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Mindhunter, recensione di Stefano Lo Verme

Tratta da Movieplayer.

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  Jonathan Groff interpreta il ruolo di Holden Ford, agente speciale dell’FBI che nel 1977 dà inizio a un rivoluzionario programma di ricerca sul comportamento criminale, in Mindhunter, l’acclamata serie di Joe Penhall: un prodotto atipico che può vantare un’eccellente scrittura e il contributo alla regia di David Fincher.

Psycho killer, qu’est-ce que c’est?

Se si considera il binomio formato da David Fincher e i serial killer, oltre al riferimento più immediato, ovvero il cult del 1995 Seven, è doveroso ricordare anche un film meno fortunato datato 2007, Zodiac. Incentrato sulla caccia al famigerato omicida seriale attivo nella San Francisco Bay Area fra gli anni Sessanta e Settanta, alla sua uscita Zodiac non è stato il grande successo che il tema e i nomi coinvolti lasciavano presagire: il pubblico, infatti, è rimasto in parte spiazzato da un thriller di oltre due ore e mezza in cui l’azione era praticamente inesistente.

Per quanto, a livello commerciale, non abbia ripagato gli sforzi produttivi, tuttavia Zodiac, oltre ad essere amatissimo dagli estimatori di Fincher, è anche un’opera che ha scardinato alcune convenzioni del proprio filone di appartenenza: il suo assunto, indubbiamente innovativo, è stato quello di costruire un thriller poliziesco dall’approccio rigorosissimo, del tutto incentrato sugli ‘investigatori’ e sui loro dilemmi personali. Una formula che, a dieci anni esatti di distanza, Fincher e il suo team di co-produttori hanno rielaborato e riproposto sul piccolo schermo nei dieci episodi di Mindhunter.

L’impero della mente

L’incipit del primo episodio non deve trarre in inganno lo spettatore: in una notte di fitta pioggia Holden Ford, un giovane negoziatore di ostaggi per l’FBI, è impegnato nel tentativo di placare uno squilibrato armato di pistola. È la prima sequenza di Mindhunter pervasa di una suspense tradizionale, nell’ottica del genere poliziesco, ma contrariamente alle possibili aspettative rimarrà anche l’ultima. Al creatore e showrunner Joe Penhall, drammaturgo inglese che per il cinema aveva sceneggiato due impegnative trasposizioni dalla grande narrativa contemporanea (L’amore fatale, dal romanzo di Ian McEwan, e The Road, da quello di Cormac McCarthy), basta una manciata di sequenze per mettere in chiaro la natura della serie targata Netflix: in Mindhunter la ‘caccia’ a cui allude il titolo si consumerà esclusivamente su un piano dialettico e psicologico.

Chi, ricordando Seven o Millennium – Uomini che odiano le donne, si attende brividi, adrenalina e colpi di scena, rischia di restare deluso: in Mindhunter la detection sulle orme di assassini seriali è appena una tangente in un intreccio fabbricato con tutt’altri presupposti e tutt’altri obiettivi. La serie di Penhall, semmai, può essere accostata per certi aspetti a Masters of Sex: pure in questo caso, infatti, il fulcro narrativo è costituito da un progetto scientifico potenzialmente rivoluzionario quanto, in misura esponenziale, rischioso e controverso. Assieme al più maturo collega Bill Tench, Holden riesce infatti ad avviare un programma volto allo studio e alla definizione di una normativa delle tipologie comportamentali dei serial killer: una ricerca condotta ponendosi faccia a faccia con psicopatici già assicurati alla giustizia, e provando ad esplorare gli insidiosi meandri di menti che hanno partorito le più bestiali atrocità.

Il “giovane Holden” e i suoi partner

È il bizzarro paradosso da cui scaturisce gran parte della forza drammatica di Mindhunter: da un lato l’esigenza di attenersi ad una precisione scientifica e a tutti gli scrupoli del caso; dall’altro la necessità, avvertita con particolare fervore da Holden, di abbandonare i lidi sicuri per avventurarsi nel territorio dell’ignoto. E cosa c’è di più ignoto del panorama che si cela nell’oscurità di una psiche affetta dal più tragico dei mali? Un contrasto ulteriormente accentuato dalla scelta del protagonista: Jonathan Groff, ex alunno canterino di Glee, con il suo viso e il suo portamento da perfetto bravo ragazzo, è quanto di più lontano si possa immaginare dall’archetipo noir del detective duro e tormentato. Da una puntata all’altra, però, lo vedremo addentrarsi sempre più a fondo nell’abisso di questa indagine, con una determinazione che a tratti sembra sfiorare l’ossessione, animato dalla consapevolezza del valore seminale di un progetto che mai nessuno aveva intrapreso prima di allora (la figura di Holden Ford è ispirata a quella di uno dei primissimi profiler dell’FBI, John E. Douglas).

Al fianco di Groff, in un meccanismo quasi da buddy movie, il caratterista Holt McCallany calza a meraviglia i panni del suo principale collaboratore, Bill Tench, il cui iniziale scetticismo e la solida prudenza faranno spazio ad un coinvolgimento sempre più ampio nell’impresa di Holden. A questa “strana coppia”, sulle cui interazioni gli autori basano alcuni dei dialoghi più riusciti della serie, si affiancherà poi anche una terza presenza: quella di Wendy Carr, psicologa interpretata da Anna Torv (attrice della serie Fringe), la cui professionalità fredda e impeccabile farà da contraltare all’istintività spesso avventata di Holden. In ambito privato, invece, il protagonista trova una sponda di costante confronto – e talvolta di conflitto – in un’altra figura accademica, la sua fidanzata Debbie Mitford (Hannah Gross), dottoranda presso l’Università della Virginia.

Imparare la lingua del Male

Mindhunter non manca inoltre di rievocare lo “spirito del tempo”, ovvero l’America della seconda metà degli anni Settanta: non attraverso pretestuosi rimandi alle vicende di quel periodo (anzi, la serie evita quasi del tutto riferimenti specifici alla storia o alla politica), ma restituendo alcuni elementi di un immaginario cristallizzato soprattutto mediante un certo cinema… un cinema al quale, non a caso, Fincher e Penhall rendono omaggio nell’episodio d’apertura, quando Holden illustra alcune peculiarità del rapporto fra negoziatore e criminale usando uno dei capolavori di Sidney Lumet, Quel pomeriggio di un giorno da cani. La fotografia, curata da Erik Messerschmidt, alterna l’atmosfera plumbea degli esterni alla penombra degli uffici e delle celle carcerarie, mentre la colonna sonora racchiude un autentico juke-box del pop e del rock dei Seventies: Toto, Don McLean, la Steve Miller Band, i Talking Heads (come non inserire le note della leggendaria Psycho Killer?), David Bowie, i Fleetwood Mac, Meat Loaf, The Alan Parsons Project, fino a quello struggente epilogo, l’improvvisa ‘implosione’ di Holden, sulla melodia di In the Light dei Led Zeppelin.

In fondo, Mindhunter si sofferma soprattutto su questo: l’eterna riflessione dell’essere umano sul mistero (insondabile?) del Male. Un Male che, contrariamente ai preconcetti vigenti all’epoca, non viene trattato come un corpo alieno rispetto all’uomo stesso, alla stregua di un fenomeno metafisico; al contrario, il Male è un avversario da fissare dritto negli occhi, con il quale iniziare a dialogare apprendendone innanzitutto il linguaggio. Il Male, in ultima istanza, è qualcosa da capire, riconoscendolo pertanto come una componente intrinseca alla specie umana: ed è tale assioma a rappresentare il vero ‘mostro’, l’unica, reale fonte di suspense all’interno di una serie decisamente complessa e sofisticata. E al termine del decimo episodio, quell’ultimo scambio di battute fra Holden e il gigantesco serial killer Edmund Kemper (Cameron Britton, superbo nella sua recitazione controllata e sotto le righe) annullerà ogni residuo di distanza fra i due uomini, l’agente dell’FBI e il maniaco pluriomicida. È davvero possibile guardare in faccia il Male senza restarne a nostra volta contagiati? Un interrogativo inquietante da conservare per la prossima stagione…

 

Mindhunter, prime impressioni

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Ora, ci troviamo di fronte al capolavoro che la Critica, in maniera unanime, sta acclamando?

Siamo di fronte all’ennesima furbata di Fincher? Capitemi bene, ho in auge David Fincher, credo che la sua filmografia sia emblematica della sua “scienza comportamentale” da regista oramai ascritto alla sua peculiarità, da cui credo farà fatica a distaccarsene. Da Seven a Zodiac, quest’uomo ha descritto in maniera appassionante la figura del serial killer, se n’è addentrato con precisione millimetrica e ha eviscerato emozioni cinematografiche di perlacea potenza. Se nel primo si “limitava” a un thriller al cardiopalma che ha fatto scuola, nel suo susseguirsi di colpi di scena, nella “mannaia” dell’omicida luciferino di Spacey che inanellava crimini brutali seguendo con maniacalità i peccati capitali da lui filtrati secondo la sua perversione oscena, nel secondo stupiva e spiazzava tutti, spostando decisamente l’azione, quindi la non azione, sulla pura detection, scovando nelle anime degli investigatori e, dopo la prima mezz’ora iniziale che lasciava presagire che ci trovassimo di fronte a un altro lineare film sull’omicida seriale, detronizzava le nostre aspettative, concentrandosi quasi esclusivamente, come detto, sulla storia dell’indagine. Non badando molto ad altro, un film a suo modo unico, proprio in virtù del fatto che la sua principale e originale virtù è stata lo scrupolo con cui Fincher ha indagato egli stesso fra le pieghe emozionali degli investigatori. A mio avviso, la sua opera migliore, così stupendamente imperfetta da lasciar allibiti per la sua formalità morbida, per quelle notti lugubri, da lupi, da “bevute” in inquadrature studiatissime, meticolose come la puntigliosità degli omicidi stessi.

Fincher arriva con MINDHUNTER, ed è clamore. Parlo ancora da profano, avendo visto solo la prima puntata. Siamo decisamente agli inizi, tutto è da compiersi, ma veniamo preparati come quegli studenti acerbi che si vedono qui e che gironzolano spaesati. Al che, fa capolino Quel pomeriggio di un giorno da cani, e rifulge quel Pacino criminale che tanto criminale non è, perché da lì, da questo Sidney Lumet si parte per spiegare, semplicisticamente obietterà qualcuno, ciò che scatena non solo il facile movente ma la ragione umanissima che induce chi studia criminologia a voler razionalizzare la cosiddetta “devianza”.

Il nostro agente federale è un idealista che pretende di capire i criminali e non capisce invece la sua fidanzata, quindi è all’apparenza un ingenuo, ma è animato da una voglia di conoscenza da rendere onore alla sua borghese divisa da uomo “normale”.

Nel finale, si affianca a un tipo tosto, rude nei modi, fumatore incallito, disilluso e ancor però sorseggiante, come il nostro golden boy, il desiderio di far chiarezza sui meandri della psiche umana.

David Lynch avrebbe scelto per MINDHUNTER una strada delirante e la serie sarebbe stata un rebus onirico d’immane suggestione filosofica. Avrebbe trasceso le più mere, scolastiche spiegazioni per allestire un “gioco” di specchi labirintico basato tutto sulle suggestioni. Ma Fincher non è Lynch, non vuole esserlo, è uno che non vuole rivoluzionare nulla, o forse sì, e allora insiste con dialoghi verbosi, con interni perfettamente bilanciati nella macchina da presa di una sceneggiatura che spiega tutto e al contempo non (si) dà spiegazioni. Che incede, insinuando dubbi, accumulando in un’ora domande dostoevskijane così incognitamente affascinanti che si possono realizzare tutte le stagioni che vuoi, giocandoci intorno.

di Stefano Falotico

 

Della vita e della morte

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Non so, è un periodo che ho strani pensieri in testa, ma non li considero disdicevoli, anzi, sono quasi benefici e salvifici. Da qualche anno a questa parte, penso spesso alla morte, alla mia, che sopravverrà certamente, mi auguro in tempi lontani, e anche a quella che inevitabilmente colpirà le persone care che mi circondano, anche se a dire il vero non sono molte, e spesso vivo di estreme solitudini. Non che non avessi saputo che un giorno sarei morto ma, come accade a tutti, sino a un certo punto della tua vita non ci pensi, e sei preso da cose più umane per rifletterci. Poi, arriva l’età in cui maturi e cominci a pensarci. Non so se sia un bene che alla mia età già mi ponga questa domanda. Ma, pormela, mi fa vivere con quell’angosciante lietezza che ti fa apprezzare in maniera maggiore tutti i santi giorni. Così, le antiche ubbie, le paure, le ritrosie, le viltà che ti hanno sempre travolto, ecco, scompaiono come se fossero state spazzate via dal vento della vita, e la vita stessa assume un sapore diverso, la guardi con più cautezza, con più scrupolosità. E può parere un paradosso, forse lo è. Ogni cosa ti sembra illuminata anche laddove invece non lo è. E i sentimenti di rivalsa, le ambizioni stolte, il desiderio assurdamente egoista di primeggiare, le false competizioni non annebbiano più il tuo cervello e non inquinano più la tua anima. Si vive in una sorta d’incredulità generale, in cui ogni istante può essere fatale e le sciocchezze scivolano, superate da una saggezza che ti permette di scremare il bello dal brutto, la facezia e le piccinerie dalle cose importanti, ove i valori in cui hai creduto ancor più ti valorizzano e sospingono, e risplendi trasparentemente sincero nel mar frenetico ove gl’incoscienti par anneghino in oceani di banalità soffocanti, sommersi da obblighi e autoinganni per cui tanto si affannano, con quelle voglie lor capricciose e bambinesche, anche quando sono all’anagrafe “adulti e vaccinati”, di voler sopraffare il prossimo, persi nella scemenza di chiacchiere vane, di vanità superflue, addobbati dietro apparenze alle quali non credono, in cuor loro, neppure loro, ma così presi dalla lotta effimera quotidiana, da desideri di affermazione, da superficiali frivolezze, da affondarvici ed esserne schiavi.

Così, passeggio mesto nella laguna dei miei pensieri, e un altro giorno striscia morbidamente di sua rinascenza leggiadra in quest’inverno sopravanzato. In un altro diario di vita scompaginato o solo disordinatamente inquadrato.

di Stefano Falotico

 

Phantom Thread, il trailer del nuovo film di Paul Thomas Anderson con Daniel Day-Lewis

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Ebbene, lo aspettavamo con ansia e non ha certamente, a giudicare dalle immagini, deluso le altissime aspettative. Stiamo parlando del trailer di Phantom Thread, nuova attesissima opera del celebrato regista Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis.

Pochi giorni fa, inoltre, era stata resa ufficiale la sinossi, che riportiamo qui in forma completa:

ambientato nel mondo glamour della Londra post guerra degli anni ’50, il rinomato stilista Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) e sua sorella Cyril (Lesley Manville) sono al centro del mondo della moda britannica, vestendo la nobiltà, le star del cinema, le ereditiere, esponenti dell’alta società, dame e debuttanti con lo stile unico della Casa Woodcock. Donne che entrano ed escono dalla vita di Woodcock, regalando allo scapolo d’oro ispirazione e compagnia, finché non incontra una donna giovane e forte, Alma (Vicky Krieps), che presto diventa un punto fermo nella sua vita, come sua musa e amante. Da controllato e pianificato, l’uomo viene lentamente distrutto dall’amore. Nel suo nuovo film, Paul Thomas Anderson dipinge un ritratto illuminante di un artista in un viaggio creativo e delle donne che continuano a far girare il suo mondo. Phantom Thread è l’ottavo lungometraggio di Paul Thomas Anderson, e la seconda collaborazione con Daniel Day-Lewis.

Il film è atteso nelle sale statunitensi esattamente a Natale, per poter ambire agli Oscar. Mentre ancora non conosciamo la data di rilascio per quanto riguarda l’Italia.

Insomma, come vi sembra? Le immagini, ripetiamolo, sono affascinanti, curate in ogni minimo dettaglio, come da sempre Anderson ci ha abituato e “viziato”. Ma si tratta sicuramente di un progetto tanto ambizioso quanto rischioso. La troppa cura formale può diventare alle volte estetizzante, calligrafica maniacalità, manierismo e non sostanza. L’impressione che si potrebbe avere è indubbiamente questa, una certa, esagerata stucchevolezza. Ma confidiamo in Anderson…

di Stefano Falotico

 

Della vita e di altre sovrastrutture

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Ti svegli baldanzoso, dopo che nella notte fonda udisti i tuoni potenti scagliarsi a raffiche di vento su questa Terra così peccatrice e funestata dalla sciocchezza.

Alcuni, credo, non si salveranno più. Fin dai primi loro respiri mattutini, le loro anime perse vengono tempestate da voglie di rivalsa, da odi atavici, da desideri assurdi di vendetta. E invece che, semmai, concentrarsi sulle loro ragioni, anche (se) discutibili, spostano il problema da un’altra parte e attaccano chiunque, lamentandosi invero solo della loro pochezza e di quei loro limiti che invece vorrebbero addobbare di saggezza. Patetici, deliranti, paranoici e, dinanzi a tanto lapalissiano, evidente disastro lor umano, devi anche tu abdicare al fatto, assai spiacevole ma ineludibile, che devi ammettere con grande tristezza e profondo cordoglio che ti trovi di fronte a persone che non ce la faranno più. Si beccarono delle diagnosi schiaccianti, ove venivano crocifissi entro compartimenti psichiatrici contro le cui generalità sbrigative io mi son sempre però combattuto, rischiando io stesso di apparir matto per la mia voglia inesorabile di voler cercare in queste persone altro che non fosse un certificato di malattia. Ma, ripeto, ci sono casi che purtroppo, lo dico davvero a malincuore, non si esimono da queste diagnosi e, per quanto uno si sforzi di comprenderli, aiutarli, sollecitarli a migliorare e dar loro fiducia, puntualmente tradiscono ogni buona, ottimistica aspettativa, e rimani sconcertato da quanto siano incoscienti di essere così stupidi. Sì, parliamo di stupidità, e basta. Qui, non ci troviamo più davanti a persone che patiscono un disagio, di qualsiasi natura esso sia. Il disagio, seppur sia, di prima impressione, qualcosa di disturbante e col quale difficilmente si entra in empatia, se ben canalizzato e curato può rivelarsi perfino illuminante, profetico, può essere il basamento psicologico che, fondandosi proprio sull’inquietudine del vivere, sul porsi importanti interrogativi esistenziali, può far scaturire idee brillanti, all’avanguardia, idee che hanno fatto, ad esempio, grandi quei pensatori moderni che hanno costruito le loro genialità appunto dal loro male di vivere. Filosofi, registi, scrittori hanno attinto dalle loro precarietà quotidiane per investirvi emozionalmente e, da questa continua, ostica resilienza, rinascere in forme evolutive del pensiero perfino progressiste. Catarsi dei dolori e delle incognite. Ma poi, ribadisco, t’imbatti in personaggi che invece tracimano solamente nei loro stolti disagi e ogni giorno, fuori da ogni logica, dissennano su tutto, dalle piccole alle grandi cose, con una perseveranza e una vigliaccheria da lasciarti allibito. Inconsapevoli che dovrebbero semplicemente mettere mano alla loro coscienza e fare un po’ di mea culpa sensato e autocritico. Invece, par gioiscano addirittura in questo lor (s)fiorire allucinatorio e grottesco, e sei costretto, dopo tanta solidarietà e simpatia, a lasciarli affondare nella loro melma e nel buio entro cui si accecano. Paiono, insomma, contenti della loro scontentezza. Oggi ce l’hanno con le autorità, domani col vicino di casa, domani col migliore amico, ieri ce l’avevano con sé stessi e probabilmente in quel caso avevano ragione. Permettetemi di esser loro sarcastico, un po’ d’ironia cattiva potrebbe essere la soluzione… Ma continueranno a recriminare, sfociando quasi nel diventare loro stessi dei criminali rispetto ai presunti “crimini” di cui accusano il prossimo, che per loro è uno che della loro dignità avrebbe abusato. Mah…

Costernato, proseguo per la mia strada. Agghiacciato da tanta spettrale penosità.

Io, invece, lo affermo in tutta modestia e coscienza, sono uno che cerca invece sempre la bellezza. Forse, questo continuo idealizzare la bellezza mi rende schiavo di una gioventù ribalda e sognatrice nella sua accezione più positiva. Non è retorica amare la bellezza, per quanto essa sia continuamente minata da chi fa della vita un monumento al puttanesimo e si svende all’offerente che gli garantisca facili illusioni e godimenti effimeri.

Perché io mi batto/a tanto contro il lavoro? Orbene, capitemi bene. Ritengo il lavoro qualcosa che può, sì, donare nobiltà all’animo di chi lo svolge con dedizione, passione. Altresì, il lavoro inteso soltanto come compravendita giornaliera in cui si dà qualcosa per ricevere in cambio lo squallido stipendio, be’, è alienante, qualcosa di freddo e asettico. E la tua vita, se cedi a questo raggelante patto “sociale”, è bella che finita. Sì, perché ti sarai adattato al più insulso mercimonio, e sarai uno che canterà ritornelli dalla romanticheria banale, soffocando i tuoi stress nella domenica calcistica per addormentare quelli che, prima di tutto questo schifo appiattente, erano i tuoi più intimi, sensibili desideri.

Non si nasce per la catena di montaggio, si nasce per dare un senso alla propria esistenza, non si nasce per “resistere” nel comune esistere, si nasce per inseguire la propria bellezza, e far sì che le nostre anime si esternino in qualcosa che possa essere di bel valore agli altri, in una comunione d’intenti produttiva alla gagliardezza del nostro essere vivi. Ciò non significa essere dei sognatori fessi, significa credere al valore della propria anima.

Alcuni invece si sentono uomini giusti se fanno la cosa “giusta”. Ma sfugge loro il senso non solo di giustezza ma anche di giustizia. Al che, per esorcizzare le loro colpe e i loro peccati, cercano il capro espiatorio in qualcosa o in qualcuno, proiettando, e qui torniamo al discorso iniziale, le loro angosce in qualcosa o qualcuno che possa incarnare la loro malattia di vivere. Allora ce l’hanno a spada tratta col governo, ce l’hanno col loro stesso lavoro che, e qui sta l’inghippo, odiano con tutte le loro forze ma fanno di tutto per mantenere e per mantenersi. In una reiterazione dello stato immodificabile del loro stato e anche, dunque, dello Stato.

Io, lo dico qui superbamente, perché me lo merito, appartengo a una categoria estranea… inclassificabile.

Molti maligni, sapendo che sono una persona “difficile” che, quindi, presuppongono, non possa avere relazioni affettive stabili e durature, in virtù, anche in “danno”, dei propri “limiti” caratteriali e persino genetici, pensano che io vada a puttane. Mi spiace deludere questa lor certezza assai malvagia, sono una persona che possiede, in cuor suo, un senso della morale molto alta, e il mio cor(po) può stare bene anche senza contrattare meschinamente una sessualità prostituita e prostituente. Con grande “rammarico” delle loro oscene cattiverie, queste, sì, soggiacenti al “facile costume” dei luoghi comuni e dell’invadente presunzione etichettante… Si chiedono? Ma come fa(i)? Faccio e, se proprio devo, mi faccio da solo… alla vostra faccia!

Poi, ci sono quelli che, prima che diventassero “famosi”, erano idealisti, portavano avanti con ruspante coraggio le loro idee, anche di cambiamento. Ma, una volta ottenuti gli stessi falsi privilegi che tanto criticavano, sono diventati dei critici  e “sociologi” dell’aria fritta e si beano dall’alto di un piedistallo che è solo arrogante e plebiscitario. Li preferivo, decisamente di più, quando erano energici e “strani”.

Insomma, c’è chi ce l’ha con Dio, chi è senza Dio, chi attacca gli atei, chi attacca gli atenei essendo spartano, chi è spavaldo e vuole che gli umili siano ugualmente “ambiziosi” come lui, chi è anonimo e vuole 15 minuti di celebrità, poi, dopo che li ottiene, vuole i riflettori solo su di sé, e non riflette più. Meglio io, uomo riflessivo. Chi non vuole due fette ma tutta la torta e, una volta che se l’è mangiata tutta, esige anche la ciliegina. Anche il caffè. E a chi l’amaro?

Di mio, ho un romanzo da finire e una fettina di manzo, a pranzo, da lasciare a metà. Perché, come detto, son fatto di carne e ossa, ma non son molto carnale, sebbene sia mezzo carnivoro. Ah, poi ci sono i vegetariani. Ci sono anche quelli che vegetano, e ci sono i veggenti. Per non parlare dei cannibali. Che cani! Accidenti! Mi fa mal un dente. Ma come mai il dentista guadagna così tanto? Se mi fai male, ti addento. Poi c’è chi urla che ti mangia vivo! Mah…

Prima eri un agnello in mezzo ai lupi e ti dicevano d’infurbirti. Ora sei una volpe e a loro non stanno simpatici i “furbetti”. Se ti dai troppo da fare, ti danno un calmante, se ti calmi troppo, ti dicono che sei pachidermico. Se cresci in fretta, sei un bruciato, se ami qualcosa, ti dicono che è la tua passione bruciante, se vivi la vita con lentezza, soffri di elefantiasi. Insomma, mettetevi d’accordo.

Così sia. Andate in pace.

di Stefano Falotico

 

L’artista è un IT agli occhi degli altri e lotta con la pioggia dei suoi dubbi amletici

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Essere artisti. Sin da quando nacqui lo volli essere, eppur per molto tempo non lo fui, castigato e fustigato da occhi maligni che perlustravano anche le mie interiorità psicologiche per addivenire superficialmente alla complessità magmatica del mio io. L’io è l’immensa sfaccettatura delle proprie complicatezze, la risultanza stupenda dei conflitti inconsci, l’incarnazione della perenne fuga dalle banalità quotidiane, l’indole innata di essere appunto artisti. Il mio percorso umano fu traviato e, travagliandosi, or sbocc(i)a in rive mastodontiche delle mie meste e poi irruente, guascone riflessioni. M’induco a meditare, a planar di lievità nel soave mio navigar fra le profondità di me arcano, non ancorato, giammai lo sarò, alla fatiscenza collettiva che vive in modo patinato le emozioni, dando valore solo alle puttanesche euforie, svendendo e dunque svilendo la propria anima per ottenere scorciatoie alle quali mai soggiacerò né, sradicandomi dal volermene annettere, abdicherò in remissione dei miei peccati. Io, come tutti, sono un peccatore, non ho vergogna ad ammetterlo, e ogni giorno pecco, sbaglio e sbadiglio, casco e poi mi rialzo, fra imbranate introversioni e capitomboli ridicoli, e slanci invece sguinzaglianti il mio disincagliarmi dagli schemi comuni, dal volgare pregiudizio, dalle morbose certezze entro cui l’uomo “normale” si rifugia per cementare, in verità, soltanto la sua mediocrità.

Molti, dinanzi a questo mio esser falotico così riaffacciatosi alle sue viscerali e più pure emozionalità, dirimpetto a quest’uomo che par non temere il domani, sebbene tentenni e ancor titubi, si stupiscono e ne rimangono inquietati. Perché non riescono a darsi una spiegazione logica, razionale, di questa mia sopravvenuta piacevolezza del vivere. Per come, in passato, tanto mi lagnai e stagnai nel poltrire più apatico, troppo meditabondo, malinconico e, quando stoltamente provocato, iracondo. Sì, ancor mi urto e d’ire mi turbo se “solleticato” con frasi cattive che non merito, con analisi sfacciate che di me vedono solo l’apparenza che fa più comodo, appunto, a quella falsa giustezza entro cui, per debolezza, eh sì, son loro i fragili, aderiscono meccanicamente, languendo nel mare delle infelicità mascherate dietro sorrisi faceti, che paiono invece esser contenti e soddisfatti di vite che, in anima loro, odiano e ripudiano.

Così, mi scopro ancora romantico e gradevolmente “strano” e anche, gioiosamente, mi “scopo”, scorporandomi nella metafisica a cui attracco quando gli umori miei cangevoli si distaccano dalle abiette carnalità, e mi rendo argento vivo nel creare, favoleggiare, intimarmi a uscir dalle timidezze e a giocare, ad abbracciar l’esistenza nel suo flusso tanto misterioso quanto, chissà, portatore di gioie e, sia mai, anche di altre ansie. Di altre paure, di miei incubi segreti, di altri posti straordinari ai quali accedere con la fantasia più ribalda, remota dalle chiacchiere frivole, dal mentecatto “g(i)usto” delle barriere che in molti (si) costruiscono per difendersi dietro volti, questi sì, da pagliacci spaventosi.

L’IT, che forse sono io, ama gli infantilismi sani, la purezza, la (s)contentezza, e fluttua sopra le fogne in cui i cretini galleggiano, facendo scoppiare i palloncini del suo cervello oggi fritto e domani fortemente ritto in abbacinante nitore che non ha nulla da nascondere, se non i suoi savi timori, i suoi magnifici pudori.

Insomma, sono un IT anomalo. Avercene…

Sono un uomo che sa… che sta un po’ qua e un po’ lì, che non crede nell’aldilà e fa il Paperino in mezzo a Qui, Quo e il suo quid.

In mezzo ai vostri patetici quiz.

di Stefano Falotico

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Harvey Weinstein era un grande produttore “malato” di sesso? Be’, Stanley Kubrick era un “misantropo” amante dell’umanità

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Il caso Weinstein sta travolgendo Hollywood e non solo. Quando c’è uno “scandalo”, i benpensanti aprono bocca, sparando spesso delle superficiali scempiaggini, e la cronaca mainstream semplicemente lo etichetta come orco e persona disturbata da curare. Le donne, anche gli uomini, lo rivestono dei peggiori appellativi, quelli che un uomo non dovrebbe mai “indossare”. Poi, devo anche leggere e ascoltare inesattezze terrificanti e bestiali. Premetto e sottolineo che a me le inesattezze, ma soprattutto le insensatezze pressapochiste, mi sconcertano, turbano enormemente e vengo colto da soprassalti d’ira funesta. Qualcuna scrive, ad esempio, ridimensionando gli atti di Weinstein, che lui in verità non ha stuprato nessuna, perché gli stupri “veri”, secondo lei, sarebbero soltanto quelli aberranti e silenziosi fra le mura domestiche, quelli in guerra e nei paesi del Terzo Mondo. Il resto, a suo avviso, appartiene a un’altra categoria. Quale sia questa fantomatica categoria non lo specifica. Ora, a grandi linee, di primo acchito condivido il suo pensiero ma poi, riflettendoci profondamente, quasi lo disgusto. Esistono vari tipi di “stupro”, se vogliamo chiamarli così. Abusare del proprio potere per ricattare psicologicamente, in maniera pressante e asfissiante, chicchessia, è altrettanto mostruoso, esecrabile e fortemente condannabile. Quindi, il signor Weinstein, a mio modesto parere, si è macchiato di un crimine atroce e imperdonabile. Nonostante, recentissimamente, io stesso abbia ironizzato e sdrammatizzato.

Detto ciò, chi lo accusa di essere un malato di mente sbaglia. In maniera oscena. Già, io, nei miei ideali di libertà e rispetto assoluto del prossimo, considero malati di mente soltanto quelli, che ne so, che vedono la Madonna che ordina loro di ammazzare qualcuno. Ecco, in questo caso, indubbiamente ci troviamo di fronte a una persona con gravissime alterazioni del pensiero. Per i rimanente casi, spesso parliamo di persone complicate, con turbe che, tutto sommato, rientrano nella norma, persone ansiose, depresse, con poca fiducia nella vita o perfino troppa tanto che, quando vengono deluse, esplodono in crisi “pericolose”.

Dunque, personalmente considero Weinstein soltanto una persona, come tantissime nel suo ambiente fin troppo libertino, e non mi spingo oltre altrimenti peccherei di terribile moralismo, lungi da me… ecco, un uomo avvelenato da quel tipo di sistema a cui piaceva inevitabilmente il sesso. E, se poteva farlo con ragazze giovani e deboli, per lui era tanto di guadagnato. Ne godeva come un riccio. Anziché denigrarsi e farsi schifo, credo che invece lo facesse sentire ancora più autorevole, potente e “ricco”.

Tutto qui. Lasciamo stare le “cliniche per la disintossicazione”. Ripeto, scemenze.

Ora, che c’entra Kubrick? Infatti, non c’entra, ma io lo ficco sempre ove mi pare, ah ah.

Non mi considero un grande intenditore del suo Cinema ma sicuramente lo sono di più rispetto a tanti che lo osannano come genio soltanto per sentito dire.

Un ragazzo viene da me e m’interroga in materia…

– Secondo lei, signor Falotico, Arancia meccanica cos’è?

– Fratello, è un film sulla violenza della nostra società. Alex commette uno stupro violentissimo, agghiacciante, e il sistema violentissimamente, nella maniera più “indolore” e “dolce”, lo annulla come persona. Un film di (im)potenza immensa.

– E Shining?

– Un film sulla follia. Follia che nasce dal nulla, da echi del passato, dalla solitudine, dalla noia, un film sul rapporto orco e Pollicino, padre “adulto” e figlio “sognatore”, su quanto di orrendo può esserci nell’animo umano.

Eyes Wide Shut?

– La moglie di un medico piccolo borghese gli fa una confidenza erotica, innocua nella sua purezza. Il medico, da “par” suo, rimugina e s’arrovella, non trova pace. Gli son bastate due paroline “storte” per farsi il viaggio… nella notte dei dubbi, nella notte delle incognite.

Insomma, amici cari, come va il mondo lo sappiamo, noi, lupi di mare. Non ci venissero a raccontare favole e fave…

Ora, come poteva essere un misantropo, come Kubrick, amante dell’umanità? Semplicemente perché non lo era. Altrimenti non avrebbe esplorato l’animo umano.

 

 

di Stefano Faloticoews05

 

 

 

 

In seguito allo scandalo Weinstein, viene cancellata la serie tv di David O. Russell con De Niro e Julianne Moore

Certo, era prevedibile. Lo scandalo Weinstein, scoppiato solo una settimana fa, riguardante le sue molestie sessuali avvenute per moltissimi anni ai danni di modelle e attrici in cerca di carriera, ha velocissimamente destabilizzato Hollywood, e sta avendo inevitabilmente un impatto devastante proprio sulla Weinstein Company, compagnia oramai sull’orlo di un’irreversibile crisi, tenuta strenuamente e con le ultime forze in piedi dal fratello Bob, che comunque ha provveduto a licenziare il suo compagno “sporcaccione” e a eliminare il suo nome dai credits di tutti futuri progetti della casa di produzione. Una tragedia quasi piovuta dal cielo, di portata catastrofica. Amazon (ci dà in esclusiva la notizia Deadline), inoltre, dopo aver a lungo vagliato nelle scorse ore se era opportuno procedere col rapporto di collaborazione con la Weinstein Company, è giunta alla triste ma implacabile decisione di cancellare totalmente la serie televisiva di David O. Russell con Robert De Niro e Julianne Moore. Una serie televisiva che sarebbe entrata in produzione nei primi mesi del prossimo anno, dal budget faraonico di 160 milioni di dollari, ambientata negli anni novanta. Un progetto estremamente affascinante e già molto chiacchierato ma che, per sopravvenute, tragiche circostanze, non s’ha più da fare. I portavoce di O. Russell, De Niro e la Moore, seppur notevolmente dispiaciuti, hanno rilasciato un breve comunicato ufficiale in cui dichiarano che, in seguito proprio alla bruttissima vicenda, non se la sentono di andare avanti con lo show. Insomma, come se non fossero bastate le oscene denunce nei confronti dell’ex tycoon, la Weinstein Company ha ricevuto un altro colpo tremendo. Amazon infatti, ribadiamolo, doveva co-produrre la serie di O. Russell con loro, ma giocoforza, per logiche comprensibili di reputazione da mantenere intatta, ha dovuto lasciar stare.

Un vero peccato, comunque, per i cinefili. C’è da augurarsi, anche se l’ipotesi a quanto pare, almeno al momento, sembra assai remota e improbabile, che questa serie televisiva venga un giorno resuscitata, semmai affidandosi ad altri partner produttivi.

di Stefano Faloticorobert-de-niro-julianne-moore-david-o-russell

 
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