First Man – Il primo uomo, recensione
Ebbene, recensiamo First Man di Damien Chazelle. Il quale dopo il suo scoppiettante ma controverso Whiplash e l’osannato La La Land, per cui ha vinto l’Oscar come miglior regista, alla sua quarta opera (teniamo conto anche di Guy and Madeline on a Park Bench), indubbiamente molto attesa, aveva non poco scontentato quasi tutti sin dalla primissima visione al Festival di Venezia del 2018, ove questa pellicola è stata accolta da pareri assai discordanti.
Doveva essere uno dei titoli di punta dell’anno e, sulla carta, nessuno aveva dubbi che sarebbe entrato, nelle maggiori categorie agli Academy Awards. Invece, pur essendo largamente apprezzato dall’intellighenzia statunitense, assai meno dalla nostra, è stato il flop per eccellenza, a livello di onorificenze, diciamo, di questa stagione.
Vincendo solamente l’Oscar per i migliori effetti speciali.
First Man è un film della corposa durata di due ore e ventuno minuti, sceneggiato da Josh Singer, writer di The Post e oscarizzato per la sceneggiatura de Il caso Spotlight.
Che, pur concedendosi molte libertà, ha adattato il libro-biografia First Man: The Life of Neil A. Armstrong di James R. Hansen.
Basata sulla storia, soprattutto intima e personale, del primo uomo ad aver messo piede sulla Luna, ovvero il celeberrimo Neil Armstrong, appunto. Interpretato con sobria misura e intensa, funzionale, al solito proverbiale mono-espressività qua però efficacissima da un ottimo Ryan Gosling. In una delle sue prove recitative veramente più mature, una performance emotivamente perfetta, senza sbavature.
Dopo un incipit al cardiopalma ove Armstrong dimostra, con grande sangue freddo, di essere un collaudato pilota per la sua glaciale, anfibia calma olimpica nelle situazioni più rischiose e mortali, veniamo immersi profondamente nel suo toccante dramma privato.
Cioè la tragica morte della figlia, afflitta da un inesorabile male incurabile e impietoso.
Armstrong è un pilota della NASA che comunque non intende rinunciare al suo imperiale sogno, anzi, la tragedia occorsagli gli è paradossalmente da inaudito propulsore speranzosamente vitalistico nell’illuderlo che, dopo la morte di sua figlia, la sua vita possa avere ancora un senso prezioso. Questo sogno che brilla opacamente abbagliante nei turgidi crepuscoli della sua anima annerita eppur giammai spentasi, un simbolico sogno chimerico da caldeggiare, respirare nelle vene proprie più metafisiche, un sogno inafferrabile da suggellare per superare il suo comunque irreversibile trauma incancellabile tanto irreparabilmente doloroso sino a prosciugarlo infinitamente nei suoi meandri sanguigni, fino a deturparlo e congelarlo in una maschera luttuosa apparentemente impassibile dinanzi all’abissale cupezza della tragedia esistenziale sua più visceralmente inestirpabile.
Un sogno lontano ma così vicino che pare di toccarlo, in cui gettarsi anima e corpo per accecare di nitida, miracolistica luce la sua umana notte oramai interminabilmente oscuratasi.
E allora viene scelto, grazie alla sua indomita intraprendenza e al suo monumentale coraggio, per essere il protagonista della prima, storica missione lunare prodigiosa.
Dopo la morte della figlia, Armstrong si è chiuso spaventosamente nell’animo, s’è ottenebrato e malinconicamente illanguidito nel buio più atroce e non riesce più a stabilire un autentico, slanciato contatto con la moglie Janet (un’emozionante Claire Foy).
E sua moglie, in silenzio, trepiderà per l’impresa leggendaria di suo marito. Cosciente che la lunatica, è il caso di dirlo, stranezza misteriosa che lo angoscia e il suo maestoso, squillante sogno simboleggiano la speranza ancor desta di una vita loro per sempre spezzata. Ma non ancora, forse, finita.
Sì, First Man non è tanto un film sul primo uomo sulla Luna, bensì un film sulla speranza, l’altra faccia della medaglia del nolaniano Interstellar.
È il viaggio interiore di un uomo che pare recitare nel suo cuore, così come appunto il saggio Michael Caine del succitato film di Nolan, la poesia Non andartene docile in quella buona notte di Dylan Thomas.
Un film ove la raffinata regia anti-spettacolare di Chazelle illumina di melanconica grazia, avvalendosi della bella fotografia di Linus Sandgren, le trattenute emozioni sottopelle di un uomo nel dying of the light.
di Stefano Falotico