Americani, recensione
Oggi, per la nostra consueta rubrica Racconti di Cinema, vi parlerò di Americani (Glengarry Glen Ross), firmato da James Foley (A distanza ravvicinata, House of Cards, Confidence – La truffa perfetta).
Un film purtroppo obliato dalla dimenticanza odierna del cinefilo o pseudo-tale contemporaneo che, ossessionato dai cinecomic e dalla celluloide rocambolesca di tale spettrale modernità quasi oscurantistica, si è ampiamente scordato di tale perla uscita sui nostri grandi schermi nell’oramai lontano 1992.
Interpretata da un impressionante cast in stato di grazia, ovvero Al Pacino, Jack Lemmon, Alec Baldwin, Kevin Spacey, Jonathan Pryce, Ed Harris e Alan Arkin.
Americani rimane, a tutt’oggi, la migliore pellicola in assoluta di Foley, regista di mestiere robusto che però, ultimamente, ha perso non poco la bussola, facendosi coinvolgere perfino dietro la macchina da presa per dirigere gli abominevoli Cinquanta sfumature di nero… e di rosso, sequel piuttosto trascurabili del già velleitario, anzi annerabile, soprattutto macchiato d’onta indelebile marchiante, Fifty Shades of Grey, impresentabile, vergognoso originario capostipite d’una delle saghe editoriali-cinematografiche più squallidamente mercantilistiche e volgarmente edonistiche dell’ultima decade.
Detto ciò, ribadisco e marcatamente, appunto, sottolineo ed evidenzio a lettere cubitali, simili al font della locandina italiana, che Americani è un signor film.
Anzi, per meglio dire, un film che film a tutti gli effetti non è. Poiché, essendo tratto da una celeberrima pièce théâtrale dell’esimio David Mamet, premio Pulitzer del 1984 come miglior opera drammaturgica, sto parlando di una pellicola che, come si suol dire, è perfettamente ascrivibile a quel sottogenere definito Cinema parlato, dunque Teatro filmato che l’esperto metteur en scène James Foley, grazie alle carrellate scattanti e poi pacate, avvolgenti e lievi, morbidissime dell’ottimo direttore della fotografia Juan Ruiz Anchía, in virtù delle sue languide, soffici riprese acquatiche, giocate su intensi primi piani d’inquadrature che gelidamente si fissano maniacalmente sugli sguardi in apnea, amletici, dubbiosi, permalosi e incazzati dei suoi magnifici, inappuntabili interpreti, ammanta d’un fascino stupendamente rètro, seducendoci e coinvolgendoci appassionatamente per tutta la sua durata di un’ora e quaranta minuti, non lasciandoci un attimo di tregua e di respiro.
Questa la trama a grandi linee:
in un’azienda immobiliare di New York, fa irruzione l’arrogantissimo, bullistico e autoritario Blake (Alec Baldwin), un riccone gagliardo iper-ambizioso a capo di molte filiali della medesima. Il quale, esasperato dai continui fallimenti economici dei suoi dipendenti, incapaci a suo dire di riuscire a vendere soddisfacentemente le loro azioni ai futuri compratori, pone a essi un insindacabile aut aut.
Soltanto chi, nel giro di poche ore, sarà in grado di vendere maggiormente, continuerà a lavorare e non perderà il posto. Al venditore più bravo, Blake promette come regalo una Cadillac, al secondo classificato di tale competitiva gara, da lui imperativamente indetta, una misera collezione di coltelli da bistecca, a tutti gli altri purtroppo soltanto l’immediato licenziamento.
Ciò provoca una faida, persino truffaldina e sporca, fra tutti i dipendenti che, dalla sera al mattino successivo, vivranno momenti infernali fatti di meschine rivalse, di reciproche viltà e stronzi, vicendevoli sgambetti.
Cioè, a causa dell’inappellabile scelta drastica di Blake, fra tutti i colleghi dell’agenzia si scatenerà un delirio collettivo di rabbie e gelosie vigliacchissime.
Tutti, pur di non perdere il proprio lavoro, si daranno filo da torcere senz’esclusione di colpi bassi.
Musiche di James Newton Howard e montaggio a orologeria di Howard Smith per questo kammerspiel sui generis che ci tiene magneticamente incollati dall’inizio alla fine in un vertiginoso crescendo di colpi di scena e dialoghi al vetriolo scritti dallo stesso Mamet, autore infatti anche della sceneggiatura (come sopra scritto, based on the play by...).
Attori tutti impeccabili con particolare menzione di merito ad Al Pacino (candidato all’Oscar) nei panni dello scafato, virile e nevrotico Ricky Roma e al compianto Jack Lemmon che tratteggia magistralmente, a metà fra il patetico, il commovente e il laido, la figura del tragicamente ridicolo “commesso viaggiatore” Shelley Levene.
Imperdibili i titoli di coda sulle note musicali di Al Jarreau.
di Stefano Falotico
Old Man & The Gun, recensione
Ebbene, oggi vi parliamo di Old Man & The Gun. Ovvero dell’ultima pellicola in assoluto con Robert Redford, prima del suo addio definitivo dalle scene perlomeno attoriali.
Già questo basterebbe per poter affermare che Old Man & The Gun, a prescindere dalla sua qualità cinematografica, peraltro assai lodevole, infatti lo sottolineeremo nelle righe seguenti, sia una pellicola che, se vi siete persi al cinema, dovete recuperare quanto prima.
Questo film è uscito nelle nostre sale il 28 Dicembre dello scorso, distribuito dalla BIM.
Casa distributrice che ha preferito mantenere intatto il titolo originale senza tradurlo minimamente, togliendo soltanto l’iniziale articolo determinativo inglese. Infatti, il titolo originale è The Old Man & The Gun, da noi solo Old Man…
Film diretto dal valente e promettente David Lowery che, per l’occasione, oltre ad aver avuto la straordinaria opportunità dell’esserti fregiato di poter già affermare orgogliosamente che è stato l’ultimo cineasta ad aver lavorato al servizio di Robert Redford per quella che, come scrittovi sopra, rimarrà l’ultima performance di un mito del Cinema mondiale, si è di nuovo avvalso della presenza in tale sua pellicola del co-protagonista premio Oscar Casey Affleck. Dopo la loro precedente collaborazione per il lodato Storia di un fantasma.
Fregiandosi, come se non bastasse, anche di un cast di comprimari, come si diceva un tempo, assai di lusso.
Ovvero Sissy Spacek, Danny Glover, l’intramontabile Tom Waits e John David Washington.
Old Man & The Gun è tratto da un articolo, apparso sul New Yorker, di David Grann, sceneggiato dallo stesso Lowery.
Old Man & The Gun narra la rocambolesca, impavida vicenda reale di Forrest Tucker (Redford), ladro gentiluomo che evase da San Quentin e fu inseguito, sfrenatamente ricercato dalla polizia, capeggiata dal detective John Hunt (Affleck).
Hunt vuole arrestare Tucker, sì, è la sua professione che lo richiede ma, come tutta l’opinione pubblica, sebbene il suo lavoro lo obblighi al suo dovere professionale, rimane estremamente affascinato dalla figura carismatica di questo ladro provetto e imprendibile.
Tucker commette le sue rapine, avvalendosi dell’aiuto dei suoi due amici scagnozzi un po’ sfigati, il veterano Teller (Glover) e il furbastro ma imbranato Waller (Wiats).
Nel frattempo s’innamora anche di una donna di nome Jewel (Spacek).
Ecco, chiariamoci subito, Old Man & The Gun non è certamente un capolavoro e non sarà ricordato come una delle migliori pellicole aventi per protagonista Redford.
È semmai un palese, delicato omaggio, crepuscolare, toccante e romanticissimo, alle tante storie e agli innumerevoli personaggi leggendari incarnati da Redford nel corso della sua lucente carriera.
Un film di solo un’ora e 33 min che scorrono piacevolissimamente ove il grande Redford, senza strafare, ci regala la sua definitiva prova d’attore.
In punta di piedi, congedandosi signorilmente secondo il suo inappuntabile, invidiabile stile.
Scivolando nel vento del suo indimenticabile tramonto…
Salutandoci con l’aura del suo celeberrimo aplomb, divertito, liberal e scanzonato, malinconicamente ipnotico che l’ha reso celebre.
di Stefano Falotico
Arrivederci professore, recensione
Oggi è uscito nelle nostre sale, distribuito dalla Notorious Pictures, il film Arrivederci professore con un Johnny Depp in forma smagliante, una pellicola scritta e diretta da Wayne Roberts, qui alla sua seconda prova dietro la macchina da presa dopo Katie Says Goodbye.
Arrivederci professore, intitolato in originale semplicemente The Professor, doveva infatti chiamarsi inizialmente Richard Says Goodbye, quasi a formare un dittico tematico, oserei dire semantico, perfino nel titolo, col film precedente di Roberts.
In Arrivederci professore, a differenza di Katie Says Goodbye, ove la protagonista era una settantenne dal cuore spezzato che, con intrepidità esuberantemente vitalistica, si dava tardivamente alla prostituzione senza vergogna, siamo alle prese con un universitario docente di letteratura di nome Richard (Johnny Depp) a cui viene diagnosticato un cancro terminale.
Oramai il suo male è stato scoperto fuori tempo massimo e la sua vita è perciò insalvabile. Richard, peraltro, si rifiuta di accettare il trattamento propostogli dal medico curante che gli avrebbe, perlomeno, permesso di vivere circa un altro anno di vita. Cosicché, inesorabilmente preferisce accettare la fine incombente e impietosa che purtroppo il destino gli ha amaramente riserbato.
Richard è sposato con una donna che lo tradisce oramai da parecchio tempo, Veronica (Rosemarie DeWitt). Si è rassegnato dinanzi alle puntuali, immancabili infedeltà coniugali della sua donna una volta da lui amata appassionatamente. E oramai, dirimpetto alle continue scappatelle di sua moglie, vi scherza sopra e le prende, come si suol dire, perfino con giocosa filosofia.
Richard e Veronica probabilmente, in cuor loro, si amano dolcemente ancora sebbene il loro matrimonio stia probabilmente in piedi soltanto perché, se loro due divorziassero, incasinerebbero l’adolescenza, peraltro già turbolenta, fragile e problematica della figlia Olivia (Odessa Young).
Richard e Veronica sono di mentalità molto aperta e quando la figlia, a cena, confessa loro che è lesbica, entrambi non fanno una piega. Accogliendo il saffismo della figlia con signorile disinvoltura.
Richard ha anche un inseparabile amico del cuore, il collega Peter (Danny Huston).
Richard, malgrado il protrarsi implacabile, progressivamente sempre più doloroso della sua malattia, continua instancabilmente a insegnare ai suoi ragazzi. Non rinunciando affatto al suo proverbiale, anti-ortodosso, bizzarro e inconsueto, liberale metodo d’insegnamento all’insegna della più totale, pura joie de vivre.
È qui che Arrivederci professore, se da un lato, in questi suoi simpatici siparietti giovanilistici, vorrebbe essere scherzosamente goliardico e privo di retorica, mostra invero le sue maggiori pecche, lasciandosi andare a qualche volgarità piccante di troppo, scatologica e pecoreccia in pedestre stile da Nonno scatenato. Da cui forse anche la presenza, forse nient’affatto casuale, di Zoey Deutch nella parte dell’acerba, idealistica studentessa Claire in un ruolo, appunto, speculare e assai analogo a quello già da lei recitato nella succitata pellicola di Dan Mazer con Robert De Niro e Zac Efron.
Arrivederci professore vorrebbe essere una black comedy sui generis, leggera, divertita, scanzonata ma anche ponderosamente riflessiva, perennemente oscillante tra il serio e il faceto, sul valore della vita. Valore, ahinoi, disconosciuto dai più durante la loro miserrima esistenza frivola e cinicamente superficiale.
Sì, il suo regista Wayne Roberts, dietro la parvenza di un’apparentemente banale commediola di breve durata (il film dura soltanto un’ora e trenta minuti esatti, inclusi gli integrali titoli di coda), ha voluto lanciarci un preciso, profondo messaggio, ovvero quello secondo cui noi tutti, uomini e donne, forse arriviamo a comprendere davvero la nostra natura caduca e mortale in estremo ritardo quando siamo già inevitabilmente vicinissimi alla fine della nostra vita.
Arrivederci professore funziona infatti molto bene, nonostante qualche sdolcinato, ricattatorio piagnisteo eccessivo, negli ultimi trenta minuti quando, tangibilmente, noi spettatori percepiamo significativamente e realmente la tragica ineluttabilità dell’esistenza di Richard.
Grazie soprattutto alla solita bravura carismatica di un Johnny Depp che, finalmente dismessi i panni di Jack Sparrow della saga dei Pirati dei Caraibi, risolti i suoi recenti problemi giudiziari, ha qui azzeccato una performance impagabile.
Ma, a conti fatti, Arrivederci professore, a dispetto dei suoi lodevoli intenti, sì, si lascia vedere molto volentieri e commuove perfino ma rimane troppo in superficie.
Detto ciò, è comunque un film che vi consigliamo di vedere. E non siamo affatto d’accordo con la sbrigativa Critica statunitense che gli ha riservato, perlopiù, voti recensori bassissimi, decisamente immeritati.
di Stefano Falotico
When They See Us, recensione
Ebbene, dal 31 Maggio, è disponibile su Netflix la miniserie in 4 episodi di circa un’ora ciascuno, ideata, scritta e diretta da Ava DuVernay (Selma – La strada per la libertà, Nelle pieghe del tempo), ovvero When They See Us.
When They See Us è la cronistoria dettagliatamente certosina, inquietante e spaventevole di uno dei casi giudiziari più scabrosi di sempre. È infatti incentrata sul tristemente celebre caso della jogger di Central Park, accaduto nel 1989.
Vale a dire lo stupro e le sevizie orripilanti subite da una donna di nome Trisha Meil nel parco più grande e famoso di New York a sera inoltrata.
Ingiustamente, di tale barbaro crimine furono accusati cinque teenager invero incolpevoli e assolutamente innocenti che furono beccati da quelle parti per pura, tragica fatalità.
Una serie di circostanze a loro estremamente sfavorevoli infatti indussero gli inquirenti e la polizia a sospettare immediatamente dei cinque suddetti giovani. I quali, follemente attanagliati dalla giudiziaria morsa caudina d’un sistema legale frettolosissimamente burocratico, si trovarono nell’assurda, confusionaria, allucinata situazione di raccontare bugie perfino a loro stessi poiché, inizialmente, colti dal panico e dall’inesperienza della loro giovanissima età, terrorizzati mentirono agli indagatori, accusandosi da soli dell’osceno reato. Ingenerando un equivoco giuridico pazzesco.
Soltanto dopo atroci, raccapriccianti, robustissimi dibattiti interminabili nelle aule del tribunale, furono scagionati e assolti. O meglio, i cinque scontarono lunghi e durissimi anni di carcere. Una volta rilasciati, ebbero molte difficoltà a reintegrarsi a una vita normale. Emarginati e visti con sospetto da tutti. Sino a quando, qualcuno finalmente confessò di essere stato lui, molti anni addietro, il responsabile dello stupro commesso ai danni di Trisha.
Però, appunto, i migliori anni della vita di questi incolpevoli giovani vennero abominevolmente bruciati, essiccati criminosamente da una legge spietatamente folle e assai crudelmente svelta a condannarli malgrado, sin dapprincipio, sussistessero pochissime prove tangibili ed evidenti del loro mai perpetrato misfatto.
Uno scandalo di proporzioni ciclopiche, un tetrissimo caso di cronaca nera restituitoci con emozionante schiettezza analitica da un’Ava DuVernay mai così brava a mostrarcelo in tutta la sua pusillanime, meschina mostruosità.
Finanziariamente sostenuta in questa sua mirabile, antropologica, lodevolissima missione oltre che dal patrocinio economico-distributivo di Netflix, dalla TriBeCa Productions di Jane Rosenthal e Robert De Niro che figurano infatti tra i produttori esecutivi, da nientepopodimeno che Opray Winfrey. Ava DuVernay si è avvalsa dei talenti recitativi in fiore di un cast di promesse di rilievo fra cui Jovan Adepo, Asante Blackk e Chris Chalk, affiancati dalle oramai veterane Felicity Huffman, Famke Janssen e Vera Farmiga, dal sempre puntuale, bravissimo John Leguizamo, da Joshua Jackson e da Michael Kenneth Williams nella parte del padre di uno dei ragazzi accusati, Bobby McCray. In un ruolo per certi versi accostabile, simile e allo stesso tempo antitetico rispetto al suo Freddy Knight del capolavoro The Night Of di Steven Zaillian.
La DuVernay sceneggia When They See Us con Attica Locke, Robin Swicord e Michael Starrburry. Ottimamente servita in questo suo viaggio all’inferno, in questo spettrale incubo a occhi aperti, dalla fotografia spesso cupamente, claustrofobicamente virata al blu, dell’acclamato direttore della fotografia Bradford Young (Arrival, 1981: Indagine a New York), già cinematographer per la DuVernay del succitato Selma. Capace di regalare e infondere alle immagini un tono di atmosferica gelidezza mortifera in linea col clima macabro e quasi horror della vicenda.
When They See Us, come detto, consta di soli quattro episodi (standard alquanto anomalo per una miniserie, di solito infatti anche le miniserie durano mediamente almeno il doppio) ma, nella sua concisa eppur sfumata stringatezza, nonostante un certo moralismo di fondo e qualche didascalica parentesi troppo descrittiva, è già certamente uno dei migliori prodotti del 2019.
di Stefano Falotico
Snowpiercer, recensione
Come un fenomeno cataclismatico e un elettrico fulmine a ciel sereno, è piombato giù dalle nuvole finalmente uno come Bong Joon-ho che spacca tutto e lo rompe ai farabutti e a tutte le donne brutte ma a quelle bellissime soprattutto
Dopo la sua vittoria a Cannes ho deciso di farmi una cultura su questo regista coreano, il primo ad aver vinto la Palma d’oro della sua nazione.
Chi l’ha visto a Cannes definisce Parasite un film stupefacente.
Allora, sono partito da quello che è uno dei suoi film più apprezzati a livello critico, ovvero Snowpiercer. Nonché incazzati.
Prima pellicola di Joon-ho con un cast internazionale: Mr. Captain America/Chris Evans, la sempre inquietante, androgina, asessuata Tilda Swinton, Billy Elliot/Jamie Bell, Octavia Spencer, Elephant Man/John Hurt e il solito magistrale Ed Harris nel finale.
Non credo che Snowpiercer sia un capolavoro, a differenza di coloro che l’osannano in gloria senza voler sentir ragioni.
Ma è un film stordente, figlio di un autore del quale mi pare ovvio che sentiremo molto parlare negli anni a venire, giustamente.
Permettetemi il gioco di parole, un regista avveniristico. Sul quale, ripeto, parlo ancora da mezzo profano ma su cui posso già comunque esprimermi in maniera entusiastica. Siamo di fronte a un cineasta di enormi prospettive, su questo non v’è alcun dubbio.
Snowpiercer è un film sull’eterna lotta di classe, un film di fantascienza fumettistica che, invero, camuffandosi da movie distopico e post-apocalittico, riflette sulla condizione sociale quanto mai attuale del mondo odierno.
Ove le disparità classiste stanno assumendo contorni horror mai visti.
Il mondo si è ghiacciato non solo di smottamenti tettonici e forse nuove orogenesi alpine, avvolta com’è la nostra Terra da un perenne, immutabile, antartico gelo polare, bensì si è polarizzato sempre più di più fra ricconi violenti e perdenti deprimenti.
I sopravvissuti sono convogliati in un treno ripartito appunto per classi. Nella classe più bassa alloggiano i poveretti, la gente reietta angariata dai potenti, trucidata dalla barbarie aristocratica di chi plagia le coscienze a suo insindacabile volere e fa di queste sue oscene plaghe materia raccapricciante di sangue che fuoriesce dai corpi smembrati e annichiliti dei più sfigati in un’interminabile, mortificante, morta ammazzata valle di lacrime esagerata.
In cima alla carrozza vive il bastardo per antonomasia, ovvero Wilford, avido puttanone interpretato da quel vivente teschio ambulante di Ed Harris.
Un viso scavato nella roccia montagnosa dei canyon delle sue rughe impressionanti. Il ritratto spaventevole dell’uomo macilento stronzo dentro.
Un uomo purulento, Man in Black di Westworld. Insomma, l’incarnazione melliflua della schifezza più belluina mascherata dietro la parvenza e i gesti fini di un elegante, azzimato figlio di puttana aitante.
Questo non è un capolavoro ma rimane un pugno allo stomaco girato da dio, eh già, sì.
E, alla fine, dal cucuzzolo innevato, l’orso polare occhieggia e pare sussurrare alla donna e al bambino rimasti vivi, sì, cazzo, che avete combinato idioti di (dis)umani?
Fissa il bimbo nella palla di neve, no, degli occhi e animalescamente in modo purissimo e bianco come il suo pelo morbido e selvaggio che non deve allisciare nessuno, lo mette in guardia dalle racchie frigide e dai dottori dal grosso portafogli che in verità gli bruceranno solo il cuore nella fornace: figliolo, meglio fare lo Yeti da grande piuttosto che dar retta a questi uomini grizzly.
Questi vogliono invogliarti alla bestialità travestita da raffinatezza e vorranno convogliarti soltanto nei loro ripetitivi, burocratici, macchinosi binari.
Sii un uccello libero. Non farti ingabbiare, mi raccomando, da donne come la Swinton. Sai, ragazzo, è una grandissima attrice, adesso ricchissima, ma siamo uomini o siamo Orlando?
Noi non andremmo mai a letto con una così nemmeno se ci dessero l’Oscar per Michael Clayton. O no?
Sinceramente, al di là della sua straordinaria professionalità e dell’impari classe recitativa, fa schifo al cazzo.
Sai figliolo, ora sto qui al Polo Nord, forse anche in quello Sud, perché sia le nordiste che le terrone mi avevano rotto solo i coglioni.
Stavo diventando La cosa di John Carpenter.
Allora ho pensato, eh sì, meglio farmi una passeggiata nella natura al mattino con le rugiade cristalline piuttosto che mettermi assieme a delle morte viventi di nome Giada, con delle done castoro o con delle cerbiatte Bambi, con delle bambine.
Lontano da quelle all’apparenza dolci e carine, invero zoccoline.
Lontano da tutti gli uomini babbuini.
Meglio il bambù, meglio guidare una Panda.
Fidati.
Spingi finché puoi, non raffreddarti per colpa dei finti amori calorosi della borghesia in realtà cinica e arida.
di Stefano Falotico
Stefano Falotico, il sottoscritto, intervista Federico Frusciante
si accomodi ben volentieri. Anzi, accomodati.
Vuole, anzi, vuoi un caffè?
– Non dico mai di no a un caffè.
Ebbene, che aria tira a Livorno?
– Di elezioni anche perché, essendo candidato, le sento più vicine.
- Ma è proprio vera la leggenda metropolitana secondo cui, in uno dei must della mia infanzia, ovvero Bomber con Bud Spencer, fra gli spalti del palazzetto sportivo ove è stata filmata la scena dell’incontro finale contro Rosco Dunn, tu eri fra gli spettatori? Quanti anni avevi?
– Ero sugli spalti e mi si vede di sfuggita anche in un paio di inquadrature.
- Quali sono i titoli da te più attesi della prossima stagione cinematografica? Per quanto riguarda The Irishman e C’era una volta… a Hollywood, ti sei già espresso, amando tu enormemente Scorsese e Tarantino. Come d’altronde li amo io, anche se sugli ultimi due tre film di Tarantino io abbia delle riserve.
– Questi due li aspetto anche io con ansia. Aspetto anche il nuovo Woody Allen. Aspetto i grandi registi, non tanto i titoli.
- Hai fiducia invece in Gemini Man di Ang Lee? Cosa ne pensi di Lee in generale?
– Lee ha fatto delle cose belle ma anche roba minore. Staremo a vedere.
- Una volta, in un tuo video monografico, non ricordo quale, perdonami se non so indicarti quale esattamente, hai detto che non realizzerai mai una monografia su un attore. Perché sono i registi gli artisti e gli artefici di un grande film. E dunque non si può ragionare per attori. Ma, se non sbaglio, no, la memoria non mi tradisce, avevi anche affermato che, se proprio fossi costretto, al massimo ne allestiresti una su Christopher Walken perché, a conti fatti, la sua filmografia appunto attoriale, in qualche modo, rispecchia una sua linea conduttrice molto coerente. Tanto coerente, a parte qualche inevitabile scivolone, da poter parlare, caso assai raro, di attore anche in un certo senso autore. Hai cambiato idea?
– Per me un attore, anche se meraviglioso (amo Volonté, Brando, Walken, De Niro, Pacino, Nicholson, Driver e altri…), non merita una mia particolare attenzione. Perché tanto il pubblico generalmente segue proprio le star. Walken è un grande ma non farei una mono manco su di lui. Al limite, forse proprio su Volonté.
- A tal proposito, tornando a parlare di attori, hai ovviamente discusso spesso di grandi interpretazioni ma, se dovessi scegliere, anche se so, per lo stesso discorso fatto poc’anzi, cioè che non ragioni per attori, quali sarebbero e forse sono i tuoi dieci attori preferiti della storia del Cinema? Cioè quegli attori che, se non fossero mai nati, probabilmente il Cinema stesso ne avrebbe sofferto immensamente? E che hanno avuto un impatto sulla Settima Arte stessa?
– Volonté, Brando, De Niro, Nicholson, James Stewart, Robert Mitchum, Orson Welles, Lance Henriksen, Walken e Pacino. Anche von Sydow, Chaplin, Buster Keaton, Bela Lugosi. Eh, ce ne sono.
- Credi che il giorno in cui morirà John Carpenter sarà uno dei giorni più brutti della tua vita oppure no? Come dire, no, appunto, tanto prima o poi dobbiamo morire tutti e, comunque, i suoi capolavori stanno lì e nessuno li tocca. Naturalmente prima della fine del mondo o se qualche Jena Plissken dovesse premere il tasto del black–out
– Sarà terribile.
- Hai visto Dumbo di Tim Burton? Tu di Burton sei un grande fan. Che ne pensi di questa sua ultima pellicola? Ha ricevuto critiche assai controverse.
– Bel film su commissione. Oramai sono abituato alle critiche a uno dei migliori registi degli ultimi trent’anni.
- Hai letto il mio piccolo saggio monografico su Carpenter? Eh eh. Che ne pensi?
– Interessante e particolare. Non per tutti, però.
- Hai realizzato una monografia su David Cronenberg in uno dei tuoi storici video. Ma ho notato che non ne parli mai tantissimo. Come se, correggimi se sbaglio, sì, lo considerassi un genio ma forse lo sentissi meno vicino rispetto ad altri registi da te molto amati.
– Non ne parlo un granché perché oramai parla solo di serie tv e non fa un bel film da un bel po’. Ma lo amo immensamente.
- Sono uno dei pochi che non ha apprezzato e continua a non apprezzare The Wolf of Wall Street. Sebbene, come si sa, di Scorsese io sia un ammiratore pazzesco. Di Silence invece che ne pensi?
– No, per me The Wolf of Wall Street è invece un capolavoro di scrittura e di messa in scena.
Silence è ottimo, ci mancherebbe, ma non è un capolavoro. I capolavori veri del maestro sono altri.
- Infine, ultima domanda. Anche su un altro regista ti sei sempre espresso poco, detta sinceramente, ovvero Kenneth Branagh. Potrei sapere gentilmente che ne pensi?
– Ho amato i suoi inizi come Enrico V e le sue altre riduzioni per il grande schermo del Bardo, le sue commedie amare come Gli amici di Peter o i suoi gialli come L’altro delitto. Ha girato anche un Hamlet enorme. Però per me si è perso troppo a Hollywood.
Grazie Fede!
A presto!