che unisca due mondi fin a quel momento separati dalle acque…

Patterson parte dunque alla volta della colonia inglese situata nel caldissimo ed equatoriale luogo, sopra citatovi, per portare onorevolmente a termine la sua missione. Abbandonando la moglie Helena (Emily Mortimer) in dolce attesa d’un primogenito nascituro di sesso maschile.

Qui viene presto a conoscenza che la sua impresa, destinata ad entrare comunque nei libri di Storia, sarà però più complicata del previsto. Innanzitutto, la popolazione del posto soffre di malaria, inoltre dei temibili leoni invincibili, forse dai poteri sovrannaturali, stanno massacrando gli indigeni.

Paiono immortali e imprendibili. Riuscirà Patterson, coadiuvato dallo scafato cacciatore Charles Remington (Michael Douglas), a sconfiggere e debellare tale abominio partorito forse dal Maligno?

Opera dai molti pregi visivi, fascinosa e diretta con mano ferma, Spiriti nelle tenebre è però assai carente nei dialoghi, molto fiacchi e decisamente anacronistici, compresa una metafora di Douglas/Remington sul pugilato. Arte nobile che, per quanto sia antichissima, risalente addirittura a millenni infinitamente anteriori all’anno 1898 in cui è ambientato il film, nella maniera in cui modernamente, potremmo dire, viene pronunciata, appunto, la battuta di Douglas rivolta al personaggio di Kilmer, appare incommensurabilmente stonata cronologicamente rispetto alla fine del secolo scorso.

Detto ciò, a dispetto delle sue vistose difettosità, Spiriti nelle tenebre coinvolge appieno e ammalia, risentendo forse solamente d’un finale blando e poco magniloquente.

Se a dirigere questo film fosse stato Werner Herzog, sarebbe stato un capolavoro? La nostra domanda è alquanto retorica…

Effetti speciali animatronici firmati da Stan Winston e Oscar al miglior montaggio sonoro.spiritinelletenebremichaeldouglas

di Stefano Falotico

 

FUORI CONTROLLO (Edge of Darkness) – Recensione

Mel Gibson Fuori controllo

Ebbene, oggi recensiamo uno dei film actionthriller più sottovalutati degli ultimi quindici anni, ovvero Fuori controllo. Da noi tradotto esattamente ma malamente così, cioè in modo abbastanza banale, generico e anonimo che si discosta ampiamente, invece, dal tenebroso e ben più evocativo, splendido titolo originale, ovvero Edge of Darkness. Diretto dallo specialista del genere Martin Campbell, autore di opere pregiate e purtroppo spesso snobbate come l’adrenalinico e magnifico, post-apocalittico Fuga da Absolom, regista de La maschera di Zorro e soprattutto dei due 007 rispettivamente con Pierce Brosnan, GoldenEye, e Daniel Craig, quest’ultimo al suo esordio proprio con Campbell nei panni dell’agente segreto al servizio di sua maestà più famoso del mondo, vale a dire il James Bond di Casino RoyaleFuori controllo è una pellicola del 2010 dalla secca, nettissima, compatta e super avvincente durata di 108 min. circa. Basato, assai alla larga, sull’omonima serie Tv con soggetto di Troy Kennedy-Martin, sceneggiato e a suo modo adattato con finezza, soprattutto nei dialoghi ficcanti e schietti, dal rinomato duo formato da Andrew Bovell (Lantana) e da William Monahan (The Departed, il prossimo Philip Marlowe con Liam Neeson per la regia di Neil Jordan), Fuori controllo si avvale d’un Mel Gibson in strepitosa forma recitativa, qui ritornato in sella alla grandissima dopo alcuni anni d’appannamento attoriale, immersosi nell’incarnazione assai sentita e viscerale, palpitante e vivamente emozionante d’un character che potremmo considerare una sorta di prosecuzione ideale dei suoi fascinosi eppur follemente lucidi personaggi presenti già in alcune sue pellicole da performer quali sono state, per esempio, Ipotesi di complotto di Richard Donner oppure Ransom di Ron Howard. Eh già, i film di spionaggio ad alto tasso di tensioni e terribili, oscuri misteri insoluti, hanno sempre attratto l’interesse dell’interprete di Arma letale, chissà come mai…

All’epoca della sua uscita, Fuori controllo fu mal accolto dalla Critica a livello mondiale. L’unico a parlarne in termini estremamente lusinghieri, secondo noi a ragion veduta, fu il nostro compianto e deceduto Morando Morandini nel suo celebre Dizionario… Dunque, vi copia-incolleremo qui la trama da lui riportata di Fuori controllo, contenuta per l’appunto nel suo tomo dizionaristico adesso ereditato dalle figlie Laura e Luisa, estrapolandovi e ivi trascrivendo altresì le sue quanto mai pertinenti e soprattutto lungimiranti, perfette considerazioni recensorie in merito:

Il vedovo Thomas Craven, detective della Omicidi di Boston, e la 24enne Emma, amatissima figlia, arrivano sotto la casa di lui quando da un’auto in corsa 2 spari uccidono Emma. Alla polizia presumono che il bersaglio fosse lui, ma sbagliano. Craven decide di identificare l’assassino a tutti i costi, e non per arrestarlo. Scopre la doppia vita di Emma; si trova in un intricato complotto di spionaggio industriale, sicurezza nazionale, commercio di armi nucleari, collusioni governative. Con un Craven introverso e dolente, Gibson recita sotto le righe, quando non si scatena con la violenza. Il suo sguardo è quello del regista. 2 ore di suspense, interrotta da rapidi flash di Emma bambina.

È una storia di vendetta in forma di giallo d’azione. Comincia con un omicidio e si chiude con la morte violenta di tutti i personaggi principali: è uno dei migliori thriller hollywoodiani degli anni 2000. In ordine di importanza i meriti sono: 1) sceneggiatura e dialoghi di William Monahan e Andrew Bovell; 2) regia del neozelandese Campbell che aveva già diretto l’omonima e pluripremiata miniserie britannica (1985) da cui deriva; 3) l’australiano Gibson, protagonista assoluto dopo 7 anni di assenza come attore, ma anche la sua spalla inglese Winstone nella parte del “ripulitore”. Sono gli unici personaggi onesti della vicenda. 

Nel variegato e inappuntabile cast, Danny Huston (Robin Hood) e Frank Grillo (da poco visto assieme a Gibson in Quello che non ti uccide di Joe Carnahan). Musiche di Howard Shore (Il silenzio degli innocentiCrash Il Pasto nudo).

Curiosità: al posto di Ray Winstone (Hugo Cabret) fu inizialmente scelto Robert De Niro. Il quale però, dopo circa una settimana dall’inizio delle riprese, a causa di divergenze artistiche con Campbell, abbandonò il progetto.

Mel Gibson Edge of Darkness

di Stefano Falotico

 

LIAM NEESON is PHILIP MARLOWE

LiamNeesonJordanPhilipMarlowe

Ebbene, stando alla sempre assai attendibile Deadline, Liam Neeson finalmente sta riuscendo a concretizzare il suo sogno d’incarnare uno dei detective più famosi a livello letterario-cinematografico, ovvero Philip Marlowe. Celeberrimo personaggio fittizio nato dalla penna di Raymond Chandler, entrato da tempo immemorabile nell’immaginario collettivo di noi tutti.

Vestire i panni di Marlowe, ripetiamo, è stata da anni un’idea fissa di Neeson. E, qualche anno fa, fu diffusa difatti la notizia secondo cui William Monahan, sceneggiatore premio Oscar per The Departed, era in procinto di allestire uno script inerente per l’appunto Marlowe, esclusivamente concepito affinché fosse Neeson a impersonarlo.

A quanto pare, Neil Jordan (Intervista col vampiro), regista amico di lunga data di Neeson, da lui peraltro diretto nell’acclamato Michael Collins e in Breakfast on Pluto, si sta accingendo a dirigere il Marlowe in questione, però ancora senza titolo preciso.

Le riprese inizieranno il prossimo autunno a Los Angeles e in Europa.

Secondo la breve, informativa sinossi rilasciataci, la trama di questo moderno Marlowe con Neeson sarà pressappoco questa:

Il film si baserà sul romanzo The Black-Eyed Blonde, verrà ambientato negli anni cinquanta e vedrà il detective privato Marlowe (Neeson) ingaggiato per trovare l’ex amante di un’affascinante ereditiera.

Inizialmente sembra un caso aperto ma ostico e archiviato, eppur Marlowe si ritroverà presto nel ventre dell’industria cinematografica di Hollywood e sarà inconsapevolmente coinvolto nel fuoco incrociato di una leggendaria attrice e della sua sovversiva e ambiziosa figlia.Liam Neeson preda perfetta

Cosa ne pensate? Ve lo vedete il grande Neeson, interprete meraviglioso già del crepuscolare investigatore privato nel superbo La preda perfetta (come da foto sopra), diventare Marlowe per il grande schermo?

di Stefano Falotico

 

THE MAURITANIAN, recensione

Jodie Foster Mauritanian

Ebbene, oggi recensiamo il sorprendente e allo stesso tempo inquietante The Mauritanian, nuova opus cinematografica (attualmente distribuita da Amazon Prime) del valente e sempre più prolifico, inventivo Kevin Macdonald, lo scozzese regista, in crescendo qualitativo, di pellicole assai preziose come State of Play e L’ultimo re di Scozia.

Il quale, con questo The Mauritanian, peraltro ben accolto dalla Critica d’oltreoceano, sebbene non eccessivamente lodato, avvalendosi dell’adattamento del libro Guantanamo Diary, in fase di sceneggiatura, d’una squadra di writer di prim’ordine e di eterogenea nazionalità, cioè Michael Bronner (accreditato come M.B. Traven), Rory Haines & Sohrab Noshirvani, per due spasmodiche ore abbondanti, tesissime e decisamente compatte, oltre che avvincenti e filmate con grintoso impegno, civile e puramente cineastico, ci delizia e contemporaneamente ci angoscia, presentandoci una terribile e allucinante storia giudiziaria incredibile e raccapricciante, tratta da un evento assurdamente reale malgrado sia stato romanzato per ovvie esigenze di entertainment spettacolare.

Vale a dire quella riguardante Mohamedou Ould Slahi (Tahar Rahim), per l’appunto un mauritano che, dopo soltanto un paio di settimane susseguenti il nefasto e agghiacciante, catastrofico e tristissimamente memorabile attentato alle Torri Gemelle, avvenuto naturalmente nell’indimenticabile per noi tutti, a livello planetario, 11 Settembre del 2001, fu prelevato dalla sua terra natia e deportato nel carcere di massima sicurezza di Guantánamo per ordine del governo degli Stati Uniti. In quanto, pur in mancanza di effettive e corpose prove a suo carico, in seguito a pretestuosi interrogatori atti volutamente a incolparlo, quasi a designarlo prematuramente, potremmo dire, a mo’ di facile capro espiatorio come uno dei responsabili dell’attacco terroristico sopra dettovi, rimase in prigionia in attesa di giudizio per oltre una decade. Poiché gli apparati governativi credettero che Mohamedou fosse direttamente legato nientepopodimeno che a Osama bin Laden, dunque altresì contiguamente collegato ad Al-Qaeda. Imputandogli con prove per l’appunto, ripetiamo, del tutte circostanziali, molte responsabilità dello scellerato accaduto.

Del suo affascinante eppur mostruoso caso controverso, delicato e terrificante, se n’interessò principalmente la volitiva e inarrendevole avvocatessa Nancy Hollander (incarnata da Jodie Foster), sostenuta dal suo braccio destro e inseparabile assistente altrettanto stoica, intraprendente, coriacea e in cerca di sanissima giustizia inappellabile, Teri Duncan (Shailene Woodley). A osteggiare le due cazzute donne nella loro dura, perigliosa battaglia legale contro il moloch del granitico sistema giuridico statunitense, il leguleio militare tutto d’un pezzo di nome Stu Coch (Benedict Cumberbatch). Chi vincerà in tribunale in quest’epica disfida senza esclusione di colpi dalle morali proporzioni titaniche?

Sorretto dalla buona prova di Rahim e soprattutto di una Jodie Foster in gran spolvero (vincitrice del Golden Globe) coi capelli bianco argentati, The Mauritanian, malgrado alcune lungaggini superflue e molte digressioni abbastanza inutili, colpisce ed emoziona, in virtù d’una regia sicura ben assecondata da un montaggio calibrato e specialmente valorizzata da una maestria fotografica di natura eccelsa ad opera di un ispiratissimo Alwin H. Küchler.

Come detto, però, essendo narrativamente prolisso e pieno di flashback a volte non necessari, spesso utilizzati in forma del tutto esornativa ed estetizzante, The Mauritanian potrebbe spazientire molti spettatori desiderosi di arrivare subito al nocciolo della questione.

Jodie Foster, comunque, ritorna alla grande e la primissima parte di The Mauritanian, così come il personaggio interpretato dalla stessa Foster, ci ha ricordato la coraggiosa e allo stesso tempo spaventevole discesa all’inferno di Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti nel manicomio criminale ove fu detenuto Hannibal Lecter.

di Stefano Falotico

 

AMERICAN PSYCHO, recensione

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Ebbene oggi andiamo a ripescare un film forse misconosciuto per le nuove generazioni di Instagram, ovvero American Psycho.

Una pellicola corrosiva, un cult movie assai tutt’ora controverso ma, al di là delle sterili e superflue polemiche contingenti al periodo in cui uscì e in cui, anzi per cui severamente fu osteggiato e ampiamente criticato, oltreché boicottato dai perbenisti che mal tollerarono il massiccio uso di violenza (spesso però mantenuta fuori scena o soltanto stilizzata) in esso presente e mostrataci senza troppe parsimonie, American Psycho con Christian Bale, rivisto col senno di poi, soprattutto decontestualizzandolo, per l’appunto, dall’anno 2000 millenaristico in cui fu distribuito in sala, è certamente l’opus migliore in assoluto di un’ispiratissima Mary Harron (Ho sparato a Andy Warhol, prossimamente attesa col suo biopic su Salvador Dalí, interpretato da Ben Kingsley). Mai più così perfetta, filmicamente sgargiante, registicamente equilibratissima e perfino illuminante nell’aver ricreato magistralmente lo scandaloso ed epocale libro di Bret Easton Ellis, vivificandolo di creatività propria totalmente geniale, inebriandolo e corroborandolo di pungente autorialità che, fulgida e pulsante, a distanza di tanti anni vive e s’illumina ancora della sua bilanciata ed infusale essenza brillante e lucida.

Sebbene, come accennatovi, ai tempi della sua release ufficiale, American Psycho spaccò il pubblico, lasciando inoltre perplessi e insoddisfatti molti critici snob con la puzza sotto il naso. I quali, in effetti, prendendolo sotto gamba, lo sottostimarono non poco. Giudicandolo frettolosamente e accogliendolo con troppa tiepidezza. Invece, attualmente, molta intellighenzia critica s’è giustamente ravveduta, le sue posizioni rivedendo notevolmente, tant’è che sul sito aggregatore di medie recensorie che va per la maggiore mondialmente, cioè metacritic.com, riscontra un più che lusinghiero 64% di pareri estremamente positivi, per l’appunto, riottenuti a ragion veduta. Persino il critico Paolo Mereghetti, pur continuando a mantenere ferma la sua posizione e la sua valutazione di due stellette (su una scala da 1 a 4) nella nuovissima edizione del suo celeberrimo Dizionario dei Film, vi spende ed elargisce, seppur moderatamente e fra le righe, parole di elogio. Dal suo tomo dizionaristico, estrapoliamo quindi l’esaustiva eppur concisa trama da lui scritta, inserendovi, anzi apponendovi inoltre le sue brevi ma incisive, pungenti e acute ma, tutto sommato, complimentose considerazioni a riguardo, secche e lapidarie ma al contempo pertinenti e ben oculate:

Manhattan, 1987, il giovane e rampante broker Patrick Bateman (Bale) ha una fidanzata (Reese Witherspoon), un’amante (Samantha Mathis), spende capitali in droga e prostitute. Ed è anche un serial killer, che prima uccide un collega (Jared Leto) e poi prende di mira la segretaria (Chloë Sevigny). Dopo anni di progetti abortiti (per la regia si era parlato in un primo momento di David Cronenberg, Leonardo DiCaprio aveva rifiutato il ruolo del protagonista), l’adattamento del romanzo di Bret Easton Ellis patisce il ritardo con cui arriva sugli schermi. Non che la regista (sceneggiatrice con Guinevere Turner, che interpreta Elizabeth) non abbia fatto un buon lavoro, restando fedele allo spirito senza indulgere negli eccessi splatter e misogini del romanzo; ma lo yuppie omicida che forse sta immaginando tutto, degno prodotto di una società vuota, è una metafora che sfonda porte aperte (tant’è che, per cercare di modernizzarla, la regista alla fine guarda alla schizofrenia di Fight Club). All’attivo, il cast e il connubio di sociologia, satira e umorismo nero in sequenze come quelle sui Genesis e Huey Lewis.

Una critica precisa, netta e puntuale che però non ci trova d’accordo su alcuni punti basilari e salienti.

Mary Harron, come sopra spiegatovi, adattando il romanzo di Ellis personalmente assieme alla Turner, addirittura rifiutando la versione dell’adattamento curatole dallo stesso Ellis, optando dunque per una sua rilettura sganciata dalla penna di Ellis pur attenendosi quasi in tutto alla medesima novella da cui ha tratto il suo American Psycho, memore del grande Cinema degli anni settanta, sa finemente evocare atmosfere non inutilmente e sterilmente emulative, anonimamente ricalcate in modo ruffiano o anodino e furbescamente debitrici dei grandi capolavori dei seventies e dei primissimi anni ottanta (nel suo film, infatti, si respirano atmosfere lugubri e notturne chiaramente omaggianti Taxi Driver o Cruising), bensì, attingendo dai migliori stilemi di maestri come Martin Scorsese (nel pre-finale vi abbiamo scorto anche evidenti ed espliciti, citazionistici rimandi a Fuori orario) e William Friedkin, plasma un film ipnotico, anti-mainstream, quasi underground e warholiano, sperimentale, pieno di primissimi piani inquietanti che si concentrano su ogni morboso, morbido e rugoso singolo dettaglio delle apparentemente impercettibili eppur cangevoli espressioni dei suoi singoli interpreti meravigliosi, dimostrandosi una sapiente conoscitrice e ricreatrice perfino del nostro amatissimo Dario Argento dei tempi d’oro, generando un film progenitore, in chiave macabramente pregna di dark humor tagliente, di The Wolf of Wall Street e di tanti epigoni figli del disastroso e mai terminato edonismo reeganiano (lo stesso ex Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, compare in tv). Dunque, anticipatore forse casualmente o in maniera involontariamente lungimirante, dello stesso Scorsese da lei, nella sua pellicola, amato e omaggiato.

Mary Harron, inoltre, riscopre quel bambino ed enfant prodige straordinario de L’impero del sole di Steven Spileberg, vale a dire Christian Bale. Cucendogli addosso, come direbbero gli americani, the role of a lifetime, cioè un indimenticabile e strepitoso ruolo mostruoso sotto ogni punto di vista, innanzitutto recitativo, che non solo, in tal caso, è iconico e magnetico, bensì è quello che ha segnato finalmente la svolta decisiva e cruciale dello stesso grandioso Bale. Il quale per anni stava stagnando in produzioni mediocri che non valorizzavano affatto il suo immane talento e il suo oramai conclamato e assai acclamato fregolismo impari.

Immedesimatosi, come sempre, nella carne e nell’anima di Pat Bateman in modo impressionante.

American Pyscho ha toni anche tarantiniani (fotografia infatti di Andrzej Sekuła, cinematographer de Le iene e Pulp Fiction) e cronenberghiani.

Fra gli altri membri del cast, da annoverare la presenza di Justin Theroux (un anno prima di Mulholland Drive), di Josh Lucas, di Cara Seymour nei panni della disgraziata e maltrattata, a essere eufemistici, puttana Christie, di Matt Ross e naturalmente di un granguignolesco Willem Dafoe bravissimo. Il quale incarna il detective Donald Kimball, al solito, da par suo. Vale a dire da indiscutibile titano dalla classe attoriale pregiatissima.

In sintesi:

Il film della Harron per eccellenza. Un Bale eccellente, una disamina spettrale, folle e visionaria, sanguinaria e memorabile da incorniciare negli annali della Settima Arte più eccezionale.

 

di Stefano Falotico

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Il metodo Kominsky, recensione terza stagione

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Ebbene, siamo arrivati finalmente alla stagione n. 3 de Il metodo Kominsky (The Kominsky Method).

Da venerdì 28 Maggio, la terza stagione tanto attesa de Il metodo Kominsky è disponibile su Netflix. Constante, diversamente dalle due stagioni precedenti che duravano otto episodi, stavolta di sei puntate singolarmente abbastanza corte e dinamiche, in quanto il minutaggio di ogni nuovo episodio varia dai 25 ai trentacinque minuti la cui veloce brevità non è sinonimo di scarsa qualità, bensì di esilarante godibilità da gustare tutta d’un fiato. La prima stagione de Il metodo Kominsky esordì sulla succitata piattaforma di streaming nel Novembre del 2018, riscuotendo un buon successo di pubblica e di Critica. Creata dalla fantasia del sempre sorprendente e comicamente irriverente Chuck Lorre (The Big Bang Theory), la serie Il metodo Kominsky è interpretata dall’eccezionale e impagabile duo attoriale formato dal grande Michael Douglas (giustamente premiato col Golden Globe) e dall’irresistibile Alan Arkin (Argo).

Douglas ed Arkin, nelle vicende raccontateci al solito con garbo e leggiadria durante il succedersi esilarante degli episodi propostici, interpretano rispettivamente i ruoli di Kominsky, frustrato e attempato insegnante di recitazione non certo, per l’appunto, di primo pelo anche psicologicamente, in quanto dà segni piuttosto evidenti e imbarazzanti di cedimento, la cui massima ambizione è sempre stata quella di calcare le scene dei palcoscenici più famosi, rimanendo però perlopiù demoralizzato e perciò intrappolato dentro la grottesca spirale della sua complicata quotidianità vanificante quasi sempre la concretizzazione appagante di ogni sua velleità artistica soventemente andata in frantumi malinconicamente, mentre Norman Irving Newlander (Arkin) ricopre la parte del suo dispettoso eppur al contempo inseparabile e affettuoso suo migliore amico. Entrambi, malgrado i numerosi e inevitabili acciacchi tipici della loro età anagrafica, a dispetto del tempo che passa e della malinconia via via più crescente, si reggono il gioco a vicenda, dandosi manforte nei rispettivi momenti loro più bui. Rallegrandosi da fantastici boomer altamente stimabili, oltre che immediatamente piacevoli e dall’arguzia intellettiva fuori dai canoni del grigiore contemporaneo più tristemente ordinario. Sandy Kominsky (Douglas) è inoltre attanagliato dalle continue problematiche, soprattutto di natura sentimentale, dell’insicura e impacciata figlia Mindy (Sarah Baker), fidanzatasi col discutibile ed eccentrico Martin (un fantastico Paul Reiser) e, da tempo immemorabile, viene tormentato dalla sua ex compagna storica con cui era sposato, interpretata da una Kathleen Turner assai invecchiata e notevolmente ingrassata eppur simpatica e, dal punto di vista prettamente recitativo, ancora in forma e pimpantissima.

La terza stagione de Il metodo Kominsky si apre col funerale nientepopodimeno che di Norman. Eh sì, era facilmente intuibile che non avremmo visto veder recitare Alan Arkin in questa terza tranche. Cosicché le sue apparizioni si limitano, per modo di dire, ai flashback e ai frequenti giochi di scene retrospettive che scandiscono le giornate di Sandy. Il quale, tentando malamente di elaborare il lutto derivatogli inevitabilmente dalla morte di Norman, ricorda i momenti trascorsi assieme a quest’ultimo e da noi visualizzati sullo schermo.

Ed ecco che, a eccezion fatta di Lisa/Nancy Travis e di Danny DeVito, qui assenti, più o meno rientrano in scena gli stessi entusiasmanti, ottimi attori delle passate due stagioni, a partire dalla disturbata figlia di Norman, cioè Phoebe/Lisa Edelstein, sin ad arrivare all’affranta ma ancor affascinante ex compagna di Norman stesso, Madelyn/Jane Seymour, per poi approdare al patetico guru di Scientology interpretato da Haley Joel Osment, con l’aggiunta di guest star altisonanti come Morgan Freeman e Barry Levinson.

Il Metodo Kominsky 3 non tradisce le aspettative e colpisce nel segno in virtù della sua sapida, imprendibile mistura di forte malinconia sanamente commovente e strappalacrime, del suo corrosivo e vorace esistenzialismo da applausi a scena aperta e, al contempo, per merito del suo intelligentissimo canovaccio e mood ironico altamente goliardico distillatoci nella sua usuale maniera più congenialmente sofisticata e di gran classe.

In sintesi: Michael Douglas, malgrado il Cancro da lui superato egregiamente, qui citato in modo sdrammatizzante, nonostante sia anagraficamente ingrigito, è pur sempre un marpione in ogni senso. Grande, idolo! Poi, nel primo episodio di tale third stagion, se la fa con una modella per niente stagionata. Ah ah. Evviva Natasha Hall!

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di Stefano Falotico

 

Robin Hood – Un uomo in calzamaglia, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo il divertente, sebbene non del tutto riuscito e piuttosto innocuo, Robin Hood – Un uomo in calzamaglia (Robin Hood: Men in Tights), firmato da quel genio imbattibile della comicità sanamente e intelligentemente, volutamente demenziale che risponde al nome di Melvin Kaminsky. Perlomeno all’anagrafe, poiché è più comunemente noto e artisticamente ribattezzatosi Mel Brooks.

Robin Hood – Un uomo in calzamaglia è l’ennesima parodia compiuta dallo straordinario e innovativo regista di Alta tensione, de La pazza storia del mondo e di Frankenstein Junior.

Stavolta, per quanto concerne la vittima designata, per modo di dire naturalmente, ed è facilissimamente comprensibile e ben intuibile di chi si tratti dal titolo, Mel Brooks sceglie di prendere di mira per l’appunto il leggendario eroe della cultura popolare che ha ispirato mitologiche opere letterarie, altresì cinematografiche.

Con quest’operazione burlesca, Brooks ne omaggia il culto e, a suo modo ovviamente proverbiale, cinicamente grottesco, esilarante e irriverente, ne rinverdisce i fasti e al contempo ne smonta satiricamente gli stilemi. Ridicolizzandoli, alla sua maniera scoppiettante, non poco.

Nel suo potpourri di sapida, farsesca mistura citazionistica che omaggia e ridicolizza sincronicamente innanzitutto Errol Flynn e soprattutto il Robin Hood – Principe dei ladri con Kevin Costner (uscito, rispetto all’opus di Brooks, solamente due anni prima), Brooks sembra però aver perso leggermente lo smalto di una volta poiché molte gag e sketch comici, come si suol dire, girano a vuoto e molta della sua corrosiva e celeberrima ironia pungente non sempre va a segno, in quanto Robin Hood – Un uomo in calzamaglia è certamente ingegnoso, girato magistralmente nel suo consueto stile dinamico e allegro, scanzonato e caustico, ma è lontano, sia qualitativamente che parodisticamente parlando, dalle sue migliori pellicole più caustiche.

Attenendoci fedelmente, testualmente al Dizionario dei Film Morandini, vi copia-incolliamo la trama riportatane. Ché ci pare concisa e contemporaneamente esaustiva e non dispersiva, sinteticamente arguta nelle brevi ma incisive considerazioni sue recensorie puntuali e precise: evaso da un carcere musulmano, Robin Hood rimpatria a nuoto e organizza la rivolta dei contadini contro il dispotico principe Giovanni. Parodia tiepida e sciapa del film dei 2 Kevin (Reynolds e Costner) con invenzioni divertenti, imperniate sull’anacronismo, i giochi di parole e i numeri danzati.

Robin Hood è interpretato con brillantezza da Cary Elwes, il quale l’anno prima era stato Lord Arthur Holmwood nel Dracula di Bram Stoker per la regia di Francis Ford Coppola. Film, quest’ultimo, parodiato dallo stesso Mel Brooks col suo ultimo lavoro da regista, ovvero Dracula morto e contento.

Il principe Giovanni è Richard Lewis, mentre lo sceriffo di Rottingham (storpiatura di Nottingham) è Roger Rees.

Marian è invece la bella e simpatica Amy Yasbeck.

Mel Brooks interpreta il rabbino Tuckman e Dom DeLuise (Il silenzio dei prosciutti) è Don Giovanni. Il quale scimmiotta Marlon Brando de Il padrino e de Il boss e la matricola.

Patrick Stewart è King Richard, Tracey Ullman è Latrine.

In sintesi… Cosa non si farebbe per avere una lady come Amy. Bisogna cingersi in raccoglimento e battagliare ardimentosamente, accaloratamente e da (ri)belli pungenti come la demenzialità di Brooks. Però, attenti, la cintura di castità può rompere le palle. Il film diverte ma talvolta annoia. Cioè, scassa la minchia!

ROBIN HOOD: MEN IN TIGHTS, Cary Elwes, Amy Yasbeck, 1993

ROBIN HOOD: MEN IN TIGHTS, Cary Elwes, Amy Yasbeck, 1993

di Stefano Falotico

 
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