I migliori inseguimenti “mozzafiato” nel Cinema e nelle “curve pericolose” delle mie “sbandate” da Ronin…
di Stefano Falotico
Ah, sì, terrò sempre in auge il capolavoro di John Frankenheimer col duo strepitoso delle meraviglie malinconiche, De Niro-Reno, epiche spie senza identità fra una Parigi plumbea e una Nizza solare, marina, dolcemente femminile come una Natasha McElhone da bri(vid)i caldi. Quando la Luna polar(e), da lassù, ti (am)mira “infallibile” perché sei uno “sparatore” che sa mescere il proprio (as)petto da “duro” nel bacio alla francese zuccherante un aromatico amor c(l)an(d)e(stino) fra bistrot, cappuccini, lei che “scappella” e il tuo cappello da Jean Gabin, un succhiotto al buio, ché fa quasi la bua per come “misteriosamente” lecca il collo mentre fate… finta (sì, lei “finge” finissima mica tanto…) che siete due turisti (innamorati) persi al bordo della strada d’una periferia d’antan, leccando il culo alla gazzella della polizia. Poi, quando la macchina s’allontana, ecco Bob che “mitraglierà” a “fuoco lento” la nostra incantevole Natasha, carezzandole i capelli ondulati su fascino al ne(r)o della dissolvenza incrociata su “balistica” della regia impeccabile di John, che “schizzerà” d’inseguimenti da Vivere e morire a Los Angeles, da Driver l’imprendibile mischiato ai suoi ammiccamenti (auto)citazionistici di tutto il suo Cinema qui racchiuso, poi (e)nucleato, esplosivo, dinamitardo, dinamico, che ammicca da (a)mici-(a)nemici d’occhiolini e prese per il culo, di battute ficcanti d’un David Mamet sotto pseudonimo dalla freddura al ralenti calibrato-emozionale del glaciale raderti al s(u)olo, imbevendo l’atmosfera di esistenziale solitudine vampirizzante e deflagrante in due interminabili, sterminatamente belle quasi quanto Natasha, corse a perdifiato di BMW frenetiche in mezzo a “vicoli ciechi”, mercati ortofrutticoli, ammaccamenti e appunto ancor ammiccamenti, Renault scassate di terza mano che ingranan subito la quinta, cilindrate di “cavalli” ma(s)chi(li), bazooka caldi (in)d(i)rizzati a chi entra nel tunnel e ci rimane secco, asciutto come questo film enorme tagliato con l’accetta, sfumatissimo però nella caratterizzazione dei personaggi tutti di spessore, che (se la) s-fumano (dis)illusi, forgiati di gran caratura, fortissimi caratteri fra comparse, sparatorie, characters più veri di quella figa della Madonna che fu la pattinatrice sul “ghiaccio” nostro bollente, Katarina Witt, div(in)a delle “pist(ol)e” tanto da far riacquisire la vista ad Andrea Bocelli che le dedica con te partirò, una suspense di tal eleganza da far paura quando questi uomini, “corazzati” e coraggiosi di artigli(eria), fra metrò, complici amicizie vi(ri)li, (s)fottersi l’un l’altro, si sbudellano in un ingegnoso jeu de massacre tra fall(it)i che (non) sbagliano una mossa, sì, fallaci e poi nella notte falchi.
Vince chi è più acu(i)to di cervello, l’uccello più cazz(ut)o, l’aquila di maggiore acume. O forse perdono tutti, vince la stretta di mano commovente fra Bob e Jean, dunque Jean nel saliscendi rifless(iv)o della sua amarezza un attimo prima dei titoli finali, di (testa)coda su monologo “off” travolgente e da urlo di rabbia di tutti i “miserabili” alla Victor Hugo. Quelli che non son “cagati mai da nessuno” ma (r)esistono in un posto tutto loro, fra la notte e il giorno, fra le albe rosse d’una guerra persa in partenza quasi alla John Milius e il mandarti malandrino a quel paese subito senza (pre)avviso di (s)cadenza, stronzo basta(rdo), con una sparata di quelle toste come questo capodopera per pochi (e)eletti, robustissimo, inattaccabile, solido quanto l’ultima interpretazione magica d’un De Niro mai più così magnifico. Noi siamo i ma(nd)ri(lli)!
Oggi pomeriggio, ho fatto un giro in macchina. Passava una in pants ed è estate, capite, ca(s)pita. Lei “monta”, io non mi smonto su (ca)risma da uomo (sm)unto, la “carico” di “grilletto” e lei (m)unge i miei irti capezzoli su presto eretto un(g)ente, sblocco il suo “freno a mano” e fuorvio per non farle capire ove (s)punta il mio “mirino”. Tergiverso fra un tergicristallo di retrovisore furbo a mar(t)e(llo) nel suo didietro e lei che, impazzita, me lo lucida tutto, “affogandoselo” di g(l)as(sa) come un Grand Marnier “al bacio” di liquore su miei acceleranti marron glacé ora al cioccolato “tiramisù”.
Le ho chiesto se voleva che (le) prendessi la curva “perbenino” o “larga”. Lei si “alla(r)ga” e mi ricordo appunto che Ronin è il samurai senza padrone.
Sono io che devo comandare il gioco.
Ma rimango (in)deciso.
Al che, lei prende il toro per le corna ed estrae la mia scimmia, infilandoselo su mia scimitarra sfoderata, infilzante, ludica, lucida, da impudico, la tengo in “pugno”, forse è un fisting, ma rimango un (im)punito.
Sono un figlio de puta.
Beviamoci un caffè…
True Detective… dell’amicizia e del se… s(t)esso (e)steso
di Stefano Falotico
Ecco, credo che la serie televisiva dell’an(n)o, che m’ha “trucidato” in atroce sua magniloquenza invincibile, sarebbe da osannare finché morte non ci s(e)pari, come dico io, ché oggi mi credo iddio d’onnipotenza e idilliaco delirio, domani invece di poca autostima nel buio profondo che spero non tramuti in satanica rabbia da “mostro” di Carcosa.
Ah, il trauma!
La voragine profonda, la costernazione della vita nella “buonanotte” senza fine, forse da suicidio e fune di gola strozzata in urlo “reciso”.
L’angoscia… la presa… di cosc(i)e(nza).
La “metafisica”…
Sì, alcuni giorni fa (se la farà o deve ancor farsi?), platealmente dichiarai qui e su Facebook la mia “tragedia” imminente, annunciando un suicidio prossimo venturo dopo mie tante sfortune ma la (s)ventura volle invece che ancor sopravvissuto sono.
Eppur non ho sonno, sì, non dormo in quanto troppo incurabilmente nevrotico e di addolorato fe(ga)to d’addome troppo “pe(n)sante” dei borbottii di notte penosa, cioè i gastrici reflussi d’una vita spesso da me nauseata e indigesta.
Ma come sei bella…, donna, e te la… annuso perché dentro di te, crudo, vorrei esserti nudo senza i tuoi tessuti. Intessimi e strofinami a mo’ di garza e sii, d’amplesso, mia ladra gazz(ell)a.
Che fiore all’uccello, oh, scusa, m’è scappato… di troppa frettolosa scopata, che gaffe, che gattino Garfield imbranato, mia gatta e anche cagna, che fianchi, in cui t’entro a gattoni abbaiando e poi, “(a)sceso”, ululandoti, volevo dire che sei all’occhiello.
Afferra al volo l’uccello!
Ed ecco come, po(r)co da amico, non micio ma di minchia t’ammicco senza mancia, slaccia la manica, ecco la morta mano su (am)manic(at)o d’occhiolino, mia che la dai a tutti senza prezzo, mia pezzata prezzemolina, disprezzami pure e in faccia sputami, puta, si piega… ma non si spezza, sono un “duro”, un ardente, ascendente in ariete di “pesce” in oroscopo nella scopata… to die hard e tu da smorirlo morbido, mia mor(ibond)a. Ah, bevici sopra… e offrimi altre bionde a tutta birra. Ah, Rust è b(u)ono in fondo in fondo… è bona pur di purè la sborra, vero? Puah!
A parte gli “schizzi”, non scherziamoci.
Prendete questa “mia” per lo scazzo del momento da cazzone affilato e di staffilata.
Ben di pene infil(z)ata.
Sono come Rust Cohle, a detta di un mio amico.
Che non me lo dà ma ce lo diamo a (vi)cen(d)a di patate, batoste e “botte” in testa.
Abbiamo gli attributi, siam tosti e di testicoli da teste di cazzo! Lui è uno stronzo di merda “pura”, sì, un porco “purissimo” che va sul velluto lis(ci)o come sua moglie odiosa ma da oliare, che io comunque mi son fatto da dietro, prendendola per il culo. Perché lei ha chiesto la causa di (div)o(r)zio e la loro “bellissima”, studiosa però stupida fig(li)a è stata stu(p)rata “bellamente”, è una schifosa famiglia che si lamenta, ma il mio amico, Marty, se ne sbatte… i coglioni, ficcandoli alla d(ot)ata Alexandra Daddario, suggendole i grossi, enormi e irti capezzoli (t)rombanti sul vanitoso (di)vano vanaglorioso nello sventolarglielo scivolante in ventosa peccaminosa, cornificando poi ancor a tutto (an)dare fra le urla della casa nella sua faccia appunto da Alberto Sordi che osserva du’ spaghi, non “taglia la corda”, bensì lo provocano e se li magna al car(tocci)o.
Insomma, due amici per la pelle di “palle” un(i)te.
Eppur son affiatati e si reggon il gioco d’adulti sin al finale commovente. In cui Rust, cioè io, dopo mille peripezie, condivide nel pianto catartico la sua (dis)illusione fuori dall’ospedale, versando lacrime amare assieme a Marty, perché l’amore salverà il mondo!
La vita, sì, è una (s)figa(ta) continua, estenuante.
Eh sì, te l’allunga, ma alla fine rompe il cazzo.
Questo per dire che io credo questo: nella vita, il sentimento più importante è l’amicizia.
L’amore è una stronza(ta) inventata dai “leccaculo” che non san star da soli e han sempre bisogno di qualcuno che prepari loro il “salato” dopo l’acida insalata “dolce”, consolandoli a (di)letto dei loro umori femminili, cangianti e urlanti di strepiti (in)contenibili, litigi da (in)continenti insanguinati come le lenzuola dei panni sporchi e fedifraghi, cornuti, di piatti rotti fra schermaglie da scor(n)ati e pianti a (di)rotto nell’anima inculata da un pezzo della Madonna ché, dopo averlo letto, gridi: “Porco Dio!”.
Tieni, mio amico, questo mio con(s)iglio: “Fottitene!”.
Racconti cinici di Cinema: Luci rosse del tempo, fenomeno “atmosferico” del litanico torpore esistenziale
di Stefano Falotico
Luci rosse del tempo, fenomeno “atmosferico” del litanico torpore esistenziale
Le Red Lights della reminiscenza, del passato che (non) torna, insiste, pervade l’anima e l’annienta o solo, solfeggiando rimembrante, scuoia la membrana della svelata essenza.
Nudo, dinanzi alla vita che per gli altri è sempre danzante, per te, pur nella rivelatoria, illuminante trasparenza, appare sempre più nera, macabra vacuità del tuo volto di cera, impallidito come Dracula, avvinghiato dalle notti senza sosta del renderti esausto di tutto.
Un vivente candelabro.
Ma non soffri questo lutto, questo tuo pieno lupo esulta, pregno di gioia, ed è il colmo più stronzo da rubacuori del tuo sangue impietrito davanti alla vita desta o sol più assopitasi nella fresca, imbattibile melanconia! Come l’iridescente bagliore intermittente eppur fosco, nebbioso, del focoso e languido plenilunio d’un viaggio tuo interminabile agli albori dello scoprirti uomo, dunque anima(le), forse qualcos’altro di non ben identificato. Un UFO in mezzo a tanti gelosi gufi, fra il trambusto dei (sos)petti arcigni. Tu, un cigno ancor bianco, puro o materia con un Dio al di sopra d’ogni (mis)credenza, che sia cattolica, cristiana, d’un Giuda ladro o d’un meschino inganno, ché sia un Dio delle carneficine scannanti alle vittime innocenti o un tuo parvente uomo di bell’aspetto all’esterno ma marcio dentro, forse più vivo degli altri, i morti viventi.
Che c’entra il film di Rodrigo Cortés con Robert De Niro? Cioè, con protagonista De Niro. Non c’entra con De Niro ma di questo De Niro son “accentrato” parimenti di soliloquio nella solitudine che tanto m’angoscia sin da quando nacqui, dopo, sì, vissi anche anni felici, protrattisi oltre l’infanzia ma, trascorso un frammento, un “firmamento”, anche quello onirico credo, della mia assaggiata, passeggiante adolescenza, scolorii non tanto variopinto in miei acu(i)ti voli pindarici.
Rifugiante, illusoria profilassi (anti)assolutoria dell’esser solo. Soffrendo le notti già affrante della condizione umana così stolta e frivola. Stanti(a).
Io, bislacco, menestrello, fantasma allegro agli occhi di chi, superficialmente vedendo di me soltanto appunt(it)o, e impuntandosi, l’apparenza, porgendomi schernenti, ilari, disgustose, volgarmente goliardiche smorfie blandenti, affettatamente la mia anima fece a fette. Gente che è come le feci. Che fa e disfa a “piacer” escrementizio della loro (s)porca ignoranza da (non) vissuti davvero… adulti boriosi, con alle (s)palle tante delusioni loro da scaricar addosso a te, dunque a me, io come alt(e)ri ché cerc(hiam)o persone affini alla nostra un(ic)ità. Ma non c’è pace per noi che, a una certa età, scopriamo l’insopprimibile, incancellabile verità. Che solidarizziamo a fare? Per essere dagli essi vivono (s)fatti? Ed è oramai inutile, futilissimo, poco “furbo” giocar a nascondino. Celarsi dietro una maschera sorridente che inver soffre e sta fingendo di non star per morire. Così, rido io e ridi tu, ché siamo noi in (pro)fondo uguali, figli delle stesse stelle.
Ma poi, quando soli stiamo, nella nostra intimità lacrimiamo.
Ascoltiamo della musica che ci distragga, “ce la spariamo” affinché dal dolor più viscerale, stordendoci, ci distragga in tanto (dis)illuderci di scor(d)arci.
Scora(ggia)ti, stanchi, viviamo, non so ancora per quanto. E non è patetico pianto, no, presa di coscienza che saremo eternamente inascoltati. Mal nati, non ammainatisi ma forse mai nati. Della solitudine, soltanto oscurati soldati.
È il nostro sentire che non cambia, abbaia, mentr’attorno impazzan le fiere… carnalità dell’adattamento brado. Loro, le latrine, latrano! Si svendono e barattano da miopi burattini!
Quasi tutti son mutati, oggi ridono e scherzano ma son sinceri o solo più bravi attori dell’osceno palcoscenico ove vige e (non) vince la migliore, peggiore recitazione del sé interiore? Quindi, l’esteriorità più falsa da “bella” esposizione? Il balletto di chi meglio, ah ah, s’imbelletta?
Allorché, De Niro è cieco o sta appunto fingendo? Nel suo covo, al buio, confessa che lui è come un lupo. Un uccello del malaugurio, un “corvo”. Ed è da una vita che “recita” per “vedere” qualcuno, un amico che gli sia s(i)mile, per forzatamente costringersi, quasi, a stringer la mano alla sua natura “restrittiva”.
Perché la gente sa che lui è un diverso e, se non lo schiva sfacciatamente, glielo fa capire, usando lo “sguardo”, le occhiate più maliziose.
Ed è gente superstiziosa che teme il suo “stregone”, i poteri “paranormali” della sua anormalità da veggente proprio a scrutar la gente. Il malocchio!
Lui è il non (pre)visto agente.
E il finale sbaglia tutto. Perché diventa un film in cui vengon scoperte le carte. Insomma, De Niro è stato solo un mentitore, un ciarlatano, un buffone, un imbroglione. Un truffatore.
Non è mai stato cieco, dunque non è mai stato un diverso, bensì solo uno che voleva sfruttare la dabbenaggine dei poveri (dis)illusi per vivere.
No, non va bene. Rovina l’assunto, l’assurdo che invece credo sia credibile.
De Niro giocò con la credulità per farsi passar per mago delle incredibilità.
E se invece non avesse ingannato nessuno, tantomeno sé stesso?
Il film avrebbe preso una piega spaventosa, un capolavoro vivente.
Ora, vi spiego…
Molta gente, “non vedente”, pensa che il passato non torni, che sia (tra)passato.
No, il passato torna con più ferocia, torna sempre, per sempre.
Stai viaggiando in macchina, è una strada che conosci, ti è familiare ma non riesci a “mettere a fuoco”. Al che, spegni il motore, chiudi piano gli occhi e pensi…
Compare uno squarcio nella memoria, rivedi un trauma.
Apri gli occhi e (ri)cogli tutto. Di nuovo…
Ora, di quella strada ricordi il nome, ricordi le persone che c’erano, ricordi la (s)cena ma non fa male. Si chiama catarsi.
Queste sono le luci rosse…
Ecco, l’altro pomeriggio son stato dal mio avvocato per sapere a che punto sono alcune indagini. Suono al campanello, il segretario mi fa accomodare e poi aspettare in sala d’aspetto. Il segretario continua a far le fotocopie. Dopo mezz’ora, arriva il mio avvocato e mi fa entrare nel suo studio.
– Come va, amico?
– Bene, insomma, è una giornata particolare.
– Ah, perché hai mai vissuto una giornata non particolare nella tua vita?
– Sì, ho molte giornate “normali” dietro di me, altre normalissime, purtroppo, mi aspetteranno.
– Capisco… è la vita, oggi particolare, domani meno. Sai, amico, io invece vivo sempre giornate particolari.
– Sempre?
– Sì, è dalla nascita che per me è così.
– Ed è per questo che fa l’avvocato?
– Che vorresti dire?
– Fa l’avvocato perché così prova a risolvere le vite criminosamente violate. Così facendo, cura anche sé stesso dall’essere sbagliato. Lei è un diverso che utilizza la legalità per nascondere la sua innata, incompresa tragicità. Trovando e punendo i colpevoli, lenisce il senso di colpa del suo saper di essere un diverso. La verità è da noi vissuta come un “Processo” alla Kafka. Si chiama complesso…
– Come hai fatto a capirlo?
– Sono il notaio, se vuole, mi chiami l’Illuminato.
– Ah, amico, io sono, è giusto che tu lo sappia, l’Innominato.
– Innominato, i nomi son saltati fuori dal registro degli indagati?
– I nomi li sappiamo già.
– Ah, sì. Li sappiamo noi ma non li sanno ufficialmente quelli della Giustizia.
– Presto, sapranno. È di mia competenza che sappiano.
– Sì, ma vorrei che non sapessero che io e lei siamo dei diversi.
– Non lo saprà nessuno, tranne io e te, diamoci del tu. Anzi, dammi tu del tu, io già il tu te lo do da una vita ma continui a darmi del lei.
– Se ci prendessimo un tè?
– Meglio un caffè.
Buonanotte.
De Niro & Hathaway from The Intern: a queasy moment, un att(im)o vomitevole
Credo che sia inutile aggiungere altro dinanzi a tal scena raccapricciante.
Sì, eccole nuove foto dal set di The Intern di Nancy Meyers, ritraenti una (s)cena particolarmente (dis)gustosa.
Film che, se non taglierà appunto e appuntitamente tale scena da rigetto gastrico alla nostra sensibilità gastroenterica, potremmo già ribattezzare The Inter(i)nale intestinale.
Ci è difficile comprendere cosa esattamente stian (ri)girando.
Da queste immagini, sembra che De Niro aiuti Anne Hathaway a vomitare, quasi con intenti sodomitici, vista la posa del Bob, e le tenga il capo affinché la nostra possa meglio sputar tutto nella fontanella rinfrescante di pianto catartico.
Quindi, par che le sussurri che, liberatasi ora dal peso sullo stomaco, può farsi abbracciare da un paternalistico affetto, sospetto io (il)lecitamente, di natura quasi incestuosa.
Kenneth Branagh? La verità? L’ho sempre adorato, venerato e qui ancor l’osanno, illustrandolo per chi il suo Cinema non ha visto e per chi (non) sa…
di Stefano Falotico
Branagh…, come direbbe Totò se si reincarnasse, il suo nome non m’è nuovo. E, aggiungo io, il suo Cinema m’è sempre stato familiare. Un Cinema unico, un genere e genio (in)discusso a sé, personalissimo, fuori da ogni classificazione possibile, perché mesce la potenza visiva, spesso barocca, roboante, “caricata”, a uno stile antico e altresì debordante, quasi avveniristico per come s’è sempre rinnovato, anticipando perfino commistioni future, un Cinema dunque, sì, aderente alla tradizione, sobria, pregnante d’emozioni vere, “a pelle”, viscerali e tonitruanti, un Cinema però anche d’avanguardia che fonde appunto le mescolanze del “vecchio”, apparentemente trito-ritrito, superato e (m)mobilmente déjà vu, con un “modus operandi” di macchina da presa roteante, mai ferma e così tanto vivamente “empatica”, anzi, d’immediata presa “diretta” agli eletti plaudenti, strepitosamente sempre avanti, tanto che ogni suo film è stato spesso incompreso e criticato alla sua uscita proprio perché troppo oltre, attinge dal Teatro tout–court, non solo scescipiriano, per assurgere appunto a unicità mastodontica, quasi mi(s)tica, un Cinema mitologico di Bardo reinventato, riaggiornato, di favole, leggende popolari, di schermaglie, tragedie grandi e piccole dell’esistenza, un Cinema indimenticabile a farcene innamorare folgorati, che subito s’attacca purpureo e gioiosamente sanguinante alle anime come la mia. Anime tormentate, combattute, repulsive al chiasso, all’isteria di massa, alle festicciole e alle baraonde, un Cinema particolare che cammina elegantissimo in punta di piedi, come fosse una danzatrice di balletto classico, longilinea, slanciata però muscolare, nervosa, femminile e dunque amabile al primo sguardo già invaghito, prostrato, adorante, che ammiri incantato, anzi, incatenato a qualcosa di sulfureo, di bellissimo, di liquido, abbagliante splendore.
Eppur in tanti mal sopportano Branagh. I soliti stolti, prevenuti e, oserei (ar)dire, bigotti, indietro, lenti, che non possono apprezzare appunto la Bellezza maiuscola di quel che in me, e spero anche in voi d’affinità elettive, profondamente effonde. Personalmente, gioente, me ne sprofondo.
Adoro ogni cosa di Branagh, ogni film, ogni sua pièce, i suoi grandi kammerspiel, sì, perché anche quando gira di panorami(che) moventi le mie aperte emozioni a sua cinepresa perennemente in movimento, è un Cinema spesso da “camera”…, eh eh, che gioca con gli spazi chiusi, coi castelli sfarzosi o tenebrosi in cui ambienta le dispute, i contenziosi, la tenzone, la (vi)cen(d)a della trama contorta, che sia ispirato/a… a Shakespeare o a un celeberrimo horror da Mary Shelley, che lui allestisce proprio a modo suo, fregandosene del giudizio altrui, che all’epoca fu infatti stroncante e lapidario, andando avanti imperterrito e “agguerrito” lungo la sua stupefacente, sfavillante vi(t)a cinematografica cavalcante, imbizzarrita da eccentrico “baronetto” di gran Arte e parte… in quinta. Sì.
Prendiamo il suo esordio, ad esempio, anomalo, “pazzo”, brillantissimo, “sporco” tanto che senti il fango delle pozzanghere penetrarti le ossa, accecato, le tue commosse iridi vengon incendiate dallo scintillio fragoroso delle armature, odi il tuonar “scricchiolante” della pioggia incessante e intermittente delle plumbee ser(at)e sanguigne in declina(n)ti tramonti lieti e poi nuvolosi, “sereni-variabili”, vieni colto da sobbalzi emotivi deflagranti nel seguir appassionatamente la forza della battaglia d’uomini “nudi e crudi”, rudi in combattimento, prima di tutto coi propri conflitti interiori spaventosi e vi(ri)li. Uomini che non si dan mai per vin(cen)ti.
Sto parlando del suo sorprendente Enrico V. Con cui, a solo 28 anni, dimostra di essere attore completo, anche “fisico”, di enorme presenza scenica e non solo un già lodato fine interprete da londinesi palcoscenici. Un film “briccone”, guascone, misurato, sobrio e poi brutale come una folle partitura musicale che parte piano, incalza, si sofferma, accelera di scontri devastanti, un quasi capolavoro mai scontato, imprevedibile, depistante, che talvolta eccede e “sbanda”, strafà, esagera, non dosa e poi p(l)acato, di silenzi “angoscianti”, di suspense calibrata, implacabile e melliflua, si riposa, di dialoghi eccitanti, pulsanti, il mio cuor innamorato spos(s)a.
Chapeau!
Mi ricordo dunque che alla prima liceo scientifico che frequentai, quel Sabin succursale di Bologna, da me amato-odiato-(re)spinto, (ri)mandato a quel paese su nullaosta perplesso del preside che firmò il mio ritiro scolastico, salvo riprenderlo in extremis di mia medias res da strano essere–non essere amletico, fra i miei ex compagni di (s)ventura che si stupirono perché uno come me abbandonasse gli studi per farsi i cazzi “sua”, ecco, in quell’an(n)o strambo, prima della mia (di)partita con un’adolescenza “altrove”, l’insegnante d’inglese, tale Martelli, donna ruspante eppur stronzissima, bella quanto una strega che più (ar)pia non si può, ci portò al cinema a vedere la versione originale di Molto rumore per nulla.
Insomma, la storia della mia vita…, delle mie sfighe “tragiche” che poi, alla mia età, chi mi conosce, esclama: “Cazzo, tutto questo casino per (fa) niente?”.
Esatto, Much Ado About Nothing.
E poi che razza di cast scelse? Che c’entrava Keanu Reeves, man adrenalinico da Point Break, con il suo ruolo da Don Juan? Non è credibile per nulla…
Quindi, Michael “Batman–spiritello porcello” Keaton nella parte (s)gradita di Carruba.
Il massimo, comunque, è Denzel Washington come Don Pedro! Ah ah!
A quei tempi, Emma Thompson stava con Branagh, Branagh sosteneva che, come per Alighieri Dante, Emma rappresentava per lui la sua Beatrice. Donna di pene… l’amava eppur, a quanto pare, era una gatta da pelare come po(r)che esistono. Una rompiballe di prima categoria. Ma Kenneth avrebbe fatto di tutto per lei. Infatti, le diede la parte appunto di Beatrice… Perché sospirare, donne, perché sospirare? Da sempre l’uomo non fa che ingannare. Di questa o di quella, infido amante, a nulla rimane costante. Cessate dunque, il pianto e il soffrire, e l’uomo con gioia lasciate fuggire. Siate felici, lamenti e sospiri, mutando sempre in allegri raggiri.
Ora, de gustibus non disputandum est, se piaceva a Branagh, (non) piace anche a me la Thompson. Detta come va “dato”, più che sulla Thompson, mi sarei buttato subito su Kate Beckinsale. Quel seno fresco, procace, quella donna “bambina” da mozzarti il fiato, la musa per cui scriverei poesie d’amore dalla mattina alla sera, a patto, e a “slacciata patta”, che dopo la sera “venga” con me di not(t)e,sospirarle, sì, sì, sì, ancora… il mio Shakespeare tutto tutto… “aspirato” di h… ah, ah, ah, dolce, soffice da Pene… d’amor perduto. Ecco, son (s)venuto al punto di non ritorno per ogni uomo e (s)venente per le donne.
Quindi, Coppola dà a Branagh la versione del Frankenstein “deniriano”.
Sul set, Kenneth incontra Helena Bonham Carter, e per Emma Thompson son altri… cazzi. Branagh perde la testa per Helena, e il divorzio con la Thompson gli costa un occhio della madonna. Branagh, l’indomito, però ha grinta vendere, si spende e il suo Cinema (si) spande.
Iago nell’Otello di Parker, il suo Hamlet in calzamaglia “vittoriana”, e partecipazioni alimentari in cui si sputtana, come Wild Wild West.
Gira film ma (non) lascia il segno, finché la Marvel non scommette su di lui per Thor.
Tutti, quando fu annunciata la sua regia alla guida di tal “fumetto”, pensarono che Branagh fosse davvero impazzito.
E invece Thor è, secondo me, la trasposizione cinecomic migliore di tutte.
Il ritorno di Mad Max, rombo di tuono Tom Hardy
di Stefano Falotico
La vita è come un’autovelox, quando pensi che la tua “andatura” sia tranquilla, arriva la mu(l)ta, urge Mad Max, (ri)generato in Tom Hardy
Interceptor
Eh sì, adoro quest’uomo, quest’attore dal fisico taurino e gli occhi malinconici, neanche gli fossero morti dieci gatti in una notte tristissima di lor indigestione multipla da Whiskas ingeriti tutti d’un fiato. La confezione riportava la scadenza ma i gatti non lessero le istruzioni e si sfamarono poi (s)morendo in un bagno di cereali su volto agghiacciato, sbiancatisismo di Tom Hardy, pallido come la cera ma dai muscoli rabbiosi su barbetta incolta da uomo di “pelo”, “aggrovigliato” e irto, ispidissimo per r(e)azione contratta al dolor mal digerito, esplodente in carrozzeria… muscolosa da irrefrenabile angry man adiratissimo in viso tirato… contro Dio, da non confondere con hungry, che significa invece “affamato”… spesso di rabbia. Insomma, Tom Hardy ha fame… di Cinema, è un animale da set, divora i film scagliandosene, condendoli a denti stretti, scandendoli col suo carisma azzannante, macina pellicole su pellicole alla velocità della luce, mangiando viva la rivalità competitiva che non può competere però con la sua bravura a far loro tanti lividi, stracciandoli di talento imprendibile sul suo aver una marcia in più…
Ma sul controllo della sua sveltezza a far fuori(strada) i (ne)mici…, mi (sof)fermerei un attimo, lasciando pure che, nel frattempo, Tom mi sorpassi in cors(i)a indubbiamente più rapida di sua prontezza di (ri)f(l)essi nostri, bruciati, da uno così, in partenza. La storia di Tom & Jerry!
Sì, Tom Hardy, lo dice anche il cognome. Fa “duro”, sembra quasi da attore porno di quelli “tosti” e immarcescibili che schienano le donne al sol battito d’occhi lor cupidi e concupendole a “muscolo” (s)colpente che “buca”… lo schermo in possanza da (cata)rifrangenti. Uomo non tanto tenero, dalla voce “asciutta” e (s)profonda così la donna Theron, (dis)integrata dalla sua gola… “al catarro”, da corridore simil-Parigi-Dakar. Un uomo che ammicca, non lo ammacchi, e lui mai il bersaglio manca. La sua mira è fenomenale e fotte tutti e tutte con potentissimo… mitra. Tom, ché non si spezza con un grissino, ti “piega” in mille da pazzo proprio Mad Max, non so se mi spiego…, un uomo d’ascelle pezzate e dallo sguardo “penetrante” da superbo che non deve chiedere mai il “dolce” delle donne perché è l’incarnazione di un “tiramisù” mentre voi, morti da un pezzo, non solo siete ancora (ai) secondi, da lui arsi di prestezza e prestanza incendiaria e (in)afferrabile, ma neppur siete arrivati alla frutta. Siete lentissimi, ritardatari cronici, mentre Tom sfreccia supersonico d’inarrivabile celerità! Altro che le “cucinate” e già bollite finte celebrità. Tom è nudo e crudo, rude e dunque grande!
Parentesi “umoristica” di me disumanamente mu(l)tato, tanto che queste multe m’han reso più matto e muto…
Pensavo di aver “svoltato”…, che la mia vita, in meglio, fosse cambiata e, invece, per colpa del “cambio”, mi son beccato varie infrazioni nei pressi d’una stazione di (s)pompa(to) vicino a una frazione di Bologna. “Frattura” delle mie finanze che si può parzialmente riparare però pagando subito, la contravvenzione sarà dunque dimezzata e perderò meno punti della patente, anche se m’è scoppiato il fegato e ne occorreranno venti di sutura.
Ah sì, il proverbio del chi va piano, va sano e va lontano, ha ragione e anche “regione” lombare di cintura di sicurezza… stradale, se corri troppo, infatti, rischi di far il “botto” e di romperti la schiena di paralisi da quell’incrocio “sinistro” sin alla morte, potrai sperar, in carrozzina, di seder soltanto in quello a fianco del Padre, “guidatore” che sa tener la destra…, anche se credo che Dio se ne freghi della politica. Insomma, gli inglesi tengon il volante a manca ma sono monarchici, dalle altre parti del mondo dovrebbero mantener la d(i)ritta e invece son autisti che non rispettan il rosso. Sì, comunisti e fascisti son oggi sulla stessa barca, “on the road” di traffico ché non capisce nessuno qual è la via da imboccare. Abbiamo chi legge Kerouac, chi si crede Siddharta, perfino improvvisati cantanti di Rat Pack alla Sinatra e brutta company. Voti Sinistra e un centro-mediano svolta in mezzo, tagliandoti la visuale della speranza. Un “vigile” alza la paletta e un ebreo arrabbiato lo impala, mentre un nazista a vivere impara, perché gli parte via la “macchina” della sua mente in panne, prova a curarsi con dei neurolettici ma i farmaci lo “fermano” di effetto “forno crematorio”, ardendogli i neuroni “sopravvissuti” nel renderlo nero come il carbon’. Ce l’avevi coi negri, nazista? E allora beccati la “bruciatura” al cervello che mai hai avuto! Parton le rotelle, la gente sta male, la gente è in crisi, perde la bussola!
Grande tragedia di oggi!
Stamane, suonano al mio campanello. Scendo e vado a ritirare tre multe spaventose da 500 Euro ciascuna più probabili 5 punti, tolti sempre per ognuna. Ora, si riferiscono al fatto che, nel tratto di superstrada enorme e a due corsie in zona Euromercato, andavo ai 90 e non ai 70, andatura per paraplegici. Devo ovviare assolutamente anche perché quel tratto lo percorro da giorni e prevedo una caterva di altre multe simili. I soldi chi me li dà?
Chiederò un prestito ai ratti, sì, qualche buco, ah ah, lo troverò per rattoppar il debito, a meno che non ritornino in vita i gatti di Tom Hardy e si mangino i topi di fog(n)a.
Eh sì, affidiamoci alla Divin Provvidenza.
In questa vita reale, non siamo in un film. Se uno s’azzarda ad accelerare solo un po’ e “spinge”, ecco il guaio, altro che “guerriero”.
Comunque, stringo la mano a Tom Hardy, basta che si tolga i guanti e accetti la sfida?
No, volevo invitarlo a cena ma, stringendomi la mano, mi accorgo che non se l’è lavata e che i guanti servivano solo per non contaminarmi. Non lo batterò perché è lui un batterio.
E vai, ecco il cavallo di battaglia che risona la carica, miei suonati, tu, donna, non stonare, guarda che stornello.
Ricordate: nessun mi semina e colui che semina… è a metà della strada. Basta che non lo multino per troppa (s)correttezza.
Sono un genio?
No, di mio faccio solo un giretto. Sono un uomo come tanti, son stato partorito da normali “girini”.
E non giriamoci attorno, la Theron si volta e vuole la tua u–turn d’inversione ai tuoi o(r)moni andati a culo, il suo. Non rifatto, bensì sodo e gonfiante…
Al Pacino portrait from Liverpool
Eh sì, il grande Al campeggia di grandioso graffito in quel di Liverpool, per lo Street Art Festival del Baltic Triangle. Mah! Ah ah!
Murale pittato da un artista di Manchester, tale Akse.
Gustiamoci la gallery.
Mary Shelley’s Frankenstein by Kenneth Branagh
di Stefano Falotico
Negli anni novanta, alla TriStar Pictures barcamena la folle, stupenda idea di riallacciarsi a un discorso modernista e filologico di “restaurare” i vecchi classici della Universal.
Così, rispuntano i “mostri” dal cilindro d’una casa di produzione rinomata, che decide d’affidare a quattro grandi registi l’eredità di “rifarli nuovi” o, meglio, d’eseguire personali parti(ture) nelle variazioni sul tema horror.
A Mike Nichols vien “consegnato” l’uomo lupo per Wolf – La belva è fuori, con Jack Nicholson nella parte di wolfman, film dalle spericolate ambizioni che parte a razzo, col “pelo sullo stomaco” da lupo malandrino e si perde a manierismo del “vizietto” (di Nichols, infatti, il rifacimento del film con Ugo Tognazzi, Piume di struzzo) negli insopportabili eccessi d’un regista sempre troppo pieno di sé, sdilinquendo tristemente, man mano, in uno sconcertante trionfo del cattivo gusto. A Stephen Frears, invece, la Tristar dà dottor Jekyll e signor Hyde, con Malkovich nella doppia veste angelica-diabolica dalla personalità doppia. Ma, anche in questo caso, il film vien oppresso da troppa carne al fuoco.
Prima di questi controversi film, c’è però il “capostipite”. E chi se non Dracula il non morto per la regia d’un grandioso, redivivo, sanguinario e ritrovato Francis Ford Coppola, che eleva le strepitose virtù attoriali d’un Gary Oldman spaventoso in ogni sen(s)o, anche in quello delicato, ipnotico, dolcissimo e madornale dell’immensamente figa Winona Ryder?
E a Coppola, di affiliazione con la Tristar, salta alla mente di realizzare anche la versione di suo fratello “gemello”, Frankenstein, appunto, riservandosi però “soltanto” il compito di produttore e affidando la “creatura” al geniaccio “factotum” scespiriano che io venero e in gloria innalzo, il “pazzo”, imprevedibile metteur en scène Kenneth Branagh.
Che bizzarra scelta quella di Coppola… all’epoca, considerata enormemente sbagliata, così come i soliti frettolosi e stolti critici decretarono di ampie, sciagurate stroncature, decidendo che l’opera di Branagh fosse, sì, da “recider” con stilettate severissime nello svelto, lapidario giudicarla tronfia, ridondante, retorica, banale e sorprendentemente “superficiale”… di contraltare proprio nel dar contro al baronetto Branagh, linciato di netto per essersi cimentato da “inetto”, almeno secondo loro, con qualcosa che, sempre secondo tali “esimi”, non era a lui adatto. Consigliandogli di tornare a Shakespeare e di lasciar stare Mary Shelley…
Col sen(n)o di poi, qui non abbiamo Winona Ryder ma la ca(u)sa della separazione fra Branagh ed Emma Thompson, quella bona ineccepibile di Helena Bonham Carter (l’h, non di Helena, bensì di Bonham, va tutta, davvero tutta aspirata…). Sì, dopo le riprese, Branagh, dinanzi a cotanta di ben di Dio, non s’è mai più ripreso e, rimasto da Helena sorpreso, anche (stupe)fatto dirimpetto, e che “davanzale”, a tal altissima donna (sì, slanciata, longilinea e pur fine di recitazione sottile, in sordina…, sobria e luccicantissima, non magra eppur sia finissima che formosa), la sposò, parimenti a come accade ai lor ruoli in tal film da lui (di)retto d’assoluto protagonista titanico. Sì, nel film, Helena fa la parte di Elizabeth, la promessa sposa del folle dottorone, il matrimonio avrà da farsi ma il nostro Frankenstein non se la farà perché, dopo i festeggiamenti delle nozze, quando lei sta aspettando il suo uomo che la ami, non “viene” (da) scopata ma vien “scorata” da quel monster di De Niro che le strappa proprio il cuore, con Branagh che, impazzendo ancor di più, (s)tirato… d’ira da Dracula, appunto, e incagnito rabbioso da vendicatore coi suoi canini appuntiti, comprende finalmente l’orrore… dell’insanissimo suo gesto, sfidante scellerata-mente Dio, cioè l’aver violentato madre natura, forzando la “creazione”, (ri)voltante dagli effetti collaterali obbrobriosi, nati dai suoi scriteriati laboratori immolati alle (im)possibili clonazioni.
Nessuna vita, mai più… soltanto l’esecrabile immoralità dell’aver bestemmiato contro la div(in)a mor(t)alità.
Pioggia biblica di rabbie intrecciate grandinano dal cielo che grida addolorato, lampeggiante di tuoni elettrici e (alti)sonanti, fra un De Niro (ri)creato a immagine e somiglianza distorta d’un padre innaturale, orfano dagli awakenings inquietanti. Senz’arte né parte, ubicato nel “bel” mezzo della vita e di un gelido inverno ma sfigurato in viso. Dunque emarginato, nell’intima e preziosa dignità danneggiato, saccheggiato e costretto a dormir nei boschi di sacco a pelo e (ca)sacca da mon(a)co…
Che, così part(or)ito, in suo animo scheggiato e inaridito, si scaglierà contro suo “padre”, servendogli la vendetta più fredda in una notte di fulmini e saette nel fulminar Frankenstein di ringhiosa (im)potenza di fronte al mostro che lui, sì, incarnò quando volle far rivivere nuova carne…
Un film cronenberghiano, “chirurgico”, da bisturi a farci male perché osa, disossa, spacca il Cinema di gene(re) nella contaminazione geniale, malatissima e sporca da mentale igiene, fra l’essere-non essere un melodramma, uno Sturm und Drang, un’esplosione fastosa dalle impeccabili, lucidissime scenografie maestose, la classe non è acqua di due “mostri”, appunto, Branagh e De Niro, enorme anche sotto chili di trucco, (ir)riconoscibile soltanto dal movimento oculare delle sue iridi lupesche e di sempre (in)visibile neo nerissimo, una Carter bellissima, poi bruttissima perché mostrificata anch’ella, povera ancella, e l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Capolavoro.
La forza dirompente di questo film magnifico sta nell’urlo devastante di Tom “Amadeus” Hulce. Quando vede Frankenstein impazzire da punto di non ritorno orrendo, inguardabile, e, immaginandolo nella stanza degli orrori a “ricucir” la sua sposa affinché “ritorni”, grida la tragedia irreversibile e per di più ingigantitasi d’onnipotenza terrificante.
Un Amleto al giorno toglie il medico di torno e, fra il to be e il not to be attori, è meglio Gibson di Laurence Olivier
di Stefano Falotico, scrittore toro che non crede agli oroscopi delle vergini in sagittario su gemellaggio invece di pesce con botte da ariete in amletica donna depressa da tirar come una stella fra le stalle.
Eh sì, essendo io come Amleto, principe (non) pazzo ma più (in)sano di tutti, dovevo andar a parare prima o poi su Shakesperare e su uno dei suoi capolavori immortali, Amleto
.
E soprattutto sul suo monumentale monologo:
Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna
o prendere le armi contro un mare di affanni
e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci esitare. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo,
il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo,
gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge,
l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo
che il merito paziente riceve dagli indegni,
quando egli stesso potrebbe darsi quietanza
con un semplice stiletto?
Chi porterebbe fardelli,
grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa,
se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte,
il paese inesplorato dalla cui frontiera
nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà
e ci fa sopportare i mali che abbiamo
piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
Così la coscienza ci rende tutti codardi,
e così il colore naturale della risolutezza
è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento
per questa ragione deviano dal loro corso
e perdono il nome di azione
E sapete che vi dico?
Mel Gibson, in questo pezzo da pazzo, è più bravo delle versioni di Branagh e di Olivier.
Purtroppo sì.
Al che, trovo in internet la mia Ofelia. Anche lei è turbata se essere o non essere, se darmela o girarci attorno, e ci tiene a precisare che nella sua vita ha visto solo complottare contro la sua felicità.
Avemmo una discussione accesa. E voglio rendervi partecipi di come, da principe elevatissimo, certo, le feci comprendere che è meglio essere due senzienti coi propri malesseri. Lei, dapprincipio, non fu consenziente anche se volle, ne vuole sempre, sentirmi dentro. Ah, finge di dolersi e di rinunciare agli uomini. Ma io so invece che gatta ci cova. Se non sarà soddisfatta, le dirò che è beato chi si accontenta. Insomma, questa non si capisce proprio che cazzo voglia. Eppur ha delle voglie sulle gambe che, di atipiche cosce (s)macchiate, invogliano il (cap)riccio.
Una ragazza, molto bella, denuncia in suo “annuncio” che non crede più a nulla. E che tutte le filosofie, orientali, trascendentali, di training autogeno, psicanalitiche e quant’altro, lei reputa che sian solo mo(n)di illusori per fuggire alla verità dei fatti e dei “falli”, in senso (a)lato, presi in quel posto. Ah, quanti sba(di)gli in questa vita che fa goder solo a (t)ratti. Asserisce che non è una zoccola ma dagli uomini ha ricevuto solo inculate a (raf)fica. ’Sti cazzi! Sì, sostiene che nella vita, nonostante la sua bellezza, non ha avuto culo, anzi, ha preso solo delle gran “botte”. Provo a conoscerla, ad avvicinarmi al suo animo, insomma “ci” provo. Mi tenta…, mi (at)tira il suo dolore e vorrei che in costei, di empatiche costole non più addolorate, “tutto”… si tra(s)mutasse in piacere (pro)fondo. “Sentito”.
Ora, condivido ogni parola del tuo annuncio. Sì, anch’io odio la retorica e credo che la vita non sia solo questione di talento, ma di notevole culo. Io, forse come te, non ne ho avuto tantissimo. Ma insisto con fervore e abnegazione, anche trascorrendo momenti enormi di solitudine che m’inducono a creder che tutto non abbia sen(s)o e che debba lanciarmi giù dal balcone del mio palazzo. Sono uno scrittore, ho pubblicato molti libri ma, che paradosso, vivo di stenti con attorno un mondo che in passato mi ha combinato uno scempio e persone spesso insincere che sol fanno i ruffiani ma poi mi schivano quando devon solamente andar a prendere una birra con me, perché vengono intimoriti dai miei discorsi, troppo profondi, e quindi giudicati fastidiosi, ah ah, un ribaltamento della vi(s)ta. In te, posso trovare un’amica, un’affine anima?
Sì, entrambi non abbiamo avuto culo. Ma io spero di trovare in te, ripeto, un’amica, e vorrei la tua figa, oltre al culo che mi farai e spero di farti.
Ti chiedo di essermi schietta? Lo vuoi?
Detta come va detta, che la dia, sono un uomo che associa, alla classe prosaica di Shakespeare, un umorismo alla Woody Allen (in)sostenibile.
Se non mi ama(te), sarete non esseri.
Se lei mi amò, non sono cazzi vostri, comunque.