Il grande Matthew McConaughey, un attore Interstellar, una stella in tal buco nero dell’asfittico, ahimè, panorama cinematografico odierno poco “spaziale”
Chi avrebbe scommesso su Matthew sino a qualche anno fa?
Io. E ciò che scrissi, in tempi non sospetti, lo attesta.
So che lo denigraste, lo ingiuriaste, lo maltrattaste sempre da “bel bamboccio”, lo bocciaste, lo smorzaste, il suo talento non vedeste, ma ora lo state avvistando? Eh sì, dopo True Detective, Mud e Dallas Buyers Club, gli avete dato giustamente il sacrosanto visto? Non è più solo un carino visetto. Guai ai detrattori. La sua enorme bravura, il suo fascino carismatico invincibile non più si discutono, la sua bellezza “circumnavigante” a 360 gradi, su “bagnate” donne innamorate di lui, è infatti indiscutibile, gli uomini son casca(mor)ti ai suoi piedi(ni), i bambini gioiscon con le gigantografie del suo gigante, i vecchi asmatici usano il processo d’identificazione spettatore-attore per trasmigrare nell’etereo spazio-tempo ringiovanente a mo’ di teorie di Einstein (dis)incarnate-back to the future–cocoon, e Matthew non è più una fantasia, ma una verità assoluta.
La sua forza recitativa si misura brillante-mente celest(ial)e su occhi azzurri che davvero non han adesso più nulla da invidiare a Paul Newman.
Lassù qualcuno “li” ama. Contact, Matthew porta le lenti a contatto, Paul usava gli occhiali ma non è dalle lenti d’ingrandimento che si giudica un grande.
Fuori, per il comune mortale, grandina. Delusioni nel sognar soltanto le stelle, eppur il frust(r)ato demente vive nella stalla, mentre Matthew è invece (s)cavalcante stallone, su questo non ci piove, non ci provate, lui non dovete più metter alla prova, ha vinto tutte le prove, è oggi come Nemo di Verne nelle ventimila leghe sotto i mari, guai in vista per voi, piovre, Matthew è imbattibile superstar insuperabile, le mani battiamo, egli è il Capitano della nostra anima sconfinata, universalmente gigantesco, dalla Cinematheque plaudito di lodante tribute con tanto di Nolan a porgergli l’omaggio Award calzante in Matthew che tutti scalzò, con la platea “al settimo cielo” nell’onorar (am)mirante i suoi nuovi, “avveniristici” orizzonti attoriali avanguardistici. Sì, più veloce della Luce, Matthew è passato dalla “rampa di lancio” dell“anonimato” meno lucente, d’amante semi-innamorato della Bullock nel suo centro di Gravity permanente da “mediocre” stronzetto, all’infinità totale di tutte le nostre elettive affinità cinefile, tanto che (in)corporeo sta piacevolmente smagrendo e affinandosi sempre più, illuminandoci con la leggerezza roboante, maestosa nella classe d’un maestro actor incommensurabile. “Particelle” di fascino immisurabili in (olo)grammi, non più sol un pezzo di manzo o carne per le iridi femminili concupiscenti, spesso di donnette che di Cinema (non) capivano un cazzo, essendo farfalline fallate solo volenti il suo (ex) fallo, ma un uomo or abbinante il bellissimo intelligente, come il Sole sta in f(r)onte a me, alla potenza impressionante d’un magnetismo sconvolgente, in tutti noi stravolti, in grida di giubilo dinanzi all’entusiasmo con cui seduttivamente c’avvolge.
Un genio, insomma.
Adoro questo Matthew cresciuto esponenzialmente, padre amorevole e camaleonte imprendibile.
di Stefano Falotico
Johnny Depp Into the Woods
Johnny Depp è il lupo, credete nelle fate, nelle fav(ol)e, in Falotico e perdonate i vostri falli!
Time Out of Mind
CINEMA, EMOZIONI E SIGNIFICATI
Sei fuori.
Fuori da tutto, dalla società, dalla famiglia, dal lavoro, da qualsiasi forma di mondo condiviso. Lo hai perso.
O meglio hai perso te stesso lì dentro. E avendo perso gli elementi fondamentali che ti consentono di essere riconosciuto lì dentro, ti accorgi improvvisamente che è come non esistere.
Tu percepisci ancora bene il tuo corpo, i tuoi stati d’animo, il tuo desiderio, li senti sì, vedi, tocchi, hai ancora un gusto, ma non conta più, per il mondo non ci sei.
E non te ne sei neanche accorto.
E quanto te ne rendi conto, come se ti svegliassi da un sogno, l’impatto è devastante.
Sei talmente abituato a stare solo, a non comunicare, che anche quando qualcuno tenta di farlo, non reagisci, c’è una distanza enorme da percorrere.
E ci vuole troppo tempo, forze e coraggio. Strumenti che non hai più, o forse non li hai mai avuti, ed è per questo che ora ti ritrovi fuori.
Quel FUORI è la cosa che mi ha colpito di più in questo film, credo che il regista sia stato molto bravo a realizzarne la percezione continua, le telefonate con stralci di comunicazione di altri che condividono, che parlano della loro giornata, del lavoro, delle loro relazioni, le persone che cercano di parlargli, gli altri in genere, tutte figure di cui il protagonista percepisce il rumore indistinto e fastidioso, ma che gli è del tutto inaccessibile, perché gli arriva da lontano, appunto ne è fuori. Un rumore ridondante e continuo, pedante, che infastidisce e martella anche lo spettatore per quasi due ore, dando un’idea dell’angoscia di una condizione del genere, del non avere dove dormire, del tempo che passa, del sonno come unico conforto.
Un film che non è certo una storia avvincente, forse non scorrevole, ma che a parer mio riesce bene a far calare lo spettatore nel mondo interiore di qualcuno che si è perso.
Richard Gere molto bravo, molto bella la colonna sonora.
TIME OUT OF MIND – Oren Moverman – USA 2014.
di Roberta Girau
Il “pesce” lesso, alla Nic Cage, sembra uno scemo eppur (in)semina, sembra da Valium d’attacchi di panico e invece se la “seda” severo…
Nel sedere? Sul serio?
No, anche in figa.
Sì, Cage è figo. Maschile di far la bella figura del cazzo.
Un(a) vamp(iro) lo/a riconosci subito
Da un po’ di tempo, ho preso coscienza di essere un non mor(t)o. Così, fluttuo nella notte e la gente “dabbene” sa (ri)fiutarmi lontano un miglio. Mi strascico… nel ciottolato bagnato, da Vienna a Napoli, con in testa il pennacchio d’un dolor mio innato. I miei occhi son neri, tendenti al candore, le donne ne conoscon l’odore, sì, gli occhi odorano e infatti, fra mille sudori d’ascelle, fra lenzuola delle mie tope, puzzo di tomba in iridi puzzolente, sempre meglio delle zoccole con la puzza sotto il naso e le puzzette dopo che mangian le pizzette. Sì, le ninfomani che si dan alle pazze gioie e al Belgioioso della mozzarella dei bei giovini, detto, senza virgolette, sper(m)a e rosse di ser(r)a la danno senza paura di ricever danni, cioè di esser messe incinta. A queste basta toglier la cintura, non puoi recintarle. Dalla cintola in giù, son dolci e cavall(in)e per ogni vi(ri)le tiramisù con prima la leccatina e poi la (s)monta, unto, bisunto, da bisonte. Credo di essere l’incarnazione della vetustà fatta carne putrefatta… da voi, e danzo a specchio della mia rara specialità. Sì, non appartengo alla vostra specie, voi spacc(i)ate, e non avete neanche il coraggio di definirvi spacciat(or)i. Sì, di notte io rifletto e, in questo (ri)flettermi (in)dolente, apatico d’occhi giammai (sonno)lenti, vago alla ricerca del perché non sono, eppur non mi turba il non aver sonno e credo che neanche perderò il senno. Così, spio i vostri amplessi fuori dalle f(in)est(r)e “accese” e, in quell’intraveder come uno (s)fotte una nella penombra, deflorandola dopo averle offerto la rosa, che fiorellino, non mi faccio pena né pene. Non stacco la spi(n)a.
Sì, un tempo mi masturbavo platealmente e delle mie masturbazioni narrai, di “su e giù” errai, cari miei er(r)o(ne)i del cazzo.
Credo che ogni vampiro s’immalinconisca proprio quando (non) la vede daltonico e, in questo “darsi”… ton(n)o sba(di)gliato, (di)storto, l’ansia decorre, nel panta rei dei pantaloni andati a mignotte.
(Con)fusione, dammi una mano e assieme ce “la tireremo” di brutto, siam brutti eppur piacciamo, spiaccichiamo e “spacchiamo” il cu(cu)lo a tutti noi per terra(gne).
Sì, siam ragni, nel fango stagniamo, date al nostro salsicciotto le carte stagnole, “care” carogne, mie cagne, facciam cagnara. E, in tal vostro carnaio, ecco la “canna” di nostre be(sciame)lle” ai cannelloni, in quanto voi siete una “cannonata” e noi lecchiamo, nel ghiacciolo, i nostri cannoli, con tanto di zucche(ro). Vuote, ce li state svuotando! Coglioni, avete rotto le palle!
Da un po’, mi son di nuovo innamorato. A forza di “farmele”…, doveva (av)venire… per “forza”, la mia “debolezza” la doveva (s)mettere di “smanettare”, non potevo star con le mani in “mon(a)co”, anche se il sa(gg)io è uomo sal(i)ente e “taglia la co(r)da” di ca(va)llo. Dunque, salando, a forza di sal(ir)e, (a)scende, s’evolve, come si suol dire ad “ardere”. Sono un uomo ardente, un da(r)do “al dente”, miei cani(ni). Contattando una con “tatto” di lenti nostre a contatti, plurale messo per crear la rima “assonante” in me mai assonnato, sì, una ratta con gli occhiali e io top(p)o di “o(r)ca”, lei mi sporca, e ha un sen(s)o della “madonna” tutto questo?
No, è una stronza(ta), ma io so che Nic Cage, seppur già (s)pel(l)ato in Zandalee, sotto la pioggia Erika Anderson “scandalosamente” pa(ra)lizzò coi suoi occhi “blu” vicino a un cancello e poi, in suo (di)letto “a bestia”, la stantuffò di gran c(al)ore d’uccello su “ciuffo” del toupet al “gel” raggelante di Tutti pazzi per Mary in sua topolona dai lunghi (ca)pel(l)i tendenti al rosso da fondoschiena(rti), molto “er(et)to” e nobile in sua “nobildonna” nubile eppur (s)porco come pochi porci.
Sì, meglio essere un maniaco che, come dite voi, tonti, rimboccarsi le maniche.
Di mio “manico”, so il “fallo” mio e, di mio cazzo “affrescante”, pigliatelo di pe(nel)l(o)!
Lei sta calda, tu stai fresco e fuori piove.
Domani, ci sarà il Sole o sarò solo?
Non lo so, intanto sto morendo.
Io e Nic Cage abbiam un gran fisico. Anche a culo stiam nessi bene. Non valiamo un cazzo, non sappiamo recitare ma ce la sappiamo trombare alla faccia tua intelligentona.
Che non hai capito né questo mio scritto né quella “intelligente” a cui dovevi solo strappar la gonna e non dedicarle una minchia(ta) poetica.
Ma un cazzone tosto, duro come i suoi testicoli da testa di (c)rape vostre.
di Stefano Falotico
Non sono (im)maturo, son Victor Mature
È morto Sansone, è morta la società, è morto un diverso, è sconfitta la vita dei borghesi
Credo, da anni, di (non) piacermi, di rifiutare in tronco la società di massa, con questi (am)massi sferrati che sferran pugni all’anima. E ammetto di non esserci più, a picco(ni), piccoli, scivolante nel bar(atr)o picciotto che ha ucciso il mio picc(i)one, buttando la mia anima all’inferno. Distruggendo quel che ero e sol lassù, mai più, sempre più giù, non sono. Or(l)o… Una lenta agonia, un a(ne)lito speranzoso, il piacere adesso masochistico di dar la “retta” via al sadismo di chi, assassinandomi a fuoco lento, nel crep(it)ar m’ha (ar)reso.
Io ero un poeta “piacente”, uno che preferì star per i “falli” suoi. Sba(d)igliato come dico io, errato, alcuni dicono erroneo, probabilmente errante, gerundio presente del mio eter(n)o assente. Il successo, diceva Carmelo, è solo il participio passato di quel che doveva succedere… ed è un Bene, “in fondo”. Maniaci sessuali, fermi con le mani. Fatemi masturbare in san(t)a “pece”. Mai sé stesso, il sesso odiante, almeno come dai cannibali, che non credon alle cabale, vien (in)teso di “garze”, da ca(r)ni, da ruffiani sempre poi col “pelo” arruffato. E le smorfie son il mio (di)letto, (s)teso, appunt(it)o, “cotto” a puntino perché non amo le (ri)cotte. Secondo me, son tutte mignotte, anche i maschi. Scommettono sui lotti e la lor vita, anziché andar al massimo, va a “novanta” d’una loro patetica (r)esistenza, invero già nell’avaria d’un quarantotto in cui, inculandosi di leccate…, si dan solo arie, sì, vantandosi, svent(ol)ano la lor finta, “fina” libertà da “uccelli” di razz(i)a. E, in questo scopar… tutti a terra, in tal sterminio io mi te(r)m(in)o, dan a me del paraculo, combinando per le feste altri (d)an(n)i. Non son da dame, son lo scacco fra le cacche, il daino spellato fra chi crede al bast(i)one del danaro, ché a me dàn sol idea questi qua(quaraquà) d’una (in)evitabile, (pre)matura, precoce vecchiaia… in super cazzole auto-ingannevoli da (a)mici miei della eiaculante senescenza di pene.
Quanta giaculatoria, allor viva la donna giunonica che gioca con le teste dei “ma(s)chi” con le maschie tette lì “guardanti”. Gli uomini badan al solito so(l)do, e più son “liquidi” e più s’alzan in “retroguardia”, ma lei sta al “gioco” sodomizzante, rifiutando il femminismo per “tirarselo” a Campari e Martini, miei frat(ell)i campanari. Qui, il “tiro” della donna “stiratrice” straccia la pelle, e asfalta le pal(l)e d’una noia afosa in nostro (termo)sifone della tempesta(ta) che presto si (ab)batterà per strada, fra cort(e)i in p(i)azze e “lunghi” in altre politicanti balle. Meglio allora il fieno a questi fieli, meglio il fegato che “marcia”… io non la do vinta al borghese ma ERGO… sum, somari, in “co(g)ito della “spada di fuoco” tratta, son Mario Brega a (t)ratti di Un sacco bello, perché la mia sacca scrotale ne ha piene e ora mi svuoterò nel “vuoto” mi(s)tico. Pigliatemi pure là, datevi a quella con la “gomma” che fa lilla e lì ve lo servirà, dopo aver “sbandato” nel vostro (t)rombarvela… e lasciarvi pneumatici.
So di cosa par(l)o, donne, andate a farvelo dar nel culo, uomini, siete già da (lo)culi.
Questa società carna(scia)le(sca) è un carro “a(r)mato” di “cavalli” di troie… nel c(imit)ero.
C’era.
E me ne sto in sana piantina, perché voglio la mentina, non i vostri buo(n)i(smi) da caramellini, miei mielosi ché tanto volete sol la mela delle asine, non avete la mia mente, non mentite!
Io sono a voi il mento(re) e non vi reggo… reggimenti, sgolateli, cioè non più strozzatevi ma i rospi fate sì che spu(n)tino. Cibiamoci di spuntini, non la spunteranno, puntateli e che non s’impuntassero, puttane!
Sì, questa mia non è una falsa p(r)osa, non desidero le rose ma solo la spina… della sedia elettrica.
Tuo fratello è autistico, non sarà un autista. Informalo e poi “infornalo” per risparmiargli il dolore tuo di doverlo mantenere e non poterti così permettere nemmeno un’auto(ma) quale sei, uomo macchina.
Io macino, miei “macigni” rompi…
Io sono il cigno.
E, se vorrai tarpar le mie ali, prenditi il petto(rale) di pol(l)o e mangiati la tua cer(tezz)a.
Io ti st(r)ucco e tutti rimarranno con un pal(m)o di naso. Il mio, in quanto Pinocchio e stai nella balen(otter)a. Te “lo” tiene “caldo” ma, senza il mio “tonno”, sappi che affogherai e “pioverà” il “tuo” sempre sulla “bagnata”.
Detta vita zoccola. E non è un detto né un dato… di “fallo”. Impara dal mio (acque)dotto e vai a ber un bicchiere d’acqua. Non è mezzo pieno, è a secco. Succhia!
Lavatura e poi suicidio in nostra “elevazione” del cazzo.
di Stefano Falotico