Quentin Tarantino: Stefano Falotico intervista Ilaria Mainardi in merito

Pam Kangol

Pam Kangol

Tarantino: lo conobbi a Capri durante una spaghettata con una mia vecchia fiamma di nome Fulmicotona. Mi alzai dal tavolo, avvistai Quentin e gli offrii un piatto di meloni affumicati, sfumandoli al tramonto dei faraglioni. Egli  li spolpò di buon grado e m’illuminò sin all’alba. Giunto il mattino, scoreggiamo felici, incoraggiando Leonardo DiCaprio ad accettare Django. Sì, fui io a suggerire al nostro il bel Leo. Lo scorsi vicino agli scogli, tutto bello scottato. Ma non era bruciato nella salsedine tergente, bensì scosciante, con la sua modella, una colazione nutriente.

In realtà, questa è una stronzata devastante, come il Cinema di Quentin. Sembra all’apparenza un divertissement ma invece è postmoderno alla Frusciante.

Eh sì, sfogliando i suoi film, te la spassi sempre. Fra una barzelletta, un’inquadratura “al dente”, qualche spappolamento truculento, sanguinolenti scene di giusta e sacrosanta violenza, anche all’osso sacro, labiali di attori titanici e un Waltz più grande dell’aver scoperto Travolta ancora. Non so se in un insolito destino nell’azzurro mare d’Agosto come questo raccontino all’arrosto.

Da rivedere sempre. Contenti. Anche se talvolta muoiono nell’anima, come Jackie Brown. Di finale triste oppure trivellante alla Kill Bill. Di marziali anime. Mai al marzapane.

1) Non le sarò pleonastico, non mi piace ribadire Pulp Fiction. Lo diamo per assodato. Tenendo per buonissimo il primo colpo da regista, Le iene. Io sono un patito di Jackie Brown. Non mi vergogno a dire che è il suo capolavoro assoluto. Tu, diamoci del tu, cosa ne pensi?

2) Dovessi scegliere obbligatoriamente fra Bastardi e Django, quale scegli e perché?

3) Sono fra i pochi che considera A prova di morte meglio di Kill Bill. Tu?

1) Non credo sia il suo capolavoro assoluto – del resto lo stesso Tarantino affibbia la patente a un film successivo – ma trovo che, dopo gli exploit de Le Iene e Pulp Fiction, Jackie Brown sia stato ingiustamente marginalizzato. Forse è il caso, a dire il vero ennesimo, che conferma la massima “la storia nulla è, tutto sta come si porta” perché, all’interno di una trama tutto sommato convenzionale, Quentin riesce a ritagliare dei caratteri complessi e interessanti, apparentemente inseriti all’interno delle regole di genere, ma poi pronti a sgabbiare, quando meno te lo aspetti, grazie a una scrittura scoppiettante e mai banale.

2) Difficile, ma scelgo Django per una sola ragione, fondamentale: all’interno del topos tarantiniano della vendetta, Django riesce a trovare una leggerezza, riassunta nella battuta metacinematografica “I couldn’t resist” che dà avvio alla giostra finale, che probabilmente manca a Bastardi senza gloria, film che in ogni caso adoro. Cerco di spiegarmi meglio, di spiegare il valore altissimo di questi due lavori, frettolosamente bollati come divertissement o come calco di un genere che sappiamo essere caro a Quentin.
Se trattiamo il Cinema come uno specchio della Storia, non ne verrà fuori alcuna verità, perché il Cinema non è Storia, ma immaginazione della Storia, “falso” per statuto, appartenente a una dimensione altra. Il Cinema è caratterizzato da una natura ambivalente: da una parte si riferisce continuamente a se stesso, al proprio linguaggio, dall’altra è rivolto altrove, alla vicenda che narra come al periodo storico nel quale il dato film è stato realizzato. Ciò è stato chiaro, fin da subito, ai pionieri del Cinema, a partire dai fratelli Lumière (Cinema con valore testimoniale) o da Méliès (Cinema che crea un mondo artefatto). Dunque: come trattare un argomento che, se normalizzato, rischia di diventare banale, se lasciato a se stesso, vista la sua intrinseca e tragica indicibilità, rischia di essere metabolizzato in un disgraziato oblio storico? Sia In Bastardi senza gloria che in Django Unchained, Tarantino omaggia il Cinema come mezzo per cambiare la Storia che infatti viene completamente reinterpretata attraverso il suo sguardo.
Noi, pubblico, sappiamo che le cose non sono andate come Quentin ce le racconta, ma non è questo che rende questi film meno importanti o riusciti di quello che sono.  Tarantino ci mette di fronte alla straordinaria complessità dell’essere umano, una complessità che potremmo definire shakespeariana per la sua natura mai scontata o rassicurante, sempre plurale.
I caratteri che delinea in sceneggiatura mettono lo spettatore in crisi, di fronte a dilemmi etici che non accettano soluzioni semplificate. Gli eroi hanno aspetti antieroici che non possiamo, in tutta onestà, trascurare, gli antieroi per eccellenza, d’altra parte, ci sembrano, non alieni da un altro pianeta, ma uomini (come noi?). E il cattivissimo generale delle SS, Hans Landa, suscita in noi un insieme inestricabile di fascino e repulsione, come Riccardo III, come Macbeth. E Django, schiavo liberato, eroe in potenza, in nome di un bene per lui più grande, fa sbranare un uomo dai cani…
Accanto a lui, una scrittura magistrale di caratteri, destinati a incidere a lungo: meraviglioso il Dottore che non mangia il dolce, cosa che invece faceva, sadicamente, il colonnello SS, interpretato dallo stesso interprete  (e qui termina l’analogia). Si tratta di un uomo disilluso e malinconico, eppure romantico, fino al più tragico degli esiti. Schultz, un atto d’amore in scrittura, risulta quasi un demiurgo omodiegetico, fool quanto basta per vedere di più e meglio il proprio destino e per sacrificarsi in nome della Storia e del Cinema.

Bellissimo il personaggio di Samuel L. Jackson: un nero che ha interiorizzato il razzismo o che pure, come Storia ci insegna, ha semplicemente dimenticato se stesso e l’empatia/compassione per gli esseri umani in virtù dello scranno del potere, sul quale infatti si siede.

Interessante anche il personaggio di Di Caprio, un villain stupido e borioso che teorizza su una pratica frenologica che lo contraddice de visu (il servo, ben più scaltro, ne guida le azioni).

Il Cinema di Tarantino, in questi due ultimi lavori, ci pone dunque di fronte a dei quesiti fondanti: “che cosa posso fare io?” “che cosa avrei potuto fare e non ho fatto?”, “che cosa sono disposto a fare, a tollerare per qualcosa che bramo?” come uomo/donna, come intellettuale, come artista, sono quesiti che il Cinema ci pone e che non dobbiamo mai dimenticare. Il regista americano, con i propri mezzi e con il proprio personalissimo stile, si assume la responsabilità di raccontare una storia che tenti di reinterpretare la Storia, ma che non si esaurisca con essa. Perché la Storia è stata fatta da uomini, e noi che cosa siamo? In conclusione vale il verso di una celebre canzone di Francesco De Gregori, “la storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. Ci rasserena certo sostenere che “noi siamo diversi”, che “a noi non poteva capitare”, ma si tratta di un alibi poco elaborato e fallace poiché intolleranza, razzismo, guerre ecc. appartengono al nostro tempo, ci coinvolgono e devono indurci necessariamente a fare delle scelte, a dire “io faccio”, non “voi avreste dovuto fare”.

3) Non lo considero migliore di Kill Bill e credo che sia una parentesi di puro divertimento per Tarantino, ma ritengo altresì che Kill Bill sia un film diseguale che funziona soprattutto come insieme di momenti folgoranti (un esempio: la scena del duello fra Uma Thurman e Lucy Liu, sulle note dei Santa Esmeralda), più che come un film (o due film) unitario.

 

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