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88 MINUTI, recensione

Pacino 88 Minutes poster

Oggi, recensiamo un film piuttosto sconosciuto e passato inosservato, direttamente distribuito da noi, in Italia, in home video. Ovvero 88 Minuti, diretto da Jon Avnet. La cui opera migliore rimane e probabilmente rimarrà Pomodori verdi fritta alla fermata del treno.

Un mestierante, Avnet, come si suol dire. Ultimamente smarritosi, cinematograficamente parlando, dissipando forse il suo talento “artigianale”, essendo stato assoldato soltanto per dirigere episodi televisivi di film e serie abbastanza trascurabili.

Eppure la sua carriera, certamente non entusiasmante ma interessante, era partita ottimamente e, nel suo carnet filmografico da director cosiddetto anonimo, infatti sono ravvisabili pellicole di un certo pregio e qualitativo decoro.

Film non eccezionali, nemmeno però malvagi. Pensiamo al sottovalutato The War con Kevin Costner, al dolce Qualcosa di personale con la splendida coppia Robert Redford-Michelle Pfeiffer, oppure al mediocre, più che altro convenzionale, ma al contempo appassionante thriller L’angolo rosso col solito ottimo Richard Gere.

Per finire con la sua ultima regia per il Cinema, vale a dire Sfida senza regole (Righteous Kill) con la coppia storica formata dai divi di The Irishman, cioè i mostri sacri Al Pacino e Robert De Niro.

Film, quest’ultimo, stroncato più del dovuto e anch’esso poco apprezzato. Sceneggiato, ricordiamolo, da Russell Gewirtz, autore dello script del magnifico Inside Man di Spike Lee.

Ebbene, prima dell’appena citatovi ed esageratamente linciato dalla Critica, Sfida senza regole, da non confondere ovviamente con Heat – La sfida, avente per protagonisti sempre Pacino & De Niro, Avnet diresse per l’appunto il film da noi qui preso in questione, 88 Minutes.

Inizialmente, a dirigerlo doveva esservi James Foley. Che, con Pacino, aveva già collaborato per Americani e il dimenticabile Un giorno da ricordare.

Trama:

Siamo a Seattle, negli Stati Uniti. Lo psichiatra forense Jack Gramm (un Pacino con un taglio di capelli abbastanza improponibile e alquanto pacchiano) insegna la sua materia all’università.

E collabora, in maniera assidua, con l’FBI. Così come spesso avviene, per esempio, nella nostrana CTU.

In seguito, infatti, a una sua schiacciante ed importante perizia psichiatrica, un uomo di nome Jon Forster (Neal McDonough) fu indiziato e accusato di aver in passato seviziato molte ragazze, uccidendole e impiccandole poi nell’appenderle efferatamente a testa in giù.

Secondo l’indagine psichiatrica condotta da Gramm, insomma, Forster sarebbe stato un omicida seriale e uno stupratore irredimibile. In base alla sua impietosa diagnosi, atta a reputarlo un individuo gravissimamente pericoloso oltre che un imperdonabile, miserabile serial killer da internare e da detenere all’ergastolo nel braccio più duro della morte, Forster è dunque impotentemente or in prigione e attende solamente di essere giustiziato immantinente.

Al che, durante la sera antecedente la sua esecuzione, accadono una serie di osceni reati macabri eseguiti nella stessa modalità che si presunse, forse erroneamente, essere figlia del “metodo” adottato da Forster.

Dunque, il colpevole dei passati crimini per cui Forster fu incarcerato, invero, non fu mai e non è Forster stesso? Si trattò di un madornale equivoco giudiziario atto a scatenare un’escalation vendicativa, sottilmente perfida, pianificata da Forster per essere risarcito dell’immane danno arbitrariamente perpetratogli?

Oppure vide giusto Gramm? Chi si nasconde perciò dietro i nuovi, mostruosi reati che stanno imperversando per le strade violente?

Nel frattempo, Gramm riceve sul suo cellulare una chiamata assai misteriosa. Una voce irriconoscibile gli annuncia che avrà soltanto 88 minuti per salvarsi la vita.

Bella fotografia di Denis Lenoir e bella prova di Al Pacino. Il quale, malgrado il look, come dettovi, ridicolmente appariscente, recita come sempre con egregia impeccabilità indiscutibile.

E, al di là di qualche tesa scena d’inseguimento e un buon twist finale, rappresenta naturalmente l’elemento migliore all’interno di 88 Minuti. Ripetiamo, comunque, non così disprezzabile come si disse quando uscì (in cassetta…).

Risalta inoltre l’energia istrionicamente grintosa della rossa Alicia Witt e la superba bellezza imbarazzante dell’eternamente sexy Amy Brenneman (Amici & vicini). L

Curiosità: nel già succitato Heat di Michael Mann, Amy Brenneman recitò la parte della giovane amante del personaggio interpretato da De Niro. Mentre qui assiste Pacino.

All’inizio, in Sfida senza regole, il detective “amico” di Turk (De Niro) doveva essere interpretato da un attore più giovane di De Niro. Ma, su suggerimento di De Niro stesso, fornito a Jon Avnet, si optò per affiancarlo al suo compagno ed amicale rivale, sul grande schermo, di tutta una meravigliosa vita, non solo professionale.

Che ve lo dico a fare? Al Pacino.

Nel cast, Leelee Sobieski (Eyes Wide Shut), Deborah Kara Unger (Crash) e William Forsythe (C’era una volta in AmericaColpevole d’omicidio).

di Stefano Falotico. Detto altresì la, no, il Jodie Foster de Il silenzio degli innocenti.
Ho detto Foster, non Forster.
Comunque, assomiglio anche a Scoprendo Forrester.

Che vi piaccia o no, Sean Connery è purtroppo morto. Io invece sono vivo e vegeto. E non sono Forster, nemmeno più solo.
Chiamatemi Jimmy Malone.

Va detta anche questa verità: Jodie Foster è stupenda ma è lesbica.

Sì, se conoscete una donna bella come Amy Brenneman che non voglia amoreggiare con me appena mi vede, significa che non è eterosessuale? No, è scema e più pazza di Buffalo Bill.

E questo è quanto.

Se siete invidiosi, vi spediamo al primo centro di salute mentale.

Un luogo ove sarebbe, a mio avviso, da deportare Fabrizio Corona. Un bell’uomo, certo.

Ma col cervello di una gallina. Cioè, un cervello microscopico come quello delle pseudo-donne che furono e sono così lobotomizzate da essere state ammaliate e sedotte, amate (si fa per dire) da Fabrizio.

So io dove dovrebbero andare…pacino brenneman 88 minutes

 

Mi spiace che De Niro non lavorerà con Ridley Scott per il biopic Gucci, rimpiazzato da Irons ma, in fondo, Scott non è un granché ed evviva Pablito!

Earthquake+Bird+World+Premiere+63rd+BFI+London+6FXwUJg4J5Xl

Sì, Robert De Niro, inizialmente voluto, corteggiato e contattato da Ridley Scott per essere uno dei personaggi chiave del suo biopic sulla famiglia Gucci, per meglio dire incentrato sulla tragica, assai misteriosa, nefasta vicenda omicida, scabrosa ed efferatamente “gelosa”, no, delittuosa di cui fu artefice la moglie del patron Gucci stesso, che sarà interpretata dall’inarrivabile, meravigliosa, sensualissima e torbidamente irresistibile Lady Gaga, donna voluttuosa, difficile e scontrosa, sessualmente turbinosa e poderosa, morbida e burrosa, nei panni per l’appunto della strega Patrizia Reggiani, alla fine pare che sia stato sostituito dall’altrettanto attempato Jeremy Irons. Spesso interprete di personaggi perversi ed odiosi. Il ruolo gli calza dunque a pennello.

Irons, nei suoi lineamenti spigolosi, racchiude la virilità più perversa fatta persona. Non ho mai, per esempio, sostenuto il suo sguardo in Inseparabili. Uno sguardo chirurgico, anzi, ginecologico. Ah ah. Doppio, da persona “affetta” dall’essere gemellata, di sue scavate gote, in una sfaccettata identità ambigua da omozigote che non la racconta giusta. Dunque double face, una faccia un po’ angelica e un po’ diabolica. Irons è sempre piaciuto molto alle donne per via, appunto, dei suoi occhi penetranti e sottilmente evocanti qualcosa di torvamente pruriginoso…

Mah, contente le donne, contento lui. In Inland Empire è un regista un po’ troppo pretenzioso. Non vi vidi comunque niente di male nel suo voler tirare fuori il meglio da Laura Dern. Vi riuscì meglio Nic Cage di Cuore selvaggio ma questo è un altro discorso… non spingiamoci in qualcosa di lynchianamente morboso.

De Niro e Irons, quest’ultimo suo compagno di set, anche di liti furibonde dovute a divergenze caratteriali e ad inconciliabili stili di recitazione agli antipodi, per Mission.

Irons che recitò con Al Pacino nel bruttino Il mercante di Venezia. Versione all’acqua di rose di uno dei tanti capolavori del Bardo, messo in scena, di cinematografico compitino assai sciapito, da Michael Radford, regista de Il postino. Quello con Troisi e non di e con Kevin Costner, The Postman, neppure quello che suona due volte, miei suonati e rintronati.

Ah, perché mai il grande Orson Welles non completò mai il suo merchant? Disponiamo soltanto di uno short movie arrabattato e a posteriori montato. A Bologna, direbbero “ciabattato”. Espressione felsinea tipica atta a designare qualcosa “girato” con la mano sinistra, qualcosa di sciatto e buttato lì, come si suol dir’. Ah ah.

Al Pacino incontrerà nuovamente Irons per Gucci. In quanto Al sarà presente nel cast del film di Scott appena succitato. Effettivamente, in tempi non sospetti, cioè mesi addietro quando la notizia del coinvolgimento di De Niro nel cast fu annunciato da Variety e compagnia bella, non poco dubitai che la presenza di Bob venisse poi confermata.

Infatti e in effetti mi chiesi fin dapprincipio, Covid-19 permettendo e pallose quarantene annesse, come avrebbe potuto Bob conciliare Gucci con altri due (mica uno solo, eh) film importantissimi per cui già firmò. Ovvero il già più volte rimandato Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese con Leo DiCaprio, la cui data d’inizio riprese è adesso prevista, dopo essere stata per l’appunto posticipata a causa dei vari lockdown “imprevisti”, per fine Febbraio dell’anno imminente a venire, e Armageddon Time di James Gray. Pellicola peraltro in forse…

Caso emblematico che smentisce e sfata il proverbio discutibilissimo… non c’è due senza tre.

Insomma, Bob non farà parte della partita e non sarà nella parte del padre di Maurizio Gucci (Adam Driver). Ma come? Il suo nome fu Roberto…

Lo (de)cantò anche la Germanotta/Gaga nella sua celeberrima Alejandro… Fernando, Roberto…

A proposito, nel videoclip di Alejandro, Lady Gaga vestì Armani come De Niro negli Intoccabili e in Quei bravi ragazzi, Versace assassinato oppure ora ama un uomo alla Valentino?

Chi, Rodolfo o lo stilista di moda? Oppure Rocco Barocco, uomo certamente più elegante di Siffredi Rocco? Mah.

Dovrebbe indagarvi Roman Polanski. Di suo, la Gaga viene “indagata” in ogni intimità dal suo attuale compagno, tale Michael Polansky. Puro bad romance…

Un bell’uomo? Mah, a me pare un tronista della De Filippi.

Non perdiamoci in cazzate, dai. Andiamo avanti.

A coiti fatti, no, a conti fatti, è meglio così. Ridley Scott, da tempo immemorabile, è rincoglionito.

Con buona pace dell’immenso regista de I duellanti, Alien e Blade Runner, debbo concordare col “buon” Paolo Mereghetti. Il quale, nell’ultima edizione del suo celebre Dizionario dei film oppure delle castronerie più illeggibili, stronca quasi tutti i film di Ridley Scott appartenenti agli ultimi vent’anni.

Esaltando solamente, forse esageratamente, American Gangster e apprezzando giustamente il bellissimo Il genio della truffa. Con un Nicolas Cage uguale al sottoscritto di una decade fa. Insomma, un Nic ossessivo-compulsivo, malato d’igiene non solo intima, che lustra i vetri della sua casa da cima a fondo.

Mentre Scott “dà la cera e toglie la cera”, così come insegnò il Maestro Nariyoshi Miyagi di Karate Kid, a Ralph Macchio, alla sua Facio. Come si suol dire, alla faccia…

Eh sì, Scott “macchia” la sua Giannina Facio e, da un lustro, la rigira a letto ma non gira più pellicole qualitativamente dilettevoli. Come Mosè, in verità vi dico che filma polpettoni peggiori di quelli cucinati da vostra madre.

Ci vorrebbe Diego Abatantuono… uhm, che profumino. Che avete cucinato di buono oggi, pulpett’ di m… rd’?

Un grande, il Diego… de I fichissimi: lo sai che non mi piace che vai in giro di notte, la città pullula di malviventi, teste di cuccudrillo… zitta, torna dietro il furnello… il tuo ambiente “naturalo”, il tuo piccolo monto antico…

Ne vogliamo parlare inoltre di Diego in Viuuulentemente mia? Nella parte di Achille… Chi, quello di Omero oppure Achille Cotone che vuole fare con l’Antonelli che fu, oh sì, l’amore?

Un uomo forse misogino che avrebbe però, arrapato al massimo e col capello cotonato, amoreggiato con una donna più eccitante di Sigourney Weaver di Alien. Cioè, la Weaver al top della top’. Mentre nutro i miei forti dubbi che Diego avrebbe fatto all’amore con la Weaver di Exodus.

Eh sì, Sigourney non è più come la compianta, super sexy Laura Antonelli dei bei templi, no, tempi. Il suo viso non emana più letiziosa e stuzzicante sensualità a mo’ di Malizia…

E Ridley Scott, di contraltare, pare più rimbambito di Abatantuono al giorno d’oggi.

Ne vogliamo parlare di Tutti i soldi del mondo? Parlatene voi. Io non l’ho visto. Chissà mai se lo vedrò.

Censurare Kevin Spacey a riprese terminate, infilarlo nel primissimo trailer originale e poi rimpiazzarlo col pur grande Christopher Plummer, cavolo, grida vendetta da Massimo Decimo Meridio…

Nel film, il ragazzo tristemente preso in ostaggio, John Paul Getty III, viene interpretato da Charlie Plummer. Il vero nipote di Christopher? No.

Mentre, in Ransom – Il riscatto, Sean Mullen ebbe/ha a che vedere non Nick Nolte? Be’, direi di sì. Essendo stato incarnato da Brawley Nolte, figlio di Nick.

Sì, Russell Crowe de Il gladiatore fu fatto schiavo da dei terroristi? E, prima di rigodere Un’ottima annata, dovette fare all’amore con Meg Ryan di Proof of Life?

Marion Cotillard invecchia intanto come il buon vino. Donna d’annatissima ottima, donna bella in modo dannato.

Mentre Russell, dopo A Good Year, sì, buonissimo con questa super bona, ingrassò nel mediocrissimo Body of Lies, adeguandosi al metodo Stanislavskij a mo’ della sua prova in Insider o fece già le prove naturalissime per diventare come il suo idolo Marlon Brando?

Sì, Ridley Scott annunciò di voler girare il sequel de Il gladiatore.

Ah ah. Con Russell che, assieme a Giannina Facio e col bambino de La vita è bella, oggi cresciuto e forse anche lui con la panza, nei campi Elisi od Eliseo celebra la vita paradisiaca con un prosecchino e un fisico non tanto rinsecchito, immaginando di tornare sulla terra per picchiare Denzel Washington che gli rubò l’Oscar che Russell avrebbe meritato per A Beautiful Mind?

Denzel Washington è un grandissimo attore e fu molto bravo in Training Day. È molto camaleontico… il Denzel e, secondo me, potrebbe perfino calarsi nella “parte” del Tartufone Dolce Noir della Motta.

Sì, spero che Ridley Scott ritorni a girare qualcosa di decente. Sì, un bel filmone storico con Washington, semmai, nella parte di Nerone…

A parte gli scherzi, Ridley Scott è un grandioso regista ma, in tutta onestà, penso che abbia fatto il suo tempio. Scusate, volevo dire tempo.

Ha una certa età e non gliela fa più.

Gucci, un film tratto da un libro inchiesta di Roberto Bentivegna.

Mah, a mio avviso, parafrasando Stefano Accorsi di Radiofreccia, credo nelle rovesciate di Bonimba, cioè Roberto Boninsegna.

Nel frattempo, è morto Pablito, vale a dire Paolo Rossi. Non l’omonimo comico amico di Abatantuono Diego, bensì l’eroe del Mundial 82.

All’epoca ero un bimbino ma, già a tre anni, essendo io del ‘79, fui in vacanza coi miei ad Igea Marina e compresi, dalle urla infoiate degli adulti nostrani, che Pablito distrusse col suo genio l’apparentemente invincibile Brasile di Falcao e Zico. Sì, nel bel mezzo di un’estate nazional-popolare, arrivò Rossi a massacrare Zico & company.

Falcao, prima della partita, tronfiamente affermò che l’intera Italia avrebbe pianto l’eliminazione dai Mondiali.

Alla fine dei novanta minuti regolamentari, Falcao fu ricoverato al più vicino ospedale psichiatrico poiché, in preda allo shock, fu vicinissimo a diventare Al Pacino nel finale de Lo spaventapasseri.

E ho detto tutto…Paolo+Rossi+Italian+Football+Federation+Hall+Rb4s7UBJ4QblRobert+De+Niro+92nd+Annual+Academy+Awards+35w48_rRuaBl

di Stefano Falotico

 

MANK, recensione

MANK

Ebbene, oggi recensiamo uno dei film più attesi dell’anno, finalmente distribuito e dunque fruibile su Netflix a partire dallo scorso venerdì 4 Dicembre. Vale a dire lo straordinario Mank di David Fincher. Come tutti sappiamo, ahinoi, un 2020 funestato dall’imprevisto e tragico Covid-19 che, a tutt’oggi, non soltanto ha bloccato quasi tutte le uscite cinematografiche sul grande schermo, rallentando clamorosamente e funestamente la normale fruizione, per l’appunto, in sala dello spettacolo più bello del mondo, cioè il Cinema stesso, bensì ha negativamente influito sul normale svolgimento della vita di noi tutti, in fervida attesa di notizie presto confortanti riguardo la triste emergenza sanitaria purtroppo ancora in atto.

Detto ciò, passiamo a Mank.

L’estenuante attesa non è stata però vana e le alte aspettative in merito sono state ampiamente ripagate. Poiché concordiamo con la Critica d’oltreoceano, che ha subissato di lodi la pellicola di Fincher, nel rimarcarne gli assoluti pregi, entusiasticamente celebrando l’ennesima, strepitosa prova di uno dei massimi talenti attoriali viventi, nientepopodimeno che Gary Oldman. Sicuro candidato, grazie alla sua performance, ai prossimi Oscar.

Scritto dal padre di David Fincher, Jack (deceduto nel 2003), Mank è un biopic vagamente romanzato inerente le vicende personali di Herman J. Mankiewicz (Oldman), celeberrimo sceneggiatore del titanico Quarto potere (Citizen Kane) di Orson Welles. Concentrato, in particolar modo, sul rapporto burrascoso, creativamente conflittuale, a livello sia puramente ideologico che amicalmente difficile, intercorso fra lo stesso Mankiewicz e Welles stesso (Tom Burke).

Incipit: Mankiewicz, alcolizzato incurabile, acciaccato e ubriaco a letto, spesso farnetica in modo illusoriamente graffiante sul mondo, ironizzando con sapida amarezza sulla tragicommedia della nostra insanabile condizione umana su cui, per l’appunto, si può solo giocosamente infierire con sana strafottenza. Prendendo in giro noi stessi in quanto consapevoli dell’irrimediabilità d’un mondo ipocrita e stupido.

A Mankiewicz, il genio di New York, appena approdato a Hollywood, vale a dire Orson Welles, commissiona una sceneggiatura da scrivere in novanta giorni poi drasticamente ridotti a sessanta.

Cioè, in due mesi, fra alterchi coi suoi colleghi, divertite e al contempo tristi serate ai night frequentati dall’alta società dell’epoca, fra lievi incontri nell’oscurità con la damigella Marion Davies (Amanda Seyfried), suicidi inaspettati e l’imbalsamato magnate della stampa altezzoso ed affettato William Randolph Hearst (Charles Dance) assistito dalla sua paziente segretaria Rita Alexander (Lily Collins), affranto ma pur sempre candidamente innamorato della sua sposa Sarah (Tuppence Middleton), il “fallito” Mank porterà a termine lo screenplay di Quarto potere.

Illuminato dalla pregiata e suggestiva fotografia in b/n, cromaticamente assai elegante ed ipnotica, di Erik Messerschmidt, ritmicamente ed ottimamente montato dal maestro dell’editing del fido collaboratore di molte recenti opere di Fincher, Kirk Baxter (Gone Girl – L’amore bugiardo, The Social Network), musicato dal solito Trent Reznor in associazione con Atticus Ross, Mank rappresenta a nostro avviso l’opus migliore di Fincher in assoluto.

La sua vetta. Un capolavoro nel capolavoro stesso di Welles, reinventato e filtrato dall’inventiva fascinosamente ammaliante d’un Fincher ispiratissimo che ci stupisce puntualmente, rapendoci in esso, donandoci immagini fenomenali ed ammantandole di morbida, poetica malia brillante. Stratificando la complessa ed interpretativamente molteplice storia raccontataci nello spezzettarla e poi delinearla, genialmente, in sorprendenti analessi poderose e flashforward magneticamente turbinosi che lasciano a bocca aperta.

Incantandoci, quasi al detonare e risonare magnetico di ogni suo suadente frame, nel ricomporre i pezzi del puzzle della storia estremamente interessante, come detto, che stette alla base della complicata, non poco problematica, lavorazione e della compiuta realizzazione di un capolavoro imprescindibile della Settima Arte più rinomata.

Se non amate le filmate cosiddette “storie vere” che vere, invero, non lo sono mai, in quanto sono semplicemente la reinterpretazione personale d’un regista, in tal caso Fincher, al servizio del soggettivo cinematografarle a sua stessa filmica dialettica, adattando la fantomatica veridicità degli eventi realmente occorsi ai suoi espressivi codici di natura ineludibilmente fictional e ai suoi tipici, intimi stilemi di rilettura e della propria reinvenzione immaginativa, Mank non è ovviamente adatto a voi.

Per di più, Mank non è un banale biopic, bensì un’autobiografia liricamente e stilisticamente poliedrica, in molti punti arabesca, giostrata su sublimi, peranco subliminali, tocchi visivamente caleidoscopici, molto giocata su rarefatte e volutamente indecifrabili microstorie, a mo’ di matriosca, perfino autoironicamente grottesche e apparentemente effimere ai fini dell’impalpabile eppur robusta ed assai efficace sua tortuosa e pluristratificata, inintelligibile struttura narrativa decisamente avvolgente e allo stesso tempo torbida e sfuggente.

Scenografia magnifica di Donald Graham Burt (Il curioso caso di Benjamin Button).

di Stefano Falotico

mank poster

 

QUALCUNO SALVI IL NATALE 2, recensione

Ebbene, oggi brevemente recensiamo Qualcuno salvi il Natale 2 (The Christmas Chronicles 2), sequel del primo, fortunato film diretto da Clay Kaytis, qui sostituito da Chris Columbus (Harry Potter la pietra filosofale, Rent, Mamma, ho perso l’aereo). Ovviamente interpretato di nuovo dall’attore protagonista del capostipite, ovvero il mitico Kurt Russell.

Qualcuno salvi il Natale 2 è approdato su Netflix qualche giorno fa, vale a dire il 25 Novembre scorso. A distanza di un mese esatto, per l’appunto, dal giorno in cui i cristiani festeggiano l’anniversario della nascita di Gesù.

Riscuotendo presto ottime visualizzazioni e piazzandosi, fin dapprincipio, ai primissimi posti delle pellicole più guardate in questo periodo, ahinoi, funestato ancora dalle varie quarantene prescritteci mondialmente dagli stati governativi esageratamente oppressivi.

In tale momento di generale, preoccupante allarmismo internazionale, Qualcuno salvi il Natale 2 casca, come si suol dire, a fagiolo, armoniosamente e con fine letizia ritemprandoci, con dolcezza garbata risollevandoci, perlomeno in maniera estemporanea, dai nostri emotivi umori angosciati e terrorizzati, come detto, a causa degli eccessivi emendamenti impostici forse in modo esageratamente arbitrario e peranco abusivo.

Donandoci un po’ di sano divertimento illuminante quest’annus, non solo cinematografico e non soltanto per i cinefili e per gli amanti della Settima Arte, veramente tragico e nefasto. Dunque oggettivamente horribilis.

Trama:

Kate Pierce (Darby Camp) è ora cresciuta ed è una smaliziata turbolenta teenager. Dovrà però fare pace con sé stessa e incontrare ancora una volta Santa Claus (Russell) al fine di unire con lui le forze per sconfiggere un elfo cattivo che vuole nuovamente cancellare la festa del santo Natale.

Santa Claus, stavolta, sarà appoggiato nella sua battaglia per la salvezza del Natale dalla sua compagna (Goldie Hawn).

Qualcuno salvi il Natale 2 dura un’ora e cinquantadue minuti. Una durata forse esagerata. Se consideriamo che si tratta di un prodotto destinato perlopiù ai bambini.

Il film ha un ottimo ritmo e, malgrado il suo impianto decisamente dolciastro, si lascia vedere volentieri.

Qualcuno salvi il Natale 2 è altresì ingenuo, naturalmente, deboluccio nei dialoghi e, così come accaduto per il primo capitolo, la CGI risulta parecchio sciatta e realizzata in modo alquanto pedestre. Cioè, gli effetti speciali visivi appaiono davvero posticci ed artefatti.

Inoltre, la dolce Goldie Hawn è invecchiata, non poco.

Contento Kurt, contenti tutti e buon Natale a tout le monde!

Complimenti, comunque a Kurt Russell. La dimostrazione vivente che si può continuare sul “selciato” di Babbo Natale, interpretando la parte del nonnetto canuto con carisma immutato.

D’altronde, prima di Carpenter e dei grandi action con cui s’è affermato, ricordiamo che esordì in molti film della Disney. Dunque, un ritorno alle origini, il suo, degno di stima.qualcuno-salvi-natale-2-recensione-kurt-russell

di Stefano Falotico

 

Intervista a Giulia Di Quilio in merito alla sua coraggiosa iniziativa INTIMATE CHALLENGE

Giulia Di Quilio Intimate ChallengeDomanda: ti seguo sui social ed ho notato un’interessante iniziativa che hai lanciato in questi giorni. Ce ne vuoi parlare?

Sì… Ho lanciato una “sfida”, la cosiddetta “challenge” dei social, diretta alle donne in vista della giornata contro la violenza di genere, il 25 novembre. Si chiama #intimatechallenge: intimate in inglese significa intimo e mi piaceva la doppia valenza di intimo come personale ma anche di intimo nel senso di biancheria intima. Infatti ho lanciato la “sfida” con un selfie davanti allo specchio, proprio in intimo, il tutto accompagnato da questo testo, abbastanza esplicativo:

Una donna è quasi sempre contestata e questo è radicato in quasi tutte le culture, ed è profondamente sintomatico di una misoginia persistente praticamente ovunque. La sensazione, dopo gli ultimi fatti di cronaca, è che si continui a colpevolizzare il corpo delle donne e la nostra sensualità. Per questo partecipo alla #intimatechallenge⁠ per ribadire che: il #corpo è mio, posso mostrarlo #quando #come e a #chi voglio io! Invadiamo le home coi nostri corpi, esibiti con #orgoglio e senza #paura. Copia Incolla Partecipa #noslutshaming #intimatechallen⁠ge #25novembre #feminism

Ho lanciato la #intimatechallenge con l’intento di liberare il nostro corpo di donne. È vero, i modelli ci condizionano. Aderiamo, più o meno consapevolmente, ad una serie di immagini omologate. E il corpo, il nostro corpo, ne diventa il calco, il marchio, il vettore concreto e sottilmente ideologico. Il fatto è che, però, ribellarsi a questi modelli sembra equivalga, per molti, a negare il corpo. Non a valorizzarlo e a trasformarlo in un altro modo ma solo a cancellarlo. Così, però, si fa il gioco di chi del corpo ha paura: ovvero, tutti!!! E noi per prime… Vivere il corpo, utilizzarlo consciamente e liberamente, secondo alcuni, vorrebbe dire fare il gioco della cosiddetta società dell’immagine. Ma, dietro a questa giustificazione sociologica, si nasconde il più inconfessabile e irriducibile moralismo.

Domanda: il riferimento arriva dalla vicenda della maestra licenziata vicino Torino dopo un video di revenge porn divenuto virale che le ha causato la perdita del posto di lavoro e la pubblica gogna?

Esattamente! Una vicenda in cui le peggiori qualità umane si sono trovate insieme, rivolte contro una donna che aveva come unica colpa quella di avere una vita sessuale, come tutti noi. Un caso di bigottismo intollerabile. Per fortuna lo squallore del revenge porn, finalmente, è considerato un reato e, quindi, perseguibile per legge ma la terribile conseguenza dello slut-shaming purtroppo ancora non lo è: e cioè far sentire una donna inferiore o colpevole per i propri desideri sessuali o per il proprio comportamento, compreso l’essere considerate desiderabili per via del corpo che si ha o dell’abbigliamento che si indossa.

È un meccanismo utilizzato sia da uomini che da donne indistintamente, e lo conosco bene: lo vivo sulla mia pelle, avendo scelto di lavorare col mio corpo, esponendolo.

Non tutti sanno che, oltre ad essere un’attrice, sei anche una performer di burlesque.

Sì faccio burlesque da 10 anni ormai e l’erotismo l’ho sempre vissuto come qualcosa di “innocente”, passami il termine, nel senso che non gli ho mai dato una valenza morbosa, torbida o da censurare, invece l’ho sempre percepita come un’energia solare, giocosa, piacevole… per questo il burlesque ha appagato la mia parte più istintiva molto più di quanto abbia fatto il mio percorso da attrice. Nel burlesque sono uscita dalla posizione di “oggetto”, sperimentata come modella, e mi sono riscoperta soggetto con dei gusti, delle precise scelte stilistiche e contenutistiche (nel burlesque siamo registe e autrici di noi stesse) e soprattutto mi sono ritrovata in un mondo fatto di donne, scoprendo così il valore del “femminismo” (una parola che prima faceva paura o sembrava appartenere al passato e che oggi ha assunto un senso nuovo, attivo, presente), tenuto a distanza in altri ambienti, dove il maschilismo la fa da padrone.

È stato un percorso in discesa quello nel burlesque?

No, nonostante avessi fatto l’attrice e la modella, esponendomi a(l) nudo, a volte anche integrale, non è stato per niente facile spogliarmi su un palco. Ho accompagnato quel percorso all’analisi freudiana ed ho scoperto che in me agivano, seppur indirettamente, gli insegnamenti moralistici di mia nonna, donna di provincia degli anni 20 del 900. Non lo avrei mai detto, mi sono sempre considerata anticonvenzionale, il mio percorso nell’ambiente artistico ne era una riprova, eppure….

Quanto agiscono i pregiudizi di cui siamo imbevuti?

Tantissimo! Tanto da non rendercene nemmeno conto. Così, da anni ormai, anche attraverso l’insegnamento, aiuto le donne a liberare il proprio corpo, a liberarsi dai pregiudizi, ma non solo, anche dai complessi che noi donne coltiviamo numerosi perché da sempre il corpo della donna è esposto ai giudizi altrui, indistintamente.

Così, dopo l’iniziativa delle psicologhe emiliane coi cartelli “noi facciamo sesso, licenziateci tutte”, ho pensato di lanciare una challenge che ci mettesse tutte a “nudo”, anche se di nudo non parliamo, visto che i social ci avrebbero bannate, ma chiedendo di esporre la propria sensualità; si sa che, se un comportamento è condiviso, cessa di essere stigmatizzato.

E come è andata?

Bene, tante donne stanno aderendo in queste ore ma non sono mancati i commenti che non ti aspetti o, almeno, io, con la mia visione delle cose, non comprendo…

E cioè?

Ci sono stati due tipi di reazioni, una prevedibile, perché conosco le paure femminili… molte donne, pur sposando la causa, temono ancora molto il giudizio, in primis sull’aspetto estetico: “non sono in forma, non sono come te, non sto bene in intimo…”, e queste sono donne che capisco perché, come dicevo, ci sono passata anche io.

Poi c’è stata anche qualcuna che ha ammesso che non poteva per via del posto di lavoro… e questo la dice lunga sul problema…

Poi ci sono quelle che mi hanno detto: “non credo nel principio di questa challenge”, “non è in linea col mio profilo”, “per carità”, e queste le capisco un po’ meno e rimpiango lo stile americano: quando si crede in una giusta causa ci si schiera in blocco.

Detto questo, viva la libertà che ci deve permettere di scegliere, ci mancherebbe.

Hai seguito il contributo alla vicenda da parte di Chiara Ferragni?

Sì, la stimo e la seguo sempre e non è scontato che si spenda per delle cause importanti. Sta confermando di essere davvero una grande donna. E chiudo l’intervista proprio facendo riferimento al suo discorso: noi donne abbiamo bisogno adesso di fare rete, di unirci, per diventare più forti. Farci la guerra tra noi è solo un retaggio del patriarcato… guardiamo al futuro!

Dove ti vedremo?

Il 10 dicembre in diretta streaming al festival WOMEN’S ART INDIPENDENT FESTIVAL a parlare dell’immagine corporea della donna oggi… e poi, appena sarà possibile, tornerò al cinema: ho in uscita un film diretto da Marilù Manzini, IL QUADERNO NERO DELL’AMORE…

film ad alto tasso erotico, alla faccia del bigottismo!

 

La vita davanti a sé (THE LIFE AHEAD) di Edoardo Ponti con la grande Sophia Loren – Recensione

la vita davanti a sé Loren

Ebbene, oggi recensiamo La vita davanti a sé (The Life Ahead).

Film distribuito da Netflix lo scorso, recente 13 Novembre, che sta riscuotendo enorme successo, essendosi subito piazzato al 4° posto dei film più visti in questo periodo sulla suddetta piattaforma streaming più famosa internazionalmente.

La vita davanti a sé è diretto da Edoardo Ponti (Cuori estranei), ça va sans dire, figlio dell’esimia Sophia Loren, qui protagonista assoluta nel suo trionfale comeback che potrebbe addirittura condurla alla Notte delle Stelle, sì, Sophia è già in odore di nomination all’Oscar, stando alle critiche estremamente lusinghiere ricevute dal film soprattutto oltreoceano, avendo tale pellicola totalizzato sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, l’ottimo 66% di pareri postivi, lodanti specialmente la sua appassionante prova molto sentita ed emozionante.

Tratto da un celebre ed acclamato, epocale romanzo di Romain Gary, già eccellentemente trasposto per il grande schermo, col titolo originale La vie devant soi, in una famosa versione del ‘77 con Simone Signoret, La vita davanti a sé di Ponti dura 1h e trentasei minuti ed è sceneggiato da Ugo Chiti, navigato writer collaboratore ultimamente inseparabile di Matteo Garrone (Il racconto dei racconti, Dogman, Gomorra) e, in passato, immancabile e graffiante penna soprattutto del corrosivo Francesco Nuti (Willy Signori e vengo da lontano, OcchioPinocchio, Donne con le gonne) e del suo goliardico amico Alessandro Benvenuti (Benvenuti in casa Gori), oltre che di Giovanni Veronesi (Italians e la trilogia di Manuale d’amore), in collaborazione con gli apporti dello stesso Ponti e di Fabio Natale, i quali hanno personalmente “revisionato” alcuni elementi dello script, inserendovi tocchi abbastanza rimarchevoli della loro personalità finemente congiunta a quella tagliente ed esplosivamente acuminata di Chiti.

La vicenda descritta ne La vita davanti a sé di Ponti ricalca piuttosto fedelmente la trama del romanzo omonimo di Gary, spostando però considerevolmente l’ambientazione dall’originaria Belleville parigina, quartiere della capitale francese assai noto per il suo variopinto e strambo melting pot ricolmo di etnie interraziali per l’appunto ruspanti e vivamente colorite, all’altrettanto pittoresca, forsanche più suggestiva e incantevolmente poetica, quasi pauperistica Bari vecchia.

Momo (Ibrahima Gueye) è un ragazzino senegalese di soli dodici anni abbandonato a sé stesso. Spaurito e spaesato in mezzo alla tentatrice, frenetica Bari suburbana, Momo è, potremmo dire, ulteriormente svantaggiato nell’adattarsi in un “paese straniero” per colpa del suo brusco, aggressivo carattere indomabilmente ribelle.

Su pressanti richieste del dottor Cohen (Renato Carpentieri), Momo trova ospitalità presso la decadente e al contempo rinomatamente inquietante e splendente magione gestita da Madame Rosa (Loren). Una vecchia ex prostituta di origini ebree scampata miracolosamente ai campi di concentramento di Auschwitz durante l’Olocausto.

Inizialmente, fra Momo e l’anziana signora Rosa non corre buon sangue. Viste le differenze anagrafiche, culturali e di background diametralmente opposte, difatti, avvengono immediatamente feroci litigi fra i due che culminano in furiose e turbolente incomprensioni che però, col passare del tempo, s’attenueranno e placheranno pacificamente, acchetandosi e sviluppandosi positivamente per di più in inaspettate affinità insospettabilmente elettive, diciamo anche rigenerative, cementandosi in una sorprendente, stupenda amicizia umanamente tenera e affettuosamente toccante.

Momo, nel frattempo, è andato a invischiarsi pericolosamente con dei concittadini malviventi, essendosi prestato per loro allo spaccio della droga.

Riuscirà Madame Rosa, con la sua forza da donna duramente resiliente alla tremenda vita da lei sofferentemente esperita, dunque col coraggio e la maturità derivatele dalla sua saggia, comprensiva, lottatrice anzianità ancora piena di vitalità inarrendevole, ad aiutare Momo nel suo difficile percorso della vita?

La vita davanti a sé non è certamente un capolavoro ma segna il ritorno della mitica Loren al Cinema.

Dopo Nine di Rob Marshall, le sue precedenti prove con lo stesso Ponti, fra cui il mediometraggio Voce umana e il succitato Between Strangers, dopo Peperoni ripieni e pesci in faccia di Lina Wertmüller, la signora Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Loren, Academy Award winner per La ciociara e Oscar alla Carriera, lascia ancora il segno.

Consegnandoci forse la sua ultima, ahinoi, prova per il grande schermo, piena di pathos ammantato di leggendarietà.

Il film vale quasi esclusivamente per lei, la Loren!

La vita davanti a sé assomiglia, purtroppo, spesso a una fiction di matrice ecumenica da prima serata tv di Rai Uno, cioè un feel good movie godibile, sicuramente non memorabile, furbamente ma anche dolcemente costruito a mo’ di delicato, un po’ dolciastro eppur efficace racconto di formazione adatto specialmente a una visione in famiglia per una buonista letizia pre-natalizia, un film piacevole anche se talvolta mielosamente insopportabile, supportato dalle notevoli scenografie ambientalistiche e paesaggistiche del bravo Maurizio Sabatini, aficionado di Roberto Benigni, e sostenuto dall’onnipresente, soprattutto nei titoli di coda, retorica, “marchettara” ma impattante canzone della nostra cantante più venduta al mondo, cioè Laura Pausini, Io sì, a far da traino alla corsa verso gli Oscar della strepitosa Loren.

Vai Sophia, tifiamo naturalmente per te.

Grande Sophia!

Uomini, alle prossime erezioni, votate il Genius, in Arte il Falotico! Vota Antonio? No, vota il Principe non de Curtis, bensì totoiano a suo modo di vedere il mondo, un uomo non corto di cervello ma “lungimirante” di qualcos’altro. Un uomo straordinario che promette faville e fave, insomma, La vita è bella e, come disse Benigni, dove lo trovate uno più bello di me? Un uomo che è una vivente favola eccitante. Un uomo che non si prostituirà mai al sistema ove la gente, disoccupata, pur di arrivare a fine mese, scommette alla SNAI di sistemi. Gente diseredata che, nella vita, aveste poco sedere, non sputtanate i vostri risparmi nel prendere tutto a culo. A prenderlo in questo posto e a prendere non sberlone, metafora di sgnacchere e passerone, bensì a venire presi per coglioni.

Ribellatevi, sprigionate voi stessi! Scatenatevi lontani da ogni catena. Di Sant’Antonio? In quanto il governo ci ha chiuso in quarantena come se fossimo nelle case chiuse. Un uomo vivo, il Falò, un uomo rinnovato ma dal rovinoso passato, un uomo cioè rovinato. Un uomo psicologicamente distrutto che combatte però stoicamente con grinta e sana ira affinché tutti possano godere in maniera egualitaria, forse anche in galera, dei frutti della figa, no, vita. Un uomo pregno di sua immane restaurazione che promette agli esercenti rovinati dal Covid-19, sì, una felice ristorazione. Poiché, restaurandoci e ristorandoci tutti assieme appassionatamente o demoralizzati in modo iper-potente, andremo a brindare in trattoria oppure finiremo a troie. Un uomo ritornato, il Falò, come Ulisse a Troia.

E allora, evviva L’oro di Napoli e Totò Tarzan, evviva il Parmacotto e quest’uomo cottissimo, oserei dire bollito ma sempre in ebollizione. Il Falotico, un uomo bioetico dall’imbattibile etica e sempre con la voglia di qualcosa di etilico per rallegrare l’ubriaca compagnia di questa vita fradicia e puttana.

Accattatevelo! E votatelo!

di Stefano Falotico

 

INLAND EMPIRE, review del masterpiece assoluto di LYNCH!

Ebbene, è finalmente uscito il Blu-ray versione deluxe di uno dei massimi film della storia del Cinema, sì, lo è.Laura Dern Lynch INLAND EMPIRE

Nientepopodimeno che Inland Empire – L’impero della mente, nella più e più volte rimandata, ora assolutamente disponibile confezione a tiratura limitata col Master HD approvato dallo stesso David Lynch, il creatore, ideatore, ovviamente regista e produttore, assieme alla sua inseparabile compagna artistica, Mary Sweeney, di tale leggendaria pellicola oramai epocale assurta a totem avanguardistico della più rinomata vetta monumentale della fabbrica dei sogni, fin dapprincipio, ovvero sin dalla sua primissima presentazione in anteprima mondiale all’indimenticabile 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, avvenuta nel fatidico giorno del 6 Settembre 2006, dì nel quale Lynch fu omaggiato col sacrosanto Leone d’oro alla Carriera, entrata di diritto fra le invincibili e inscalfibili, inamovibili pietre miliari della Settima Arte intesa nella sua forma più superlativamente maiuscola e vertiginosamente mastodontica.

Un capolavoro indiscutibile per il quale la parola capolavoro ci pare addirittura riduttiva e sminuente l’immensamente encomiabile grandezza immane di Inland Empire – L’impero della mente, perfino da taluni, dei totali profani e irriguardosi incompetenti odiosi, non ancora pienamente apprezzato e giustamente incensato nella sua grandiosità inarrivabile e incommensurabilmente portentosa.

Cosicché, dopo aver reinventato il Cinema moderno con l’espressionista, soprattutto impressionante Mulholland Dr., David Lynch sbarcò ed approdò a Venezia ove consacrò il suo genio eterno e paradisiaco, cementandolo con un’opus magna dalla venustà impari, un’opera così magniloquente, effervescente d’immagini spasmodicamente deliranti nella loro visionaria, altisonante brillantezza colossale da indurci attonitamente ad incontenibili, viscerali grida di piacere grondanti ed urlanti maestosi godimenti cinefili così emozionalmente toccanti e potenti d’accecarci per sempre in un infinito bagliore estatico imperituramente immortale e super lucente.

Inland Empire, signore e signori, l’impero della mente di Lynch stesso al suo zenit follemente creativo più smisuratamente eccentrico, mrBizzaria per eccellenza asceso nel firmamento stellato degli dei cinematografici più spaziali, esplososi in un filmato sogno-incubo armonico dei più altissimamente deliziosi, detonatosi in squisito, gigantesco formato stravaganza culturalmente pop più esotericamente eccelsa.

Trama, cioè in verità un pretesto straordinariamente bugiardo dietro al quale, con la scusante d’un vago, comunque già misterico, intreccio che, nella prima, esatta ora, pare assumere una connotazione diegetica approssimativamente “normale”, nelle restanti due ore di tale opera sconfinatamente perlacea della durata, per l’appunto, di 180 min. circa, volutamente si sfilaccia, si spezzetta, dà in escandescenza e poi repentinamente, a mo’ di visive, allucinatorie serpentine superbe, si ricompone mestamente in modo pacatamente e liquidamente languido, (dis)organicamente coagulandosi (in)consapevolmente, sì, a forma d’inconscio junghiano (ef)fuso in schizoidi frame dispostici a mo’ di mosaico ravennate intrecciato a sua volta in filmiche e sanguigne, furenti e fiammeggianti, al contempo tetre e immaginifiche dinamiche agganciate all’acronimo REM, ovvero il rapid eyes movement non ritraente soltanto il personalissimo onirismo traspostoci da David in magnificente suo fantastico vaneggiamento da applauso a scena aperta, bensì una lynchiana messa in scena stessa pazzamente, potremmo dire, fragrantemente deflagrante vellutatamente in figurativa furia orgasmica diluitaci meravigliosamente in tocchi di Arte pura delle più ingegnosamente adamantine e conturbanti.

Comunque sia, non dilunghiamoci, ecco la trama. Sintetizzata per quanto il termine riassumibile, in tal caso, coincida con impossibile:Inland Empire Irons

Nikki Grace (una Laura Dern mai così bella a brava, altro che il suo immeritato Oscar tardivo per il sopravvalutato, così come a sua performance sovrastimata, Storia di un matrimonio), attrice che vive in una lussuosissima villa alle pendici di Hollywood, viene scelta per interpretare il remake particolare di un film maledetto mai completato, intitolato Il buio cielo del domani. A sua insaputa però, in quanto inizialmente ignara, perlomeno solo parzialmente informata che il film per il quale è stata designata altri non è che un rifacimento sui generis, come detto, d’una pellicola su cui aleggia il fantasma d’una maledizione somigliante, se vogliamo giocare di suggestivi parallelismi meta-cinematografici, a quella del tremendo La Fin Absolue du Monde, il bramato film maledettamente orrendo tanto ricercato da Udo Kier del superbo Cigarette Burns di John Carpenter.

Diretta dal gentile e balzano Kingsley (un Jeremy Irons in ottima forma), che è accompagnato dal suo braccio destro squattrinato e disgraziato, Freddie Howard (il compianto Harry Dean Stanton, ex attore feticcio di Lynch per antonomasia), Nikki si trova a recitare a fianco della giovane, affascinante promessa attoriale maschile di nome Devon Berk, forse Billy Side? (Justin Theroux). Un vero suo spasimante nella realtà o solo un fittizio, anzi, un insulso fantoccio innamorato di lei solamente in una finzione che tale potrebbe anche non essere? Essendo probabilmente invece una speculare realtà parallela da lei captata e vista attraverso l’ottica, forse a sua volta deformante, d’un sogno, ripetiamo, paurosamente bello in cui si riflette e in cui le sue emozioni si fratturano e rifrangono ininterrottamente? Forse soltanto frutto della sua alterata, confusissima mente squagliatasi nei suoi deliri a loro volta cagionatele da un marito perfido subdolamente?

E lei stessa, Nikki, è davvero Nikki o Susan Blue, oppure è Alice in Wonderland?

E i conigli antropomorfi alla tv chi sono?

Nikki diventa una donna digitalizzata nel morphing?

È un sogno quello che sta vivendo e ciò che stiamo vedendo oppure è un magico incubo terribile ad occhi aperti?

E se avesse avuto ragione, invece, la poco di buono, rimbambita “strega” sua vicina di casa interpretata dalla grande Grace Zabriskie?

La dimenticanza è quindi rifiorita nella fluorescente, fiorita reminiscenza caleidoscopica delle sue più ancestrali memorie rimosse ed ora, come per magia, coloratamente riemerse in tutto il loro abbagliante terrore estasiante?

Chissà…

Nel cast, fra i tanti, per meglio dire fra i cammei, Julia Ormond, Diane Ladd (madre, nella vita reale, di Laura Dern, Cuore selvaggio docet), Mary Steenburgen, William H. Macy, Laura Harring, Kristen Kerr, Nastassja Kinski e le partecipazioni straordinarie delle “voci” di Naomi Watts e dello stesso Lynch non accreditato, qui anche montatore.

Ribadiamo, Inland Empire è un capolavoro immenso.

Inutile aggiungere altro.

Inutile “spiegarlo”.

Se non vi sta bene, tiratevi delle seghe su Martina Stella e mangiate gli spaghetti mal cotti di vostra zia più brutta della signorina Silvani.lynch dern inland empire

di Stefano Falotico

 

UNA STORIA VERA (The Straight Story), recensione

straight story poster art

Ebbene, oggi recensiamo uno dei massimi capolavori di monsieur David Lynch, Una storia vera. Anche se, ad essere onesti, più che altro incontrovertibilmente obiettivi, è pressoché impossibile non definire quasi ogni opera di Lynch una pellicola che non possa meritarsi la nomea, sacrosanta, di masterpiece assoluto ed intoccabile.

Inoltre, potrà apparire pedante e pleonastico rimarcarlo ma la sua filmografia è costellata esclusivamente da film inarrivabili e qualitativamente, artisticamente emananti venustà cinematografica veramente smagliante, osiamo dire eternamente ammaliante, in una parola magnificente.

Una storia vera fu presentato in Concorso al Festival di Cannes e, a dispetto delle parole lusinghiere appena da noi giustamente emesse nei riguardi dell’insindacabile maestria cineastica del genio Lynch, parole che certamente avrebbero già ampiamente condiviso i giurati della kermesse a cui, per l’appunto, Una storia vera partecipò, ricevendo peraltro una lunga standing ovation dopo la sua prima ufficiale dalla stampa di allora, la Critica mondiale dell’epoca rimase parzialmente interdetta e spiazzata da questa virata lynchiana decisamente poco allineata alle sue spericolate, squisitamente deliranti e grottesche incursioni trascorse da director abituato a film profondamente enigmatici ed ermetici, intrisi di sua folle poetica visionaria soventemente appartenente al proprio inscindibile e imprescindibile, strambo, magmatico, perfino esoterico excursus da regista fuori da ogni canone tipicamente classico e convenzionale.

Infatti, forse assieme ad Elephant Man, Una storia vera è un film dalla trama lineare, semplicissima e lo stile di Lynch, abbandonando i suoi celeberrimi e consueti, potremmo dire, fantasiosi e funambolici, criptici e al contempo stupefacenti voli pindarici personalissimi, trova una pacata compostezza desueta rispetto, come detto, alle storie arzigogolate, anzi, ricolme di ghirigori fantasmagorici, visivamente parlando, delle sue altre passate e future prove.

Il titolo originale, difatti, di Una storia vera ha e contiene in sé un doppio significato… una storia “dritta”, straight, nel senso di chiara, autentica e limpida, diciamo genuina. Straight è anche però il cognome del suo protagonista.

Trama:

un anziano signore dell’Iowa, Alvin Straight (Richard Farnsworth), il quale vive la sua monotona, stanca vecchiaia nella sua modesta abitazione di campagna assieme alla dolce figlia Rose (Sissy Spacek), riceve all’improvviso una perturbante telefonata inaspettata.

Viene avvisato che suo fratello Lyle (Harry Dean Stanton) è stato colpito da un grave infarto ed è ora dunque malato. Rischia cioè, presto, di morire. Essendosi aggravate le sue precarie condizioni già cagionevoli di salute fisica

Al che, Alvin, malgrado non abbia più la patente in quanto gli è stata ritirata per ovvii motivi anagrafici, decide di andare a trovare Lyle col quale, da molti anni, per orgogliosi asti e vecchie, reciproche acredini mai sanate, non parla addirittura più.

Alvin si mette così in viaggio verso il Wisconsin ove abita suo fratello.

Il Wisconsin dista dallo Iowa la bellezza di circa duecentoquaranta miglia e Alvin è provvisto solamente di un trattorino rasa erba, fra l’altro, scassato e arrugginito. Sì, una carrucola più lenta di una lumaca, come si suol dire.

Una pazza impresa, dunque, la sua. Quella di avventurarsi, con un mezzo di trasporto così lento e soprattutto inaffidabile, lungo le pericolose e assai lunghe (perdonateci il voluto gioco di parole) highway sconfinate, forsanche dissestate dell’America più profonda e misteriosa.

Durante il suo interminabile, assai faticoso cammino tortuoso, Alvin fa incontri dei più disparati, incrociando gente di ogni risma ed entrando a contatto con una colorita e non sempre piacevolmente pittoresca umanità pullulata da personaggi assurdi, perfino inquietanti.

Una storia vera, tratto da un soggetto di John Roach e Mary Sweeney, abituale collaboratrice di Lynch, specialmente in veste di produttrice e montatrice (Strade perdute, Inland Empire, I segreti di Twin Peaks), e sceneggiato dagli stessi, musicato come al solito da uno straordinario Angelo Badalamenti, fotografato dall’immenso Freddie Francis, è poesia pura trasposta in immagini fulgidamente ipnotiche.

Un film che tocca molti temi con una dolcezza melanconica vertiginosa, infinitamente toccante in modo prodigioso.

Un’immane riflessione apoteotica sul tempo e sui rimpianti, sullo splendore e al contempo sull’orrore ineludibile della vita nella sua nuda semplicità emozionalmente straziante.

Siamo dinanzi a un capolavoro ineguagliabile.lynchvera

 

di Stefano Falotico

 

 

AL BAR DELLO SPORT, recensione di un ruspante (s)cult movie vero come LINO

lino banfi bar dello sport

S.O.S., solo in caso di necessità, soli in casa pronti alla nuova quarantena. In Francia, attaccata Avignone, avvenuti inoltre nuovi attacchi terroristici a Notre-Dame de Paris. Macron dichiara stato di allerta nazionale alla faccia della Liberté; Egalité, Fraternité. Ci vorrebbe Robespierre e forse una P.R. per baci alla francese di ecumenismo più rivoluzionario dell’inutile 69, no, ‘68.

Donald Trump teme di non vincere alle prossime elezioni presidenziali, sì, statunitensi, e forse contatta Dustin Hoffman di Wag the Dog per allestire, in Studio Ovale, ribattezzato “orale” dopo il fallaccio, no, fattaccio di Bill Clinton con Monica Lewinsky, una White House non tanto immacolata, una guerra contro la Corea del Sud.

Conte, premier nostrano, appartenente a un politico movimento vicino alla DC Comics, no, all’ex Democrazia Cristiana, prega col Pater Noster per scongiurare il peggio. Agli italiani giurando che mentirà loro come Leslie Nielsen de L’aereo più pazzo del mondo. La situazione, secondo Matteo Salvini, fu perfettamente sotto controllo ma sta ora sudando freddo in quanto la pandemia del Covid è in Caduta libera più preoccupante dell’orrendo programma televisivo condotto da Gerry Scotti. Il riso scotta?

C’è poco da ridere, la gente riguarda Riso amaro di Giuseppe De Santis e invoca ogni santo. Presto, sarà Ognissanti. Halloween! Carlo Verdone! Bianco, Rosso e…? Ma quale Altare della Patria e il tricolore.

La gente si strappa i capelli, urgono (r)impianti tricologici. Dopo Ognissanti, oh signur’, vien il giorno dei morti. E non c’è niente da ridere. Avete qualcosa da ridire? Ah ah.

Salvini è aperto al lockdown e la sua donna, chiusasi poiché forse affetta-infettata dal Corona (chi, Fabrizio?), non si apre a lui. Non gli dà il lascia-passere, no, passare. È una donna affettata.

Sì, sono l’unica persona al mondo, perlomeno fra le pochissime, capace di apprezzare parecchio Il processo ai Chicago 7, film nel quale svettano attori prodigiosi e magnific(ent)i e non improvvisatisi tali, cioè degli impresentabili deficienti che, dopo aver riscosso un consenso nazional-popolare, sfoggiando, si fa per dire, la loro nudità, più che altro, nullità esistenziale, esibendosi volgarmente e mercificandosi alla compravendita del carnaio sociale, dal Grande Fratello in poi sono ascesi, sì, di ascesso nostro gengivale a disgustarli, nel cosiddetto empireo dei VIP applauditi, benissimo pagati, forse solo inconsapevolmente plagiati da pecoroni, più idioti o forse solo più furbi di codesti, pronti ad omaggiarli e, come se non bastasse, sfruttando per l’appunto la loro popolarità alla b(u)ona da burini mai visti ma dalla maggioranza guardati, donando loro parti sempre più consistenti in film neanche malvagi.

Adesso, Luca Argentero è diventato un attore bravo? Mah, a Cristina Marino, preferisco il mio canale YouTube, Joker Marino.

Dicevo, mi sono perso. Ma amo perdermi, mi do da solo del disperso, del disperato, del cronico fallito amareggiato ben fiero di esserlo. Non rinnegando la mia innata lucidità, no, unicità, per l’appunto, inviolabile. A mio avviso, invidiabile.

Dicevo… sono fra i pochi, come si suol dire, che si possano contare sulle dita di una mano, a poter amare un ottimo film di Aaron Sorkin e, la sera successiva, rivedere assieme a un amico un film dalla comicità di grana grossissima (così viene definito dal trombonesco Paolo Mereghetti), Al bar dello sport.

Poiché sono come Joe Pesci di Casinò. Non metto mai la testa a posto. Infatti, sono gli altri a spaccarmela, ah ah. Sono forse un casinista o Tom Hanks di Turner e il casinaro.

Uno che ama starsene solo soletto, forse in saletta con le suolette, nella sua casina, spesso e volentieri, rinunziando alla cosiddetta socialità tanto decantata e “benvoluta” da un mondo ove, per essere stimato, devi per forza affermare, fermissimo, che i film di Paul Thomas Anderson sono, anzi siano (eh sì, sai usare il congiuntivo?), tutti dei capolavori. Lo è solo uno, Boogie Nights.

Per il resto, i film di Anderson sono più pretenziosi di uno psichiatra della mutua che vorrebbe praticarti maieutica, inalandoti retorica formale spacciata per arte incontestabile. Oppure per sedazione contenitiva, frenante di danni laterali e coattamente la tua voglia da coatto vero, senza la De Filippi a farti la predica o a rifarti il look imborghesito del tamarro piacione piccolo-borghese “amabile”, di cantare e mandare tutti a cag… e.

Molti, peraltro, forse anche Pearl Harbor… di Michael Bay non è così brutto come si dice/dica in giro, sostengono che Daniel Day-Lewis sia uno dei più grandi attori della storia e tanti suoi fan sono inoltre convinti che sia non solo il miglior attore della sua generazione, bensì il più grande vivente.

Ma per l’amor di dio! Daniel interpretò anche un paio di commedie brillanti al fine di dimostrare la sua versatilità camaleontica alla Bob De Niro. Non fu brilliant e ne uscì uno schifo più brutto di una modella rifatta su Instagram con tanto di bocce, no, di boccacce che vorrebbero fare gola ed essere al contempo goliardiche come nelle migliori novelle del Boccaccio.

Oltre a essere sboccata, strafatta e stupida, non mi eccita e non mi fa ridere. Questa qui è subito da bocciare, vai di banana, no, va bannata, bloccata. Stia castigata! Ah ah. Così come dicono a Bologna, bella mia, adesso stai cagata.

Cioè buona anche se sei bona. Insomma, sei una bona a nulla. Ah ah.

Lino Banfi, invece, è un uomo stoico. Quest’uomo sformato, grasso, rabbioso. Che vuole spezzare a tutti la noce del capocollo, imprecando come un porco, bestemmiando a più non posso. Tirando in ballo la Madonna dell’Incoronata, di Cerignola e pure di Manfredonia.

Un uomo che, con estremo orgoglio, non ha mai letto un libro storico, semmai di Valerio Massimo Manfredi. Credo anche che di Nino Manfredi, a tutt’oggi, altamente se ne freghi.

A differenza di Nino, attore con la sordina, forse migliore di Alberto Sordi perfino, Lino è sempre stato un uomo senza compostezza, che giammai cedette ai compromessi e non andò a messa, un uomo mai composto, scevro d’ogni regola del buon gusto. Eppur strepitosamente Augusto, no, giusto.

Che in questo film, ove interpreta la parte di un emigrato pugliese disastrato, semi-disoccupato a Torino, la città ove impera il culto della Juventus e la sua scarsa mancanza di culo, eh sì, per fortuna ieri sera perse però contro il Barcelona, risiede in una cameretta angusta ubicata a sua volta in un appartamento forse in subaffitto del cognato che probabilmente non pagò il mutuo ma volle castrarlo psicologicamente, appenderlo al muro, oppure renderlo muto. Soprattutto assai più povero del suo idolatrato, forse solo divinizzato, invidiato Gianni Agnelli. Sì, Lino, avvocaticchio alla Lino Capolicchio, no, alla Joe Pesci di Mio cugino Vincenzo, alla De Niro de La notte e la città che, anziché corteggiare Jessica Lange, è Innamorato pazzo à la Celentano non di Ornella Muti, co-protagonista di Povero ma ricco con Renato Pozzetto, bensì della tabaccaia Rossana, una Mara Venier, natia di Venezia, che c’entra come i cavoli a merenda in tale pantomima ed è ficcata… in un baretto frequentato da personaggi partenopei come Gaetano (Pino Ammendola!). Un microcosmo da Totocalcio e da Toto Cutugno, da Monte Rosa, Monte Bianco e montepremi ove compaiono, dalla tv, uomini da Natale a casa Cupiello, in cui Jerry Calà dà spettacolo e si agita come un matto, gesticolando a briglia sciolta forse come un ventriloquo-trasformista Arturo Brachetti ante litteram. Probabilmente, è sofferente non solo di mutismo, anche di rachitismo e precarietà di cultura. Uomo che, essendo stato dalla nascita angariato ed estromesso da ogni sociale contesto, essendo stato sottomesso e sfruttato, malpagato come Mio fratello è figlio unico di Gaetano Rino, venne quindi dal prossimo rifiutato in quanto giudicato razzisticamente, no, cattivamente un handicappato. Non disse/dice una Parola, parola identica al suo nome, poiché, dopo essersela giocata male forse con qualche cretina di Vacanze di Natale o Sapore di mare, desiderò riscattarsi dalle sue origini da indigeno e marocchino, no, da catanese indigente nato all’anagrafe as Calogero Alessandro Augusto…

Un film di Francesco Massaro che assomiglia a una pellicola per massaie, no, di Sergio Martino. Ambientato perlopiù in uno squallido baretto di periferia ricolmo di aperitivi Campari in cui dei poveri disgraziati, semi-orbi e disagiati, immalinconiti a bestia, tirano a campare fra una pizza mangiata a portafogli e pochissimi soldi nel salvadanaio sparito pure dai sogni nel cassetto più impolverati della biblioteca della sorella di Lino. Si legge molto in questa casa… Annabella Schiavone! E Lino, dopo aver fatto tredici, mangia pure il sapone.

Sì, un uomo di un altro pianeta, un puro di buon cuore, un uomo E.T., sì, extra-terrone. Ah ah.

Anche Sergio Vastano, ora devastato, però non scherza, eh eh. È di Roma ma sembra siciliano. Sì, ha sempre i baffetti da siculo.

Massaro, regista venuto prim’ancora del centravanti del Milan omonimo. Vai, Massarooo…

Io giocai, da mezza ala destra alla Pasolini, nel Lame Ancora.

Alla fine, Lino scoppiò oppure Annie Belle scopò. Di nome, nel suo personaggio, Martine. Fottendo tutti, anche Don Raffaele (Leonardo Cassio). Strozzino che vorrebbe recitare come Marlon Brando de Il padrino ma vien affiancato soltanto da colui che interpretò la parte del padre di Bruno Sacchi… mica da Al Pacino.

Sì, grande Lino. Volle recitare pure con De Niro. De Niro che fu Don Vito ma anche, in Shark Tale, Don Lino.

Bene, la seduta è tolta.

Il Falotico è il più grande scrittore del mondo. Col suo prossimo libro, cioè questo, venderà dieci copie. Datemi una cornucopia.

https://www.kimerik.it/SchedaProdotto.asp?Id=4027

Altrimenti, se venderà più di Fedez, diverrà/diventerà ricco come Chiara Ferragni. Al che, tutti vorranno da lui un residence e un cappotto di cashmere. Voglio invece essere un uomo vellutato, verace, da vongole veraci, vendere un mio ex conoscente, Geraci, in seconda classe nel treno al grido di Geraci, no, gelati, patatine e bibite!

Andare con Gaetano da I Gaetano. Famosa pizzeria, appunto, dell’entroterra del capoluogo emiliano-felsineo.

E ho detto tutto.

Cari morti di fame, morirò presto suicida in quanto senza una lira. Le lire non ci sono più. L’arte non paga, il puttanesimo, sì.

Prima però devo andare in bagno. Poi in cucina. Sì, devo controllare non la schedina, infatti non c’è più, bensì dare una sberla a una zia che, nella sua vita, credette di essere Ava Gardner ma non amò mai suo marito, un tipo-topo da SNAI, un asino. Lui non seppe amarla e lei però non rimase vergine come la Madonna. Lui non è San Giuseppe e non sa far di coito, oltre che di conto. Lei non sa fare il cucito ma a tutti la bocca vuole cucire.

Sì, lasciai gli studi istituzionalizzati poiché già all’epoca mi sentii a disagio con un mondo di ritardati.

Non andavo manipolato né strumentalizzato. E che sono Matt Damon di Will Hunting? Quando i cattivi alla George Foreman esagerarono con le offese, divenni troppo veloce come Muhammad Ali. Più che un film di Massaro, un massacro. Ne presi molte, lo presi in quel posto ma non sto ancora a posto. No, non sono costernato, neppure sistemato, non ho vinto la Lotteria di Capodanno ma sono un artista che ama il Cinema tutto. E, come Joe Pesci di Casinò, ho fatto il botto. Ah ah. Giù ancora botte. Sì, sempre borbotterò. Ah ah.

Ha ragione Cristiano Ronaldo, non dovete tamponarlo su Instagram e sulla strada che porta allo stadio. Il tampone è una stro… ta.

Sì, una strombolata. Che avevate capito?

Di mio, sono riesploso come lo Stromboli o come uno stro, uno stro, un nostro/vostro parente. No?bar dello sport locandina bar dello sport jerry calà

di Stefano Falotico

 
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