Il grande Cinema di Sergio Leone, promemoria mor(t)ale, cari adepti della mia polverosa congrega di pistoleri…
di Stefano Falotico
Il cacciatore di taglie, sempre avvolto da un poncho che cela, anche fascinosamente “sporco”, un passato oscuro che l’ammanta misteriosamente di bri(vid)o lucido, come dico io, s’insinua da punitore Dio nella cittadina western con (in)dolenza eastwoodiana, mordendo la sua rabbia implosa nel frenarla sempre dentro dialoghi ficcanti, a cuore aperto sfiancato di Ramón, sbudellandolo d’ogni sua crudeltà ingiustamente perpetrata in parimenti sadico sparargli a sangue “freddo”. Egli, cavalcando il suo mulo, un mulo “umano” che pretende le scuse dei folli, incoscienti, bifolchi bulli di quel tempo selvaggio, rude e senza regole, si protese ruvidamente da “stronzo” geniale e altresì, altezzoso, si protesse di profilassi dai proiettili d’un fucile (im)potente grazie alla sicurezza “ferrea” del suo “scudo”, corazzato peraltro dall’invincibilità lucente del Clint dal sigaro (s)fumante in battute secche da raderti al suolo e sfondarti il culo appunto di freddura su “frittura” mista dei pesci che abboccarono al fuoco mirabile delle sue provocazioni taglienti. Sì, provocò un casino a tambur battente, scalpitante di vendetta quasi sempre spiegata alla fine, prima infilzò gl’ignoranti, tirandosela da “buono”, quindi cazzeggiò a tutto (s)piano, a fuoco lento, sculettando di “cavallo” quanto la taglia… dei suoi pantaloni, sterminando tutti i coglioni… coi colpi piazzati uccidenti in brutali, interminabili duelli in cui i torti terminarono proprio recidenti e radenti. Accidenti! Anche se, talvolta, non tornano i conti…
Da qui cominciò la trilogia del dollaro, miei spaventapasseri. E, dopo il “rodaggio” de Il colosso di Rodi, s’innalzò già in gloria (ir)raggiante la leggenda di Bob Robertson, primo “nick” del grande Sergio Leone. Ciak!
Sì, il genere western è tutto americano e mi(s)tico. Appartiene a John Ford. Ed è un vezzo italiano dell’epoca quello appunto di “americanizzare” il proprio nome all’anagrafe. Un perdonabile vizietto dello Stivale. Eh già, ove ci son gli stivali, ci son anche gli “spaghetti”, anche se Per un pugno di dollari, a differenza di quel che molti erroneamente dicono, fu girato in Spagna, esattamente nella regione della Castiglia. So che le faccio girare.
Bob Robertson è lo pseudonimo con cui Sergio Leone, omaggiando “sui generis” colui che lo generò, cioè suo padre Vincenzo, che a sua volta era un regista “noto”, anche se “misconosciuto” dai più, come Roberto Roberti, si presentò al grande pubblico, rivoluzionando appunto il suddetto genere. Infatti, questo film fu un clamoroso, inaspettato successo commerciale al botteghino, roba di enorme, svelto e scaltro malloppo per una carriera già “al galoppo”. Insomma, Sergio, dopo aver fatto la classica gavetta, dopo aver esordito con un film “dimenticabile” e pieno zeppo d’imperfezioni, azzeccò sorprendentemente il suo primo, appunto, cavallo di battaglia. Instant classic perfetto. Inventandosi di sana pianta un remake unico, (non) dichiaratamente ispirato a La sfida del samurai di Kurosawa. Concedendo ad Akira i meritati “diritti” d’incasso nel dargli la percentuale che gli spettava.
Presentandosi così negli Stati Uniti, anche alcuni membri attoriale e della tecnica troupe modificarono i loro nomi per “esterofilia” che faceva figata…, non una gran figuraccia, tutto sommato, anche se un po’ vennero indubbiamente “storpiati”. Non (si) sfigurarono però, sia chiaro, miei (o)scur(antist)i, figuratevi, miei “fighi” e figli di puta e, in pantofole, pappamolle di papà. È gente che vi fa ancora il popò. Oh, oh, topolini sempre in cerca di topine. Sergio vi accoppa. Carine da (o)carine, qui parliamo di carabine. Poche chiacchiere. Quando si spara, si spara, non si parla!
L’autore della colonna sonora, che da allora in poi sempre scriverà le ipnotiche partiture musicali dei film di Sergio, l’immenso Ennio Morricone, si “spacciò” per Dan Savio, detto anche Leo Nichols. Invece, chi si nascose sotto il “credito” di John Wells? Il già storico Volonté Gian Maria.
Leone, invero, pensò di far il furbo, rubando di soppiatto il soggetto da Kurosawa, convinto (mica tanto, tantissimo) che il film non l’avrebbero visto in molti. Invece, in molti lo videro, eccome, compreso Akira, che sporse causa affinché Sergio gli concedesse in Oriente l’esclusiva degli incassi. Causa che vinse ma a Leone andò comunque grassa. Leone è sempre stato “grasso”… che cola e da film ove i cadaveri “contano” per riscuotere i co(n)tanti. Una mente fine, insomma, cazzoni. Il film fu appunto un colpo vincente di gran cassa. E tanto basta, bastò, cambio i tem(p)i come mi pare e piace, tu non mi piaci e giù bastonate. Anche se, va detto, che Leone s’ispirò anche all’“Arlecchino servitore di due padroni” del nostro Goldoni, mischiandolo a Shakespeare e chi più ne ha e più ne (o)metta, fra (ec)citazioni varie e sperticati omaggi dappertutto sparsi, tra fucilate, taglie, coltelli, rasoi(ate) micidiali, omicidi, donnacce, un montaggio che seppe di seppia quando “sparare”, cromatizzato in colori saturi e permeati d’atmosfere sudate, come allungare senza mai stancare e poi repentinamente, tra serpentine di pistolettate, staccando, dilatar gli spazi, enfatizzare, focalizzarsi in “pause” e poi di brutto, fra tanti belli e bruti, accelerar incendiante come i (tra)monti rosseggianti. Un Cinema “lacero”, di carni alla brace, brado, selvatico, “volgare”, barocco eppur elegante, fuori da ogni moda, precursore di Tarantino & company, anticipatore di ogni Django…, di Ringo, Trinità, e dunque contenente pure due altri “fake” italianissimi, Giuliano Gemma, alias Montgomery Wood, e Terence Hill, cioè Mario Girotti.
Un Cinema spartiacque, “incontinente” di epigoni ed emul(azion)i più o meno riusciti. Che fa successo nei conti(nenti).
Un Cinema che tutt’ora docet.
Non voglio essere pleonastico e ridondante. Dunque, non starò a citarvi gli stravisti e amatissimi “seguiti”, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, tutti da Sergio sempre sceneggiati con la mano inconfondibile della penna di Sergio Donati (accreditato e non) e qualche “aggiunta”, che non guasta affatto, di Age & Scarpelli. Ma la mia non è una domanda retorica se vi chiedo che c’entrano Dario Argento e Bernardo Bertolucci? Il soggetto di C’era una volta il West è loro.
Ora, come i cavalli dei suoi grandi film, non è mia intenzione fare il maestro, bensì imbizzarrirmi, essendo, nonostante tutto, già di mio molto bizzarro. Attento, non tentarmi, ci son altri più gravi attentati a cui devi prestar attenzione. Io non (ti) perdo mai di mira. Non mi attenui da tenero, mio tesoro. Questo è il colmo! Sono al culmine della mia calma, temi adesso per la tua incolumità!? Ti fotterò in culetto, delinquente. La mia ultima tentazione è questa.
Il Cinema di Sergio Leone è famosissimo, apparirei indigesto nel volervi far la morale come la parabola dell’Indio… una malalingua!
Tale perla ancora però vi (ripro)porrei, perché può darsi che alcuni sian da educare a tale indimenticabile, strepitoso pezzo Cinema, vero, scemi di Pongo o, se preferite, pezzi di sterchi? No, siete solo mendicanti smemorati da dimenticatoio. Io non dimentico, sono il monco!
C’era una volta un falegname. Pensate che possa fare fortuna un falegname? No?! Be’, invece sì. Questo fece fortuna. Perché un fabbricante di casseforti, un furbacchione, pensò di mascherare una solida cassaforte, facendola sembrare un qualsiasi mobile. E, per questo, il furbacchione chiama il nostro falegname ma, un giorno, il destino lo fa passare per El Paso. Lo fa entrare in quella banca e che ti vede? Uno dei suoi mobili che aveva fabbricato qualche tempo prima. E da quel giorno non riesce più a lavorare perché, nel suo cervelletto, c’è una sola idea che gira, gira… mettere le mani dentro quel mobile. Certo, pensate voi… quel falegname ha avuto una bella fortuna a entrare proprio in quella banca. Invece no… La sua fortuna si è fermata lì perché poi, in prigione, ha incontrato me. Ih ah ah ih, e mi ha raccontato tutto… ah ah ah. Non nella cassaforte… qui dentro, c’è mezzo milione di dollari…
Ecco, finirei così:
– Cos’hai fatto in tutti questi anni, Noodles?
– Sono andato a letto presto…
Eh sì. Il “monco”, ch’è Clint ma sono anche io, si diverte da “matto” a ripetere le stesse battute, variandole di comprendonio tardo ai tonti che siete voi. Vi fa ammattire. Voi arrivate sempre tard(on)i. Io invece no.
Quando devo sparare, la sera prima vado a letto presto.
Ché (ri)monterò in sella, dandovi la sveglia!
Dunque, cretino, prestissimo, coi miei speroni ti prenderò a calci, quindi m’appresterò a calpestarti dopo che mi (ap)pestasti.
Perché non sono morto. Hai finito di sperare. Inoltre, hai perso tutti i colpi, i tuoi (ri)f(l)essi son andati a mignotte. Ora, ti sparo.
Da cui il revenant, memore leoni(a)no, di Unforgiven.
SHUTTER ISLAND – LA PAZZIA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN MAESTRO
di Simone Martinelli
Oggi parliamo di un film che non è molto recente.
Shutter Island è un film del 2010 ma a ogni visione trova sempre un modo per far discutere. Martin Scorsese dirige un thriller psicologico, potendo vantare un cast di tutto rispetto: Leonardo DiCaprio, Ben Kingsley, Mark Ruffalo e Max von Sydow.
Perché ho deciso di parlare di questo film?
Shutter Island è uno dei miei thriller psicologici preferiti. Un film che si impianta nel cervello e che fa veramente fatica a uscire. Questo grazie a una storia veramente potente e ricca di particolari. La trama è la seguente: Nel 1954, all’apice della Guerra Fredda, il capo della polizia locale Teddy Daniels e il suo nuovo partner Chuck Aule vengono convocati a Shutter Island per indagare sull’inverosimile scomparsa di una pluriomicida che sarebbe riuscita a fuggire da una cella blindata dell’impenetrabile ospedale di Ashcliff. Circondati da psichiatri inquisitori e da pazienti psicopatici e pericolosi confinati sull’isola remota e battuta dal vento, i due poliziotti si trovano immersi in un’atmosfera imprevedibile dove nulla è come appare. Un film pieno di significato. Una critica alla violenza e alle persone che ne fanno uso. Quello che, all’apparenza, può sembrare un film horror, si trasforma ben presto in un contesto drammatico che spiazza lo spettatore fino all’enigmatico e drastico finale. Leonardo DiCaprio (come sempre) riesce a fare suo il personaggio con una prova attoriale magnifica. Per quanto riguarda gli altri attori…Vogliamo veramente parlare della recitazione di Ben Kingsley e Max von Sydow? Io credo proprio di no. Se proprio vogliamo trovare un difetto in questo film, possiamo citare il montaggio. Molti sostengono che sia stato fatto apposta ma, dopo averlo visto tante volte, ci sono degli errori veramente evidenti e alcuni che lasciano il dubbio. Come la famosa scena del bicchiere.
In conclusione, possiamo dire che Shutter Island è un film veramente eccellente. I film che fanno discutere sono sempre i migliori e Scorsese sa come scuotere lo spettatore. Per cui, se amate il genere, non potete non vederlo. Anzi, vi pentirete di non averlo fatto prima.
Periodo horror, periodo lieto, periodo di “liti”, periodo sbagliato di prese per il culo perché forse manca una virgola ma forza, coraggio e volontà Evviva Gian Maria Volonté!
di Stefano Falotico
Ieri, mi recai da mio cugino. È sempre un viaggio che m’allieta e mi riporta con la memoria indietro quando entrambi, felicemente, spensierati e liberi dagl’ingombri della vita quotidiana, oggi(giorno), anche se ieri fu di un’altra più dorata era, siam come molti “in crisi”, non tramontanti nella sera eppure perduti nonostante i sogni noi non abbiam affatto perso in quanto speranti. Indossiamo infatti gli speroni. Classiche scarpe da falliti? No, ti ho beccato in fallo, smonta da cavallo e ti strappo quella che monti, tagliando il tuo uccellino. Ché i nostri invece librino fra la lettura d’un ottimo libro fantasy e il fruscio ondoso dei capelli smossi da tal morso predatorio delle ansie qui nostre odierne in tal modernità putrida e spaventosa, ché fa paura per com’è più orripilante dei film d’orrore d’una volta. Moduliamo i nostri (cap)pel(l)i, già, d’anarchici libertari, vibriamo, ascoltando la radio(attività) nell’etere di tal tremendo entroterra poco umanistico e involgaritosi mostruosa-mente, invero. Non mi tolgo il cappello davanti a nessuno, leccami la cappella. E prega in ginocchio, gnocca.
In tale disarmante attimo di pura ars amandi, esigo il silenzio più irreligioso.
Vi reciterei nuovamente il monologo di Brando d’Apocalypse Now. Ma già lo feci e questa società è una fornace che mi fa specie… “disumana”. Fece…
Assieme a mio cugino, rimembrammo gli antichi fasti del Frankenstein di Branagh, film che lui considera orrendo e invece a me va a genio quanto Kenneth intervistante, vanitosamente, lo stesso De Niro che diresse in modo tanto magistrale d’“agghiacciarmi” per sempre nella bellezza orrorifica più grandiosa come Helena Bonham Carter, immensa, immor(t)ale figa maestosa, la cui vagina mi rapisce di grande glande ed enorme “glassa” da freak–mani di forbice alla Tim Burton più genialmente, appunto, e di “gel” da Fabbrica di cioccolato masturbatorio da leccarmi poi il “dito” in modo sbott(on)ante, mie puttane pallose di tal sistema prostituitosi alle menzognere balle. Chiaro, bellocci? O ve lo devo (in)scrivere grosso a lettere cubitali?
Sono un Johnny Depp versione strange, vi par strano e mostr(uos)o che “me la tiri” di brutto anche se (non) son bello come Johnny? Sì, sono Johnny Handsome col fascino d’un faccino “sfacciato” alla Mickey Rourke eterno e (in)distruttibile da immenso attore a fartelo. È tutta “farina” della mia sacca scrotale, cari lupetti che mangiate ancora il Saccottino…
Gli an(n)i miei passan fra un passato di Ricordi, album(e) sfogliante delle donne con cui di p(l)ett(r)o “strofinavo” il mio sesso come un giradischi lento e lieto nei fondoschiena più musicalmente “ululanti”, ops, volevo ardere e dir urlanti, e il mio movimento di “bacini” pelvici alla Presley Elvis nel rimembrar che anch’io, un tempo, ero “membro” di tal società di mer(de), miei stanchi e finti stinchi da santi falsamente fini.
In verità, me ne son sempre “estratto” prima che potessi partorir mostri come voi. Per alcuni son sfigato, eh già, sono un drop out dalle fighe, per altri, uno che entrò a fottervi. Sfottetemi pure. Ho il mio fascino da figo (i)mutabile e, a suo mo(n)do, penetrante.
Vi sfanculerò.
Sì, alcune mi stavan per far impazzire ed ero lì per “schizzar” da fighetti come voi.
Avendolo (s)c(r)ol(l)ato e di caramello” imbavagliante a lor donne ingozzate, sbavanti e sbevacchiandomelo, non mi “bagnavo” mai, preferendo aprire l’ombrello, pur dandolo piovigginoso e anche te(r)so in tante lo(r)date, in quelle notti malinconiche in cui le abbandonavo dopo che, nel p(i)atto in cui me lo mangiarono, sputarono, “succhiandomelo” sin all’osso. Con tanto di cucchiaio.
Sono ancora inte(g)ro e moralmente forse discutibile ma è sempre meglio (piut)tosto che allevar figli, i quali, una volta cresciuti, lo “svilupperanno” da quaglie, credendosi squali, solo per mettervelo nel culo, mie squagliatissime. Dove pensano di squagliarsela? Fidatevi, io le/i fiutai già e orgogliosamente, tutt’ora “durissimo”, li/e rifiuto. Con tanto proprio di sputo, miei figli di pute. Pane integrale o pene a voi (dis)integrati?
Se di vico questo, infami, è perché sono un “morto di fame” come Eastwood e Van Cleef di Per qualche dollaro in più.
C’era una volta… il West e/o in America?
No, questa è la parabola dell’Indio alla Sergio però sempre Leone.
Recitato da Dio, cioè Volonté.
E sia fatta la sua volontà perché io, suo braccio destro, eppur non Mario Brega, ve la ripropongo qui, seduta stante. E tu, dai, siediti. Altrimenti, in pancia, ti sparo.
C’era una volta un falegname. Pensate che possa fare fortuna un falegname? No?! Be’, invece sì. Questo fece fortuna. Perché un fabbricante di casseforti, un furbacchione, pensò di mascherare una solida cassaforte, facendola sembrare un qualsiasi mobile. E, per questo, il furbacchione chiama il nostro falegname ma, un giorno, il destino lo fa passare per El Paso. Lo fa entrare in quella banca e che ti vede? Uno dei suoi mobili che aveva fabbricato qualche tempo prima. E da quel giorno non riesce più a lavorare perché, nel suo cervelletto, c’è una sola idea che gira, gira… mettere le mani dentro quel mobile. Certo, pensate voi… quel falegname ha avuto una bella fortuna a entrare proprio in quella banca. Invece no… La sua fortuna si è fermata lì perché poi, in prigione, ha incontrato me. Ih ah ah ih, e mi ha raccontato tutto… ah ah ah. Non nella cassaforte… qui dentro, c’è mezzo milione di dollari…
Sì, peccato che non abbia(n) fatto i conti con uno a cui invece tornano…
E che è tornato similmente a Freddy Krueger…, “bruciato” vivo come Sacco e Vanzetti dalla cattiva coscienza di gente stupida e, lor sì, cattiva. Che sacchi di…, e adesso li svuoto/a.
Buonanotte. Chi la fa, l’aspetti. Nightmare…
Questo è il mio periodo interminabilmente stronzo. Dura così da molto. Sarà per questo che sono un duro che non soffre di eiaculazione precoce ma soffre e basta?
Non lo so. Adesso, ho sonno. Lasciatemi (ri)posare senza pace. Evviva la pece e la polvere.
Non ci sono però refusi in questo mio scritto? No, i puntini sulle i li metto agli ometti come te, fuso e pun(i)to. Finiamola con un puntino e una virgoletta? No, ti serviranno molti più punti di cucitura dopo questo altro mio pugno.
Ho fegato, sì. Tu no.
E ora crepa!
Vigliacco!
Rocky III, recensione incazzata
di Stefano Falotico
Il benessere, troppo placido, sfianca l’anima del lottatore innato…, si va giù e si torna poi su di ali(ve) and winner again volante da vincente stallone montante ed enorme rimonta suonante
Entusiasmante!
Sì, molti soldi dan alla testa, come dice il proverbio e, anche se ti chiami Balboa e ti mantieni fisicamente in ottima, atletica forma strepitosa, anzi, sei perfino smagrito piacevolissimevolmente dai film precedenti, dunque non ti è cresciuta la “panza”, rammollito sei oggi purtroppo un pagliaccio che vive del suo carisma e del suo glorioso passato. Andato però da un pezzo di merda. Poiché sei diventato un lurido stronzo come tutte le persone arricchitesi.
Insomma, dall’aver miracolosamente agguantato il sogno americano, adesso ti sei “seduto” sugli allori, guadagnando ancor più soldi, appunto, nel campar vigliaccamente d’altri facili baiocchi, grazie a (s)combinati incontri truccati. Ti sei rifatto anche spudoratamente il look “dorato”, hai “corretto” il setto nasale, aggiustando la mira della tua congenita origine da proletario grezzo, “mo(de)llando” i grossolani lineamenti per “all(in)earti” a un’apparenza più (r)affinata, e hai ora un profilo aquilino da furbacchione. Tanto bello alla vi(s)ta quanto impoverito nel cuore inaridito. Hai la faccia come il culo, (I)caro mio.
Sei migliorato? No, assolutamente… quell’assolutamente sempre incitante alla grinta che il tuo “vecchio” coach Mickey ti spara “borbottante” addosso quando avverte che urge sterzare e arrabbiarsi per mai arrendersi. Per “sbottare” in furiosa, sacrosanta, mai doma voglia di vincere. Lottare perennemente… con assiduità, energia da vendere, mai buttarsi via e riafferrare invece con (co)raggio rifulgente l’“altered beast” tua, nell’anima assopitasi, nell’elevarla portentosa in potenza ferocissima di fuoco e forza leonina imbattibile. Solo così si vive e si è vividi! Nel mai riposarsi da vin(ci)t(or)i.
Invece, Rocky, pare che tu abbia dimenticato la regola principale che tiene sempre l’uomo sveglio e reattivo. Se abbandoni la lotta, forse non cadrai più al “tappeto”, perché hai oggi il culo parato, ma sei già morto dentro da un po’ e da comodo popò, infiacchito ti pavoneggi infatti gigioneggiante soltanto da buffone alla mercé di chi te lo lecca per farti (in)felice. Campi sugli ippopotami, sulla povera gente che, pachidermica, innaffia il tuo bagno di dollaroni.
Ti presti pure a ridicoli incontri di wrestling con Hulk Hogan/Labbra Tonanti, esibendo il tuo “eroe” da statua in piazza, già sgretolante nella leggenda da te robustamente, orgogliosamente (ri)costruita, ma non tanto più nella tua anima davver “vivente” come prima…, a mo’ di fenomeno da baraccone “splendente” per quattro polli che spenni. Tanto la gente ti acclama e tu “incassi”… Che “colpaccio”. Le braccia, i bicipiti, gli addominali e i polpacci rimangono tonici ma nel cuore hai perso il grintoso, fiero t(u)ono!
Così, dopo aver meritissimamente vinto il titolo di campione dei pesi massimi contro Apollo Creed e averlo difeso per un decennio abbondante, scontrandoti però sul ring soltanto con scamorze (s)cadute a cui era facile spaccar i denti già cariati, mio carino, proprio ringhiante, da eye of the tiger, non sei più. Un survivor che va rispronato fortissimamente!
Sei “spompato”. Coglione, dove son finiti i coglioni?
Al che, arriva a sfidarti il temibile Clubber Lang, alias montagna di muscoli nera di nome Mr. T., l’animale dell’A-Team.
Sì, Lang è un toro cattivissimo ma tu pensi che non sia nessuno e lo affronti con troppa facilità.
Ti distrugge, ti stende completamente e ti ruba la dignità. Hai rimediato una figuraccia oscena. Facendo ridere tutti, compresi i tuoi ex ammiratori sfegatati. Clubber ti ha umiliato appunto “a bestia”. Hai perso il fegato d’una volta…
Intanto, Mickey muore d’infarto e, dopo la batosta tremenda, sembra che tu non sia più in grado di rialzarti, soprattutto a livello psicologico. Che (ri)caduta!
Ecco che quindi rispunta il tuo amico-rivale bigger than life…, Apollo, mio Rocky spellato arrosto da pollone fritto e or (ro)sol(ato) rosicante di fitte allo stomaco spappolato e spolpato. La vergogna ha arrossito il tuo visino così da Lang cucinato e per le feste conciato.
Apollo Creed però ti conosce a memoria, d’altronde sei stato tu a batterlo, e a cui dà enorme fastidio, anzi, è irritato a morte, che tu sia stato sconfitto in modo così vergognoso appunto, e a (s)punt(in)o devastante da quel Clubber stronzissimo e “ignominioso”. Non tutto il male viene per nuocere, eh no, se un amico vero e fidato ti prepara per una nuova sfida che vale una vita.
Apollo, così, ti provoca di “contraccolpi” incoraggianti sull’infilar il coltello nella piaga a fin(ezza) di bene, ché tu possa ritornare il combattivo leone d’una (s)volta.
Ti riallena per la “vendetta”. Non ha tutti i torti, bisogna buttar giù quel bastardo Lang che ti martoriò di gravissimo, derisorio torto da crudele tor(chi)o.
Fu un durissimo colpo che va subito curato. Devi presto e tosto incularlo.
Dunque, torni sul ring e “non lo vedi neanche”. Clubber, adesso che tu, Rocky, sei ritornato (alla) grande, non riesce a capire a quale velocità arrivino i pugni in faccia e da dove partano!
Vinci di nuovo.
Questi sono gli occhi della tigre.
Buonanotte.
I GIORNI DEL CIELO – LA POETICA DI MALICK INIZIA A SBOCCIARE
di Simone Martinelli
La mia prima esperienza con il regista risale nel 2011. Decisi di andare da solo a vedere uno dei film che più di tutti mi ha cambiato il modo di vedere la vita e le sue sfumature. Ebbene sì perché Tree Of Life è una pellicola che merita di essere vista, approfondita e vissuta. Per non parlare del capolavoro del regista Malick, ovvero La sottile linea rossa. Una preghiera assolutamente meravigliosa che ha cambiato il modo di vedere la guerra a moltissime persone.
Ma il film di cui voglio parlarvi oggi è un altro.
Siamo alla seconda pellicola del regista.
Dopo La rabbia giovane, un cult per tutti i cinefili, il regista scrive e dirige una storia che parla d’amore e delle conseguenze che ne possono derivare.
La trama è la seguente:
Bill, un operaio costretto a fuggire da Chicago per una lite con il padrone, si dirige verso i campi del Midwest insieme alla giovane amica Abby e alla sorellina Linda. Trovato lavoro presso l’immensa fattoria del giovane Chuck, Bill e Abby notano l’interessamento del padrone per la ragazza che, tra l’altro, si è fatta passare per sorella di Bill. Per pura casualità, Bill viene a sapere che il ricco rivale è condannato a sicura e rapida morte da male incurabile e per questo spinge Abby ad accettarne l’offerta di matrimonio. L’avvenimento permette a Bill e a Linda di stabilirsi nella casa di Chuck a stagione finita, assaporando i piaceri della ricchezza. Tuttavia, quando Bill s’accorge che Abby si sta innamorando del marito, tenta di riconquistarla.
La pellicola è ricca di dettagli che ben presto formeranno a tutti gli effetti lo stile e la poetica di Terrence Malick: la sua stupenda fotografia, la meravigliosa colonna sonora, che qui è firmata dal grandissimo Ennio Morricone e la voce fuori campo, marchio indelebile del suo lavoro.
Il cast è formato da Richard Gere, il suo vero primo ruolo da protagonista, Brooke Adams, che molti la ricorderanno anche ne La zona morta di David Cronenberg, e Sam Shepard nel ruolo del giovane ricco e rivale.
Come al solito non possono mancare gli spunti riflessivi. Un amore nascosto e che non riesce ad avanzare per via dei soliti pregiudizi. Il cinema di Malick può essere odiato o amato. Ma un film come I giorni del cielo non capita di vederlo tutti i giorni. Per tutta la durata della pellicola, non riesci a staccare gli occhi dallo schermo. Senti qualcosa dentro di te, ma non sai bene che cosa ed è questo che amo di questo regista. Il fatto di saperti affascinare attraverso la bellezza delle immagini e dei suoi pensieri. Tuttavia non possiamo definirlo un “capolavoro”. Purtroppo a questo film manca qualcosa. Un piccolo tassello che a mio parere avrebbe potuto portare questo film a vincere l’Oscar. Ma ci si può accontentare se pensiamo che I giorni del cielo ha vinto una statuetta per la miglior fotografia e su questo non abbiamo dubbi. Premio meritatissimo.
Se volete provare un’esperienza che riesca a toccarvi nel profondo, i film di Malick sono la scelta più azzeccata. Vi consiglio di visionare l’intera filmografia di questo maestro. Ne vale veramente la pena. Aprite la vostra mente e guardateli con il cuore.
In fondo il regista chiede solo questo.
Rocky V review
La grinta riesumata del vecchio leone indomito…
di Stefano Falotico
Ritorno dietro la macchina da presa per John G. Avildsen, autore del capostipite.
E ritorno anche nella periferia “scassata” della fatiscente e però candida Philadelphia.
Sì, perché Rocky, dopo essersi affidato alle mani d’un truffaldino e scellerato commercialista, perde tutto e si trova costretto a vendere le sue proprietà, ripartendo appunto daccapo e scende così nei “bassifondi” suoi natii di quella periferia tanto degradata tanto amante però del sogno americano, perché è in quelle palestre che è sorto il suo leggendario mito. E ora deve, per risorgere, “giocoforza”, riallenarsi soprattutto nella volontà, deve indossar di nuovo i “guanti” della vita dura, della vita che deve lottare per sopravvivere, per riscattarsi ancora dall’imprevista, profonda, buia caduta.
Dopo lo sconforto, Rocky si riambienta bene nel posto che conosce come le sue tasche. E decide di riaprire la palestra di Mickey, oramai in disuso. Così, prova a unire l’utile al dilettevole, congiungendo la sua inesauribile, bruciante passione per il ring col far da trainer alle giovani speranze che, come lui all’epoca, voglion “picchiar duro” per ambir a poter almeno trovare il loro spazio in tal mondo duro e disperato. Un mondo spietato che spesso non lascia scampo a chi è nato “sfortunato” e povero in canna. Un mondo lapidario, secco che fa male, ferisce più di tanti pugni con l’arma cattiva, ferente e frequentemente annichilente, che non offre quasi mai una seconda redentiva possibilità. Nessuno spazio ai (redi)vivi. Un mondo che “spacca le gengive” ai deboli. Rompe i denti e soprattutto spezza il cuore velocemente.
Tant’è che Rocky, di buona lena, rimette su la palestra in cerca forse del suo erede.
D’un ragazzo altrettanto talentuoso nel far a botte per consegnargli il passaggio putativo di “coscienza”. Un ragazzo che sia sveglio, che non s’arrenda facilmente di fronte ai colpi che la società duramente e senz’appello infligge. D’una società che ti butta al tappeto ancor prima che tu possa riprender fiato. E ti sbatte all’angolo, ove sanguinerai a morte… trucidato nell’anima (s)colpita senza esclusione appunto di colpi. La società che dà poco e devi conquistarti ogni centimetro di vita a stretti denti, saltellando atleticamente e instancabilmente di forza e soprattutto enorme, resistente intrepidità. Il coraggio dei vincitori che non si son mai dati per vinti. Di chi vuole rimanere vivo e non solo un manichino nelle mani di chi regge l’ingiusto gioco.
Rocky così trova un ragazzo che ci sa fare. Che non molla per niente. Che le “suona” leonino, Tommy Gunn. All’inizio n’è diffidente, poi addirittura comincia tanto a prender confidenza col giovane, da portarlo a casa sua e regalargli proprio la “cintura” del titolo di campione dei pesi massimi. Al che, Tommy, ottenuto ciò che voleva, gli volta le spalle.
Come se non bastasse, un losco organizzatore d’incontri, farà di tutto per metterli proprio uno contro l’altro, usando il ragazzo per provocare Rocky, al fine che Rocky, a scopi suoi di lucro, torni sul ring, in modo tale da creare un evento mediatico che gli possa esser egoisticamente furbo… e remunerativo.
Alla fine, il ragazzo casca nella trappola e, guidato dalla mano sinistra del losco “fig(ur)o”, una notte si reca al bar frequentato da Rocky e lo umilia. Rocky, dall’alto della sua signorilità, saggiamente gli consiglia di lasciar perdere, salutandolo tristemente da buon amico e sconsolato addio. Ma il ragazzo, sempre spronato dal “diavolo nero”, sferra un pugno al cognato di Rocky. E, a quel punto, Rocky non “ci” vede più dalla rabbia, lo trascina in istrada e comincia la sfida fra lui, campione innanzitutto di classe, padre “adottivo”, e il “figlio” prodigio poco prodigo ma molto ingrato. Parte la scazzottata micidiale. Alla fine, dopo darne e prenderne, Rocky stende Tommy con un montante vincente.
E la folla lo applaudirà nuovamente, elevandolo in gloria, a monumentale mito imbattibile come la statua a lui dedicata sempre vicina al museo degli underground risorgenti.
Non un capolavoro, anzi, un filmetto abbastanza mediocre. Ma spassoso, proprio “forte” come si suol dire. Che fila “diretto” di staffilate, fendenti e schermaglie di fioretto per sangue da “filetti”.
Curiosità: Tommy Gunn fu interpretato da Tommy Morrison che, all’epoca delle riprese, era davvero un pugile dei pesi massimi. Famoso per aver sconfitto George Foreman nell’incontro valido il titolo di categoria suddetta e “sudata”.
Tommy Morrison è deceduto alla sola età di 44 anni, lo scorso anno, affetto da una strana sindrome di deficienza delle difese immunitarie mentre, in questo film, fa la figura del deficiente indifendibile.
Cosa penso di Al Pacino?
di Stefano Falotico
Così, in mezzo allo squittio di tante parole vane, apparirà il fantasma reincarnato di Al Pacino, al solito urlante. Lui, coperto da una lunga casacca, evanescente apparendoci proprio ectoplasmatico e vanitoso, diabolico eppur suadentemente sulfureo di suo tagliente, carnoso viso magrissimo e “fetente”, intagliato nella pietra delle sue ansie, delle nevrosi da eterno, incurabile uomo inquieto.
Molto strafottente… e se lo può permettere.
Statuario di forza penetrante dagli occhi b(r)u(li)canti non solo lo schermo, bensì tutti gli schem(atic)i… collaudati in tal mondo bieco e (mal)sano di poca mentale sanità, un mondo falso che racconta panz(an)e, lui invece no, non mente mai anche quando dice le bugie, uno scarface adirato, inviso e dunque sempre col volto tiratissimo, uno che se la (s)tira a sbraitar monologhi inascoltati perché reputati p(r)es(s)anti, uomo asfissiante quanto conquistatore di gran fascino a rapir tutte le tope fottute, compresa Diane Keaton, caduta come una pera cotta, stesa dopo che Al, (es)teso…, le “rilassò” un sorriso magnetico e “lì” andando a parare da taciturno nella vita privata che (re)cita solo a (di)letto di urletti, chiaro, donnetta? Uomo frenetico e (in)sopportabile, un antipatico simpaticissimo dal portamento fiero che parla di grandi temi invano, in passato forse ricevette solo offese da “gigolò” preso per il popò, scheggiato da chi non tollerò che un italoamericano potesse aver s(ucc)esso, rifiutato nel ruolo di Amleto a Broadway perché non dinastico nel sangue “reale” da baronetto, lui, invece il Bardo incarnato a zigomi tesi, feroce nella (te)nerezza romantica e cupo nitor ch’emana di carisma assoluto, brandiano, da Padrino intoccabile, mai datato, immortale, lui che qui si materializza in tanti suoi capolavori interpretativi d’una sua memorabile galleria attoriale indimenticabile. Fra personaggi da galera, galeotti appunto o simpatiche canaglie, “galletti” dal sex appeal bastardo a mo’ inculante i “grilletti” di “mostarda” su faccia “sal(s)ata” da stronzetto saccente, ch’è solo un “cafone” di razz(i)a a mangiarsi tutti gli inetti, anche forse più bravo del De Niro di Heat, uno da 30 secondi netti. Ché sempre visse una mastodontica, imbattibile rivalità col collega Bob, entrambi corleonesi e figli di Coppola. Al Pacino, arrogante come dev’essere–non essere, uno Shylock che mette paura da “gobbo” re Riccardo. Lui, che impara perfettamente le battute a memoria e non ha bisogno di gobbi né di sognare. Lui agguantò l’americano sogno e lo fotté in culo, alla faccia degli ipocriti che all’inizio l’odiaron a muso duro.
Chiuse lor la bocca, smaltandosi le sue labbra con ambiguità da cruising, un po’ a pigliarti pel cul’ e un po’ ammiccando di brut(t)to. Se mi sei amico, ammicca, se no, amami.
Evviva i Village People!
Provarono in ogni modo a demoralizzarlo, a “provarlo”, a fargli perder quel passionale, esuberante, roboantissimo fuoco sempiterno suo dentro (s)battente di ventricoli pulsanti, affinché smarrisse la voglia stupendamente capricciosa di essere grandissimo.
Non ci riuscirono. Non ce la fecero, che feci.
Lui sempre ve lo fa.
Sembra un uomo falotico.
Se non vi piace, sparatevi.
Non mi dispiacerà.
Ah ah!