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Il grande match, recensione del Grinch, no, Grunge, no, Grudge

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Questo film(etto) è come una sigaretta “arricciata” nelle ansie crepuscolari di due fumatori “incalliti” dal rancor sopito, dai rimpianti nostalgici della “ridanciana” amarezza d’una sbiadita età anagrafica che, fra brindisi esorcizzanti la tristizia alla vita e battutine “sparate” a volte a vuoto, aspira la giovane, cristallina “baldoria” d’una giovinezza piena di chimere e avventurose grinte degli animi lottatori.

Allorché, Il grande match, alla luce di questa “balzana” ma originale “analisi” personalissima, si trasforma, eccentrico, fuori dai consueti e annoianti schemi “cast(rant)i” della “Critica”, così sovraccarico di mesta “ignoranza” filmica e “poltrente” letargia del Cinema alto, qui demistificato e furentemente ingenuo, “abbassatosi” alle “necessità” narrative più “videogame”, in un caravanserraglio “commovente” per la sua parossistica efficacia, cioè prendere due icone del grande schermo, una celebre per aver incarnato la saga balboaiana di Rocky e l’altra famosa per il suo Oscar di Toro scatenato, e farle “atrocemente”, rughe e pancette permettendo, sfidare e fronteggiare, di fronti cosparse di segni del tempo, per “risarcire” un contenzioso e uno spareggio “aperto(si)” da decadi d’anelata rivincita che sancisca la volontà a oltranza del più “forte”, cioè quello, forse, che meglio ha saputo combattere gli urti delle ferite del cuore nel “ring” chiamato dura vita. Da qui l’esigenza di “allungare” la trama, di per sé risibile e frutto d’una sceneggiatura banale, pensata, credo, da molti di noi nelle lor fantasie più cinefile e “sguinzagliate” dalle fredde logiche della seriosità, inserendo il personaggio della div(in)a Kim Basinger, donna “scissa” fra il pol(l)o buono Stallone e lo “stronzo”, raging sciupafemmine che viene impersonato da un De Niro con le “tettine”, maschera grottesca e d’indubbia, enorme autoironia giocosa, “guastatrice” con le sue straordinarie, “rigide” smorfie d’un viso a color di celluloide pura e “popolare”, gli equilibri d’un film che, senza la sua presenza, non si reggerebbe in piedi e, alla prima falla dello script tremolante e “nullo”, cederebbe sotto il forte, schiacciante knockout delle grossolanità d’un intreccio esile esile, “magrissimo”, muscoloso affatto.

Eppur si sopporta, alla fine lo si prende maledettamente sul “ridicolo”, e il finale di “Ballando con le stelle” docet, cosicché penso che si possa davvero amarlo per la spassosa, “sconcertante” (falsa) idiozia che lo mantiene vivo sino alla “quindicesima ripresa” dei suoi circa 113 minuti “abbondanti”.

Perché l’ambientazione è riuscita, Segal serve pittoreschi squarci periferici “arrogantemente” in linea con la semplicità “buona la prima” del tutto, Alan Arkin fa ridere con la sua fissazione per la “passera”, e De Niro V Stallone è sorprendente metacinema farcito di adamantini citazionismi plurimi.

Allenatori sovrappeso, figli e nipoti prodig(h)i, finisce ai pugni, ai punti, al chi se ne frega del pathos drammatico.

 

di Stefano Falotico

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(The) Wizard of Lies, Barry Levinson (confermato) dirige De Niro & Michelle Pfeiffer + Alessandro Nivola

pfeiffer-copyDopo i rumorini, arrivano le notizie ufficiali. Tutto pronto per le riprese, che partiranno lunedì prossimo in quel di New York.

Ufficialità data(base) dal nostro preferito sito di news.

Wizard of Lies, HBO Films’ long-gestating Bernie Madoff movie, starring Robert De Niro as the disgraced financier, is going ahead with a lead cast and a director. Joining De Niro, who plays Madoff, are Michelle Pfeiffer as his wife, Ruth Madoff, and Alessandro Nivola as Madoff’s older son Mark Madoff, who committed suicide. Barry Levinson, who directed the HBO Films movie You Don’t Know Jack about another controversial figure, Jack Kevorkian (played by Al Pacino), is set to direct. He executive produces with Tribeca Prods’ De Niro and Jane Rosenthal as well as Berry Welsh. Jason Sosnoff is a co-executive producer.

Based on the book Wizard of Lies by Diana Henriques, with Truth and Consequences by Laurie Sandell as additional source material, Wizard of Lies is described as a look behind the scenes at Bernie Madoff’s massive Ponzi scheme, how it was perpetrated on the public and the trail of destruction it left in its wake, both for the victims and Madoff’s family. 

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The film had been in the works at HBO since 2011, when the network optioned Henriques’ book, attached De Niro to play Madoff and hired John Burnham Schwartz to write the script. Two years later, HBO brought in a new writer, Sam Baum, and acquired Sandell’s book. There has been a third writer taking a stab at the script since, with Sam Levinson credited  as a writer on the movie alongside Baum and Schwartz.

 

 

De Niro sarà Ferrari e doveva esserlo per Michael Mann nel 1993? Nel 2016, lo sarà Christian Bale, prima di tutto/i

Mission Impossible Rogue Nation screeningDeadline-zzandoci, deliniamo questo project:

Christian Bale has said yes to playing Italian car magnate Enzo Ferrari in the long-awaited film by director Michael Mann. The picture, which will shoot next summer, isn’t set up just yet. But as we ponder the films up for grabs at the upcoming Telluride, Toronto and Venice Film Festivals, is there a more desirable presale property right now than Ferrari, with Mann and Bale driving the vehicle?

Mann has been working under the hood of this film for close to 15 years, at one time in partnership with the late director Sydney Pollack. It is a real passion project for the director and is exactly the kind of picture he should be making. The film takes place in 1957, a year where passion, failure, success and death and life all collided. Several actresses circling the female leads. Mann and Bale previously teamed on 2009’s Public Enemies.

I know things didn’t work out for Mann most recently with Blackhat. As a longtime fan of his films, this sounds to me to be potentially one that I will probably see over and over, as I have Mann films including The Last Of The Mohicans, The Insider, Collateral, and most especially Heat, the latter of which is 20 years old this fall.

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The Wolf of Wall Street, My WAY, no, my re-view, insomma, la recensione

Il lupo perde il pelo e Scorsese troppo si “vizia”, non deliziandoci

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Ieri sera, ho rivisto integralmente The Wolf of Wall Street, e son sprofondato nel sonno intervallato da momenti di euforico entusiasmo, miscelando il ritmo cardiaco e palpebrale alla noia e allo scandir della sua spropositata lunghezza stufante.

Eppur, a mo’ di affiliazione ed elettiva affinità, affiggo qui sotto la recensione di Paolo Mereghetti che, a differenza della maggioranza, stroncandolo, ha ottenuto stavolta il mio consenso quasi unanime e poi, dopo il copia-incolla, in qualche modo ricalcandolo eppur dissociandomene negli squarci di grande Cinema non sempre, però, memorabile…, esprimo la mia personale.

 

Quel lupo della finanza delude: 

non basta la follia di DiCaprio

Scorsese eccessivo. Lontano dai suoi capolavori

 

Il più cinefilo dei registi, quello che nel suo ultimo film (Hugo Cabret) aveva fatto sognare lo spettatore portandolo dentro la magia della creazione cinematografica, gioca in contropiede e ribalta tutto con The Wolf of Wall Street (ma perché non tradurlo in italiano? Ah, irrecuperabile provincialismo italiota!) sottolineando fin dall’inizio del film – con la foto fissa del nano-proiettile – la scelta di rompere le regole della finzione e ogni patto di credibilità narrativa. Il protagonista, affidato a un Leonardo DiCaprio volutamente sopra le righe, interviene nell’oggettività del racconto per fermarla e commentarla in prima persona, rivolgendosi direttamente allo spettatore con il più «imperdonabile» dei peccati cinematografici: non solo guardando, ma anche parlando in macchina! E non una sola volta. A un certo punto addirittura, mentre spiega i meccanismi di una delle sue truffe, si arresta sul più bello perché «voi (cioè il pubblico) non potreste capire» e lascia chi sta in sala nella propria ignoranza.

Il ribaltamento non potrebbe essere più radicale, e si spiega con la scelta di fare un film tutto «dentro» il suo protagonista. Non la storia di un uomo – come erano stati Travis Bickle o JakeLa Motta o Henry Hill – che arriva a capire qualcosa di sé attraverso il confronto con la realtà. Ma nemmeno l’altra faccia di «Asso» Rothstein, il puntiglioso giocatore d’azzardo che messo a capo di un casinò di Las Vegas spera di farsi una reputazione senza macchie. No, The Wolf of Wall Street non vuole raccontare nessuna «scoperta di sé» ma solo mostrarci un uomo che ha trovato il modo di fare i soldi più in fretta e meglio degli altri. E illustrarci i suoi piaceri. Un ritratto della «follia» che spinge gli uomini a fare qualsiasi cosa pur di accumulare denaro, perché negli anni Ottanta di Ronald Reagan il «diritto alla felicità» di jeffersoniana memoria è diventato il «diritto alla ricchezza».

La storia del film è vera, è quella di Jordan Belfort, entrato come telefonista in una società di brokeraggio e diventato uno dei più abili (e avidi) venditori di prodotti finanziari d’America, non importa fino a che punto affidabili. Lui sapeva piazzarli sul mercato e contagiare i clienti con la sua stessa avidità, trascinandoli dentro un meccanismo di acquisizioni continue: loro avrebbero creduto di essere sempre più ricchi, lui (e i suoi venditori) lo sarebbero stati veramente perché le commissioni intascate erano denaro sonante mentre i certificarti di possesso azionario erano solo fogli che da un giorno all’altro potevano perdere valore.

Ma tutto questo nel film è solo accennato per sommi capi, raccontato dal di fuori: non si vede mai un indice della borsa salire o scendere, non si vede mai un cliente, al massimo si sente la sua voce attraverso il telefono ma è solo per fare spettacolo con l’istrionismo e la forza persuasiva di Belfort, mentre mette in pratica la lezione che gli ha fatto all’inizio della carriera (e del film) il suo mentore Mark Hanna (Matthew McConaughey).

L’occhio di Scorsese non si punta sul denaro (come nella prima, straordinaria ora di Casinò) ma sui benefit che genera: belle donne, droghe, case principesche, automobili fuori serie. Non vediamo mai Belfort lavorare ma solo godere dei suoi guadagni. E nel modo più sconclusionato possibile, parossistico e anestetizzante insieme. Cocaina e Quaalude, eccitanti e calmanti mescolati in dosi «sufficienti a sedare un intero stato di medie dimensioni», come scrive lo stesso Belfort nel libro autobiografico (pubblicato dalla Bur) alla base del film. Persino il tentativo di esportare illegalmente i guadagni in Svizzera sembra uscito dalla mente del fratello scemo de I soliti ignoti, non da un genio (perverso) della finanza. Ma in questo modo il film perde intensità e forza: tre lunghe ore tutte addosso al protagonista, senza mostrare cosa gli ha permesso di comportarsi così o chi ha creduto alle sue promesse. Il Belfort di DiCaprio sembra il burattino di se stesso che, raccontato coi toni della commedia, finisce per essere ancora più inconsistente. Neanche fossimo in un film di Apatow.

Certo, ogni tanto le qualità che hanno reso grande Scorsese si vedono. La sua vorace cinefilia (l’ingresso della banda per la festa aziendale con donnine al seguito cita esplicitamente Quarto potere), i suoi scarti di ritmo e di stile (la lotta in cucina per togliere il telefono al socio Donnie, tra farsa e catastrofe), la forza di certe inquadrature (gli sguardi dei poveracci in metropolitana dopo la condanna di Belfort, pronti a farsi infinocchiare dal primo venditore di «sogni» che li avesse intercettati) ma sono piccoli momenti che annegano in un film che assomiglia troppo a un passo falso. Dove Scorsese dà l’impressione di aver perso controllo e ispirazione, cancellando quella capacità di riflettere sul Male e sulla Morte che avevano fatto dei suoi film dei capolavori.
Recensione del sottoscritto, che aggiustò ed “editò” quella di Mereghetti, colpevole di scrivere La Motta “staccato” e di chiamarlo Jack anziché Jake, di non essere preciso sempre nella punteggiatura e nell’uso degli incisi e/o delle virgolette, imputabile d’una review forse non troppo rivista, eppur, ha ragione, questo Scorsese sa di già visto, di risaputo, di eccessi troppo voluti e compiaciuti, d’iperboli che non stupiscono.

Inoltre, aggiungo e correggo/ssi la D di Belford da lui erroneamente scritta nella “digiTazione” esatta del nome appropriatamente giust(appost)o.

Ma, con calma, procediamo a passo di mia sintattica, forse non sintetica, danza.

 

Dopo averci meravigliato, strabiliandoci nel suo incantante, miracolistico, incantevole Hugo, dopo la sua fantasmagoria da “cartone animato” ballante agli albori fluorescenti delle origini cinematografiche lunari, nel rifulgente far risorgere il suo Cinema “dicapriano” con una pausa rigenerante quanto strepitosamente l’occhiolino del nitrato d’argento strizzandoci, Zio Marty “implode”, profetizzando lo strafatto Mark Hanna, ment(it)ore di Belfort, sovraccaricando il suo “lupo” di trasgressioni tanto tirate per le lunghe, ripetute e (s)premute, d’annoiarci a morte.

Il problema sta a monte. Forse nessuna (ciam)bella con Leo riesce pienamente col buco. Ma fa acqua quel Gangs of New Yok “sconclusionato” e isterico, tanto iperrealistico da diventar “casino” di maniera, in memoria nostalgica e rimpiangente la perfezione stilistica del Casinò più “geometrico”, mirabolante parabola mirabile sul denaro strozzante, quel The Departed manicheo proprio nel “soppesar” il giudizio morale ambiguo d’un male poco, a fin dei conti, davvero cinico bensì “accomodante” al bene degli spettatori più commerciali e facilmente applaudenti, quell’Aviator “montato” da una Schoonmaker schiacciata dalla major d’un Weinstein ingombrante, quello/a Shutter Island troppo raggelante, malato di esercizio, poco an(s)imato e angelheart.izzante, e appunto questo Wolfie tanto sovrabbondante da ridursi a un ritratto amorale devitalizzante il Cinema scorsesiano più profondamente, visceralmente brillante.

 

Cambia il direttore della fotografia, dopo gli storici Ballhaus e Robert Richardson, ecco l’inarrituiano Rodrigo Pietro, che “platina” le immagini nel saturarle con gusto visivo sin troppo “piccante” ma non abbacinando le iridi del nostro stupore ficcanti. Assuefandoci, invece, tristemente a una sarabanda di panoramiche “triviali” tanto (s)tirate da rendersi (insoporta)bili. Una scelta non da poco, sperando in The Audition e nell’altra, prossimissima collaborazione di Silence.

La fotografia è importante e, sebbene “impeccabile”, ribadisco, succosa, sì, ma poco ero(t)ica, “messicaneggiante” e calda così tanto da esser inaridente, non “b(r)uc(i)ante”. E già un imprescindibile passo non “passa”.

Scorsese non gioca al ribasso ma sovreccita i suoi fotogrammi, nel farli deflagrare di spaventosi ralenti e zoom non estasianti ma sol manieristicamente “scop(piett)anti”. Troppi quando son così tanti, non sono fiammeggianti, non sono abbaglianti.

Il suo Pinocchio fagocita sé stesso, e lagrimiamo in una valle di dollari sonanti ma non di Cinema con l’anima tonante.

Tre ore infinite ma ov’è scomparso l’infinito lucente del suo Cinema travolgente? Sì, gente!

Non facciamo coi veri capolavori del Maestro dei paragoni azzardanti quanto imbarazzanti.

Non imbrattiamo questo film, ma è onestamente bruttino.

Parola di un bu(ratt)i(n)o… speriamo momentaneo.

 

di Stefano Falotico

 

Detection a mo’ d’intervista su True Detective 2, stagione incensata, abbattuta, criticata, disprezzata, osannata, maltrattata, glorificata, calpestata, “uccisa”, aspett(iam)o la fine, la terza o il finalissimo aspramente controverso?

Farrell True Detective 2

Ciao Paolo Carozzani, “fanatico” sfegatato della serie, sin dalla prima con McConaughey & Harrelson. Direi di partire proprio da qui, dal principio delle cose, anzi, da Carcosa.

1) Cosa ti aveva affascinato della prima parte? L’ambientazione nelle paludi della Louisiana, la storia, il satanismo macabro (sot)teso a ogni episodio, l’atmosfera pessimista che vi si respirava, l’angoscia e i tormenti umanistici di Rust, i segmenti onirici e metafisici?

La prima stagione mi ha affascinato per via di quella (mica tanto) sottile angoscia esistenziale, quelle sensazioni leggere ma sempre costanti di soprannaturale quasi lovecraftiano.

2) Con questa nuova stagione, Pizzolatto ha dimostrato di essere uno sceneggiatore coraggioso, audacissimo, senza fronzoli, spiazzando tutti con una trama ancor, possibilmente, più intricata, con la “moltiplicazione” dei personaggi, ben quattro quelli principali, con le “intersezioni” d’uno script “soffuso”, noir, gangsteristico, a suo modo più classico, a mio avviso ancor più raffinato del primo.

Concordi?

Assolutamente sì, mossa molto rischiosa che infatti non ha ripagato al pubblico il buon vecchio Pizzolatto.

3) Quale fra i personaggi, appunto protagonisti di questa seconda serie, ti ha appassionato maggiormente? In quale ti sei identificato di più o per il quale hai fatto, diciamo, il “tifo?”. E perché, se lo sai?

Paradossalmente, per un’opera che mi è piaciuta praticamente quasi solo per i personaggi, non sono riuscito ad identificarmi con nessuno.

Direi che Frank e Ray sono stati quelli che più mi hanno attaccato allo schermo, al di là della prova attoriale elevatissima (e Colin Farrell mi è sempre stato sul cazzo a pelle…), i dialoghi, il carisma dei personaggi, la tragicità delle loro vite…, sublime.

4) Aspetti la terza serie, che dovrebbe debuttare fra un anno e mezzo? Attesa infinita…

E come no… con trepidazione.

5) Se fossi tu il direttore di casting, quali attori ti piacerebbe vedere in True Detective 3?

Bella domanda, mantenendo il trend di “attori che possono dare tanto di più”, ci vedrei un Brad Pitt ora come ora, altri non mi sovvengono alla mente.

 

di Stefano Falotico

 

La grande Biutiful

BiutifulPerturbatore di me stes(s)o, snocciolo la sciocca vi(t)a di me (ba)lordo da tanta (dis)umana transumanza e mi ammal(i)o dopo tanta perente, pen(s)ante battaglia ché, oggi, allo scoccar del futile, inutilissimo giorno, qua me ignudo non m’abba(gl)io delle comuni rivalità a me risultanti stanche. L’onor mio insultanti, me, isola(to).

Nel funambolico eppur dardeggiante Bardo-alabardato di me amletico, approdo al bordo delle nuvole madide dello sconcio sudore dello scimmiesco, stupido mondo, e non me n’inglobo, sorvolando eccelsi lidi e riflessioni linde del pen(siero) mor(t)ale, allucinando i miei occhi ancora(ti) splendenti nell’asciuttezza dell’amara consapevolezza, forse van(itos)a. E nel vento di tal (re)flusso di coscienza vigorosa e (p)e(r)sistente, resistentissima in tal grottesca, meschina, ipocrita esistenza e forse esagerazione o (non) “esit(azi)o(ne)”, rimugino e il mio (non) tra-passato riesumo, forse così mi riassumo, annuso e mai assumerò lo specchio di tal “lagna” e lago patinato di solipsistiche dolcezze vostre “gentili”, “beniamine” solo dei piaceri personali effimeri, fatui e falsissimi, oh, mia carezzevole fata, da essi distoglimi, me trascinami via ché son, in questo raggelante altrui sonno, affatto somm(ari)o, stolido nella perenne convinzione di (non) poter cambiare e invece nello sven(tr)ato variegato e non dalle fallaci invidie e gelosi “strega(to)”.

Torvo, torbido…

 

(Ci)… viviamo in una terra oramai morta, non più soavemente mor(bid)a ove regna invece, che fece, (non) fa…, la pornografica visione tetra e in cui, in cu(cu)lo, la gente aspetta “vir(tu)ale” le attrici di tal “industria” a poterla soddisfare… per l’eccitazione di massa e non solo corporea, decerebrata nella masturbazione d’un sesso sempre più ossessionato dal sol(id)o sé.

È il se, (piut)tosto, l’incognita che più m’affascina, io che ho qui smarrito il senno, no, lo slancio del sen(s)o vitale e non mi do ai viali e al viavai frivolo della pesantissima “leggerezza” che va per il nostro Pianeta “maggiorato” da minorati mentali, dunque dementi della perduta mente.

Così, mi concedo altre parole a tal prole che doveva essere-non essere “aborto”, e vago, vaghissimo, nel mio poeta, dentro, nel “ventre”, del p(i)en vacuo, sollecitando la fantasia vivida ch’è la sol lucida vi(t)a.

Ma, forse, la mia è sol viltà, sì, (non) so(no).

di Stefano Falotico

 

Noodle Man con De Niro, che fu Noodles, in questo Once Upon a Time in Chinatown?

Qualcuno, mesi addietro, riportò questa, che trascriviamo sotto, a scanso di equivoci.

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Read more Director Chen Daming Talks about China’s Film Audiences

“What we are doing here is not only very unique, but will hopefully serve as the model of merging the best from East and West,” said Yen. “(Michael) understands the changing climate of the business and is very progressive in his approach.”

“Donnie’s wonderful blend of acting talent and martial arts makes him a unique star,” said Shamberg, who added he hoped to make a movie with global appeal.

Yen just wrapped Crouching Tiger, Hidden Dragon: The Green Legend, the hot-button movie which will besimultaneously released next summer in theaters and via Netflix. The English-language sequel also starsMichelle Yeoh.

Yen, whose action film Kung Fu Jungle will premiere at the BFI London Film Festival, has previously done studio work, appearing in New Line’s 2002 vampire action movie Blade 2 and Dimension’s Highlander: Endgame. He is repped by CAA.

Ora, qualcun altro, riporta DE NIRO.

Come tal mio screen attesta.

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