La figura del padre nel Cinema e nella (mia) vita
di Stefano Falotico
C’è una scena, quella finale, del Frankenstein di Kenneth Branagh, da me fra l’altro rielaborato in un omonimo libro, che è a sua volta una versione a esso ispirato più che al romanzo celeberrimo di Mary Shelley, una scena che mi rimase immediatamente impressa fin dalla prima visione.
Il “monster” De Niro, la creatura “nata” dagli strani esperimenti del “folle” scienziato che, dopo la tragica morte della madre, morta di parto, diviene appunto il dottor Frankenstein, piange la scomparsa di suo padre… Frankenstein, un uomo divenuto dottore, appunto, non tanto per fini filantropici e curativi la sofferenza e le malattie fisiche dell’umanità, quanto piuttosto per una perversa forma di vendetta nei riguardi d’un Dio ingiusto che estrasse l’anima sua infantile, nell’infliggergli quell’incolmabile, dolorosissima, irreparabile perdita quando era troppo piccolo per poter sopportare la verità. La verità che la vita, prima o poi, finisce. Ancor più terribile da accettare perché un bambino, forse, non solo non è pronto a prender coscienza e confidenza proprio col concetto di morte, puro e incosciente qual è, ma neppur, figurarsi, a veder morire sua madre.
De Niro vede a sua volta morir suo padre. Un “padre” particolare, non biologico ma che l’ha generato nel suo laboratorio degli orrori…
Per tutto il film, De Niro, essendo stato creato mostro e non uomo (?), trovandosi a combattere un’umanità che, per la sua repellenza fisica da “elephant man”, lo emarginerà, lo caccerà e lo ridurrà all’inevitabile, rifugiante, immensa solitudine fra i “boschi” del suo perenne fuggitivo schivato, vilipeso, griderà nella sua anima la rabbia dell’esser stato “concepito” diverso. E per la sua alterità “congenita”… dunque maltrattato, impossibilitato ad avere un amore “normale”. Un “mostro” che per tutto il film inseguirà suo padre, l’uomo che lo creò non pensando però alle conseguenze del suo gesto. Lo stesso uomo però al quale, una volta davvero morto, verserà lacrime d’inestirpabile amarezza e cordoglio.
– Perché era mio padre…
Be’, una scena commovente.
Di mio padre, posso dire che è un padre decisamente biologico. Ho citato questo film, dunque, soltanto perché è un esempio di “paternità” sui generis, anzi da degenerato. Ma “toccante”… parimenti all’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina che ritrae Dio a infonder la scintilla vitale al suo Adamo, “scena” citata da Branagh in forma “diversa”, ecco, ma chiaramente ispirata alla Genesi pittorica più famosa della Storia…
Colui che, invece, mi ha generato, è un padre lodabile, enormemente ammirevole.
Un padre che ha sempre saputo il mio fanatismo adolescenziale per De Niro. E ha sempre appoggiato le mie scelte, allineate a questa mia “idolatria” per Robert… tanto che era lui a comprarmi i VHS dei film interpretati dal “mostro”. Scusate, volevo dire dal nostro.
Nel Cinema, spesso vien trattata la figura della madre, fra rapporti castratori da complessi di Edipo, e in questo Woody Allen è uno “specialista”, basti pensare al suo episodio di New York Stories, ma invero non son invece tantissimi gli esempi di “pater familias”.
Una figura patriarcale, o meglio una dinastia “padrina”, che mi vien subito alla mente, è sempre firmata Francis Ford Coppola, che del Frankenstein di Branagh fu il produttore…
Quella, avete già capito, della saga The Godfather. Ma, anche in questo caso, rimaniamo in ambito di rapporti padre-figli alquanto anomali, appunto “mostruosi”. Non molto, diciamo, pedagoghi, eh eh. Già, tramandare quella “tradizione” di famiglia non è mai un insegnamento moralmente ineccepibile. Non credete?
Mio padre… di mio padre so tutto e so niente. So che svolse lavoro stimatissimo presso un’importante azienda della mia città, un impiego proprio “impiegatizio”. Ma del Fantozzi, nonostante la sua indole mansueta, ha sempre avuto ben poco in (luogo) comune…
Remissivo mai, “dimesso” semmai, non per timidezza o quella cazzata della debolezza che non fa bellezza del cazzo, ma per spiccata signorilità che ha sempre preferito passar sopra le trivialità di quel tipo “topesco” di società cinica, incitante alla “forza” squallidamente vi(ri)le dei “vin(cen)ti”. Un uomo buono ma non mangiatevelo così, come si suol dire. Un uomo “conformista” non per qualunquismo e facile adattamento finalizzato a portar a casa la pagnotta, un uomo (piut)tosto… educato al rispetto, a trasmettermi i “gioielli”, cioè non le “palle” dei coglioni che si credon “forti” se esibiscono mille donne e dollaroni come “valore maschio” dell’esser “machi”, bensì la poesia dell’anima.
Sì, se hai anima, il resto non tanto conta(nti)…
Esser contenti è esser nell’anima grandi.
Sì, mi ricordo che da piccolo origliavo mio padre coi vinili di Lucio Battisti e poi dolcemente gli chiedevo perché ascoltasse quella musica, sì, bella e lieta ma che, alle mie orecchie di bambino, suonava troppo autunnale e malinconica…
Lui mi prese in braccio e mi raccontò che, da giovane, nel suo paese natio, vestiva “tamarro”, oggi si direbbe così, indossava croci d’ottone al petto e, sull’anulare della mano sinistra, portava un anello a forma di teschio.
Piaceva anche alle donne. E, fra quelle donne, scelse mia madre.
Mi confidò, e io provai a capire con la mia anima da infante che però non tanto capiva, che crescendo, ecco, ogni uomo, e non i pagliacci, impara ad ammorbidirsi e si lascian stare le rivalità stolte, ottuse e ostinate da “duri”. Perché si capisce che la vita è una e poi c’è solo la morte. Sì, mio padre è sempre stato ateo anche se poi, durante le festività, andava a messa per “rit(ual)i” canonici… anzi, adesso che ricordo meglio, andava a messa solo a Natale. E, dopo la predica del parroco, lui sempre sorrideva, come dir, sotto i baffi, anche se mio padre si radeva la barba ogni mattina, che non credeva a una sola cazzata di quei bla, bla, bla ecumenici buoni(sti) soltanto in teoria. Una volta cresciuto, mi disse che quel parroco, sì, lui sapeva che faceva (la) “comunione” con suore troppo un(i)te alla sua ipocrisia da altari(ni).
Ecco, credo che sia per questo che mio padre è un grande padre.
Ha sempre conosciuto la verità e non ha mai dato retta alle ipocrisie.
Smoke, la bellezza di un racconto, non solo di Natale, della (s)vi(s)ta
di Stefano Falotico
Sì, mi riferisco a quel piccolo gioiello che è Smoke.
Un’opera di rara raffinatezza, d’altronde, dietro c’è la penna sobria, poetica del grande Paul Auster che esordirà alla regia col seguito, o meglio il suo ideale proseguimento, Blue in the Face, invero co-dirigendolo con Wayne Wang, regista del capostipite.
Raro prodigio, fra l’altro, attoriale. Perché fra Keitel, gigione, sempre con la birra Budweiser in mano e il ghigno del lupo di mare ma tabaccaio di professione, “filosofo” di perle esistenziali raccontate con eccezionale bravura, tanto che sospetti alla fine, sui titoli di coda, proprio quando narra il suo “Racconto di Natale” del trasfigurar Charles Dickens fra le note incantanti d’un Tom innocent when you dream Waits, che sia lui lo scrittore e non il personaggio di William Hurt, che ha appunto il “blocco” però è parimenti ispirato di talento recitativo, nessun mai saprà chi dei due recita più da Dio. Due prove maestose, che si donano soprattutto umanamente, tanto che ti sembran due amici che conosci da tempo. Da sempre. Un film eterno, anche dolcemente etereo. Che danza acquoso, languido, romantico, “arrochito” fra piccoli aneddoti strampalati da farti tossire d’amaro in bocca o forse al sorridervi con generosa magnanimità del tuo cuore deliziosamente ri(a)mante della vita. Non tremate mai, non abbiate timore, vivete al timone dell’attimo. La vita è. Da cullare come Keitel/Auggie abbraccia la nonna nel commovente, delicato e lirico suo (rac)conto appunto di “maltolto” che ritorna felice. Ballando musicalmente incendiato nell’anima da un tocco grazioso di fine bagliore a nostre emozioni sfiorate in altisonante rinomanza cinematografica toccante. Un film che, come un lieve, sofisticato pianista, batte le corde giuste su ritmo “allegro”, poi “triste”, poi “meteoropatico”, un film d’umorali aneddoti e celestiale atmosfera. La respiri nelle tue vene, un film che sento mio. E credo anche voi.
Ora, accostandolo ad alcune sue scene “cult”, di clip qua a voi mostrate, di poetico realismo, allineato a episodi miei (sur)reali, voglio illustrarvela…
Cosa? La vita? Se non c’è vita, non c’è neanche Cinema. Se non c’è l’emozione, non scatta l’emozione fra due sguardi, neppure l’empatia verso il mondo, solo apatia. E, amici, posso dirvi che vidi tempi bui in cui non vedevo molto, una “cecità” però apparente, diciamo che oscurai proprio le emozioni, estraniandomi parecchio da un’aderenza più vicina alla concreta essenza. Ancor oggi son spesso ermetico ma mi rivelo con più (s)velato viso.
Sì, oggi sono l’incarnazione dello zucchero a velo del mio cuore, indubbiamente bugiardello perché esagero di melensaggini pur d’intascarmi un bacio femmineo, “toccando” prima ancor che lei, parafrasando Totò, di “(ri)tocco” mi (s)possa… render toccabile e subito “duramente grosso” dopo la glassa, e in questa (im)palpabilità le faccio toccar galassie al dente di nostri cuori un(i)ti d’ardendoci.
A parte le battute, fidatevi, innamoratevi di me, il resto è una battona.
Sì, son bravo con la “lingua”, vi gioco e molte così “soggiogo” ad amori di cioccolato. Ma son roco talvolta e dunque di più m’indurisco… ah ah.
Sì, “lecco”, e dunque ecco l’album(e) di ricordi da amici come me, (tras)fusi.
L’altra sera, vado da un mio amico. Serata davvero “sexy”, di quelle sere che “spingono”.
Sì, io e lui a guardar la Germania che fatica con l’Algeria, quindi io, molto “ubriaco”, dopo dieci caffè più nervosi d’una partita noiosa da romperci i maroni.
Lui tira… fuori dal cassetto un c… un catalogo.
– Questa chi è? – domando io.
– Una.
– Quest’altra, invece?
– Un’altra.
– Questa qui?
– No, questa è solo una di passaggio.
– Cioè? Stavi fotografando il panorama ed è venuta questa figa(ta) involontariamente?
– Sì, capita.
– Caspita, che culo… Questo invece è un maschio. È un tuo amico?
– No, era il mio “accompagnatore”.
– Il tuo accompagnatore?!
– Sì, non lo sapevi? Ma non ti eri mai accorto, cazzo, come hai fatto a non accorgerti…?
Ma dai, è evidente che sono… uno di quelli.
Sì, amici, il mio amico è un diverso, è un non vedente. Che poi tu sia omosessuale, per me non è un problema.
Ora, vi chiederete, allora come ha fatto un cieco a scattare delle foto?
Ah, non è difficile. Basta togliere l’otturatore dall’obiettivo, accendere la macchina fotografica, e spingere “click”.
– Sì, ma non poteva sapere, il tuo amico, cosa aveva fotografato – obietterete.
Vi rispondo: – Infatti, questa conversazione, fra me e il mio amico, è una mia invenzione.
– Come? Inventata? Ma che senso ha tutto ciò?
Sempre io a rispondervi: – Perché la vita ha senso? Siamo noi che la immaginiamo e non vediamo quel che non vogliamo vedere anche quando siamo perfettamente vedenti.
Però, molta gente è miope.
Se non l’avete capita, è una la vita.
Mi spiace per voi.
Federico Frusciante è il mare cinefilo della sua Atlantide
Poesia di Stefano Falotico, dedicata al grande Frusciantone
Stasera sono i(n)spirato. Il mare di Livorno (re)spira e spia negli occhi fini del cinefilo Frusciante, sì, che si struscia ammirante con la vita a braccetto, che ci solletica di video voyeuristici e indaganti profondamente, in cui, sempre Fede, ai suoi fedeli dispensa pillole cinematografiche di ampia saggezza, così come le onde soffian armoniose sulle sponde della vita nostra tanto strana, oggi amata, domani ancor ansiogena, ma il bello di ogni horror è nel soffio al cuore di tal (r)esistenza cupa, da (dis)a(r)mata appunto delle tene(b)re, ché ogni ars vero amandi è la marea delle emozioni fra alti e bassi, e mai dovete disancorarvene, bensì inebriarvi di bellezza e sollecitarla di timbro vocale proprio frusciando in (sovra)impressioni saltellanti come ogni (eb)brezza mai di vita ebbra. Uh uh, ah ah. Evviva il Federico Videodrome Frusciante, genio che a volte perde il filo perché del Cinema egli incarna la gioconda ubriachezza, am(m)ic(c)ando di bicchierini e occhiolino.
Discussioni di Cinema, da Mickey Rourke alla (fanta)scienza sin agli “errori” (in)volontari di (s)cene mantenute imperfette
di Stefano Falotico
Facebook si può rivelare, in alcuni casi eccezionali, particolarmente utile se s’incontrano fortunatissimamente delle persone con cui condividere affinità, scambi di vedute, confronti intellettuali, persone persino con le quali (ri)specchiarsi, appurando reciprocamente similarità emozionali e non, analogie percettive del mondo, sguardi simili sulla realtà, anche sull’aldilà. Perché no?
Da qualche mese, ad esempio, io e un altro scrittore dell’anima, sì, siamo entrambi affascinati dall’esplorazione “universale” del nostro dentro, il più importante spazio ignoto prim’ancor dei viaggi interstellar(i) di Nolan, diciamo che siamo più vicini alla metafisica di Solaris piuttosto che alla fantascienza d’un mondo “moderno” iper-tecnologizzato ma invero più arretrato delle scimmie di Neanderthal, un mondo che par non essersi molto evoluto interiormente nonostante siamo già nel 2014 e 2001: Odissea nello spazio non par aver insegnato a molti che, innanzitutto, per essere uomini, bisogna vedersi nei cuori, solo allora si può “volare”, ecco, da un po’ di tempo… io e questo mio amico, spesso e volentieri, parliamo di tutto, anche di Cinema.
Ieri sera, ad esempio, per strane, (im)previste (circo)stanze emotive di empatia da veggenti telepatici, siam andati a par(l)ar su Mickey Rourke. Niente di più impensabile se consideriamo che eravamo partiti da una banale considerazione che, con Rourke, aveva apparentemente ben poco in comune da “condividere”. Eppur dal “nulla” nacque il disquisir squisitamente di Rourke e di come anche lui sia, in un certo qual senso, un uomo alien(at)o, d’apparentare a un Cinema oramai in via d’estinzione, un Cinema antico, profondo, visceralmente denso di umanesimo, sganciato dalle logiche (im)produttive dell’odioso, contemporaneo modus vivendi, tutto frenesia, feste, balli ribaldi e poca sostanza a conti (s)fatti. Ove ognuno, da esibizionista incallito, usa appunto Facebook come bacheca dei suoi minuti di celebrità nel protrarli a iosa d’inutili egocentrismi aderenti solo all’estemporaneo, arido e non riempiente s(ucc)esso futile, insomma, la virtualità di vite inscatolate del sempre pavoneggiarsi ma, in verità, ancor più a (in)castrarsi. Ove maschi e femmine dalle sessualità (in)distinte, fan sfoggio patetico di “virilità” tremende ché, dopo giornate di lavoro spossanti e il mesto agonizzar in esistenza frust(r)ate, “vivaddio” si spogliano, (non) liberi da occhi (in)discreti, dei loro abiti da monaci, “sfoderano” corpi (im)perfetti a immagine e somiglianza appunto d’un mondo (a)sociale che sembra trovar il suo sfogo nell’urlar volgarmente immor(t)ale, già morto dentro proprio da (ap)parecchio, l’inevitabile sua putrescenza che, imbellettata in maschere di cera oscene, si finge bella ma invero è solo squagliata d’ogni dignità, un mondo turpe, furbo, ah ah, deturpato nell’essenza.
Ah, tutti a indaffararsi, inutile affidarsi alle scienze umane come la psicologia per comprendere il comportamento involut(iv)o di questa “evoluzione” barbarica, prendiam coscienza semplicemente che stiam rinvenendo un’umanità da reperto archeologico, carbonizzata 14, ove i repellenti, bambineschi amori alla Moccia, a confronto, sembrano poesia raffinata e purissima.
Sì, “adulti” regrediti a stati infantili con trombette in mano e donne di settant’anni a scosciar in primi piani aberranti con loro espressioni (s)tinte del tipo: “Amici, vi piace, sono ancora una bella topa?”.
No, sei vecchia, ma i giovani stan messi peggio, tranquilla. Nessun sopravvissuto andando di questo andazzo (es)ting(u)ente. Giovani che, arrivati a una (in)certa età, si guarderan allo specchio e piangeranno di apparenza fantasmatica da “corpi celesti” con vissuti interiori da extraterrestri.
Sì, quest’umanità è fusa.
Io e il mio amico arrivammo a Mickey Rourke, partendo dai “refusi”. Sì, non scherzo, non è un “imbroglio” di p(a)role.
Le bestie nere di ogni scrittore sono infatti i refusi. Controlli il testo mille volte prima di approvarlo per la pubblicazione. Il tuo editor controlla altrettanto e appura che ogni virgola è stata (s)corretta di (s)vista, sì, diamo il visto, tanto l’errore ci scapperà.
Infatti, (ci) sta, eccolo qua, alla riga finale del libro. Hai scritto la parola “Fine” con una vocale diversa, “fune”, ci sarebbe infatti da impiccarsi per questo ma fa lo stesso, dai, sì, in fondo fa licenza poetica. Il lettore riderà ma potrebbe anche rileggere l’intero libro per capire se “fune” è volontario, se il libro è incentrato su un suicida, e dunque obbligandosi a risalire la china dalle prime righe della prima pagina sin appunto alla fine per chiarire il dubbio. E, rileggendolo, ancora una volta, arrivato a quel punto, capirà che è finita. Sì, perché comunque il libro, escluso quel refuso, è la trascrizione di un’anima coraggiosa nel denudarsi, invece il lettore capirà che è lui l’incapace, non solo non sa scrivere, non ha capito che se, involontariamente, lo scrittore non avesse fatto confusione, mettendo “Fune” anziché “Fine”, avrebbe scambiato il libro per una barzelletta da superficiale dell’aver vissuto in quel mo(n)do fin al fatal attimo finale doloroso. Già, rileggendolo, con maggior attenzione, lo capì, finalmente. Poi, prendendo un cappio, (o)mise davvero la parola fine alla sua (prei)storia.
Almeno, è stato sto(r)ico, no?
Sì, oggi vai da uno, gli presenti il “curriculum vitae”, lui legge i “credits” e constata-“tasta” che ti sei “evoluto”. Gli bastano poche credenziali in cal(i)ce per rilasciarti il beneplacito. E questo è male. Sì, perché doveva servire il nero su bianco per non annerirti? Ora, sì, sei meno intimista, più da biancheria intima. Prima ti cancellavano di b(i)anchetto.
Va “bene”, leggo(no) che hai una Laur(e)a in Fisica, ti squadrano e hai anche un bel fisico. Patirai come tutti i colpi al fe(ga)to e poi andrai in pensione da dolori all’anc(or)a chiedente “fame”. Sì, magra consolazione, tutta una vita ad apparir in forma(ggio) nel timone, no, è un (re)fuso, timore di non ingrassare, mangiando solo insalata eppur avendo sempre (ri)fiuto “fino” da (s)porco.
Allora, ben venga lo sba(di)glio. Rourke che, in Angel Heart, sta passeggiando, gli sta scivolando il fazzoletto dal taschino, lui l’afferra di riflessi sempre vigili e svegli, e fa finta di niente. Alan Parker, così come Mickey Rourke, sa che la scena andrebbe rifatta, ma la mantiene invece così, perché fa sempre più spontaneità.
È più reale, vive.
FINE.
P.S.: ora, con questa mi(n)a che volevo dire?
La risposta è come la vedi tu.
Mi sembri di plastica, adesso, la chirurgia ti para di pezze al culo ma non ti salva la faccia della tua anima venduta al Diavolo dalla nascita.
Discussioni di Cinema e su De Palma
di Stefano Falotico
È bello parlar di Cinema, è una cosa che mi allieta, mi sprona, mi dà gusto e ne parlo sempre dunque volentieri. Anzi, il Cinema alimenta le mie giornate anche perché, in fondo, del resto non è che me ne importi molto. Sono arrivato a trentaquattro anni e vi devo far una confidenza. Un anno fa pensai che, scattati i trentatré, sarei morto, essendomi sempre molto identificato con Gesù. Invece, non morii e sono sempre qui, non so se vivo ma non vegeto di mio cervello pensante. Ora, non distraiamoci, stasera voglio andar a parare su Brian De Palma, su Oliver Stone, su Spielberg e compagnia bella.
Chiariamoci, De Palma è sempre stato il regista più sottovalutato fra quelli d’avanguardia emersi negli anni settanta. E sapete perché? Perché, fra i grandi nomi che qui vi citerò, è l’unico a non aver “azzeccato” proprio all’epoca il film “spartiacque”. Coppola, ad esempio, ha il suo iconico Il padrino di saga epocale, con tanto di sagre “paesane” da suo paese d’origine, Bernalda, e consacrò la sua fama planetaria con l’immenso Apocalypse Now. Spileberg ebbe Lo squalo e via d’avventura in altro sguazzar poi da miliardario, cimentandosi nel Cinema “impegnato” solo con Schindler’s List, quasi un trentennio dopo. Scelta tanto a fargli onore, a dargli anche dei giusti Oscar perché il suo capolavoro non si discute, ma gli fece montar la testa, a mio avviso, appesantendo lo spirito “infantile” del suomodus operandi in fatto di celluloide. Cioè, da intrattenitore geniale, spericolato, inventore di storie “extraterrestri”, a didascalico “educatore” di polpettoni tanto pomposi quanto, stringi stringi, ben poco emozionanti. Scorsese invece trovò Taxi Driver. Quando giri un film così, be’, puoi anche ritirarti in pensione anticipata. Per nostra fortuna, alla sua età, non è un suonato ma presto tornerà a suonar la carica con Silence.
De Palma invece no. Anche se Vestito per uccidere è un film che, sotto un’ottica proprio sperimentalistica e di visione già anticipante il postmodernismo del suo stile, non ha nulla da invidiare ai sopraccitati filmoni dei suoi colleghi-amici. Anzi…
Un discreto successo lo ottenne solo con Scarface. Pellicola oggi tanto mitizzata quanto però, alla sua uscita, fortemente e aspramente “distrutta” da una “critica” aff(r)ettata e snob, troppo purista e miope nel volervi vedere solo un remake insultante l’opera originaria di Hawks da “blasfemo” inusitato. Come a gridargli: “Come hai osato toccar l’intoccabile?”. Brian poté, può tutto, d’altronde è lui che ha firmatoThe Untouchables…
Scarface, perciò, giudicato “discreto”, secondo me magnifico, a suo modo (un) classico d’un trio suo delle meraviglie, annettendo in tal podio proprio Gli intoccabili e Carlito’s Way. Ove De Palma trova la perfetta mistura appunto fra classicismo, citazione stessa dei classici da cui trae ispirazione, omaggiando i maestri del passato, e altresì riesce a inserire i suoi celebri, spettacolari piani-sequenza, le sue impressionanti zoomate di dolly rot(e)anti, la proverbiale, controversa propensione per il barocco “smodato” e la carrellata, in senso fig(urat)o e meno del termine, d’inanellare scene già cult di sua poetica e tematica personalissima, il voyeurismo che incontra l’occhio penetrante della macchina (d)a presa dentro i suoi cardiaci battiti da profondo conoscitore dello “strumento” iper-percettivo, eccitantissimo.
Scarface porta la firma di Oliver Stone come sceneggiatore. Il quale, invece, come regista mi ha sempre lasciato col giudizio da bicchiere mezzo vuoto. Perché tecnicamente ineccepibile, ma logorroico, tremendo quando scambia il Cinema per un “documentario”, per un mockumentary come nel caso diThe Doors, film orrendo, o ancor peggio quando confonde il caso JFK per un trattatello da complotti che, anche se fossero ver(osimil)i, per il modo tronfio e retorico con cui li racconta, ti fa scender la catena e non (t’)appassiona. Solamente noia… e ribadir pedissequamente l’ovvio, il già visto di trito e ritrito fra “moviole”, ralenti, fermi-immagine che dovrebbero indurci ad analizzar meglio il tutto, il “lutto” della tragedia, e invece son così fottutamente una palla al piede, un lungometraggio lunghissimo, interminabile, con un Costner bravino ma che, conciato di capelli brizzolati, perde anche il fascino del sex symbol ch’era.
Insomma, per farla breve, per essere un grande, caro Stone, non serve una laurea in giornalismo ma un cervello di fantasia strabiliante come De Palma.
Spielberg aveva un cervello simile, ma i soldi e la Dreamworks gli fecero perdere i (nostri) sogni.
Sogni d’oro, dunque, sognate con Brian. Attenti però alla Dalia Nera.
La mia top “three” dell’anno, i tre film da podio, secondo me, di questa stagione cinematografica abbastanza (in)dimenticabile
di Stefano Falotico
Si chiudono i battenti “ufficiosamente” e arriveranno gli “scarti” di magazzino. Anche se poi non è sempre vero perché ad esempio l’esordio di Rob Zombie fu piazzato ad Agosto in Italia, essendo stato reputato un filmetto da “protezione” anti-solare di proiezione già ad annerirlo, avendolo (re)legato alla sezione “bagnasciuga”, e invece si rivelò un capolavoro illuminante, seppur horror e macabro, (auto)ironico e strepitosamente fuori moda. Mi riferisco a La casa dei 1000 corpi.
Premessa lirica, (non) messo lì, avendo poche lire ed essendo quasi tutte senza sogni, eppur di notte…
Ieri notte, passeggiai a tarda notte in macchina. No, non ero felice e neppure però deluso. Credo che il termine… esatto fosse costernazione. Sì, costernazione è forse la stellar parola pertinente per descrivere il mio stato d’animo così “toccante” per me stesso. Non fu, prima del giro in macchina, una gran serata. No, assolutamente. E neppure dopo. Chattai con una donna. Da un po’ ci confidiamo. Ci scambiamo opinioni sul mondo, più o meno frivole, futilmente dense d’umanità, vagamente a trascurarci senz’imbellettate retoriche da dialoghi formali. Ce le spariamo come vengono. A volte da antieroi e a volte anche di segreti erotici nelle fantasie proibite che virtuali non sono mai se c’è qualcosa sotto… Lei mi racconta, ad esempio, che assomiglio a suo fratello, io le rispondo che suo fratello è uno sconosciuto ai miei occhi. E non potrò mai comprendere l’affetto ch’ella nutre per il suo consanguineo, a sua detta malinconico, profondo, lontano da un mondo che spara a zero su tutto con superficialità allibente, da essiccarti appena lo spiraglio di luce rivedevi rischiarante per un indubitabile ma momentaneo, fugace, inafferrabile, illusorio attimo di pace. Già svanito, già oltre, (im)mobile e liquido. Di suo fratello non mi importa. Lei dunque ha il diritto di fregarsi del sottoscritto, di farmi mangiar il fe(ga)to, anche di fregar altri fringuelli con la storia del fratello, di raggirarmi con frasi di “acchiappo” affinché abbocchi e, tirando l’amo, possa (ri)pescarmi già sciolto nelle mutande, affogato, vivamente (s)venuto. Ma non mi vendo, non mi dolgo. Penso solo che, dopo una settimana di (in)valide conversazioni infuocate, tese, sempre sul punto del farmi incazzare, di lei che parimenti sta sulle sue “acque” di calma apparentemente piatta, eppur le piaccio ed è un tritaghiaccio, un fresco tè al bar e… così sia un lassativo che può aiutare, la mando al diavolo, uno da corna in testa. Decisi così di troncare tutto prima che potesse disboscare il mio cuore con colpi d’ascia profumati da donna troppo fertile di passione per far sì che potessi attecchirmi da stecchito nello steccato della mossa (in)castrante. Meglio subito sbrogliar la matassa, tagliar la corda e prender la macchina per le corna, appunto, miei cornuti. Le cornee devo salvarmi, questa ti rende cieco, e ti fa perder la testa. Ah, tutti voglion le corone, sì, le corone da “principessa sul pisello” del più ricco e bello. Quelle che mi rifilerà come ripicca per questo mio estemporaneo, stronzo due picche. Eppur quell’amante pieno di soldi, raccattato da primo che ca(s)pita, la picchierà e tornerà da me, il “bruto” ma tenero dal cuore di “pietra” che si spaccò troppo romanticamente per provarci subito di squallida notte sbrigativa. Meglio gustarla, meglio la crostata di miele di Million Dollar Baby. Ma questa è una storia (mai) avuta personale e so che ve ne sbatte(te). Ognuno/a ha i suoi cazzi per la testa e le proprie gatte da pelare. Vi capisco, la pellaccia innanzitutto, se vuole la pelliccia, le posso offrire un bacio e un caffè. Queste sono le finanze e, se davvero mi ama, deve prender quel che passa il (con)vento. Non (pre)tenda! Sì, meglio mollarla prima che potesse mollarmele per effetto “collaterale” del seminale da non poter mantenere poi il parto di tal (ba)lordo amore da prese reciproche per il popò, però che “posteriori”. Non voglio bebè, non son pronto per il papà, ciao, e comunque ci sta(va). Ah, che natiche ha, come si può dimenticare, ah? Sono proprio un neonato. Gne gne gne, sono uno gnomo “duro” nel mio “no” intransigente e prendendolo seduta stante a mio volante… di clacson strombazzante. Meglio il brum brum del bromuro. L’olio carbura e guido ora sul burro(ne).
Insomma, un’altra delusione da fitta a non “ficcata”.
Tornai dunque a casa, incassando, e ripensando alla stagione dell’uva passa…
E continuo a preferir il Cinema a queste, che sembran “depresse”, da casa e chiesa, ma son invero io vi dico da “chiave” solo se le paghi.
Di mio, meglio strappar un altro biglietto. La “maschera”, che lo stacca, sa che un film è meglio di una che non merita seconde (re)visioni.
Ed Eyes Wide Shut dovrebbe dirvela…
I tre film dell’anno, secondo me. Secondo te, no, ma io non sono te, tu non sei me, lui chi è? Gli diamo del “lei?”. Dai, diamogli del “tu”, e beviamoci un caffè. Pensavi che avrei detto un “the” e invece preferisco le torrefazioni di caffeina alle te(tt)ine, non mangio quasi mai carne di suino e non lecco dietro le tendine da porcellino, eppur sono io, e qui ve li “sudo”. Film da leccarsi, appunto, i baffi, miei cotte e bollite al su(g)o.
“Segnat(evel)i”.
1) Cose nostre – Malavita di Luc Besson
So che sindacherete su questa mia scelta. Addirittura al primo posto? Sì, il film più incompreso dell’anno. Un Besson puro, alla Tim Burton, freak mafiosi in una Francia notturna, con duetti spaventosamente sublimi fra il grande Bob e il mitico Tommy Lee Jones, due “duri” che non posson far altro se non reggersi a vicenda il gioco dei “perdenti”, con una Michelle Pfeiffer bruttina come non mai e di bigodini però attizzanti “fuoco”, due pestiferi figli combina-guai, una miscela fra i Simpson e la “famiglia” d’un Padrino sui generis, spassoso, dark, anche violentissimo nel finale, però fumettistico. E che colpo di genio aver fatto vincere i nostri bastardi.
Poi, Scorsese come produttore esecutivo e Besson che l’omaggia con Quei bravi ragazzi in De Niro reminiscente di lacrimuccia.
Che film.
2) Maps to the Stars, l’apice di Cronenberg. Ora, David non ha più bisogno di stupirci con “effetti speciali”, gli basta indagare in “digitale” a toccar le anime d’un mondo oramai bruciato. Son tutti colpevoli della tragedia (dis)umana, gli adulti arricchitisi e senza più anima, che fan le orge e rubano il “ruolo” all’altro/a per giochi al massacro da mors tua, vita mea. Per stare su, non bastano le spremute di vitamine e neppur ritrovar la “forza” nel premer le meningi, ecco allora che s’impasticcano perché son (ri)dotti di plastica, dorati fuori, di merda dentro, a “educar” i figli a “spaccare il culo” al coetaneo sin dalla pubertà, rendendoli “prodigi” solo di malessere e precoci rivalità malsane, fegati distrutti, orgasmi senza pathos, bugie da “stellina” di Hollywood, si salva solo Pattinson, il più “alien(at)o”, tremendo il suicidio dei due “ragazzini” sulle note della libertà commovente.
3) True Detective. È una serie televisiva?! Ancora con questa storia? No, è un filmissimo in 8 puntate trasmesso dalla HBO e da noi su Sky Atlantic a Settembre. È Cinema della miglior specie, anzi della “peggiore” perché man is the cruelest animal.
Non c’è molto da dire più di quanto ho già detto. Errol, in fondo in (pro)fondo di Carcosa, è un mostro, sì, ma è “solo” la vittima più “ritardata” e “ingenua” del pasto sacrificale dei satanisti più “furbi”. Quelli coperti dall’apparenza “istituzionale” ché mai saran scoperti e impunemente faran strage di “bambini” o innocenti, protetti semmai dalla “Chiesa”.
Un’opera cattivissima, emozionante come poche, un’esperienza sensoriale e visiva, resa così grande da un Cary Fukunaga ispirato come non mai, dalla penna spietata e velenosa d’un impeccabile Nic Pizzolatto, dai due protagonisti, McConaughey/Rust Cohle che trova il ruolo che lo consegna alla leggenda, e un Woody Harrelson “in sordina” ma altrettanto bravo.
Scarface della società di oggi, ieri, speriamo nel domani, altrimenti spar(iam)o!
di Stefano Falotico
A quali livelli di atroce e bigotto moralismo è arrivata la società di oggi, falsa e fascista.
Ieri sera, inserisco questa su filmtv.it e stamattina vedo che è stata censurata con tanto di notifica del gestore.
In realtà, devo ammetterlo: molte donne mi scrivono perché vorrebbero amarmi, fingo da “figo” di esser “preso” da loro di “bacini”, invero mi prende solo Al Pacino, bando alle ciance!
E alle vacche!
di Stefano Falotico
L’altra sera, su Iris, han dato per la centomilionesima volta quel film della Madonna ch’è Scarface.
Non avendo molto da fare, sebbene fosse iniziato da una manciata di minuti, sì, nella visione dei film sono “maniacale” come Woody Allen, raramente protraggo il “lungometraggio” a pellicola già iniziata, se ho perso l’incipit, anche se l’avevo già visto, cambio canale perché s’è personalmente persa la magia del logo Universal(e), ecco, appunto lo guardai magneticamente assorto in contemplazione venerante il mitico, torvissimo, “cattivissimo” Al Pacino di recitazione fenomenale, un guascone infernale, un cazzone stronzo come pochi, ambizioso molto più del Daniel Day-Lewis Plainview de Il petroliere. Se lì there will be blood, nel capolavoro di De Palma, Al urla “Io sono Tony Montana!” con una ferocia impressionante da lasciar secchi tutti alle (s)palle, compreso sé stesso ma escluso l’energumeno che, da vigliacco, gli spara alla schiena da dietro fotterlo in culo con mitragliatrice di bazooka pesante, come dirgli “Ora, basta, figlio di puttana!”.
The world is (not) yours! Plof e il “tuffo” involontario da morto di fame, in quanto spacciatore più laido di Fabrizio Corona, nella fontana del bagno di sangue.
E dir che, quando uscì, fu un flop. Triste sorte capitata al novanta per cento dei film di De Palma, altamente incompresi ogni qualvolta, da inediti troppo innovativi, escon in sala su critica ignorantissima della superficiale “America” spesso puritana e non pronta agli esperimenti di Brian, da me ribattezzato “L’Hitchcock più ispirato del suo reincarnarsi in Alfred con andamenti barocchi, elettrizzanti di macchina da presa volteggiante più delle gambe scarnificanti ed eccitanti della femme fatale in nostre emozioni da donne a viver due volte la stessa figa(ta)”. Ma quale imitatore di Hitchcock. Diciamo (piut)tosto un geniale mescitore della sana lezione del maestro della suspense a diletto del reinventarlo così come Tarantino docet ché Quentin copia anche De Palma in un blow out visivo postmoderno da (non) farci capire un cazzo da chi ha appreso e preso da chi.
De Palma, un’esplosione “kitsch” di mirabolanti architetture (sovra)impresse per sempre a nostre iridi in lui fiammeggianti. Traiettorie oculari del nostro venirne sanguinariamente vampirizzati di applauso sconfinato, con tanto di lacrima alla fine da infarto goduto in pancia di Cinema puro come una donna in bikini stratosferica da “duro” (s)venir in “botta” fottuta su spiaggia (det)ergente le dinamiche della bomba al cuore (immagini)fico.
Cinema sexy da morire, con questa Michelle Pfeiffer perennemente scollacciata, bo(mbo)n(ier)a del nostro “collezionista” che non si fa scrupoli da Paura d’amare.
Altro che Garry Marshall, qui Pacino spinge subito senz’esitazioni e se la cucina da vero “cuoco”, occupa da (s)ergentone le sue “logge”, cioè le sue “bocce” di villone al villano suo spericolato in tacchi svettanti per misurare quanto lei, ammazzando Robert Loggia e compagnia bella di bruti con brutalità da La bella e la bestia. Che villain!
Una merda adorabile, un irredento da far spavento anche ai leoni, push(er) it to the limit!
Senz’alcun morale limite, recintato solo da qualche tocco, non solo di quella di figona di Michelle (in)castrante, bensì dell’Oliver Stone sceneggiatore con qualche cazzo per la testa di troppo, ché sbaglia infatti, ah piccolo “fallo” perdonabiile, alcuni dialoghi, appesantendoli di pesantezza didascalica. Una fa(rfa)lla che ci sta, tutto sommato.
Dai, una così è da farsela sulle scale… del potere, da an(n)o del drago(ne).
Pacino immenso!
Lo amo!
Michelle, fottiti!
Via dalle pall(ottol)e!
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So che mi invidiate profondamente ma eccolo qui, il Blu-ray cofanetto di True Detective.
Arrivato stamane, da scartare subito e rivedere con enorme gusto.
Addio al grande Eli Wallach, il “brutto” di Sergio Leone e splendido interprete di altri grandi film, come I magnifici sette
di Stefano Falotico
Questa è una giornata molto triste, molto più che triste. Accendere il pc di mattina appena destatasi, appena albeggiante ma ancor immersa nel mansueto, morbido buio pesto, frammentato dai primi raggi d’una Bologna però plumbea, avvolta da una pioggia cupa…, e apprendere da qualche giornalistica testata, di formato “ANSA”, che Eli Wallach se n’è andato. The Bad…
Brutto tempo, davvero. Ed enormemente mi rattristo a saper che il mio Eli è morto, morto per sempre in quest’opaca epoca “baldanzosa” (s)fatta solo di giullari, che si (s)tira su in finte allegrie mortifere, queste sì appartenenti a persone infinite di stupidità e idiozia, che si credon attori e invece recitan solo il funebre ruolo d’inseguir patetici, nerissimi carri da “vin(ci)t(or)i”. Nel panta rei d’un imbruttimento di massa in cui molta della nostra società s’è arenata, cedendo al pantano delle glorie edonistiche da “for(zu)ti” pantaloni nel mostrar il cavallo da “tori” che se ne sbattono…
Mica come Tuco, gaglioffo dalla pistola facile anche da sboccato, autentico, rustico e verace ma fortunatamente sé stesso, tanto ladron quanto di anima onesta, questa invece è oscena gente volgare che tocca e magna a sbafo, spacciandosi per “buona”, gente “toccata” insomma, eppur così “stimata” dal pensiero della maggioranza, ove conta appunto oggi, in tal era squallida, il “valore” di chi spara al prossimo con freddezza, questa sì calcolatrice e crudele, ove i duelli fra le persone son (di)sfide da “saloon” proprio carnascialeschi degli opinionisti (in)utili da salotti, ché sotto sotto l’anima non han niente se non la “forza” di chi uccide con l’arroganza più applaudita e di c(l)asse da urlatori (im)moderati d’una sconfinata prateria imputridente il tramonto dei veri eroi purissimi.
Eli Wallach muore alla veneranda età di 98 anni. Sono molti i ruoli della sua vastissima filmografia che sarebbero da ricordare per questo strepitoso attore particolarissimo, perfino “caricaturale”, grottesco, eccessivo, magnificamente sguaiato, smorfioso, d’eleganza clownesca da far bellezza e sublime, altissimo spavento.
Be’, non starò a citarveli. Sotto, lascerò scorrere il (rim)pianto del sacrosanto celebrarlo in clip a me, e spero anche a voi, lucentemente rimembranti a tutti che un pregiatissimo, inestimabile pezzo senza presso del Cinema mondiale non c’è più.
Ma nel mio cuore e, ripeto, spero anche nel vostro, rimarrà eternamente finché morte non ci s(e)pari, come dico io, e forse, nell’aldilà, quando l’incontreremo assieme ai cherubini in una s-cena idilliaca con iddio che (non) lo ha perdonato, mentre in sottofondo semmai metteranno il più ispirato Ennio Morricone, dopo esser espirati, indossando tutti assieme gli speroni da bounty–killer, rievocheremo nostalgici i (tra)passati gloriosi, respirando l’epica d’un c’era una volta indimenticabile, immortalato a nostre iridi troppo vive per adagiarsi alle falsità odierne. The Ecstasy of Go(l)d!
Finito di cenare, ci guarderemo negli occhi, da trielli storici, deporremo le armi delle rivalità e, goliardicamente scherzando fra noi, c’urleremmo addosso un “Sai di chi siamo figli noi? Di putaaaa!”.
E, dopo tal luculliano spuntino da leccarci i baffini, sputeremo come Tuco, un po’ da good, da bad, da ugly. Perché la vita è come un superbo, imbattibile western di Sergio Leone.
Da “spaghetti”, da conti che non tornano, da cappi al collo, da amicizie virili fra stronzi ché oggi ti reggo(n) il gioco e domani ti soggiog(an)o, poi ti liber(an)o ma stai comunque attento, biondo…