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Loro 1, recensione di Anton Giulio Onofri

arton13361-23dbdIl 2.0 ha fatto piazza pulita del Postmoderno, ma non tutti sembrano essersene accorti. Eppure, abituati al passo che se una volta veniva misurato ogni 100 anni nel Ventesimo secolo ha assunto il ritmo più spedito delle decadi (se diciamo ‘nel Cinquecento’ o ‘nell’Ottocento’, diciamo invece ‘negli anni ‘40’, ‘negli anni ‘70’, e così via), da quando facebook, youtube, instagram, whatsapp sono diventati strumenti abituali delle nostre relazioni, più o meno reali, più o meno virtuali, profondamente mutato è pure il nostro modo di apprendere, giudicare, catalogare e distinguere l’intero sistema di dati con cui abbiamo a che fare quotidianamente, in un calderone di informazioni che a malapena riusciamo a gestire e a valutare con la necessaria riflessività. Nel calderone finiscono inevitabilmente anche i nostri ‘sentimenti’, quei moti dell’animo che determinano i nostri affetti e la nostra personale maniera di esprimerli e di accudirli, così come anche i nostri gusti in fatto di qualunque cosa, dal cibo alla letteratura, dalla moda all’arte, dalla musica al sesso. Noi italiani, a differenza degli altri terrestri, abbiamo vissuto questo processo di trasformazione lento ma denso e limpidamente percepibile – almeno per chi non ha rinunciato ad avere del mondo e di sé una consapevolezza utile, anzi necessaria a conservare dignità e lucido discernimento – in pieno Berlusconismo: cioè quell’epoca iniziata molto prima della ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi nelle vittoriose (per lui) elezioni politiche del 1994: con tre reti televisive nazionali di sua proprietà, infatti, il Cavaliere era entrato già da 10 anni (l’acquisizione del terzo network Mediaset, Retequattro, avvenne esattamente nel 1984) nelle case della Penisola spargendo a piene mani i fondamenti di un’etica e di un’estetica nuove di zecca, a metà tra il riflusso e il Trash. Fu dunque naturale che buona parte di quegli italiani cresciuti o maturati guardando cartoni giapponesi, telenovelas sudamericane, sitcom USA e quiz plasticosi infarciti di spot pubblicitari e televendite di pentole e di materassi trasmessi 24 ore su 24, cadesse in massa nella trappola demagogica di quel populismo nascente che in quasi vent’anni ha radicalmente modificato nel mondo intero, ma anche e anzi soprattutto in patria, la percezione dell’Italia così come l’aveva conosciuta chi aveva almeno vent’anni in quegli ormai lontani e pastellati anni ’80. Berlusconi, destituito a forza nel 2011 per motivi che ognun sa e che non occorre certo esporre nuovamente, almeno in questa sede, è tornato (LUI è tornato…) alla ribalta nella recente tornata elettorale, raccogliendo un consenso ben lontano dai plebisciti di un tempo, ma comunque tanto patetico quanto sorprendente anche per chi, disgustato dagli effetti del morbo letale inseminato in quegli anni di fuffa e paillettes in 4:3 che indisturbato ha proseguito una venefica opera devastatrice di cervelli e coscienze, si attendeva l’attuale disastro finale. Ma con un tempismo per il cinema quasi sempre prevedibile, Berlusconi è tornato anche sul grande schermo con un film ‘monstre’ della durata di 4 ore scritto e diretto da chi aveva già serenamente affrontato – e splendidamente superato – la sfida di raccontare un altro (o forse è meglio dire L’altro) grande protagonista della storia italiana del dopoguerra, altrettanto determinante per il destino del Paese quanto il Cavaliere di Arcore: il Divo Giulio Andreotti. Proprio con quel film, esattamente 10 anni fa, lasciando che di diseredati e delinquenti si continuasse ad occupare il collega Matteo Garrone, Paolo Sorrentino impresse al suo cinema una virata di stile e contenuto inaugurando ufficialmente, con il culmine de La Grande Bellezza, un new age estetico che ha implacabilmente e finalmente archiviato il defunto, o quantomeno stantio e ormai sterile Postmoderno, upgradandolo in Postcontemporaneo.

Questa forse troppo lunga prolusione è tuttavia necessaria non solo per convincere della bontà e della qualità del cinema di Sorrentino da This must be the place in poi, che gli ha progressivamente alienato il gradimento dei cinefili duri e puri fino a il Divo suoi convinti e calorosi sostenitori, ma che gli ha procurato il consenso delle platee internazionali, un premio Oscar, e un potere ‘d’acquisto’ illimitato nel vivaio dei grandi attori del cinema mondiale, e nella scelta di storie e argomenti che altri registi potrebbero soltanto sognare a occhi aperti (si pensi a The Young Pope). Forte di questo potere planetario, Sorrentino ha trovato in esso la spinta indispensabile per poter osare l’inosabile, simile a quelle Star dell’arte contemporanea che si contano sulle dita di una mano sola, come Bill Viola, Maurizio Cattelan, Damien Hirst, Christo o Marina Abramovic, capaci di mobilitare masse considerevoli di pubblico e di denaro (e anche qui, come nel caso di certa critica cinematografica militante di cui sopra, molti critici d’arte storcono schizzinosamente il naso arroccandosi in un disprezzo che troppe volte sa di chiusura ideologica più che di sincero rifiuto critico) con gesti ed interventi artistici spettacolari, vistosi, eclatanti e la garanzia di una tanto ingente quanto meritata copertura mediatica. Il Postcontemporaneo è questo: trascendere il senso e il significato limitativo dell’opera d’arte come oggetto in sé, e comprendere nel suo valore anche la capacità di aver potuto ottenere i necessari permessi e arrivare a compiere qualcosa fino a poco prima considerato di impossibile realizzazione, creando intorno al processo di ideazione, creazione e gestazione dell’opera un’attesa e un’aspettativa che difficilmente andranno delusi. Discutibile? Certo che sì. Ma Postcontemporaneo vuol dire anche contemplare all’interno del senso stesso dell’operazione proprio il fatto che l’opera faccia discutere, che chiunque possa dimostrarne il valore assoluto così come la sua modestia o la sua inutilità. Come il Postmoderno compendiava, in nome dell’imminente Fine della Storia preconizzata da Fukuyama negli anni ’90, tutti gli stili del passato giustificandone la rivisitazione in chiave ottimistica ed esornativa per riempire il vuoto lasciato dall’assenza di un nuovo segno stilistico forte e definito in tutti gli ambiti della creatività così come era stato per i decenni (e prima ancora, dei secoli) precedenti, il Postcontemporaneo impone oggi ad ogni disciplina creativa di comprendere la crisi senza negarla, e fare della sua sterilità motivo di rilancio e rilettura, rimasticando e risputando, dunque senza mai digerirle, né mai vergognarsene, le proprie radici, perché, parafrasando una celebre sentenza de La Grande Bellezza, ‘le radici non sono importanti’, ed è con la loro malattia innata, con il loro fallimentare germoglio che dobbiamo fare i conti per trovare la chiave del Caos, dopo il saggio e consapevole addio definitivo ad ogni velleitaria ‘ricerca della felicità’.

Adottare Silvio Berlusconi, usandone a pretesto la vicenda umana e politica partendo dalla pausa tra i suoi (a tutt’oggi) penultimo e ultimo governo, come paradigma del nuovo manifesto cinematografico di una poetica così personale, stilisticamente così riconoscibile e così inimitabile, è la geniale idea di Paolo Sorrentino, autore del soggetto sceneggiato insieme al fedelissimo Umberto Contarello, alla base di LORO. Illustrare lo squallore, la vacuità, la meschinità, la volgarità di un’epopea che ha tragicamente coinvolto un intero Paese, culla di civiltà, bellezza e cultura cancellate, azzerate, ignorate, oscurate dal trionfo di una barbarie gaudente e corrotta penetrata in ogni strato di una società vittima di un genocidio che l’ha privata di tutti i propri riferimenti identitari… Illustrare tutto questo con un cinema che restituisca l’immaginario prodotto da questo mondo di mignotte, di papponi, di imbonitori, di potenti impotenti, di schiuma, di feccia, di immondizia nella “lucorosa” cornice di una Roma cupa come una fogna ma illuminata come il set di un malinconico film postfelliniano, di interni patrizi dove tra i broccati e le tele del ‘600 volano coca e mutandine, di cessi del Bagaglino, di piscine da spot immobiliare, di rave pagani coreografati come Baccanali per anziani guardoni; ecco, la postcontemporaneità di LORO sta esattamente in questo: intanto, di tutto quanto elencato qui sopra, essere una sorta di spelling grafico e plastico; poi, nel metterlo in scena senza denunciare o invitare ad indignarsi come si faceva nei film realizzati in epoche di ben altra coscienza civile, ma anzi mostrandolo, compiacendosi di vergognarsene. Lo stesso Toni Servillo sembra vergognarsi di indossare tutta quell’impalcatura di trucco che lo fa assomigliare più che al Cavaliere alla sua caricatura uscita dal pennino a China di un vignettista, o a un pupazzo del presepe napoletano a lui ispirato: la sua stessa vergogna ci rinfaccia la nostra di quando le cronache della televisione ci rinfacciavano, e ci rinfacciano ancora, l’immagine posticcia di un simile guitto avanspettacolare. Guai a confondere l’aria da baraccone fieristico che tira per tutta la prima parte (queste note si riferiscono alla visione di LORO 1, in attesa di vedere la parte 2 e poter giudicare il film nella sua interezza) con qualcos’altro, come per esempio un film ‘non riuscito’, ‘povero di idee e di immaginazione’, ‘poco grottesco’, ‘poco divertente’, o, peggio, ‘il solito Sorrentino, tutto figa e carrelli della mdp’. Guai. LORO, o almeno questa prima parte, ci restituisce la miseria di un personaggio (e del circo di altrettanti miserabili che gli ruotavano intorno) che ha incantato milioni di pecore con la sua tronfia insipienza, con lo squallore delle sue battute e delle sue barzellette, quelle sì ‘poco divertenti’: Silvio Berlusconi non è Shylock, non è Scrooge, non è l’Innominato: non ne avrà mai la statura (ecco, questa sì potrebbe avere l’abbozzata parvenza di una battuta divertente per davvero-…). Verso Berlusconi Sorrentino prova quel tipo di ‘simpatia’ che Lars von Trier, in una celebre e turbolenta conferenza stampa a un Festival di Cannes di qualche anno fa, confessò di provare per Adolf Hitler sul quale, disse, gli sarebbe piaciuto fare un film. Mai in nessun momento Sorrentino azzarda l’ipotesi di riscaldare con un po’ di ‘poesia’ il suo ciarlatano: la ricostruzione del suo personaggio protagonista è uno studio continuo e ininterrotto del ‘fenomeno’ Berlusconi, e mai, nel modo più assoluto, un ritratto che ostenti la presunzione di essere fedele, un’ode in sua lode, né un’invettiva; piuttosto, un insetto, un coleottero sotto l’osservazione di un entomologo che stia per infilzarlo con lo spillo.

C’è da chiedersi come un film così sottile e così ‘personale’ (ma non nel senso di Sorrentino e basta: ‘personale’ cioè di tutti noi italiani che abbiamo convissuto 40 anni con un simile gigione), verrà accolto dal pubblico di altre nazioni, dove Silvio è certamente conosciuto, ma dove probabilmente non si ha la corretta percezione dell’entità dei danni con cui ha affossato l’Italia. Intanto a Cannes LORO non è stato selezionato: quali che siano i motivi reali di una così vistosa esclusione, forte è il sospetto che gli stessi potentati di cui Berlusconi è un’emanazione abbiano preteso e ottenuto una risoluzione così punitiva, nel momento in cui in Italia l’esito delle elezioni lo contempla ancora come possibile voce in capitolo nella formazione di un nuovo governo. E interessante sarà registrare con quali forze ancora a sua disposizione riuscirà ad ostacolare, boicottare o danneggiare il film. Finché non la si estirpa del tutto, un’erba cattiva non cessa di propagare i suoi veleni ed infettare il teatro delle idee.

 

‘Yellowstone’ Official Trailer Starring Kevin Costner | Paramount Network

Academy Award Winner Kevin Costner stars in ‘Yellowstone,’ an original television series following the violent world of the Dutton family, owners of the largest ranch in the United States. ‘Yellowstone,’ from Taylor Sheridan, the writer of ‘Hell or High Water’ and ‘Sicario,’ also features Wes Bentley, Kelly Reilly, Luke Grimes, Gil Birmingham, and Cole Hauser. Premieres June 20th 9/8c on Paramount Network.

Yellowstone is a drama series that follows the Dutton family, led by patriarch John Dutton. The Duttons control the largest contiguous ranch in the U.S. and must contend with constant attacks by land developers, clashes with an Indian reservation and conflict with America’s first national park.

dims

 

True Detective 2, recensione

TD 2

Ebbene, procediamo la nostra tappa di avvicinamento alla terza stagione attesissima di True Detective, parlandovi stavolta proprio della seconda.

Trasmessa da noi con una settimana di ritardo rispetto alla messa in onda degli Stati Uniti, almeno nella versione doppiata e non sottotitolata in originale, debutta sul canale statunitense della HBO esattamente il 21 Giugno 2015, consta come quella capostipite di otto episodi e si protrae sino al 9 Agosto. L’ultimo episodio però di questa seconda stagione dura invece un’ora e mezza.

Stavolta i personaggi principali non sono due ma il numero raddoppia. Nell’immaginaria metropoli di Vinci, il detective Ray Velcoro (Colin Farrell) è un padre affettuoso forse di un figlio non suo che cerca come meglio può, anche maldestramente, di educare nel tempo libero in cui può averlo in affidamento, un figlio “adottivo” che divide con l’ex moglie, donna che ha avuto il bambino non desiderato dopo che rimase incinta perché stuprata da un uomo che fuggì impunito nel nulla e su cui Velcoro disperatamente è sulle sue tracce. Per acciuffarlo, si serve del suo “amico” Frank Semyon (un cupo Vince Vaughn), un potente uomo d’affari che sta cadendo in disgrazia dopo il che capo-socio dei suoi affari, il city manager Ben Caspere è stato trovato morto sul ciglio della superstrada. Con Caspere, Semyon stava progettando una linea ferroviaria ad altissima velocità che gli avrebbe dato ancor più fama e gloria e gli avrebbe permesso così di aumentare esponenzialmente le sue ricchezze. Adesso, morto Caspere, Semyon è costretto a tornare ai suoi vecchi, loschi e sporchi giri. Semyon è un uomo che vive con una bellissima, avvenentissima giovane moglie (la sexy Kelly Reilly), si era illuso di poter diventare finalmente qualcuno e di ripulirsi dal torbido passato, invece adesso è costretto nuovamente a corrompersi e a vivere di truffe. Il suo passato da criminale pare non volerlo abbandonare e torna prepotente ad avvelenargli la vita.

Ecco che poi abbiamo altri due personaggi centrali, una donna, Antigone “Ani” Bezzerides (Rachel McAdams), al servizio dell’FBI, e un agente della Highway Patrol (Taylor Kitsch), che per fortuite coincidenze si occuperanno, in concomitanza con Velcoro, dell’indagine riguardante proprio la morte di Caspere.

Una trama con forse troppa carne al fuoco, fra notti a luci rosse e lerce macchinazioni complottistiche, tradimenti banali, doppie piste insulse, orge che vorrebbero strizzare l’occhio a Eyes Wide Shut, e una tristissima vicenda di un fratello e di una sorella figli di nessuno, su cui incombette una scandalosa tragedia. Ed è forse questo spiacevole evento il fulcro dell’intera trama e la chiave per risoluzione del mistero della morte di Caspere. Ma è un “pretesto” narrativo debolissimo per renderci partecipi emozionalmente come spettatori che lecitamente pretendevamo di più.

Ecco, da questa seconda stagione ci si aspettava tantissimo dopo il successo impari e planetario della prima. E la delusione è stata evidente e marcata. Il personaggio di Farrell non affascina molto e, sebbene Farrell gl’infonda credibilità grazie al suo innato carisma e professionalmente sfoderi come sempre una lodevole bravura attoriale, il suo character non ha la stessa valenza portentosa di Rust Cohle, è un personaggio verso il quale non scatta mai davvero calorosa empatia. Per non parlare degli altri tre personaggi. Sì, Semyon rimembra spesso nel corso degli episodi il suo oscuro passato nel quale da bambino subì infinite violenze per giustificare in qualche modo la sua vita poco legalmente integerrima, ma tutto sommato è un ambiguo villain incolore e tagliato con l’accetta, mentre la McAdams, nonostante la sua bellezza, è insipida, così come scialbo è il personaggio di Kitsch.

E tutta la vicenda, siamo sinceri, si perde futilmente di qua e di là confusamente, schiacciata da un’ambientazione costellata di prevedibili riprese di dedali stradali, cemento armato a volontà e periferie suburbane che paiono una patetica imitazione di quelle di Heat. E, peraltro, il finale ammicca spudoratamente al capolavoro di Michael Mann. Senza possedere un minimo della sua sfolgorante epicità.

True Detective 2 ha anche i suoi bei, forti momenti, ciò è indubbio, ma il tutto sostanzialmente scorre piattamente senza regalarci autentici sussulti emotivi, senza stupirci mai più di tanto, anzi, quasi per nulla, e un senso opprimente di noia ci perseguita dal primo all’ultimo minuto.

Ancora una volta a scrivere tutto (fallendo) è Nic Pizzolatto, anche se per due episodi si fa “aiutare” rispettivamente da David Milch e Scott Lasser, non c’è più Fukunaga in cabina di regia, bensì ben sei registi differenti, fra cui spiccano i nomi di Justin Lin e John Crowley. E forse questa balzana scelta di affidare la regia a un’eterogeneità di registi stilisticamente troppo diversi fra loro ha davvero poco giovato alla coesione narrativa, spezzettando l’opera in tanti “embrioni” filmici dissimili e disomogenei.

No, non è andato per il verso giusto quasi niente. La prima stagione era detection purissima, limpida e secca, questa è una bislacca storia hardboiled poco coinvolgente e farraginosa.

di Stefano Falotico

 

 

Indietro nella memoria, True Detective

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Ora, come molti sapranno, sono attualmente in corso le riprese della terza stagione di True Detective, interpretata da Mahershala Ali. Nell’attesa che i ciak si concludano e aspettando la sua messa in onda, che avverrà con tutta probabilità non prima della metà del prossimo anno, e tralasciando la seconda stagione, forse un intermezzo, una parentesi dimenticabile, facciamo un promemoria recensorio della prima stagione, quella celeberrima che ha inaugurato la Rust Cohle mania, ingenerando un fenomeno di culto che non si vedeva forse dai tempi di Twin Peaks.

Ecco che, dopo una lunga gestazione, dopo una segretezza assoluta riguardo al progetto, sulla HBO il 12 Gennaio del 2014 debutta appunto la prima stagione di questa serie antologica, cioè una serie che, mantenendo intatte le coordinate narrative e rimanendo coerentemente pressoché omogenea nei canovacci stilistici, si rinnova però a ogni stagione a seguire, differenziandosi per trama, personaggi e conseguentemente per gli attori principali che la interpretano.

In questa iper-osannata, lodatissima prima stagione, in archi temporali diversi magmaticamente collegati fra loro in maniera sulfurea e immaginativa, seguiamo l’indagine di due detective, Rustin Cohle (Matthew McConaughey), detto Rust, e Martin Hart (Woody Harrelson), detto Marty, alle prese con la spasmodica caccia a un serial killer della Louisiana, fra paludi plumbee, notti allucinate, visioni mesmeriche e una impalpabile, magnetica ambientazione cupa e magicamente esoterica. Dal 1995 al 2012 i due uomini si dannano per acciuffare questo fantomatico uomo misterioso che ha ucciso giovani donne con efferatezza mostruosa. Poi, dal 2012, quando tutto pareva essere stato risolto, l’ingarbugliata storia ha nuovamente inizio perché il caso viene riaperto. Tutto parte col ritrovamento di Dora Lange, una donna rinvenuta ai piedi di un gigantesco albero con la testa fracassata e sormontata da corna di cervo, stuprata e assassinata brutalmente dopo un rito satanico.

Rust Cohle è un uomo enigmatico, perennemente tormentato, afflitto forse dalla sua imperscrutabile solitudine, esperto di criminologia, che abita in un piccolo appartamento scarno e mal arredato, sovrastato da un crocefisso. Lui sostiene di considerarsi un uomo realista ma afferma che in termini filosofici è un pessimista. Magro, smunto, accigliato, nervoso, fuma imperterritamente sigarette su sigarette e par che reprimi ogni emozione briosa dietro una maschera taciturna gelidamente ascetica. Pace omeostatica del suo insanabile tormento esistenziale o elevazione zen di un’anima modellata nei muscoli tesi della sua carne sacrificata?

Marty invece pare essere felice, ha una famiglia e una bella moglie, è un uomo emotivamente stabile e all’apparenza soddisfatto, ma poi tradisce la consorte con una ragazza di facili costumi, e impariamo presto che, a differenza di quel che possa sembrare a prima vista, è un tipo sanguigno, irascibile, burrascoso, perfino irruento e istintivo.

Due personalità antitetiche ma al contempo speculari che si ritrovano, diventano coppia fissa e si fanno compagnia, fra litigi e scazzottate, in questo lungo, interminabile viaggio ai confini della follia dell’animale uomo, un’immersione dolorosissima prima della catarsi cristologica, dopo l’annientamento la rinascita, il tetrissimo buio dell’oscurità e poi forse la speranza che qualche bagliore cristallino soavemente illumini di bellezza questo mondo maledetto da Dio.

Scrive il prodigioso Nic Pizzolatto, che incede in meticolose riflessioni metafisiche, ammanta di ancestrale fascino, oserei dire, spiritico questa storia appassionante di demoni e uomini solitari, ricreando a nuova vita il mito di Carcosa, attingendo fantasiosamente dall’omonima, immaginaria, sotterranea, celtica e misterica città sepolta raccontata in The King in Yellow and other stories di Ambrose Bierce, Robert W. Chambers e del leggendario H.P. Lovecraft. Attinge dalle suggestioni di questo libro per reinventare temi e situazioni, lo plagia con scrupolosità filologica, lo purifica persino e quindi allestisce un’opera seriale di pregiata sciccheria, un raffinato potpourri sapientemente coagulato di aromatiche atmosfere boschive, umide, spettrali, giocate tutte sul lividoso colore opaco e traslucido post-uragano Katrina.

Allorché True Detective non riesci a dimenticarlo, ogni puntata t’incolla ipnoticamente alla sua visione.

Il merito è di Pizzolatto o della messa in scena disadorna, non effettistica ma efficacissima di Cary Fukunaga? Oppure gran parte del successo si deve alla prova carismatica di un possente, “mistico” Matthew McConaughey?

Ma, soprattutto, True Detective 1 è quella grande serie che ha meritato il plauso che continua ad avere?

Quentin Tarantino, intervistato da Vulture, ha detto… Ho provato a vedere la prima puntata di True Detective, prima stagione, e non l’ho capita.

Ma con tutta la grande stima che nutriamo per il mitico Quentin, sulle cui lecite provocazioni ci sarebbe da discutere e aprire dibattiti come iene che discettano di Like a Virgin, lui pare essere davvero l’unico a non averla capita e amata.

Ora, cosa voglio dire con questo? Che True Detective è davvero il gioiellino intoccabile sul quale mai ci sentiremmo di muovergli delle critiche, esente da difetti e che rimane ad anni di distanza un colpo indimenticabile?

No, mi sento in parte di dissentire. Come tutte le serie, anche le più belle e riuscite, la compattezza si avverte solo a visione completata e avvenuta, in molti, troppi punti, un certo senso di tediosità, e qui do ragione a Quentin, c’è inevitabilmente, è il prezzo che paga questo “format”. Allorché alcuni siparietti, alcune scaramucce fra Rust e Marty sembrano essere lì apposta per allungare il brodo, molte digressioni sono indubbiamente prolisse e non necessarie e spesso, va detto, pare che seguiamo il flusso narrativo solo per aspettare che si spezzi per ammirare l’interrogatorio monologhista di Rust e studiare a memoria quelli che sono oramai i suoi famosi discorsi, youtubizzati e stracitati, sul senso della vita, sulla religione, la coscienza. Monologhi retti dal carisma di McConaughey, sciupato, sdrucito, emaciato, ma che non di rado, rivedendoli, appaiono insopportabilmente sentenziosi, grevemente massimalisti, vanitosamente lapidari.

di Stefano Falotico

 

Robert De Niro And Bradley Cooper Swap Stories, With An Unplanned Assist From David O. Russell – Tribeca

Mandatory Credit: Photo by Rob Latour/Variety/REX/Shutterstock (9458244e) Robert De Niro and Bradley Cooper A Legacy of Changing Lives Gala, Inside, Los Angeles, USA - 13 Mar 2018

Mandatory Credit: Photo by Rob Latour/Variety/REX/Shutterstock (9458244e)
Robert De Niro and Bradley Cooper
A Legacy of Changing Lives Gala, Inside, Los Angeles, USA – 13 Mar 2018

 

From Deadline.

Bradley Cooper and Robert De Niro shared a halting but affectionate hour onstage at the Tribeca Film Festival this evening, with director David O. Russell joining them halfway through to keep the dialogue going.

The conversation, which was live-streamed on Facebook, focused mostly on the work the two actors have done together, including films like LimitlessSilver Linings Playbook, and American Hustle. The talk also included a lot of reflection on their experiences as directors. De Niro has directed twice (A Bronx Tale and The Good Shepherd) and Cooper’s directorial debut, a new version of A Star is Born, is slated for release in October.

“It can only enrich your awareness of what everybody goes through,” De Niro said in response to an audience member’s question about getting behind the camera. Added Cooper, “As a director, there’s so many things you’re thinking about that as an actor, I just forgot about it…. It was exciting because I kept surprising myself.”

De Niro lavished praise on A Star is Born, which Warner Bros. will release October 5. “It’s really, really terrific,” he said, noting he had seen a screening of the film. “I hope it gets the attention that I feel it should.” Cooper has poured nearly three years into the project (with his last gig before that coming in the summer of 2015 in a stage version of The Elephant Man). Lady Gaga is Cooper’s co-star and he recalled her declaring the effort would be a “barter,” in which Cooper would guide her first movie performance and Gaga would lend Cooper her musical expertise. “You can’t hide when you sing,” Cooper said, adding that he would definitely direct again. “I don’t want to say too much because maybe you’ll hate the movie. But I loved it.. I just hope I get to keep doing it.”

After Cooper said his film was shot in 42 days, De Niro said his films took at least twice as long. “I don’t know how to do it any other way,” he said, joking, “That’s why they don’t ask me to do it anymore.” While he declined to specify any projects, De Niro, 74, said he expects to direct a total of three to five movies during his lifetime.

When awkward silences arose every couple of minutes, Cooper capably filled them in with reminiscences about his earliest contacts with De Niro. (At one point during a lull, De Niro took out his phone and said, “I told people to text me if there’s a question.” When the audience giggled, he put the phone away.) Cooper recalled his first encounter with De Niro, years before the two appeared in Limitless, Cooper recalled standing to ask a question during De Niro’s appearance on Inside the Actor’s Studio. When De Niro called the query about a particular moment in the film Awakenings “a good question,” Cooper recalled that simple gesture feeling like “a light shot through me.” He would replay a recording of the exchange to remind himself to “go with his gut,” no matter how discouraging his industry experiences got.

A later experience, Cooper remembered, was when De Niro called Cooper to his hotel for a meeting when he was prepping for the 2009 film  Everybody’s Fine and saw Cooper’s audition tape. While Cooper lost out to Sam Rockwell, De Niro wanted to offer his encouragement. “You told me, ‘You’re not going to get the role. But I see something.’ And you gave me a hug. And I left.” Smiling at the abruptness but also the kindness of the exchange, Cooper said, “That kept me going, like, forever.”

 When talk turned to Silver Linings, for which both actors received Oscar nominations, their banter with Russell, who was initially seated in the audience, grew so prolonged that Cooper summoned Russell onstage. In the end, the three didn’t end up having too many more extended exchanges, though Russell drew a big laugh when recalling (complete with high-pitched imitation) an encounter with Joe Pesci. The actor’s advice about working with De Niro definitely could have applied to this evening’s panel. “‘You’re going to find out that if you don’t tell him what to say,” Russell-as-Pesci warned, “‘he’s not going to say anything.’”De Niro did say more than a few things, but as usual kept it fairly tight-lipped, though often grounded in a sincere appreciation for his collaborators. As they moved from making Limitless to other projects, some of which are still in the development pipeline, De Niro recalled thinking Cooper would always make a reliable partner. “I knew you would do a good job,” he said. “And that’s a nice thing.”

 

The Equalizer 2 Trailers

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credit