THE BIG KAHUNA, recensione
Ebbene, oggi per il nostro consueto e speriamo apprezzato appuntamento coi Racconti di Cinema, ripeschiamo una gradevolissima commedia, con sapide ed efficaci atmosfere uniche e lievemente melanconiche, uscita nelle sale nel ‘99, ovverosia il sottovalutato, assolutamente da riscoprire, The Big Kahuna.
The Big Kahuna è un godibilissimo ed esilarante, a tratti spiazzante, kammerspiel della breve ma imprendibile, assai scorrevole durata di un’ora e mezza netta, diretto dall’esordiente John Swanbeck. Tale opus rimane, stranamente, a tutt’oggi, l’unico suo lungometraggio e ciò ci appare alquanto inspiegabile. Poiché, ribadiamo, The Big Kahuna, sebbene non indimenticabile od eccelso, altresì eccelle per via della sua unicità speciale e si distingue da molto cosiddetto Cinema da camera e “teatrale” in virtù delle sue perfette tempistiche, delle sue battute e freddure taglienti, distillateci con classe, e per merito d’una ben calibrata ed architettata sceneggiatura coi fiocchi a cura di Roger Rueff. Il quale, già autore della pièce intitolata Hospitality Suite, per tale occasione e adattamento-riduzione, ne curò personalmente la versione-revisione. The Big Kahuna vede come protagonisti solamente tre attori sulla scena e, più che Teatro filmato in una singola camera, potremmo definirlo, simpaticamente e giocosamente, celluloide ubicata in una striminzita, non molto spaziosa eppur accogliente, asettica stanzetta d’albergo, con accessoriato e confortevole bagno a tre specchi annesso, a sua volta posizionata all’ultimo piano d’un grattacielo di Wichita in Kansas, elegantemente ma impersonalmente arredata per una convention elitaria dedicata a un potenziale, esoso acquirente da accalappiare. Con l’aggiunta di qualche extra, cioè un altro paio di location.
Sintetizzandovene fortissimamente la trama, anzi, testualmente trascrivendola dalla sinossi riportata da IMDb, stavolta, al solito, così come sua convenzione, assai stringata ma, nella sua eccezionale brevità, a differenza d’altre numerose volte, non risultante approssimativa e/o superflua, tantomeno spicciola o ingiustificatamente sommaria…
Due venditori veterani analizzano una presentazione di vendita a un particolare cliente, attraverso il loro giovane protetto.
I due “navigati”, affaticati, forse all’ultima spiaggia, eppur ancor non del tutto domi venditori rispondono rispettivamente ai nomi di Phil Cooper (un grande Danny De Vito), disilluso dalla sua carriera, cinico e deluso da un ex rapporto coniugale difficile emotivamente da gestire, un uomo tarchiato dalla parlantina secca ma corrosiva e sardonica, e a quello dello spregiudicato, cinico, irrequieto e ancor ambizioso Larry Mann (un Kevin Spacey che, pur gigioneggiando a briglia sciolta, brilla e rifulge di consueta bravura emanante carismatica allure da attore mostruosamente brillante). Il giovane “allievo” è invece il timido, titubante e inesperto, timoroso e perfino timorato di dio, sebbene determinato e affascinante, bellamente incravattato e da poco sposatosi, Bob Walker (Peter Facinelli, Supernova).
Paolo Mereghetti, nel suo celebre Dizionario dei Film, sebbene questa pellicola parzialmente apprezzò, lodandola perciò per i suoi indubbi meriti e allo stesso tempo enunciandone i suoi difetti, puntualmente ed acidamente osservò, anzi, sacramentò pungentemente che Swanbeck non possiede l’arguzia e il talento di David Mamet (Sesso & potere, Americani).
Probabilmente, invece, lo contraddiciamo noi, in modo graffiante e severo, se Mereghetti volle obiettare leggermente sulla qualità dello script, non doveva prendersela con Swanbeck, ovverosia il suo “anonimo” metteur en scène, bensì con l’allestitore, per l’appunto, del testo cinematografico, il succitato Rueff.
The Big Kahuna, ribadiamo, pur non essendo oggettivamente un’opera perfetta, ha infatti molti pregi evidenti e indiscutibili, eccome. È complicatissimo, per di più, riuscire a intrattenere, divertire, addirittura qua e là commuovere, con un film che presenta solamente tre interpreti sulla scena dall’inizio alla fine e che è ambientato pressoché quasi totalmente al chiuso e in spazi ristretti molto angusti.
Diamo dunque, come si suol dire, a Cesare quel che è di Cesare, in tal caso a Swanbeck.
È vero, la sua regia può apparire televisiva ma come non avrebbe potuto esserlo? Altrimenti, in una stanza, si sarebbe dovuto sbizzarrire scioccamente in estetizzanti ed artistoide, velleitarie zoomate non necessarie e piani sequenza stucchevoli, improbabili e impropri?
Inoltre, il direttore della fotografia preferito di Walter Hill, vale a dire Lloyd Ahern II, s’è giostrato sapientemente, riuscendo ad essere magistralmente funzionale grazie a tocchi di luce carezzevoli, delicati e soavemente chiaroscurali, pur trovandosi, per l’appunto, costretto logisticamente dinanzi a un materiale così ostico da riprendere.
Prodotto dallo stesso Spacey che ivi, dopo L.A. Confidential, nuovamente duetta impeccabilmente col suo amico DeVito. Regalandoci, ancora una volta, un’accoppiata e una reunion notevoli che, col tris formato dal talentuoso Facinelli, vale tutto il prezzo del biglietto.
di Stefano Falotico