Ore 15:17 – Attacco al treno, recensione

Attacco al treno

Opus n.36 da regista per il quasi ottantottenne Eastwood. Compirà infatti 88 primavere il prossimo, vicinissimo 31 Maggio, e improvvisamente questo diventa clamorosamente il suo film “peggiore”, massacrato dalla Critica mondiale. Un buco nell’acqua clamoroso, incomprensibile, un passo falso assolutamente inaspettato, che ci lascia storditi? E via tutti ad attaccarlo, quasi frontalmente, coprendolo dei peggiori appellativi, ingiuriandolo e addivenendo alla triste constatazione che il buon Clint appunto, così come si presuppone avvenga per tutti quelli che sono molto in là con gli anni, si sia inesorabilmente rincoglionito. E i suoi detrattori ostinati, che l’hanno sempre accusato di essere reazionario, destrorso e propugnatore della guerra, un “belligerante”, sopravvalutato uomo di propaganda militaresca e patriottica, non vedevano quasi l’ora che uscisse un film così. Ma il film è proprio così? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre e, se non ve la ponete o non ve la siete posta, siete indubbiamente spettatori pigri, superficiali, che guardano i film senza interpretarli, senza volerli, oserei dire, sviscerare, e non vi sforzate un minimo di cercar d’entrare nella poetica, altro che politica che c’entra ben poco, del suo autore.

Eastwood non ha mai avuto velleità “artistiche”, o perlomeno non è mai stato questo il suo principale intento, e sinceramente preferirò mille volte di più il suo Cinema “artigianale” a tante opere hipster e arty. Eastwood è semplicemente un narratore di storie, e traduce in immagini il libro scritto dai suoi eroi del film, eleggendoli ad attori principali, sì, sono proprio coloro che vissero realmente la vicenda raccontata a entrare nel corpo “documentaristico” della trama.

Il libro è da noi edito dalla Rizzoli e la sinossi è questa, testuale, al di là dei possibili fraintendimenti. Mi pare tutto così ovvio…

Nelle prime ore della sera del 21 agosto 2015, il mondo assiste stupefatto alla notizia di un attacco terroristico sul treno Thalys n. 9364 diretto a Parigi, sventato da tre giovani americani in viaggio attraverso l’Europa. Spencer Stone, sergente dell’Air Force, Alek Skarlatos, soldato della Guardia nazionale dell’Oregon reduce da una missione in Afghanistan, e Anthony Sadler: tre amici con la fissazione per la storia militare cresciuti insieme, che proprio in una vita di lealtà e di sostegno reciproco hanno trovato il coraggio di agire in quei momenti fatali. Le intenzioni di Ayoub El-Khazzani, marocchino di ventisei anni, erano chiare: aveva con sé un Kalashnikov AK-47, una pistola, un taglierino e una quantità sufficiente di munizioni per uccidere tutti i passeggeri a bordo. L’ISIS era pronto a colpire ancora una volta. “Non appena realizza ciò che succede sul treno, Anthony sente il suo corpo cambiare. Rilascio di sostanze chimiche, vasocostrizione, sospensione dei sistemi non essenziali. Gli zuccheri affluiscono dove necessario: la sua sensazione è quella di poter disporre di un’energia sovrumana. Il suo corpo si sta alleggerendo dei sensi che non sono coinvolti nel compito che deve affrontare. È una cosa difficile da spiegare: i loro corpi si trasformano”. A quel punto i tre ragazzi “fanno solo il loro dovere”, come ripetono quasi ossessivamente nelle interviste dei giorni successivi. La storia che raccontano in questo libro dimostra come gli eroi non siano che uomini normali, che fanno la migliore delle cose nella peggiore delle circostanze.

Sì, Spencer Stone, Alek Skarlatos ed Anthony Sadler sono tre amici inseparabili fin dalla primissima infanzia. Bullizzati a scuola, cresciuti col mito delle armi. Che c’è di strano? Appartengono a quel tipo di cultura e formazione. Ma Eastwood non è guerrafondaio, affatto, tant’è che agli attenti osservatori non saranno sfuggiti i poster di Full Metal Jacket e del suo “anacronistico” Lettere da Iwo Jima in casa del bimbo grassottello Stone. E questi sono due capolavori lontani anni luce dall’essere fanaticamente, ottusamente sostenitori della war. Ma la guerra alle volte c’è, è brutale, violenta, fa parte di questo mondo, ed Eastwood è fra quelli che mai vorrebbe vedere i suoi ragazzi andare al fronte, rischiando di essere trucidati, ma sa anche che le utopie pacifiste, laddove non possono esistere mediazioni per colpa d’irrimediabili integralismi invincibili, è comunque necessaria. Non la pensiamo probabilmente allo stesso modo, ma lui è non è Gunny? E chi ha visto quel film sa bene invero quale sia la filosofia che lo sottende. È assertore della pace a tutti i costi? Ma che ve lo dico a fare, tanto se volete vedervi altro, non posso convincervi del contrario.

Quindi, sfatiamo subito la falsissima idea che il film sia una pubblicità, neanche tanto subliminale, per diffondere questo presunto, discutibile messaggio. Il Cinema di Eastwood non vuole educare a un bel nulla, non vuole né sensibilizzare né far riflettere. Vuole narrare. In maniera forte, appassionante o meno che sia, in forma più o meno empatica rispetto ai fatti. Desidera esclusivamente narrare l’eccezionalità di un gesto quasi miracoloso, e qui il film si riaggancia a Sully e alla sua impresa sull’Hudson. Eh, ma questo è un parere mio, non credo neanche sia una qualsivoglia conclusione filmografica della sua trilogia sull’eroismo della gente comune, come tutti hanno detto. Queste son “cose” che servono ai critici impiegatizi per livellare le filmografie, per cercarne fili conduttori laddove in verità non esistono, perché Eastwood è uno che fa i film che sente di voler fare. Quando e come gli pare. Non ha certo in mente di effettuare la “semantica” del suo onesto metteur en scène.

Credo di essere stato chiaro con questa mia lunga disamina, potrei dire, e parentesi lapalissianamente esegetica quel tanto per ribadire un concetto che dal mio punto di vista, e forse anche dall’angolo prospettico di Eastwood, era un assunto indispensabile, a quanto pare equivocato, per poter avvicinarsi con più oculatezza e discrezione a quest’opera.

Il film ha tanti difetti, le scene “selfie” sono troppo da cartolina, e ci sono battutine che si potevano evitare. Roma è sempre Roma con la Fontana di Trevi e San Pietro, Stone al Colosseo cita Il gladiatore. E come biasimarlo? Lui, la capitale dell’impero che faceva tremar la Terra, ha imparato a percepirla attraverso uno dei peplum che andava per la maggiore quando era adolescente. Venezia è pertanto così come la vedrebbero turisti americani per la prima volta in Italia, Amsterdam è la città dello sballo, delle discoteche e della musica che pompa a tutto volume. Da ragazzi sfrenati delle notti trasgressive, ove ci si lascia andare volentieri, ubriacandosi e ballando con delle olandesine discinte. Volete forse venirci a dire che non è in questo modo che abbiamo imparato a classificare queste metropoli? Venezia, la rarità per eccellenza, che dondola sul mare, piena di traghetti e belle cinesine, Amsterdam è un “bordello” da sbronze e birra a volontà! Che male c’è in questa scelta registica? Eastwood non è Visconti, non le trasfigura come avrebbe fatto, che ne so, un regista visionario come Lynch, non è un esistenzialista come Angelopoulos. E aveva sinceramente, sì, questo a me è trasparso, tanta voglia di cazzeggiare, senza invece fare il troll pretenzioso (come l’ultimo, insopportabile Malick), con dei giovincelli cattolici, un po’ tonti e comunque tanto buoni e puri.

Se volete sempre che un autore vi giri il film che avreste girato voi, allora il film, per Dio, giratelo voi.

Sì, i dialoghi sono alle volte imbarazzanti, la sceneggiatura di Dorothy Blyskal, al suo primo script per un lungometraggio vero e proprio, si regge a stento, è scarna, abbastanza piatta, senza grossi sussulti, roba che avrebbe potuto scrivere chiunque dopo la prima ora…

E la scena dell’attentato è così “sbrigativa”, affrettata, di breve durata, istantanea. Allora dite che non c’è pathos, che non si respira la tensione della classica, scandita suspense distillata di sapiente dosaggio. Ma se Eastwood l’avesse inutilmente dilatata con digressioni superflue o l’avesse spettacolarizzata secondo, questi sì, programmatici standard hollywoodiani, allo stesso modo l’avreste denigrato/a.

Gira questa scena quasi come io l’avrei filmata con la mia videocamerina Sony, ed è impalpabile la fotografia consueta di Tom Stern. Un docudrama che però non è una fiction né un video da telegiornale.

Un film secco, asciutto, senza retorica, diretto, brusco, lapidario.

Eastwood fa Cinema che si fa metacinema, che si fa cronaca spietata, senza epica, e allora richiama Hollande per rievocare la celebrazione che fu, e quindi è ancora, degli eroi americani. Dei suoi boys, dei suoi coglioncelli, di vite banalissime e quasi patetiche che hanno vissuto attimi di terrore straordinario, che hanno agito d’istinto, perché addestrati così, abituati a non pensare troppo, a prendere una scelta senza ponderarla, perché non c’era tempo, perché il loro DNA, quella loro vocina del cuore, li ha obbligati per loro natura a fare qualcosa di anormale e fuori dall’ordinario. Perché così hanno riscattato le umiliazioni subite fin dai tempi della scuola, il loro essere persone mediocri, come quasi tutti.

Sì, il film è sbagliato, qualcosa non va, non sappiamo con esattezza cosa ci sia di storto invero, forse perché da Eastwood il “serio” non ci aspettavamo la goliardata piccantina all’ostello, non pensavamo che un uomo maturo grande e grosso volesse “perdere” tempo con dei ragazzotti cresciuti a pane, religione e disciplina cazzuta e stronza.

Ma lasciamo stare le ideologie, per carità. Eastwood non è politicizzabile, che poi abbia votato Trump e appartenga da sempre al Partito Repubblicano non credo interessi al suo essere uno storyteller.

Incorrotto, schietto e leale coi suoi spettatori, senza prenderli in giro con sciocche furbizie e ricattatorie ruffianerie.

di Stefano Falotico

 

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