OSCAR 2023, tutti i vincitori!
From Deadline.
BEST PICTURE
Everything Everywhere All at Once (A24)
A Hot Dog Hands Production
Daniel Kwan, Daniel Scheinert and Jonathan Wang, Producers
ACTRESS IN A LEADING ROLE
Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once
(A24)
ACTOR IN A LEADING ROLE
Brendan Fraser in The Whale
(A24)
DIRECTING
Daniel Kwan & Daniel Scheinert
Everything Everywhere All at Once (A24)
FILM EDITING
Everything Everywhere All at Once (A24)
Paul Rogers
MUSIC (ORIGINAL SONG)
Naatu Naatu from RRR
(Variance Films/Sarigama Cinemas)
Music by M.M. Keeravaani Lyric by Chandrabose
SOUND
Top Gun: Maverick (Paramount)
Mark Weingarten, James H. Mather, Al Nelson, Chris Burdon and Mark Taylor
WRITING (ADAPTED SCREENPLAY)
Women Talking (Orion Pictures/United Artists Releasing)
Screenplay by Sarah Polley
WRITING (ORIGINAL SCREENPLAY)
Everything Everywhere All at Once (A24)
Written by Daniel Kwan & Daniel Scheinert
VISUAL EFFECTS
Avatar: The Way of Water (Walt Disney)
Joe Letteri, Richard Baneham, Eric Saindon and Daniel Barrett
MUSIC (ORIGINAL SCORE)
All Quiet on the Western Front (Netflix)
Volker Bertelmann
PRODUCTION DESIGN
All Quiet on the Western Front
(Netflix)
Production Design: Christian M. Goldbeck
Set Decoration: Ernestine Hipper
ANIMATED SHORT FILM
The Boy, the Mole, the Fox and the Horse (BBC and Apple Original Films)
A NoneMore and Bad Robot Production
Charlie Mackesy and Matthew Freud
DOCUMENTARY SHORT FILM
The Elephant Whisperers (Netflix)
A Netflix Documentary/Sikhya Entertainment Production
Kartiki Gonsalves and Guneet Monga
INTERNATIONAL FEATURE FILM
All Quiet on the Western Front (Germany)
A Netflix/Amusement Park Film in co-production with Gunpowder Films in association with Sliding Down Rainbows Entertainment/Anima Pictures Production
COSTUME DESIGN
Black Panther: Wakanda Forever (Walt Disney)
Ruth Carter
MAKEUP AND HAIRSTYLING
The Whale (A24)
Adrien Morot, Judy Chin and Anne Marie Bradley
CINEMATOGRAPHY
All Quiet on the Western Front (Netflix)
James Friend
LIVE ACTION SHORT FILM
An Irish Goodbye (Network Ireland Television)
A Floodlight Pictures Production
Tom Berkeley and Ross White
DOCUMENTARY FEATURE FILM
Navalny (Warner Bros./CNN Films/HBO Max)
A Fishbowl Films/RaeFilm Studios/Cottage M Production
Daniel Roher, Odessa Rae, Diane Becker, Melanie Miller and Shane Boris
ACTRESS IN A SUPPORTING ROLE
Jamie Lee Curtis in Everything Everywhere All at Once
(A24)
ACTOR IN A SUPPORTING ROLE
Ke Huy Quan in Everything Everywhere All at Once
(A24)
ANIMATED FEATURE FILM
Guillermo del Toro’s Pinocchio
(Netflix)
Guillermo del Toro, Mark Gustafson, Gary Ungar and Alex Bulkley
LA STRANEZZA, recensione
Ebbene, oggi recensiremo un bel film italiano, ahinoi, passato abbastanza inosservato, ovvero La stranezza, firmato dal rinomato e valente regista Roberto Andò (Il manoscritto del principe).
Qui, al suo nono e, aggiungiamo, miglior opus senz’ombra di dubbio. In quanto, così come nelle prossime righe enunceremo, brevemente ma esaustivamente disaminandolo, La stranezza ci è parso un film compatto e sorprendentemente anomalo nel desertico e asfittico panorama cinematografico italiano, quest’ultimo incapace purtroppo, se non da tempo immemorabile, perlomeno da molti anni a questa parte, di proporci, salvo rarissime eccezioni, intriganti vicende originali e sapientemente congegnate con acume registico e leggiadra leggerezza. Film opachi, le cui noiose storie, quasi obbligatoriamente e pedantemente, in forma nauseante, si sposano sempre e spesso sterilmente con trame e intrecci melodrammatici e/o soltanto tragici.
La stranezza, pellicola della godibile durata giammai noiosa di 103 minuti, scritta dallo stesso Andò assieme ad Ugo Chiti & Massimo Gaudioso, è un piacevole e sorprendente, positivamente atipico e genialmente anacronistico dramedy che mescola, con brio ed arguzia, segmenti seriosi ad altri più svagati e perfino esilaranti.
Sintetizzandovene al massimo la vicenda narratavi, al fine di non sciuparvene le sorprese e i sensazionali colpi di scena distillatici, eccovene in pochissime righe la sua sinossi:
Il famoso scrittore e celeberrimo drammaturgo Luigi Pirandello (un ottimo Toni Servillo), residente a Roma, trovandosi poi in quel della Sicilia per un momentaneo soggiorno, incappa nella bislacca eppur proficua e inaspettatamente rivelatoria conoscenza di due simpatici, strepitosi attori dilettanti, vale a dire Sebastiano Vella e Onofrio Principato, incarnati dalla coppia formata da Ficarra e Picone, i quali sono alle prese con le prove del loro nuovo spettacolo. Saranno quindi invitati, in forma specialissima, alla prima pirandelliana, giustappunto, di Sei personaggi in cerca d’autore ad opera del futuro, immediato premio Nobel per la Letteratura?
Ne succederanno delle belle, potete scommettervi.
Servillo, ivi non gigioneggiando troppo e rimanendo invece gustosamente misurato e con la sordina, primeggia e al solito stupisce nella sua immedesimazione del nazionale Pirandello storico, non da meno, anzi, sovente a rubargli scena, è la premiata ditta Ficarra/Picone succitata. Cioè, i veri protagonisti di questa strampalata e al contempo sofisticata commedia dolceamara, sottotitolata in molti punti in dialetto per via della stretta parlata vernacolare, capaci di sorprenderci e spiazzarci fra il serio e il faceto, cimentandosi rispettivamente in performance sia divertite che sentite. Al loro fianco, tutta una lodevole galleria d’altri attori altrettanto efficaci, navigati e di richiamo che cesellano, a loro volta, i personaggi da lor interpretati, con pittoresco istrionismo e bravura impeccabile. Fra cui, sono da menzionare Giulia Andò nei panni di Santina, l’apparizione fulminea della fotogenica Donatella Finocchiaro in quelli di Maria Antonietta, la moglie pazza di Pirandello, Renato Carpentieri, Galatea Ranzi, Aurora Quattrocchi, Filippo Luna, Paolo Briguglia, Fausto Russo Alesi, Rosario Lisma, Brando Improta (accreditato come Ildebrando), Tuccio Musumeci e Luigi Lo Cascio. Cammeo della stupenda Tiziana Lodato dell’indimenticato L’uomo delle stelle.
La stranezza, sia chiaro, non è un capolavoro e forse neppure un film indimenticabile ma funziona alla grande e si lascia vedere con estremo piacere, sbagliando pochissimo.
Da citare, inoltre, la perfetta, suggestiva e assai funzionale fotografia del veterano Maurizio Calvesi che, con questo lavoro, ha firmato il suo film numero centouno in veste di cinematographer di pregio.
Ragioni plausibili per non vederlo, in effetti, non esistono ma comprendiamo che le lunghe parti in dialetto potrebbero renderne la visione ostica.
di Stefano Falotico
UN UOMO SOPRA LA LEGGE (The Marksman), recensione
Ebbene, oggi per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, non ci spingeremo molto in là, a ritroso cioè nel tempo, parlandovi infatti d’un film non malvagio, uscito nei cinema soltanto due anni or sono, ovvero The Marskman. Questo il suo titolo originale, da noi divenuto Un uomo sopra la legge.
Diretto da Robert Lorenz, per più d’una decade, l’ex direttore della fotografia di Clint Eastwood (suoi i lavori, per esempio, in Mystic River & Gran Torino), col quale lavorò, con Clint in veste però attoriale, per il suo esordio registico dietro la macchina da presa, ovverosia Di nuovo in gioco.
Qui, Lorenz, al suo secondo opus dopo quello appena succitato, si trova alle prese, sotto la sua direzione, con un altro pezzo da novanta dello star system hollywoodiano, ovvero nientepopodimeno che il coriaceo, sempre prestante e sempiterno, immarcescibile ed eccellente, britannico Liam Neeson (La preda perfetta). Il quale, in tale Un uomo sopra la legge, film action con crepuscolari tonalità thrilling della consistente ma avvincente durata corposa di 108 minuti netti, scritto dallo stesso Lorenz assieme alla premiata ditta formata da Chris Charles & Danny Kravitz, incarna il personaggio di nome Jim Hanson. Ex cecchino mirabile e infallibile, in passato appartenente al corpo dei marines, ritiratosi a vita privata nel suo ranch solitario situato vicino alla linea di confine demarcante il Messico dall’Arziona. Jim, or allevatore, disilluso e affranto per la recente perdita della moglie, rischia perfino di essere sfrattato. Così, per smaltire le disillusioni esistenziali, si dà sconsolatamente al bere ma, vivaddio, viene sempre tirato su di morale dall’affettuosa e bellissima sua figlia (la magnetica Katheryn Winnick). Sino a che, un bel giorno, incappa, per fortuite circostanze del fato, in un avvenimento che gli cambierà la vita. Si troverà, giocoforza, costretto ad aiutare un bambino, Miguel (Jacob Perez), che sta sfuggendo a dei pericolosi narcotrafficanti. Divenendone il protettore e il vendicatore…
Ottima fotografia suggestiva di Mark Patten ed efficaci musiche d’atmosfera di Sean Callery, recitazione rocciosa e sentita dell’impeccabile e perfetto Neeson per un film d’azione perlopiù ambientato in ore diurne altamente solari e torride, mescolate poi a sapide riprese notturne diluite fra rosseggianti tramonti dell’imbrunire più dolcemente melanconico, Un uomo sopra la legge è un film dalla trama e dall’andamento narrativo piuttosto convenzionali, non proponendoci niente di trascendentale o memorabile. Come si suol dire, giocando di parole, non v’è nulla di nuovo sotto il sole. Eppur regge la tensione delle sue 2h circa in virtù del suo forte ritmo e di grintose scene ad alto tasso di pura adrenalina furente.
Spesso sbanda e, a tratti, risulta noioso. Ma, sostanzialmente, funziona.
Paragonabile, per certi versi e involontarie analogie, a Cry Macho di Clint Eastwood, in quanto distribuiti quasi in contemporanea, fra i suoi pregi maggiori, ribadiamo, un Neeson laconico ma espressivo come pochi, e nitide immagini ritmate e ben fotografate. Il suo difetto più evidente, purtroppo, consiste nel poco empatico Jacob Perez.
Nel cast, Juan Pablo Raba e Teresa Ruiz.
di Stefano Falotico
HONEST THIEF, recensione
Ebbene, oggi per il nostro consueto e regolare appuntamento coi Racconti di Cinema, disamineremo un film recentissimo, non certamente eccelso eppur al contempo assai interessante, a nostro avviso passato leggermente inosservato, ovvero Honest Thief, il cui titolo originale è identico e, per l’appunto, per la distribuzione italiana, avvenuta tramite Notorious Pictures, rimasto immutato.
Honest Thief, uscito nei cinema soltanto tre anni or sono, ovverosia nel 2020, è un decoroso e spericolato thriller poliziesco, ripieno di suspense, della breve ma adrenalinica e scoppiettante durata netta di novantanove minuti, diretto con robusto mestiere dal misconosciuto ma valente Mark Williams che ne scrisse la sceneggiatura originale assieme allo screenwriter Steve Allrich.
Eccone, sinteticamente, la trama:
Tom Dolan (Liam Neeson) è un ladro tanto infallibile quanto dal cuore tenero. Un gaglioffo dall’anima pura che, per le avverse circostanze del caso e della necessità, svaligiò molte banche, accumulando in totale, tra un furto e l’altro, l’ingente somma di nove milioni di dollari.
Nell’incipit di quest’opus convenzionale ma rocambolesco, perfettamente allineato agli stilemi consueti del Cinema più hollywoodiano di genere, assistiamo al primo incontro fatale tra Tom e la sua futura compagna, l’avvenente e simpatica Annie (Kate Walsh). Al che, Tom, innamoratosene perdutamente, oramai braccato e da tempo immemorabile ricercato dall’FBI, finalmente e segretamente decide di cambiare vita, costituendosi alla giustizia, confessando i suoi crimini nella speranza che, così facendo, cioè restituendo il maltolto a chi dovere, potrà ricevere un’incarcerazione umanamente accettabile e una condanna minima in modo tale da potersi quanto prima ricongiungere con la sua amatissima Annie. Qualcosa, però, forse non andrà secondo il suo studiato e meticoloso piano e un agente corrotto di nome John Nivens (Jai Courtney), indebitamente, s’approprierà della sua refurtiva, tradendo gli accordi e cacciando Tom in una situazione altamente rischiosa e compromettente.
Imprevedibile, dal ritmo rutilante e spiazzante, impostato su un canovaccio manicheo abbastanza scontato eppur non del tutto banale, Honest Thief appassiona dal primo all’ultimo minuto e sia diverte e stupisce che avvince per via della sua trama bislacca spesso ai limiti dell’inverosimile, miscelataci e distillata però con brio, arguzia narrativa e speditezza gustosissima.
Honest Thief parte come una commedia rosa, perfino sdolcinata e mielosamente romantica, per poi accelerare in una pochade peculiare, a tratti esilarante, divampando all’improvviso nel carburar turbinosamente in un esplosivo action che mischia frenetiche scene d’inseguimento automobilistiche a colpi di scena nient’affatto, come si suol dire, telefonati.
Sorretto dalla rocciosa interpretazione del sempre carismatico Neeson, illuminato dalla bellezza atipica ma fascinosa della brava Walsh, ben fotografato da Shelly Johnson (Wolfman), Honest Thief non è, ribadiamo, nulla di che ma si lascia guardare che è un piacere ed è molto scorrevole, ottimamente ritmato, orchestrato e ingegnosamente filmato.
Nel cast, Jeffrey Donovan (Changeling), Anthony Ramos & Robert Patrick (Cop Land, Terminator 2).
di Stefano Falotico
BUSSANO ALLA PORTA (Knock at the Cabin), recensione
Ebbene, essendo in tal sede, stavolta, sganciato da vincoli editoriali, posso scrivere di questo film in totale libertà senz’attenermi dunque a esigenze standard in chiave SEO. Anche se debbo confessarvi la verità, cari invidiosi e maligni, solitamente mi attengo sol a me stesso, recensendo secondo il mio unico stile peculiare. Apprezzato o ingiuriato, ridondante e/o eccessivo, odiato che sia, mal oliato, illeggibile o piacevole da leggere, non è la mia una scrittura leggera. Ah ah.
Andiamo avanti!
Finalmente, a scoppio ritardato, come si suol dire, essendo io peraltro un conclamato ritardat(ari)o, appunto, no, scusate, forse semplicemente uno poco inizialmente interessato a tal film di M. Night Shyamalan, vidi tale suo nuovo opus. Da molti osannato, incensato, glorificato, forse sopravvalutato e fin troppo ingiustificatamente magnificato. Eh già, oltremodo. Poiché, a conti fatti, mi ha deluso, perlomeno parzialmente. Sì, è “carino”, si lascia vedere volentieri ma sostanzialmente non è un granché, eh eh. Shyamalan ha fatto decisamente (di) meglio anche se, in buona fede, credo nell’Altissimo? No, penso fermamente che non realizzerà mai un capolavoro in quanto, pur riconoscendogli di essere resuscitato da cineasta redivivo dopo essersi, professionalmente, seppellito vivo, in seguito ad alcuni suoi kolossal mal riusciti e conseguenti sonori flop colossali, sono convinto che il suo Cinema non ascenderà mai in paradiso e non andrà al di là… d’una certa mediocrità. Perdonatemi affinché possa io ricevere la salvazione eterna, no, padrone dell’universo, Padreterno, no, pardon, mi spiego meglio affinché possiate concedermi una cristiana, miei poveri cristi, assoluzione, voi, fedelissimi, sì, aficionados inossidabili del regista di E venne il giorno per cui reputate Shyamalan un dio.
Ora, a parte gli scherzi (da prete?), tal Knock at the Cabin (questo il suo titolo originale), sceneggiato, come consuetudine, dallo stesso Shyamalan, stavolta assieme a Steve Desmond & Michael Sherman, è il libero adattamento del romanzo di Paul G. Tremblay, intitolato The Cabin at the End of the World e da noi edito col “title”, eh eh, La casa alla fine del mondo.
Per quanto concerne la trama cinematografica, beccatevi questo link da Wikipedia e, dato, ripeto, che ivi non debbo usare parole mie, leggetevela, se volete, in tutta la sua interezza. Se incorrerete in qualche spoiler, altresì sappiate che possedete il libero arbitrio. Dunque, non accusatemi di essere Satana se ciò qui vi dico… il personaggio di Jonathan Groff, alla fine, si suicida:
https://it.wikipedia.org/wiki/Bussano_alla_porta
D’altronde, Keyser Söze, alias Kevin Spacey de I soliti sospetti, è il diavolo e io non sono un santo, ah ah.
Mentre Shyamalan la dovrebbe finire di realizzare film col climax–twist finale da paraculo che, spacciandosi per geniale, sceglie, così facendo, paradossalmente le strade più scontate e (b)anali.
Dave Bautista sorprende ma so da tempo immemorabile che era bravo. A differenza di voi, miscredenti e come San Tommaso. Groff è altrettanto ottimo e, parimenti a quanto appena sopra dettovi, anche questo sapevo dopo averlo visto in Mindhunter. Stesso discorso dicasi per Eric Bana. Ah no, perdonatemi ancora. Volevo dire e scrivere Ben Aldridge, cioè il fratello zotico, no, Falotico, no, monozigotico, omozigoto, di Ettore in Troy. Non capisco però perché Bana e Aldridge non portino lo stesso cognome. Ah, ora capisco. Il primo, cioè Eric, è muscoloso come Brad Pitt/Achilles (latinizzato e in english) mentre il secondo ha, come “figo”, no, figurativamente parlando, più talloni di Achille. Essendo fisicamente un po’ meno dotato. Comunque, la formula di Shyamalan è sempre la stessa e la CGI degli aerei che si schiantano al suolo, purtroppo, pessima. Ma sorvoliamo…
La migliore del cast è la bimba Kristen Cui. Nikki Amuka-Bird assomiglia alla pallavolista, dapprima ritiratasi e ora ritornata anche in Nazionale, Paola Egonu, mentre Rupert Grint è antipatico e non ha molta recitativa grinta.
di Stefano Falotico
LA PROMESSA (The Pledge), recensione
Ebbene, oggi disamineremo il bellissimo ed inquietante La promessa (The Pledge).
La promessa, pellicola del 2001, della consistente ma avvincente durata di due ore e quattro minuti netti, opus n. 3 (perlomeno in termini prettamente inerenti un lungometraggio per il grande schermo) di Sean Penn regista (Una vita in fuga), dopo il magnifico Lupo solitario e l’altrettanto notevole, sebbene assai sottovalutato ai tempi della sua uscita, Tre giorni per la verità. Tale film da noi preso in questione, liberamente adattato da Jerzy & Mary Olson-Kromolowski a partire dal celeberrimo romanzo omonimo di Friedrich Dürrenmatt, vede come protagonista principale uno strepitoso Jack Nicholson, qui alla sua seconda prova attoriale, dopo il succitato e appena sopra menzionatovi film, per la direzione del suo amico Penn. La promessa rimane, a tutt’oggi, a nostro avviso, la migliore opera in assoluto nel cineastico carnet filmografico del discontinuo e altalenante, eppur sempre interessante, Penn in veste di regista. Non siamo, peraltro, i soli a reputarlo il film più riuscito di Penn director. Infatti, è pressoché parere unanime, avvalorato inoltre dall’ottima media lusinghiera attestata dal sito aggregatore di opinioni recensorie, metacritic.com, equivalente al più che soddisfacente 71% di pareri positivi, a pensarla in questo modo.
Trama, brevemente enunciatavi per non sciuparvi le sorprese se siete fra coloro che non hanno mai visto questo film:
Il coriaceo e arrugginito, invecchiato e stanco, eppur al contempo ancora lucido e molto intuitivo poliziotto Jack Black (Nicholson), in quel delle aspre e brulle montagne nevose del Nevada, sta indagando in merito a un misterioso, brutale assassino di una bambina. Dapprima, la polizia del luogo sospetta di Toby Jay Wadenah (Benicio Del Toro), pellerossa menomato che, colto dal panico, accerchiato psicologicamente dai duri e inquisitivi interrogatori impietosi degli sbirri, finisce con l’autoaccusarsi, poi tragicamente suicidandosi. Jack fu l’unico dei poliziotti a pensare, fin dapprincipio, che Toby non fosse il responsabile del barbaro massacro compiuto ai danni della povera infante. Ma non fu ascoltato dai suoi colleghi, innanzitutto dal suo capo. Convinto che l’omicida vero, probabilmente seriale, sia ancora a piede libero, sicuro che il mostro colpirà ancora terribilmente, forse immantinente, se ne mette sulle tracce. Girovagando col suo fuoristrada e giungendo a un’amena località ove conosce la barista Lori (Robin Wright, all’epoca moglie di Penn), avvenente e matura, sebbene molto più giovane di lui e con una figlia pressoché della stessa età della bimba uccisa sopra dettavi. Jack e Lori s’innamorano l’uno dell’altro. Jack, ripetiamo, fidandosi del suo fiuto, a suo avviso infallibile, agendo cocciutamente di testa propria, forse userà però la figlia di Lori a mo’ di esca per acchiappare il serial killer che, secondo lui, indisturbato e impunito, s’aggira da quelle parti. Come andrà a finire, in maniera terribile e scioccante? Il killer sarà catturato oppure accadrà qualcosa d’agghiacciante e nefasto? Qualcosa andrà storto e qualcuno andrà incontro, irreversibilmente, al più totale impazzimento devastante per colpa d’una mossa tanto rischiosa e coraggiosa quanto letale?
Teso, perturbante, un indimenticabile pugno allo stomaco, raschiante, metaforicamente, le nostre viscere emotive più profonde in maniera lancinante e struggente, La promessa è feroce e stupendo, la sua macabra e allo stesso tempo romantica vicenda cupa ci appassiona e tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto, immergendoci fra le nere spirali d’una detection abissale, specialmente sul versante puramente angosciante. Penn dirige con rara sobrietà, perdendosi soltanto, qua e là, in svolazzi registici troppo melodrammatici e caricati d’eccessiva enfasi non sempre ben bilanciata.
Cast straordinario ove, se il titano Nicholson giganteggia da par suo, non da meno gli sono gli altri numerosi interpreti che vanno da Patricia Clarkson ad Aaron Eckhart e Tom Noonan, da Helen Mirren a Dale Dickey (Wash Me in the River), dal memorabile e commovente cammeo di Mickey Rourke a Sam Shepard, dal compianto Harry Dean Stanton a Vanessa Redgrave.
Fotografia impeccabile di Chris Menges e belle musiche di Klaus Badelt & Hans Zimmer.
di Stefano Falotico
IL MOMENTO DI UCCIDERE (A Time to Kill), recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo, giungendo ai nineties, cioè a metà anni novanta, recensendo Il momento di uccidere (A Time to Kill), opus firmato dal compianto Joel Schumacher (Ragazzi perduti, 8MM).
Film del ’96 della corposa, forse prolissa ed eccessiva, durata di due ore e ventisei minuti precisi, Il momento di uccidere fu sceneggiato dal premio Oscar Akiva Goldsman (A Beautiful Mind), già in precedenza collaboratore e screenwriter per Schumacher. Che, sommariamente e con non poche licenze, adattò per il grande schermo un famoso e apprezzato libro del maestro per antonomasia dei legal thriller, ovvero John Grisham. Che, con la sua omonima novella, peraltro, esordì in campo letterario.
Schumacher, dopo Il cliente, anche quest’ultimo tratto da un libro del celeberrimo e appena succitato esperto di aule di tribunale in ambito soprattutto “editoriale”, già numerosissime volte trasposto per svariate e altrettanto celebri riduzioni cinematografiche (L’uomo della pioggia, Il socio, La giuria), dunque si cimentò nuovamente con una contorta e leguleia vicenda processuale ad alto tasso adrenalinico, ripiena di spiazzanti ed emozionanti colpi di scena inaspettati, vividamente intrisa di forte pathos e suspense in abbondanza, perfino ricolma d’estenuante retorica esagerata e di pesante didascalismo manicheo ai limiti del presentabile, così come, d’altronde e pertinentemente, enunceremo e più avanti spiegheremo, fornendovene maggiori e più certosini dettagli recensori ed esegetici delineativi, speriamo, con meticolosità inappuntabile. Detto ciò, altresì premettiamo che Il momento di uccidere, sebbene all’epoca fu perlopiù ampiamente stroncato da molta intellighenzia critica, soprattutto nostrana, non è disprezzabile come i più dissero e, pur di certo non brillando in originalità e gravemente difettando sotto molti aspetti, specialmente per quanto concerne la sua scrittura, sovente prevedibile e schematica, rivisto oggi, con più oculatezza e misuratezza, possiede parimenti molti momenti apprezzabili e decisamente degni di nota.
Trascrivendovi, sottostante, la sinossi da IMDb, in tal caso corretta e non necessitante d’ulteriori spiegazioni superflue, eccovene giustappunto la sintetizzata e riportata trama:
A Canton, un impavido giovane avvocato e il suo assistente difendono un uomo di colore accusato di aver ucciso due uomini bianchi che hanno stuprato sua figlia di dieci anni, incitando alla violenza e alla rivincita del Ku Klux Klan.
L’uomo nero si chiama Carl Lee Hailey e, a prescindere dall’opinabile valore qualitativo di tal pellicola ivi disaminata, è interpretato con indubbia bravura dal solito eccellente Samuel L. Jackson che, per questa sua accalorata interpretazione assai sentita, fu giustamente candidato ai Golden Globes come miglior attore non protagonista, mentre il suo avvocato difensore, giovane, ambizioso e coriaceo, volitivo, spregiudicato e inarrendevole, è incarnato con altrettanta vigoria recitativa da un ottimo Matthew McConaughey. Il quale, sebbene a volte incerto, ancora un po’ acerbo, dunque qua e là imbambolato e leggermente spaesato, impacciato all’inizio, impomatato e incravattato, spesso esibente compiaciute pose da piacione, impeccabilmente fotogenico, sfodera al contempo una sorprendente grinta, in molti frangenti, appassionata e trascinante.
Non da meno, rispetto ai due citati interpreti principali, è il ricchissimo parterre attoriale perfettamente diretto e orchestrato da Schumacher, fra cui spicca, come consuetudine, un viscido Kevin Spacey, la bella Sandra Bullock nei panni della studentessa che aiuta il character di McConaughey nelle indagini, l’apparizione folgorante di Ashley Judd, Octavia Spencer, Oliver Platt (antica conoscenza di Schumacher dai tempi di Linea mortale), Charles S. Dutton, Brenda Fricker, Patrick McGoohan, Chris Cooper, e la ben assortita accoppiata padre e figlio, costituita da Donald e Kiefer Sutherland (habitué ed ex carissimo amico e attore tra i preferiti di Schumacher), stavolta schierata su fronti opposti.
Confezione, come si suol dire, di lusso e perfetta sul piano formale, con egregia fotografia di Peter Menzies Jr., musiche, un po’ pompose, di Elliot Goldenthal per un film accusato, come spesso avvenne per le pellicole schumacheriane, di giustizialismo dei più ipocritamente ambigui e malsanamente reazionari.
A ben vedere, però, trascurandone l’impianto, in effetti e come già dettovi, insopportabilmente retorico in troppi passaggi, compreso il climax finale che ovviamente non vi sveleremo se siete fra coloro che non hanno ancora mai visto questo film, Il momento di uccidere, pur ascrivendosi fra le pellicole hollywoodiane dal canovaccio abbastanza scontato, pur essendo costruito secondo il classico stilema “mainstream” dei più abusati e convenzionali (gli statunitensi definiscono film così con l’espressione formulaic), malgrado molte battute e botte e risposte telefonate, avvince ed emoziona, tenendoci col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto.
Merito d’una regia estremamente professionale e accorta che, pur non essendo trascendentale e, ripetiamo, non mostrandoci nulla di particolarmente originale e/o innovativo, con apprezzabile mestiere consolidato sa reggere il ritmo narrativo con cineastica esperienza, se non impari, perlomeno non trascurabile.
Allorché, Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, definì banalmente Il momento di uccidere un mega-polpettone amatoriale forcaiolo, superficialmente snobbando la prova di McConaughey, descrivendola in questi sbrigativi termini poco lusinghieri, ovvero un protagonista preoccupato solamente di assomigliare ora a Paul Newman ora a Marlon Brando, per cui lo liquidò e classificò come attore mediocre, Mereghetti fu precipitoso oltremodo e in maniera poco avveduta. Infatti, il tempo, tanto inesorabilmente impietoso quanto meno affrettatamente sentenzioso di Mereghetti e più equo, fortunatamente generoso e rivelatorio, come sappiamo, decretò l’oramai inappellabile verdetto finale secondo cui, il bistrattato e per troppo tempo ingiustamente sottovalutato McConaughey, dopo le sue strepitose performance superlative, specialmente in Dallas Buyers Club & True Detective, non doveva e non può mai più essere preso sotto gamba in maniera così ingrata e stoltamente disarmante.
Infine, per concludere, aggiungiamo la seguente curiosità, crediamo, molto interessante: l’attore Anthony Heald, dopo essere stato lo psichiatra Dr. Frederick Chilton ne Il silenzio degli innocenti, qui interpreta un similare ruolo pressoché uguale, cioè il direttore psichiatrico di un manicomio chiamato a testimoniare alla sbarra in merito a una presunta e forse erronea, mal diagnosticata infermità mentale…
di Stefano Falotico
VOGLIA di VINCERE (Teen Wolf), recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto, ci auguriamo vivamente apprezzato appuntamento coi Racconti di Cinema, brevemente disamineremo un film ai più misconosciuto, soprattutto alle nuove generazioni, ovvero Voglia di vincere (Teen Wolf), teen movie, cioè una commedia adatta specialmente a un pubblico adolescenziale.
Pellicola dell’85, diretta da Rod Daniel, dalla forte matrice peculiarmente horror e citazionistica, mescolamento farsesco e commistione di generi dei più svariati.
A tratti, perfino un’arguta, sebbene innocua e futile, sapida, brillante miscela di racconto di formazione e fantastico all’insegna della giovanile ribellione sui generis per fuggire dalla forca caudina e dalle tristi tenaglie tediose, schiavizzanti del mondo adulto, sovente opprimente e soffocante i più vividi aneliti libertari.
Ne è interprete principale un quasi irriconoscibile Michael J. Fox che girò tale Voglia di vincere poco prima di essere impegnato sul set del film che gli avrebbe dato l’eterna notorietà mondiale, ovvero Ritorno al futuro.
Voglia di vincere, della veloce e spassosa durata di novantuno minuti netti, sceneggiato dal duo formato da Joseph Loeb III & Matthew Weisman.
Eccone sinteticamente la trama, da noi enunciatavi nei suoi tratti più salienti ed emblematici:
Il collegiale e mingherlino Marty Howard (J. Fox), spesso bullizzato dai suoi compagni di liceo per via della sua timidezza patologica, della sua imbranataggine e della sua gracilità fisica quasi debilitante, durante una sera di plenilunio, si trasforma spaventosamente in un licantropo. Già qualche giorno prima di tal avvenuta sua agghiacciante e incredibile metamorfosi scioccante, cominciò a maturare contezza d’inquietanti avvisaglie, poiché il suo corpo diede inspiegabili segnali di ciò che, come sopra dettovi, in esso avvenne poi in tutta la sua mostruosa interezza più elettrizzante…
Al che, dapprima terrificato, tenta in ogni modo di celare questo suo intimo e inconfessabile, macabro e orrifico segreto allucinante. Quindi, inesorabilmente viene scoperto dal padre di nome Harold (James Hampton). Il quale, con sommo stupore di Marty, confidenzialmente lo approccia, confidandogli che anche lui è affetto dall’inestirpabile, forse però prodigioso ed estremamente, paradossalmente benevolo e proficuo, morbo della licantropia più incurabile. Marty, infatti, anziché soffrire di questo suo “dono” dal carattere ereditario, all’apparenza aberrante, ne gioverà enormemente. In quanto diverrà un “mostro” di bravura del basket e un idolo emanante a pelle sex appeal bestiale, assurgendo prestissimo al ruolo, di certo non gradito, anzi, godibilissimo, di ragazzo più figo e corteggiato del luogo in virtù del suo animalesco ed irresistibile fascino bellissimo e belluino… Marty è però sol innamorato di Boof (Susan Ursitti)?
Film stupido e dall’intreccio tanto prevedibile quanto risibile, eppur, come già detto, divertente, che saccheggia a man bassa sia il mito della famiglia Talbot e dunque di Wolfman, che Frankenstein, Voglia di vincere, qua e là addirittura avvince. Sebbene, naturalmente, a dispetto d’Un Lupo mannaro americano a Londra di John Landis, uscito soltanto qualche anno prima e preso, in tal caso, sicuramente come modello d’ispirazione, n’è una scialba e decisamente poco riuscita imitazione che, a conti fatti, non funziona né come comedy né come film dell’orrore.
Michael J. Fox, però, è straordinariamente simpatico e bravo, malgrado per metà del film reciti coperto da un pesante trucco. Ed è grazie infatti alla sua energia interpretativa e alla sua scoppiettante verve carismaticamente contagiosa da precoce attore versatile che Voglia di vincere merita, tutto sommato, di essere citato, a prescindere dalla sua scarsa qualità, all’interno delle innumerevoli pellicole dedicate al mito dell’uomo lupo.
di Stefano Falotico
ABOUT my FATHER, Trailer with Sebastian Maniscalco & Robert De Niro
Sinossi originale:
The hottest comic in America, Sebastian Maniscalco joins forces with legendary Italian-American and two-time Oscar® winner, Robert De Niro (Best Actor, Raging Bull, 1980), in the new comedy ABOUT MY FATHER. The film centers around Sebastian (Maniscalco) who is encouraged by his fiancée (Leslie Bibb) to bring his immigrant, hairdresser father, Salvo (De Niro), to a weekend get-together with her super-rich and exceedingly eccentric family (Kim Cattrall, Anders Holm, Brett Dier, David Rasche). The weekend develops into what can only be described as a culture clash, leaving Sebastian and Salvo to discover that the great thing about family is everything about family. ABOUT MY FATHER is directed by Laura Terruso and written by Austen Earl & Sebastian Maniscalco.
LA ZONA MORTA (The Dead Zone), recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento con gli immancabili Racconti di Cinema, disamineremo uno dei grandi e imprescindibili opuses di David Cronenberg (Scanners, Crimes of the Future), cioè La zona morta (The Dead Zone).
Cronenberg, per i suoi aficionados, denominato Cronny. Reg
ista incommensurabile a cui, peraltro, senza falsa e inutile modestia, l’autore di tale recensione dedicò un importante saggio monografico dalla natura estremamente poetica e peculiare. Ma non spostiamo l’attenzione, utilizzando il plurale maiestatico, su scritti personali omaggianti il director di tanti capolavori inarrivabili, malgrado controversi e non unanimemente per tutti i gusti, ben intendiamoci. Torniamo al seguente, nelle righe seguenti, recensito e sanamente osannato, La zona morta. Film dell’83, della corposa ed avvincente, inquietante e perturbante durata di un’ora e quarantatré min. netti, La zona morta è un imprescindibile caposaldo all’interno del geniale e variegato excursus filmografico cronenberghiano ma, parimenti, rappresenta un unicum abbastanza anomalo e, a prima vista, superficiale, dissociato dalla sua filosofica poetica, spesso più soggettiva e legata al suo sguardo autoriale non a tutti immediatamente decriptabile. Sebbene superlativo, infatti, La zona morta è, perlomeno all’apparenza, uno dei film meno personali del regista de Il pasto nudo. In quanto, a prescindere dal suo altissimo valore qualitativo indiscutibile, peraltro giustamente attestato dalla lusinghiera media recensoria, riscontrata a tutt’oggi, sul famoso sito di critiche, metacritic.com., equivalente al più che soddisfacente e ottimo 69% di opinioni largamente positive, si differenzia profondamente da altre opere di Cronenberg, sovente contorte e narrativamente più bislacche ed ermetiche, per via della sua struttura assai classica e più facilmente comprensibile per chiunque. Magistralmente e sapientemente sceneggiato, con acutezza e leggerissime licenze poetiche e tematiche, dal valente e lungimirante Jeffrey Boam (Indiana Jones e l’ultima crociata, Salto nel buio) che liberamente adattò una celebre ed omonima novella di Stephen King, al quale fu proposto all’inizio di adattare lui lo stesso lo script, La zona morta è un commovente ed emotivamente straziante psicodramma toccante, con echi fortemente paranormali, ancestrali ed orrifici, indimenticabile e potente. Stando alla fin tropo concisa, assurdamente sbrigativa e decisamente poco esaustiva, immensamente approssimativa sinossi rilasciata da IMDb, La zona morta presenta questa scarnissima trama: Sottostante, testualmente riportatavi ma, rimarchiamo, veramente troppo esigua e fortemente generica: Un uomo si risveglia da un coma per scoprire di avere una capacità psichica.
L’uomo suddetto, docente di lettere, si chiama Johnny Smith ed è incarnato da un magnetico e strepitoso Christopher Walken in uno dei suoi ruoli più grandiosamente memorabili ed ipnotici. Johnny è promesso sposo alla sua eterna ed amatissima fidanzata Sarah (Brooke Adams). Dopo averla accompagnata a casa, di ritorno in macchina in direzione della sua abitazione, in una serata rigidamente invernale, viene tragicamente investito da un camion. Johnny cade in coma per lunghissimo tempo, per l’esattezza dieci anni. Improvvisamente, se ne ridesta ma, al suo inaspettato e miracoloso risveglio, s’accorge di possedere una particolare e soprattutto paranormale facoltà psichica tanto prodigiosa quanto per lui dolorosa. In quanto, gli basta entrar in fisico contatto col prossimo per leggerne il futuro. Nel frattempo, Sarah si è sposata e, di conseguenza, la vita affettiva di Johnny è stata frantumata. Johnny, affrantone, per di più trattato da fenomeno da baraccone ed emarginato dalla sua comunità a causa del suo dono tanto sorprendente quanto per gli altri inquietante, aiuta la polizia del luogo, in virtù della sua preveggenza, a scoprire un pericoloso omicida seriale. Dopo di che, Johnny conosce l’ambizioso candidato al Senato di nome Greg Stillson (un Martin Sheen sibillino e mefistofelico), futuro Presidente degli Stati Uniti d’America. Johnny, sempre grazie al suo intuito fenomenale e alle sue straordinarie capacità da chiaroveggente, prevede che Greg, una volta divenuto l’uomo più potente del mondo, scatenerà una mostruosa guerra nucleare. E ne interverrà al più presto per impedire che l’orrendo, da lui visualizzato futuro nefasto, assuma reale concretezza terrificante.
Teso, avvincente, tristissimo e al contempo bellissimo, struggente e girato maestosamente da un Cronenberg delicatissimo e acuto che, accantonando momentaneamente i suoi consueti pindarici voli stilistici e il più sperimentale, truculento e sanguinario body horror, del quale è uno dei massimi esponenti e inconfutabili padri fondatori e/o ricreatori, filma una storia agghiacciante con misuratezza mirabile.
La zona morta è un romantico e glaciale film drammatico mascherato da vicenda dell’orrore sui generis, è uno spettrale ed angosciante thriller dell’anima camuffato da allucinatoria detection persino fantascientifica e surreale.
Walken & Sheen, entrambi superbi, gareggiano in bravura, cesellando perfettamente due personaggi psicologicamente antitetici, son cioè l’uno la nemesi dell’altro, eppur allo stesso tempo “disturbati”, sebbene per ragioni diametralmente opposte.
Suggestiva e impeccabile fotografia di Mark Irwin e musiche, in tal caso rarissimo, non composte dall’inseparabile habitué di Cronny, ovvero Howard Shore, bensì realizzate da Michael Kamen.
di Stefano Falotico