Il lupo perde il pelo e Scorsese troppo si “vizia”, non deliziandoci
Ieri sera, ho rivisto integralmente The Wolf of Wall Street, e son sprofondato nel sonno intervallato da momenti di euforico entusiasmo, miscelando il ritmo cardiaco e palpebrale alla noia e allo scandir della sua spropositata lunghezza stufante.
Eppur, a mo’ di affiliazione ed elettiva affinità, affiggo qui sotto la recensione di Paolo Mereghetti che, a differenza della maggioranza, stroncandolo, ha ottenuto stavolta il mio consenso quasi unanime e poi, dopo il copia-incolla, in qualche modo ricalcandolo eppur dissociandomene negli squarci di grande Cinema non sempre, però, memorabile…, esprimo la mia personale.
Quel lupo della finanza delude:
non basta la follia di DiCaprio
Scorsese eccessivo. Lontano dai suoi capolavori
Il più cinefilo dei registi, quello che nel suo ultimo film (Hugo Cabret) aveva fatto sognare lo spettatore portandolo dentro la magia della creazione cinematografica, gioca in contropiede e ribalta tutto con The Wolf of Wall Street (ma perché non tradurlo in italiano? Ah, irrecuperabile provincialismo italiota!) sottolineando fin dall’inizio del film – con la foto fissa del nano-proiettile – la scelta di rompere le regole della finzione e ogni patto di credibilità narrativa. Il protagonista, affidato a un Leonardo DiCaprio volutamente sopra le righe, interviene nell’oggettività del racconto per fermarla e commentarla in prima persona, rivolgendosi direttamente allo spettatore con il più «imperdonabile» dei peccati cinematografici: non solo guardando, ma anche parlando in macchina! E non una sola volta. A un certo punto addirittura, mentre spiega i meccanismi di una delle sue truffe, si arresta sul più bello perché «voi (cioè il pubblico) non potreste capire» e lascia chi sta in sala nella propria ignoranza.
Il ribaltamento non potrebbe essere più radicale, e si spiega con la scelta di fare un film tutto «dentro» il suo protagonista. Non la storia di un uomo – come erano stati Travis Bickle o JakeLa Motta o Henry Hill – che arriva a capire qualcosa di sé attraverso il confronto con la realtà. Ma nemmeno l’altra faccia di «Asso» Rothstein, il puntiglioso giocatore d’azzardo che messo a capo di un casinò di Las Vegas spera di farsi una reputazione senza macchie. No, The Wolf of Wall Street non vuole raccontare nessuna «scoperta di sé» ma solo mostrarci un uomo che ha trovato il modo di fare i soldi più in fretta e meglio degli altri. E illustrarci i suoi piaceri. Un ritratto della «follia» che spinge gli uomini a fare qualsiasi cosa pur di accumulare denaro, perché negli anni Ottanta di Ronald Reagan il «diritto alla felicità» di jeffersoniana memoria è diventato il «diritto alla ricchezza».
La storia del film è vera, è quella di Jordan Belfort, entrato come telefonista in una società di brokeraggio e diventato uno dei più abili (e avidi) venditori di prodotti finanziari d’America, non importa fino a che punto affidabili. Lui sapeva piazzarli sul mercato e contagiare i clienti con la sua stessa avidità, trascinandoli dentro un meccanismo di acquisizioni continue: loro avrebbero creduto di essere sempre più ricchi, lui (e i suoi venditori) lo sarebbero stati veramente perché le commissioni intascate erano denaro sonante mentre i certificarti di possesso azionario erano solo fogli che da un giorno all’altro potevano perdere valore.
Ma tutto questo nel film è solo accennato per sommi capi, raccontato dal di fuori: non si vede mai un indice della borsa salire o scendere, non si vede mai un cliente, al massimo si sente la sua voce attraverso il telefono ma è solo per fare spettacolo con l’istrionismo e la forza persuasiva di Belfort, mentre mette in pratica la lezione che gli ha fatto all’inizio della carriera (e del film) il suo mentore Mark Hanna (Matthew McConaughey).
L’occhio di Scorsese non si punta sul denaro (come nella prima, straordinaria ora di Casinò) ma sui benefit che genera: belle donne, droghe, case principesche, automobili fuori serie. Non vediamo mai Belfort lavorare ma solo godere dei suoi guadagni. E nel modo più sconclusionato possibile, parossistico e anestetizzante insieme. Cocaina e Quaalude, eccitanti e calmanti mescolati in dosi «sufficienti a sedare un intero stato di medie dimensioni», come scrive lo stesso Belfort nel libro autobiografico (pubblicato dalla Bur) alla base del film. Persino il tentativo di esportare illegalmente i guadagni in Svizzera sembra uscito dalla mente del fratello scemo de I soliti ignoti, non da un genio (perverso) della finanza. Ma in questo modo il film perde intensità e forza: tre lunghe ore tutte addosso al protagonista, senza mostrare cosa gli ha permesso di comportarsi così o chi ha creduto alle sue promesse. Il Belfort di DiCaprio sembra il burattino di se stesso che, raccontato coi toni della commedia, finisce per essere ancora più inconsistente. Neanche fossimo in un film di Apatow.
Certo, ogni tanto le qualità che hanno reso grande Scorsese si vedono. La sua vorace cinefilia (l’ingresso della banda per la festa aziendale con donnine al seguito cita esplicitamente Quarto potere), i suoi scarti di ritmo e di stile (la lotta in cucina per togliere il telefono al socio Donnie, tra farsa e catastrofe), la forza di certe inquadrature (gli sguardi dei poveracci in metropolitana dopo la condanna di Belfort, pronti a farsi infinocchiare dal primo venditore di «sogni» che li avesse intercettati) ma sono piccoli momenti che annegano in un film che assomiglia troppo a un passo falso. Dove Scorsese dà l’impressione di aver perso controllo e ispirazione, cancellando quella capacità di riflettere sul Male e sulla Morte che avevano fatto dei suoi film dei capolavori.
Recensione del sottoscritto, che aggiustò ed “editò” quella di Mereghetti, colpevole di scrivere La Motta “staccato” e di chiamarlo Jack anziché Jake, di non essere preciso sempre nella punteggiatura e nell’uso degli incisi e/o delle virgolette, imputabile d’una review forse non troppo rivista, eppur, ha ragione, questo Scorsese sa di già visto, di risaputo, di eccessi troppo voluti e compiaciuti, d’iperboli che non stupiscono.
Inoltre, aggiungo e correggo/ssi la D di Belford da lui erroneamente scritta nella “digiTazione” esatta del nome appropriatamente giust(appost)o.
Ma, con calma, procediamo a passo di mia sintattica, forse non sintetica, danza.
Dopo averci meravigliato, strabiliandoci nel suo incantante, miracolistico, incantevole Hugo, dopo la sua fantasmagoria da “cartone animato” ballante agli albori fluorescenti delle origini cinematografiche lunari, nel rifulgente far risorgere il suo Cinema “dicapriano” con una pausa rigenerante quanto strepitosamente l’occhiolino del nitrato d’argento strizzandoci, Zio Marty “implode”, profetizzando lo strafatto Mark Hanna, ment(it)ore di Belfort, sovraccaricando il suo “lupo” di trasgressioni tanto tirate per le lunghe, ripetute e (s)premute, d’annoiarci a morte.
Il problema sta a monte. Forse nessuna (ciam)bella con Leo riesce pienamente col buco. Ma fa acqua quel Gangs of New Yok “sconclusionato” e isterico, tanto iperrealistico da diventar “casino” di maniera, in memoria nostalgica e rimpiangente la perfezione stilistica del Casinò più “geometrico”, mirabolante parabola mirabile sul denaro strozzante, quel The Departed manicheo proprio nel “soppesar” il giudizio morale ambiguo d’un male poco, a fin dei conti, davvero cinico bensì “accomodante” al bene degli spettatori più commerciali e facilmente applaudenti, quell’Aviator “montato” da una Schoonmaker schiacciata dalla major d’un Weinstein ingombrante, quello/a Shutter Island troppo raggelante, malato di esercizio, poco an(s)imato e angel–heart.izzante, e appunto questo Wolf–ie tanto sovrabbondante da ridursi a un ritratto amorale devitalizzante il Cinema scorsesiano più profondamente, visceralmente brillante.
Cambia il direttore della fotografia, dopo gli storici Ballhaus e Robert Richardson, ecco l’inarrituiano Rodrigo Pietro, che “platina” le immagini nel saturarle con gusto visivo sin troppo “piccante” ma non abbacinando le iridi del nostro stupore ficcanti. Assuefandoci, invece, tristemente a una sarabanda di panoramiche “triviali” tanto (s)tirate da rendersi (insoporta)bili. Una scelta non da poco, sperando in The Audition e nell’altra, prossimissima collaborazione di Silence.
La fotografia è importante e, sebbene “impeccabile”, ribadisco, succosa, sì, ma poco ero(t)ica, “messicaneggiante” e calda così tanto da esser inaridente, non “b(r)uc(i)ante”. E già un imprescindibile passo non “passa”.
Scorsese non gioca al ribasso ma sovreccita i suoi fotogrammi, nel farli deflagrare di spaventosi ralenti e zoom non estasianti ma sol manieristicamente “scop(piett)anti”. Troppi quando son così tanti, non sono fiammeggianti, non sono abbaglianti.
Il suo Pinocchio fagocita sé stesso, e lagrimiamo in una valle di dollari sonanti ma non di Cinema con l’anima tonante.
Tre ore infinite ma ov’è scomparso l’infinito lucente del suo Cinema travolgente? Sì, gente!
Non facciamo coi veri capolavori del Maestro dei paragoni azzardanti quanto imbarazzanti.
Non imbrattiamo questo film, ma è onestamente bruttino.
Parola di un bu(ratt)i(n)o… speriamo momentaneo.
di Stefano Falotico