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Detroit di Kathryn Bigelow secondo Anton Giulio Onofri

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Copio e incollo la sua pertinentissima recensione controcorrente da Close-Up.

Un pasticciaccio brutto successo a Detroit nel 1967 è la base d’ispirazione per una sceneggiatura firmata da Kathryn Bigelow e Mark Boal, coppia rodatasi con The Hurt Locker(vincitore di 6 premi oscar nel 2010) e Zero Dark Thirty. L’irruzione della polizia in un locale che spacciava alcolici senza licenza e gestito da neri provocò una rivolta sanguinosa che, messa a ferro e fuoco mezza città, causò la morte di oltre 40 persone. Detroit, che inizia con una breve, brutta e confusa sequenza animata che introduce il contesto storico della storia illustrata nel film, si concentra su un episodio di cronaca secondario avvenuto realmente durante gli scontri, quando in un motel gestito da neri tre ragazzi furono barbaramente picchiati e freddati da tre poliziotti bianchi e una guardia di sicurezza dal colore della pelle uguale a quello delle vittime. Tutti assolti, i razzisti assassini, al processo che ne seguì due anni più tardi.

Va purtroppo registrato che, al di là del nobile scopo di colmare un vuoto e dedicare un’opera cinematografica ambiziosa a un episodio particolarmente delicato della storia americana, Detroit risulta infestato di tutti gli usuali cliché delle storiacce del genere (non si contano i ‘motherfucker!’, i cattivi sono aguzzini da manualetto, e i neri fanno faccine afflitte e cantano gospel…) e privo di quella reale tensione cinematografica che Kathryn Bigelow era in grado di emulsionare nei suoi lavori iniziali, fino a Point Break compreso. Nonostante la benevolenza dei giudizi critici statunitensi, è difficile credere che questo suo ultimo film conquisterà il cuore del grande pubblico: noioso nel suo inerte girare intorno ai drammatici eventi narrati, costringe lo spettatore per ben 140 minuti a inseguire con gli occhi una nevrotica e fastidiosa macchina da presa, tutta scatti e zoomate veloci in avanti e all’indietro, con cui la regista tenta di evidenziare lo spessore tragico di eventi che purtroppo non riesce ad allestire in una messa in scena efficace e di adeguata statura drammaturgica. Soffia per tutta la visione la presunzione di molti attuali cineasti USA attualmente in attività, convinti di essere i depositari unici di una certa qual epica universale contemporanea che li induce a conferire alle proprie tragedie nazionali passate e recenti caratteristiche dell’archetipicità delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide: segnale forte e chiaro di una cultura liberal in pesante crisi espressiva e messa a dura prova dal confronto con le grossolane derive della destra trumpiana.

 

 

The Punisher, chi è Frank Castle?

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Chi è Frank Castle? È the Punisher, l’uomo traumatizzato per eccellenza che, sotto i suoi occhi, ha visto maciullare la sua famiglia e che non vede vie di redenzione se non immergere i suoi occhi enigmatici in sprazzi e “spruzzi” splatter di angoscia ancor più catarticamente violenta, “commettere”, sì, la stessa violenza che per tutta la vita l’ha perseguitato e  gli dona per qualche attimo indistinto la pace mai ritrovata. Insomma, un’evoluzione automatica, da macchina di guerra, da vittima a carnefice. Ha il volto da duro puro di un ottimo Jon Bernthal, il corpus anche attoriale giusto, che fisiognomicamente ricorda i volti di pietra delle giungle metropolitane dei reduci di una guerra lercia, come tutte le guerre, in cui gli innocenti hanno versato infinito sangue e i sopravvissuti sono morti dentro, ma forse solo a metà. Con nel cervello sbriciolato ancora ricordi di passionale tenerezza, con cuori granitici come i macigni che lui distrugge nel suo lavoro “sotto copertura” da operaio, ma che respirano flebili di sentimenti umani. Sì, non è del tutto perduto Frank il punitore, le sue notti sono insonni oppure, per devastante dolore, il sonno lo travolge, lo soffoca e lo macera in una coltre nebbiosissima d’incubi allucina(n)ti. E passeggia incappucciato sotto la Luna della sua anima sfibrata, incancrenita, ruvida come una quercia secolare che vien erosa ma non è crollata. Questo è questa serie, amata ma anche criticata, apprezzata ma anche guardata con sospetto, respinta, addirittura boicottata. Brutale, fortemente “noiosa” volutamente, perché persone come Frank vivono di silenzi interminabili, i loro sguardi sono bagliori incandescenti del magma lavico di un’anima sbucciata, stuprata, che sanguina più del sangue che fa schizzare dalle teste martellate delle sue vittime. È un fantasma, laconico tiene tutto dentro, ma comunque va avanti, invisibile, lugubre ombra di una vita spezzata, riannodata in neuroni che si riaccendono di botto e poi esplodono, schizzando ancora nella folle lucidità di un martire monumentale. Da vedere, anche da non amare, non è obbligatorio che piaccia. Ma Netflix è scatenata e partorisce un altro colpo imperdibile che spiazza, che ipnotizza, che lacera e sonnolento entra sotto pelle. A ognuno poi il suo giudizio.

di Stefano Falotico

 

Della situazione sociale dei giovani e anche della mia condizione non più asociale

Dustin Hoffman

Dustin Hoffman

Sebbene ancor tentenni, la mia vita da meno paure è attanagliata. E le fragilità di trascorsi per me spiacevoli si stan diluendo in una rilassatezza maggiore. Ma non una rilassatezza del tutto acquietata. Un certo grado d’inquietudine, credo, mi tormenterà sempre. È la mia natura sempre curiosa e indagatrice a non farmi assestare su perfette stabilità. E forse nemmeno le vorrei, perché smarrirei l’io mio profondo, che non si attenua a cercare risposte. Ma quest’eterna, pedissequa, continua incertezza, se un tempo era cagionatrice di forti malesseri interiori, adesso si è “metabolizzata” in una maggiore consapevolezza di me stesso che, come tutti, fa parte inevitabile del mondo. Ce ne si può estraniare per un po’ o per molto, lo si può schivare, adombrarsi, per troppe rabbie adontarsi e incappare semmai negli errori inesorabili di apparire davvero mezzi matti per colpa di essere troppo di emozioni erranti. Sì, sono uno che tutt’ora tiene tutto dentro ma questi sentimenti, da me elaborati, guardati con più oculatezza, con meno timore nell’osservarli per la loro forza “spaventosa”, sì, perché le emozioni sono il concentrato spesso di troppe energie, positive e anche negative, e le energie impauriscono perfino sé stessi, ecco… questi sentimenti sono più sinergici. D’altronde, viviamo di dinamiche, di scontri col prossimo, di attriti, di resistenze in questa variegata, mutevole esistenza. E non dobbiamo dolerci a vita se, incompresi, verremo respinti. In noi sta la coscienza umana e gli uomini che non si sono arresi faticano ad accettare i compromessi. Ah ah. Sì, qui deliro, ma ci sta. Fa parte della strampalataggine del mio essere e dunque non essere. Nella vita mi tesso, alla faccia dei fessi. Oggi di organica trama, domani come in un film di Lynch, senza “storia”.

Ma, orbene, guardiamoci in faccia. I giovani, checché se ne dica, molto bene non stan messi. Stamane, dalla radio di un bar, sintonizzata sul solito programma di beceri luoghi comuni, “udii” delle pettegole donnette parlare dei giovani. Accusandoli (ah, ci risiamo con le facilonerie) di essere dei bamboccioni che, per “comodità”, anche a sopravvenuta maggiore età, vivono coi genitori, facendoli penare. Ma il problema non sono i maggiorenni con mamma e papà, sono quelli che di età ne hanno il doppio e ancor non si “sganciano?”. Io invece credo che il problema non siano i giovani, ma la società. Abbiamo creato una società sempre più assurda, che tanto getta fumo negli occhi quanto poi, alla verità dei fatti, è ripiegata nelle solite, vetuste schematicità che tanto poco si allineano al cosiddetto progresso gridato e sbandierato, illusorio. In Italia il sapere falsamente s’istituisce e si creano sin dalle elementari delle gabbie mentali a base di “pappardelle a memoria” e van(es)i pezzi di carta che, in fin dei conti, sono soltanto credenziali facete e ipocrite. Ma ha sempre funzionato così, e quindi forse sarebbe giusto attenersi a quest’andazzo istitutore, appunto, di una società retta, ah, i rettori e le vi(t)e rette, da regole fallaci, da pedagogie e da tutor delle anime?

Insomma, il mondo si divide fra chi ha i tutori e chi ha un tumore. Ah ah. Ed è la società stessa tumorale, escrescenza malata di propaggini virali che inquinano la purezza sognatrice dei giovani battenti bandiera forte e coraggiosa. I loro sogni spegne e li annichilisce in quell’oscena catena di montaggio da cui, fortunatamente, le menti più vive e anche più complicate scappano, sulla base di un’integrità morale e psico-fisica che non intendono corrompere. Tanti specchi per le allodole, tante finte promesse, ma qui manca il pane quotidiano e di “pene” inneggiano tutti e tutte. In una società ove primeggia nei discorsi banalotti il solito sesso e in cui, se non fai lo stronzo come tutti, ti tirano pesanti sassi.

Io non sono un idealista, ma un sofferente realista. E in questo realismo trovo la poesia del vivere sapendo cos’è la vita. Oggi sbaglierò ancora, domani no(i), ieri tante cazzate commisi. Ma, in fondo, siamo umani e siamo, nonostante tutto, giovani. Che poi… ci sono i giovani vecchi, quelli che a trent’anni ragionano come ne avessero sessanta, sono maligni verso il prossimo e moralisticamente sono più tromboni degli zoccoli duri di mentalità vecchie come il cucco di ottuagenari rincoglioniti.

Con questo, che voglio dire? Voglio dire che ai vostri sogni dovete ardire e non dalle superficiali etichette farvi ardere. Brucerà a chi vi vuole male ma, si sa, niente dà più fastidio ai cattivi che vedervi serenamente viv(ent)i. Eh sì, siate di Ratso RIZZO. Ah ah!

di Stefano Falotico

 

Essere Dustin Hoffman, anche un Meyerowitz, ebraico di sua bislacca scienza e ascendenza nella saggia “senescenza”

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Questo personaggio curioso che naviga a New York, tra il faceto e l’arrogante, che passeggia cauto fra i dedali di una Manhattan le cui decumane paiono i “casellari” di una folta biblioteca, come la sua, della sua casa ricca, affollata di libri in cui perdersi, in cui ascoltar il canto prosaico di parolieri dell’anima, e smarrirsi nell’ipocondria di una sopravvenuta demenza, o forse essere addivenuti al vero io, fantasmatico, disturbante, anchilosato nei suoi dubbi senza risposta, nella sua incurabile angoscia, forse afflitto da problemi alla prostata o semplicemente annacquato in una testa di cazzo da “apostata”. Eh sì, come lui posseggo l’umorismo ebraico alla Woody Allen e, solleticando la vita nella sua idiozia, non ci sono né ci faccio, ma lo faccio apposta. Che faccia…, sempre meglio della feccia.

Sì, lasciate perdere le mie stronzate, trovano il tempo che trovano nel marasma dei miei conflitti. Oggi, ad esempio, mi son svegliato pervaso da una forte nostalgia, nostalgia che condusse la mia anima cavallerizza verso sentimenti che credetti, oh me illuso-deluso, di aver perduto nella banalità di frivolezze che, sapete, alle volte anche a me piacciono. Così come mi garba andar al bar e “auscultare” di battito non solo cardiaco il rumor lieve del cucchiaino che mesce lo zucchero, mentre un’altra amarezza, prima di digerire l’aroma, in gola dolce si scioglie e rende la tua voce più roca. Sì, gli attori dovrebbero recitare sempre dopo aver bevuto un caffè, per insaporire meglio le corde vocali e renderle più pastose, più musicalmente nervose.

Molti, su Facebook, confusi come sempre, persi nei loro deliri, scribacchiano dei loro stati d’animo, spesso abrasivi, scontrosi, molte volte scontati o solo appunto da scontenti. E aspettano, di “grazia”, dei Mi piace che facciano da “garza” alle loro scemenze che si addolorano per ogni patetica loro incognita stupida e vittimistica. Solo nelle condivisioni più becere, trovano il senso delle loro pigre o affaccendate giornate, riempiendo le bacheche, anche altrui, di pazzi scritti dettati da estemporanei mal di pancia, da boccaccesche assurdità, da dolori gastrointestinali del cervello diarreico. Sì, uno schifo e, non appartenendo a questo “sociale” letamaio che tanto mi fa ribrezzo, esco in pieno giorno mentre una sottile brezza tardo autunnale di levità mi fa lievitare d’immaginazione sovrana in cui la mia mente può regnare in santa pace, lontano da queste “solidarietà” tristi e nere come la pece di anime che soffrono di “alopecia”. Eh sì, i loro “bulbi” mentali si stanno diradando e abbisognano di pasticche per l’ansia, mentre nevrotici si scaldano e vivono di emozioni superficiali, addensati nella massa a me più ripugnante, essendo uomo sincero di pugnace far mai mendace. Sì, mendicano la compassione di psicologi “medici” che non si sa cosa medichino, eh sì, I Medici con Hoffman, ah ah, e sognano ricchezze solo materialistiche e mai fruttuose per le loro anime da tempo immemorabile consacrate al più bieco e stolto svendersi per farsi apprezzare da gente più stupida di loro. Così, mi telefona un amico e gli parlo solo dei cazzi miei, illustrandogli per qualche istante “fotografico” la mia mente infinitamente densa come i rivoli delle cascate del Niagara. Ma lui si scoccia e da lontano scalcia, dicendomi che stasera andrà a mangiare una pizza capricciosa assieme alla sua “donna” che fa i capricci fra umori al pomodoro scaduto e una pallida cera da mozzarella di bufala. Sì, non devo imbufalirmi per questi uomini buffi che si consolano sempre col buffet, la gente che non mi capisce mi dà i buffetti, e pensa che abbocchi alle loro bufale. Lo dico da una vita, siate onesti con voi stessi e riceverete l’incomprensione generale, apritevi al prossimo e lui, coi suoi sospetti maldicenti, vi renderà compressi, reprimendo il little big man che è in cuor vostro. Pigliatevi delle compresse e voi, donne, smettetela di falsamente godere da represse-depresse. Che stress.

Adesso, coglioni, andate ad accendere la tv. Io non solo faccio bella scrittura ma anche di me stesso (s)cultura.

di Stefano Falotico

 

The Meyerowitz Stories, recensione

TMS-00292.DNG (Left to right) Grace Van Patten and Adam Sandler in Director Noah Baumbach's THE MEYEROWITZ STORIES (NEW AND SELECTED) to be released by Netflix.

(Left to right) Grace Van Patten and Adam Sandler in Director Noah Baumbach’s THE MEYEROWITZ STORIES (NEW AND SELECTED) to be released by Netflix.

Eccolo là l’ultimo film di Noah Baumbach, in Concorso a Cannes, dove ha riscosso consensi e plausi sperticati quanto una sonora bocciatura da una Critica che davvero difficilmente digerisce il minimalismo radical chic di un autore strampalato, ossessionato dai soliti temi tanto da essere noioso, pedante, auto-citazionista, perfino dimenticabile per troppa sobria, impalpabile “leggerezza”.

Questo è il compendio, l’excursus sintetizzato e cesellato di una “normale” famiglia di Manhattan, afflitta da un patriarca che per tutta la vita ha inseguito vanamente il successo, scontrandosi forse con la sua mediocrità e la sua sottile logorrea tanto acuta quanto menefreghista dei sentimenti del prossimo, ripiegata nel suo essere sempre stonato, “suonato”, un povero Diavolo che non sa donare reale affetto ed è ripiegato soltanto nei suoi patetici dilemmi, improntato alla venerazione di un sé stesso che probabilmente non si piace e stancamente, in questa senilità intellettuale, si trascina, mangiando in qualche locanda altolocata e illudendosi di vivere allegramente-andante nell’apatia d’una monotonia mentale in cui recita il ruolo del padrone indispettente, un personaggio bislacco che passeggia nelle notti lapidarie di grattacieli di vetro e fra chiese protestanti del suo perenne protestare, anche la sua stanchezza, in un mondo ove i figli cercano un contatto che non avviene, ove le dinamiche appunto paterne e generazionali si scontrano giocoforza con la sua stessa burbera inadempienza al suo compito genitoriale, un padre onnipresente eppur “assenteista” nei riguardi del sangue del suo sangue, che sogna che un’agognata inaugurazione possa concedergli quella patente di grande artista per cui s’è prodigato con sacrificio, sacrificando forse il valore della vera, sentita, mai davvero offerta paternità.

Nel film non succede nulla e succede tutto, come in ogni film di Baumbach, una commedia drammatica raffinata che gioca rapida e lentissima allo stesso tempo sui dialoghi schietti, velocissimi, fendenti alle loro e nostre anime indaffarate a spezzettarsi in questa traiettoria mesta d’una trama senza apparente storia, fatta di battibecchi, impostata sulla levità delle ovvietà, sulla scontatezza di una profonda scontentezza mascherata in sketch tragicomici, sospesa con brio anche fra canzoni infantili, diluita nell’intelaiatura stratificata di un’armonia famigliare sempre sul punto di collassare, d’interrompersi, di franare sotto il peso delle sue ambizioni, fustigate, troppo controllate, così come la compostezza registica di Baumbach erompe frammentaria d’episodi intervallati da quadri alla Wes Anderson. Sì, il film naviga fra due sponde emulate, involontariamente s’intende, di due maestri come Woody Allen, un Woody Allen meno comico, però più crudelmente umoristico, e l’Anderson dell’eleganza più asciutta, sin troppo, pregno dell’amarezza esistenziale dei suoi Tenembaum a noi eternamente cari.

Che dire di questo film? Hoffman svetta senza sforzarsi neanche troppo, un “idiota” fra alto borghesi messi peggio di lui, Sandler conferma di poter essere sorprendente quando diventa vulnerabile, quando il suo corpaccione sghembo si fa anima con un personaggio tenero quanto patetico, Stiller è la faccia giusta del vincente con moderazione, coi suoi inevitabili problemi e conflitti mai risolti, e ove la Thompson, nelle poche scene in cui compare, gioca con mirabile gusto al ruolo di matrigna eccentrica, decisamente pazzerella, “macchiettizzando” una figura di donna anche lei, come gli altri, incompleta, sba(n)data nei suoi umori imprevedibili, che vive e appieno poi non (si) vive.

Tutto funziona, però onestamente anche tedia nella sua superflua, invisibile “profondità”.

Per i fan del regista, comunque, un film bellissimo. Per me, meno.

 

di Stefano Falotico

 

La grande bellezza dell’aver capito tutto della vita e inevitabilmente esser presi pel cul’

Gambardella

La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare.

A 38 anni, invece, ho scoperto che ho sperperato tantissimo tempo a dar retta agli imbecilli. Quelli che mi rimproveravano la mia scarsa “adempienza” a un mondo cinico, che giudica in base agli appetiti sessuali, alla “forza” erotica, alla maschera di virilità che indossi. Quelli che, se sei pudico, ti accusano perfino di essere omosessuale e se ascolti i Queen ti dicono di essere fermo agli anni ottanta. Un periodo, gli ottanta, in cui ce n’era tanta. Non di “quella” ma di vitalità e fuoriuscivano dalle menti le idee più vigorose, in cui perfino gli uomini erano più aitanti e passeggiavano con estrema disinvoltura in un mondo che sapevano riempire di meraviglioso, illudendosi che il nuovo millennio non sarebbe stato fatale, come invece tristissimamente è successo. Il più bieco progresso ha portato l’uomo ad essere avaro di vere emozioni, a richiudersi sempre più su sé stesso, a cercare nella finzione il covo pacifico, catartico delle sue giuste angosce esistenziali e delle libere frizioni. Allora, anche il Cinema, specchio sempre dei tempi, è diventato uno strumento di piacere per parassiti che di loro non sanno creare nulla ma aspettano “trepidamente” che qualche regista “geniale” li illumini, li salvi dalla mediocrità, e si proiettano, piroettando di fantasie borghesi, dentro una stupefacente marcescenza che regredisce, a piacer solipsistico, alla finta verginità ogni qualvolta qualcuno riesce in questo arduo, complicato compito di dissuaderli dal fatto, inesorabile come un macigno pesantissimo, che in verità si sono soltanto adattati al più miserando porcile. Così, abbiamo gli impiegati di banca che son “sistemati” e, in questa comodità economica, dimenticando il puro senso della vita, “vivandano” di battutine, di chiacchiere, di retorica spicciola, che criticano i giovani, affibbiando loro le patenti più inverecondamente agghiaccianti, accusandoli di essere degli scansafatiche, dei poco di buono, gridando loro che la vita è dura e bisogna sorpassare i propri limiti, migliorandosi ora dopo ora. Quando poi, invero, non rinunciano alla partitella del campionato di serie A, al film “sociologico” di psicologia d’accatto, quando dicono agli altri di essere banali e prevedibili e poi scopri che hanno tappezzate le pareti di casa di aforismi medio-orientali, con affissa soprattutto la loro devastante disillusione, che consolano con letture “raffinate”. Così come ci sono quelli che dicono di amare Woody Allen, non tanto perché lo amino davvero ma perché, dicendo così, si sentono più intelligenti. Sì, quelli che dicono sempre cose ponderatamente intelligenti, sono in gamba, infallibili, si capisce, inappuntabili, in questa orrenda politica “moderna” del politicamente sano, della correttezza da trasgredire soltanto con qualche frase scioccamente, pateticamente, senilmente “ribelle” per illuderci che non siano solo dei poveri stronzi e noi invece siamo gli incurabili sfigati.

Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.

Allorché, scopro che nella mia “scontatezza”, nella mia assurda semplicità, nella mia “inguardabile” scontentezza, c’è sempre più la verità. E i giorni trascorrono inevitabilmente funerei fra sprazzi di allegria, attimi di follia e qualche brivido sulla pelle dell’anima.

Molta gente non capisce e, continuando a offendere e a deridere, ride sguaiatamente del tuo scemo. Sapendo benissimo che forse sei proprio un genio. E non c’è cosa peggiore dei geni al mondo. Danno sempre fastidio e non si accontentano di leccare il culo.

Sono uno che proprio non capisce come si sta al mondo. Forse, andrò a vivere sui monti, sicuramente lontano dal mare dei ciarlieri.

di Stefano Falotico

 

Più che voglia di ricominciare, temo abbia voglia di radicarmi di me stesso pomiciare

De Niro

Sono un uomo onesto… e anche lesto?! E il mio genio nessun arresta.

Molta gente assomiglia al De Niro di Voglia di ricominciare, a dirla tutta, non un grande film, anzi, tutt’altro, e non è la sede opportuna per recensirlo, ma di cui spolverai alcune scene. Ve ne cito una avente De Niro e DiCaprio protagonisti in una delle schermaglie che assomiglia tanto alla prepotenza barbosa di chi, credendosi fatto come uomo, “impartisce”, su chi pensa che pigro il suo patetismo patisca, violenze psicologiche a base di ricattatoria retorica. Un inno patetico contro il cosiddetto piagnisteo… ben venga, invece, lamentarsi e piangere in questo mondo. Ragazzi, finché avete voglia di verità e non vi vorrete annettere all’adattamento più impiegatizio, piangete pure e starnutite con foga le vostre ire. Accondiscendete questo sentimento combattivo, che non si accontenta della vita “normale”… e stronza.

De Niro, di tutte smorfie, con la sua fronte arrabbiata e corrucciata, rimprovera il povero Leo, dandogli addosso pesantemente di provocazioni bassissime…

Pensieri su cui meditare… nessun ragazzo facile allo spreco e alla negatività saprà affrontare le avversità. Si stancherà subito e si arrenderà. È il tipo che in genere manca di coraggio nei momenti cruciali, non sa accettare una punizione con il sorriso sulle labbra… non ti ricorda nessuno, grand’uomo?

Ecco, devo dire che durante la mia adolescenza, recalcitrante giustamente ad accettare le false regole di un gioco manicheo, poco compiacente i già corrotti adulti, fui invaso da invasati coi lor “puliti”, ah ah, messaggi velati o espliciti, subliminali e non… di questo genere. Genere di rimproveri che con me poco attaccarono perché, dopo essermi con furia incredibile, emancipatomi da tale oscena fase fatta di frasi atte forse a pungolarmi per “svegliarmi”… come dire, è un ragazzo in gamba, ma deve darsi una mossa, lottare per vivere e non amareggiarsi nelle sue meste e inutili melanconie, facili a sventolare bandiera bianca, prodighe solo a godere in modo quasi “criminoso” del suo sciocco piangersi addosso, posso asserire in tutta vanità che avevo ragione io. Perché da quei miei dolorosi, mal sopportati conflitti psicologici, dalla complessità di quelle patite sofferenze, da quel mio sempre rimandare la vita scema di tutti i giorni, dal mio fuggire immensamente, oggi sono un intellettuale che può guardare con sano disprezzo chi, a quei tempi, con tanta derisione e folle presunzione, volle “inquinare” il mio animo con le più bieche cattiverie, con la retorica stolta e ottusa delle frasi fatte. Non mi faccio, ancor da solo però me le faccio…, alla vostra faccia! Credo che la mia natura sia indissolubilmente fuggitiva, sempre in cerca di equilibri e, in questo navigar di perenni incertezze, rifuggo appunto da ogni prefabbricata, invero labile, adulta certezza incarcerante la libertà. Ora, mi si dirà che ho quasi quarant’anni e che dovrei finalmente, una volta per tutte, abbandonare le mie idiosincrasie verso un mondo che m’induce ancor fortemente alle più “vigliacche” ritrosie ma, nonostante l’anagrafe “attesti” questa “matura” età, posso dichiarare di tutto gusto che mai mi “aggiusterò”. Io, che vago solitario per le vie della città, emozionandomi quando il tramonto di questi giorni invernali così tanto si screma soffice nel suo rosato ammantarmi di svenevole romanticismo. Sì, perché nonostante non lo dia a vedere, no, non lo “do”, ah ah, da me mi lodo da lord, cari lordi e orchi, e nonostante possa apparire un tipo cinico, scostante e antipatico, sono un fanatico del cuore. Non delle stupide romanticherie, invece, credetemi bene. Un romantico nella sua accezione più antica e letterale, uno che si oppone alle ridanciane baldorie e ai sorrisi fatui della gente ipocrita, e balla nel canto “integerrimo” del suo viver armonicamente inquieto. Adesso felicissimo, l’attimo dopo incupendomi in pensieri neri che danzano con Edgar Allan Poe nel pallido plenilunio come il Joker di Jack Nicholson nel vostro Bat-Man derisorio che mi blandisce perché il mio sorriso, si capisce, è strafottente e nasconde invero tristezze figlie del mio amletico, perpetuo star a disagio nella folle folla.

Sì, la gente cretina ubbidisce alla morigeratezza più falsa e, quando vien punta nell’orgoglio, nelle sue “stabilità”, è capace d’inveirti e sputarti le peggiori porcate. Rivelatorie della loro pochezza, della lor “porchetta” e del lor cuor marcio. E si professava appunto matura… ma, per piacere.

Al che, mi sveglio in questa mattina che mi consiglia di dormire un altro po’ e di non “rinsavire”, poiché il mio animo non si può sposare, dunque spossare, con questi uomini che mi fan richieste pressanti, asfissianti, e metton su addirittura inchieste per indagare, come nell’Inquisizione più oscurantista, nel profondo dei miei dubbi, che ci tengo stiano sempre lì, turbolenti e indigesti, a non farmi rammollire nel comune, screanzato porcile tanto maligno nei riguardi, oh, che irriguardosi, del mio libero, inviolabile pudore.

Titanicamente misantropo e poi clown, con la lacrima da corvo, erompo in un sorriso stonato, quindi mi do alla poesia più alla mia pura anima intonata, cari rintronati. E bellamente striscio serpeggiante nel vostro viscido liquame, dandomi delle arie poiché son arioso e non soffoco nessuno, a differenza di chi strozza le volontà altrui per volerle castigare nelle più “docili”, quotidiane violenze morbose.

Firmato un uomo che fa i c… suoi. Come sempre.

Ma adesso lavori? Il mio lavoro è quello del genio scrittore che ha poco da condividere le idiozie dello sporco sudore…

 

Il trailer di The Post di Spielberg e un suo fotogramma che fa impazzire Facebook

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Ecco, è uscito questo filmato. A mio avviso, a giudicare dalle primissime immagini, non facendomi ingannare dal pregiato duo Hanks-Streep, ci troviamo di fronte all’ennesimo film inutile di Spielberg. Un film che mi pare propugnatore di un Cinema vecchio come il cucco, ampiamente superato, distonico rispetto ai film degli anni Settanta come Tutti gli uomini del presidente (il cui personaggio del “cronista”, che fu di Jason Robards, qui viene impossessato dal solito bolso Hanks) che avevano una loro importantissima valenza perché figli del tempo. Mentre questa pellicola di Spielberg, girata in fretta e furia (le riprese sono partite, pensate voi, a fine Maggio e sino a fine Agosto non furono completate) per poter in extremis gareggiare agli Oscar, mi suona al solito studiata a tavolino, calcolatissima, retorica, nazionalistica, incentrata su quegli eventi della storia americana che, sinceramente, a noi europei interessano ben poco. Credo che mi sia sempre più affinato nella visione e nel cercare dal Cinema una poetica che maggiormente si allineasse alla mia anima. Un’anima, la mia, che non abbisogna più di queste colonne sonore pompose e “gridate in faccia”, che non si accontenta più semplicemente del film lussuosamente fotografato e d’impeccabile confezione estetica, ma che cerca qualcosa di più realisticamente artistico. Sono affascinato dal Cinema delirante, dalle sue astruse e barocche intelaiature, dalle storie assurde, non dalle “storie vere” così pedantemente ben orchestrate. Quando guardo film come questo, vengo sopraffatto dalla noia, e i loro fotogrammi mi scivolano via, inevitabilmente intristendomi di superflue emozioni, se mai dinanzi a questa “roba” dovessi ancora emozionarmi. Può anche darsi che pecchi di presunzione e non posso avanzare giudici soltanto da un trailer, semmai il film non sarà leccato e giocherà molto sulle schermaglie verbali, farà della sua “dialogistica” il fulcro magnetico di una narrazione che potrebbe riservare sorprese e colpi di scena lucenti. Ma spesso mi fido dell’istinto, che non sbaglia quasi mai quando, soprattutto come oggi, sono sincronizzato alla perfezione col mio più viscerale “apparato” emotivo-emozionale.

Al che, un mio amico su Facebook, inaspettatamente dichiara che si è lasciato assolutamente coinvolgere da un fotogramma, sì, uno solo, di questo “pesantissimo” trailer.

E scrive testuali parole in calce all’immagine che posta…

Poi arriva un fotogramma così, che si inghiotte in un solo boccone tutti i presunti ‘capolavori’ usciti negli ultimi mesi.

È un amico e critico che stimo molto, a cui replico con un lapidario, benevolente… a dir la verità mi sembra un fotogramma normalissimo, visto in migliaia di film ma, dato che sei tu, ti do ragione.

Lui, un po’ “risentitosi”, addirittura mi sfida a trovare almeno tre film che possano “avvalersi” di un fotogramma del genere, ove un uomo all’angolo, con in mano la cornetta in una cabina telefonica, quasi si nasconde e si fa piccolo al passaggio della volante della polizia, in una strada angusta attraversata dalla polvere, da cavalcavia e da sterminate vie asfaltate periferiche, forse di Los Angeles.

Io simpaticamente gli dico che forse sta scherzando e che basterebbe prendere la seconda stagione di True Detective per trovare fotogrammi praticamente identici. Tralasciando peraltro molte pellicole dei Seventies, fra cui in primis Il braccio violento della legge.

A queste mie frasi, mi viene detto che ho quindi perfettamente CENTRATO la suprema bellezza di questo frame.

A queste mie parole, un altro profondo conoscitore di Cinema vuol dire la sua, affermando esaltato che questo fotogramma gli ricorda le stimabilissime pellicole di Siegel e Lumet, aggiungendo poi un profluvio di parole… Però non si dovrebbe (pur “nel quadro” della rischiosa ma per me affascinantissima disciplina dei giudizi sui frame) limitarsi agli “elementi” presenti. Ma al modo in cui sono composti. Lo so, può suonare ovvio, ma secondo me la tua obiezione rende opportuno questo “richiamo”. Qui c’è la consistenza architettonica (e gioco di forme), sopra e sotto c’è direi un sentimento. Chi sta parlando alla cabina (il disegno del telefono sul metallo della cabina che concorda o comunque si integra con quei cavalcavia, per la distanza e chiarezza da cui e con cui è ripreso) è da solo, la macchina della polizia sull’altro margine dell’inquadratura, un edificio che “trapela” dall’incrocio dei cavalcavia. Insomma una relazione misteriosa, densa, nitida tra le parti. E a questo punto, sì, dipende dal proprio senso estetico, dal proprio gusto fotografico.

Realmente penso che ci sia un movimento propulsore in quelle forme (non trascuriamo sullo sfondo la “teoria” di strutture di sostegno o non so bene adesso come definirle) che crea una nicchia, che rende la sola figura umana al margine sinistro (simmetrica all’auto) acutamente “sensibile”. Poi è chiaro che non ho visto il film. Ma appunto credo nella possibilità di giudicare (o avere forti impressioni da) il singolo frame. P.s. giusto, anche Friedkin ci ha abituato assai bene, ma appunto i migliori.

Insomma, un solo fotogramma può scatenare tutto questo? Discorsi quanto mai affascinanti.

Quindi, esco alle quattro e mezza di pomeriggio per andare a prendere il solito caffè al bar del mio amico cinese, che non sa chi sia Spielberg e deve pagare il mutuo del locale e l’affitto di casa, altrimenti si troverà anche senza telefono, gettato in una strada…

Ho detto tutto.

di Stefano Falotico

 

 

Racconti di Cinema – Re per una notte

Zur ARTE-Sendung am 27. Oktober 2004 um 22.40 Uhr The King of Comedy Bildunterschrift: Mit seiner penetranten Art geht Rupert Pupkin (Robert De Niro, li.) seinem Comedy-Vorbild Jerry Langford (Jerry Lewis, re.) mächtig auf die Nerven. Bildrechte: ARTE F Honorarfreie Verwendung nur im Zusammenhang mit genannter Sendung und bei folgender Nennung "Bild: Sendeanstalt/Copyright". Andere Verwendungen nur nach vorheriger Absprache: ARTE-Bildredaktion, Tel.: Carine Jechoux +33 3 88 14 21 37 und Silke Wölk +33 3 88 14 22 25, E-Mail: bildredaktion@arte-tv.com

Dobbiamo ammetterlo, il percorso artistico, quindi filmografico di Scorsese, stupisce per varietà e, potremmo dire, variopinta destrezza. Nel 1982, in sordina, dopo il crudo iperrealismo di Toro scatenato, dopo il suo suadente bianco e nero ipnotizzante e tetro per cupezza cromatica, spiazzando tutti, esce con questo colorato, straordinario The King of Comedy, e va incontro a un insuccesso abissale, dal quale si riprenderà solo col successivo, scoppiettante Fuori Orario. In entrambi i casi delle acide commedie nerissime ma, a differenza di Fuori orario, che piacque subito parecchio, Re per una notte, all’epoca fu decisamente snobbato dalla Critica e passò sotto silenzio anche presso i suoi ammiratori. Invece, col senno di poi, va ammesso che, nonostante i suoi difetti, una certa “monotonia” narrativa (il cui significato spiegherò poi…) e qualche scena forse eccessiva, Re per una notte rappresenta una pellicola che era notevolmente avanti coi tempi, e per questo probabilmente alla sua uscita affatto compresa e respinta, come si dice in gergo…

È la bizzarra storia di un comico, Rupert Pupkin (un De Niro in gran forma sardonica, che veste giacche impossibili e sfodera scarpe che sono un pugno in un occhio), che si crede un genio, e forse lo è davvero. Pupkin idolatra Jerry Langford (un cupissimo e quasi inquietante Jerry Lewis, che qui abbandona le sue mimiche da “picchiatello” per offrire una prova recitativa misuratissima e spaventosamente efficace), showman di un famosissimo spettacolo televisivo americano. Dopo averlo approcciato, Pupkin s’illude che Langford possa offrirgli la grande occasione di tutta una vita per poter mostrare al mondo il suo talento. Ma aveva frainteso tutto e, in preda alla frustrazione, arriva a sequestrarlo, costringendo i produttori della trasmissione a concedergli i suoi tanto agognati minuti di gloria. Verrà arrestato, gli sarà commutata la pena da sei anni di reclusione a due anni e mezzo, ma nel frattempo, dopo quella apparizione fulminante, diverrà una star venerata, a cui dedicheranno anche una biografia per un bestseller che spopolerà nelle librerie.

Un film profetico, una satira del mondo dello spettacolo retta da due eccellenti interpretazioni, con un De Niro volutamente sopra le righe, “fastidioso” e immarcescibile nella sua lucidità folle da strampalato personaggio che vuole ottenere successo a tutti i costi, e un Lewis ottimamente calibrato che ritrae in modo perfettamente “arrogante” la figura di un uomo diviso a metà, tanto spassoso, con la battuta sempre pronta e veloce, applaudito sulla scena, quanto triste e riservatissimo nella vita privata, una vita che forse gli sta stretta e che si contenta illusoriamente della gioia effimera del suo “status” d’intoccabile, donandogli al contempo sia la gioia di una carriera invidiata quanto l’amarezza ineludibile della presa di coscienza che il suo lavoro, se da una parte gli ha regalato soldi e immensa visibilità, dall’altra parte l’ha relegato a “pupazzo” negli occhi della gente, di chi lo guarda estasiato, idealizzandolo in maniera distorta, e lo ammira oltre i suoi reali meriti. Sì, perché il film è anche una riflessione sul falso culto a stelle e strisce del successo, sul suo ambiguo rovescio della medaglia. Siamo convinti, insomma, pare dirci Scorsese, che le persone di cosiddetto successo siano felici? E questo successo, peraltro, è simbolo di un valore concreto o è soltanto la proiezione dei sogni piccolo-borghesi della gente comune che, nella sua fantasia, crea e smonta divi a piacimento, secondo i desideri volubili del momento? Il film è questo, lo specchio di una società pazza come Rupert Pupkin, uno sberleffo cinico sulla mitologia faceta, sulla passeggera, vanesia, peritura, finta cultura della televisione e dei suoi “totem”.

Dicevamo, però, il film ha anche dei difetti o, forse, in queste difettosità, consistono anche i suoi pregi. Sì, perché fu manipolato dai produttori che tagliarono molte scene. Se da un lato si nota una certa sbrigatività nei raccordi, alcuni ingiustificati, che possono indurre a una certa, iniziale perplessità, d’altro canto, involontariamente, questo suo essere “stringato” l’ha reso un film secco e dunque limpidissimo, che va dritto al punto senza girarci troppo attorno, dal ritmo brioso e angoscioso che regge benissimo le sue quasi due ore di durata senza mai annoiare nonostante sia quasi tutto parlato e girato perlopiù in interni.

Nota di merito, inoltre, per la “bruttona” Sandra Bernhard, campionessa di autoironia, che seduce e s’illude di ammaliare Langford in vesti ridicolmente “sexy” da esilarante fatalona inevitabilmente imbranata.

Probabilmente, un altro lungimirante capolavoro di Scorsese.

di Stefano Falotico

 
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