Gli uomini senza ombra al Cinema, gli hollow men han sempre affascinato
di Stefano Falotico
Quanti film abbiamo visto ove il protagonista, che sia eroe o meno, perde la sua ombra?
Parimenti a Sansone che, perdendo i capelli, pensò di esser stato disintegrato della sua forza e invece, da quell’“evirazione”, acquisì una coscienza di sé più fiera e ancora più agguerrita, dunque anziché indebolirsi si rinnovò rigenerato di maggiore, energico rafforzamento, soprattutto nell’anima, facendo crollare tutti i filistei e le lor colonne “indistruttibili”, fondate van(itos)amente solo su labili, falsi “valori” disumani, come la Bibbia docet, ecco che ci son tante storie, nella Letteratura e soprattutto nel Cinema, ove il nostro man, per circostanze misteriose, assurde, stipulando strambi patti diabolici o a cagione di sortilegi dei più disparati appunto di sorta che lui pensa sciagurati da disperato, vien privato della sua ombra. Sì, all’inizio, quando perde la sua ombra, il nostro man è come se fosse stato sottratto dell’intimità del suo animo. Perché colui che non proietta la sua ombra… è un fantasma, un morto vivente. Un uomo appunto invisibile. Se non si vede la sua ombra, l’uomo, che la “indossa”, è come se non esistesse. O meglio, lui c’è, si percepisce vivo e vegeto come prima, né più né meno, ma la gente, che lo circonda, non vedendo la sua ombra, è come se proprio non vedesse nemmeno colui che appunto la “rivestiva”.
A tal proposito, ieri pomeriggio, sfiancato dal caldo essiccante, ove si rischia proprio di “evaporare”, da cui il detto dei molti gradi all’ombra, ho pensato bene d’andar a ripescare un mio vecchio libro d’antologia delle scuole superiori, rintracciando poi un estratto della “Storia straordinaria di Peter Schlemihl”. Romanzo pubblicato nel 1814 dal poeta tedesco Adalbert von Chamisso.
Una splendida storia che assomiglia al “Faust” di Goethe, anche lui tedesco. Oh, si vede che, in quel periodo, dati gli stenti economici, l’indigenza e la povertà nella quale riversava la Germania, questi germanici, eh eh, “buttavano al diavolo tutto”. Ah ah.
Eh sì, come Faust, il protagonista del libro di von Chamisso, giunge da povero in città.
E, non sapendo come tirare a campare, poiché nessuno gli dà da lavora’, ah ah, ecco che incontra uno strano “straniero”, uno di quella zona ché la/o conosce meglio delle sue (senza) tasche. Un “ricco” proprietario di quelle terre maledette dal demonio. Appunt(it)o! Eh sì, dietro gli abiti eleganti del buon samaritano, si nasconde in verità niente meno che il Devil in persona. Il nostro Schlemihl, allorché, (in)cosciente, pe’ fa’ du’ lire, dunque per guadagnare dei franchi…, “francamente” vien fregato dal figlio di put… a. Eh eh. Sì, in cambio di vile oro, il nostro diavolaccio gli chiede in cambio la sua ombra.
Da allora, Schlemihl vagherà per quelle lande desolate in modo inconsolabile. Nonostante la ricchezza, sarà più triste ed emarginato di prima. Varie peripezie lo consoleranno per un po’. Nel suo lungo ed estenuante peregrinare, incontrerà un benefattore, stavolta onesto, che lo ricoprirà di onori e gloria, ospitandolo a casa sua. In quel paese, s’innamorerà di Mina ma non potrà sposarla perché i genitori dell’ambita sposa scopriranno che il futuro genero è un “degenerato”, in quanto sprovvisto della sua ombra. Come dire:
“Un uomo senza ombra non è un buon partito, è già un uomo finito, cara mia, sposarsi uno così, significa aver già il piede in un fossa. Ah, dolce figlia, stacci a sentire, questo Schlemihl è solo un fesso. Lascialo perdere. Ha già perso tutto. Sì, uno senz’ombra che cazzo vive a fare?”.
Schlemihl insisterà in tutti modi per tentare di sposare Mina. Lei ci sta, non ci sta, l’ama e non l’ama. E, fra una margherita, un semi-bacio, un tira e molla, Mina alla fine lo manda a quell’altro paese. Ove Schlemihl troverà finalmente la felicità, dedicandosi appieno allo studio delle scienze naturali.
Che storia “allegra”, eh? Sì, biografica poiché von Chamisso impresse in prosa la sua solitudine esistenziale da intellettuale “rifiutato” dalla società dell’epoca. E, in quelle bellissime, incantevoli pagine magiche e poetiche, semplicemente, così come fanno spesso gli artisti, sublimò le sue precarietà…
Ora, citiamo, fra i mille, due casi a cas(acci)o di film, più o meno importanti, ove il nostro “eroe” perde l’ombra e getta nello scompiglio tutti, soprattutto sé stesso.
Hollow Man con Bacon-Shue e Le avventure di un uomo invisibile del grande John Carpenter.
Ah, nel film di Verhoeven, quel bocconcino di Bacon vuole la super donna Shue ma non riesce a “toccarla”, lei lo sente, lui le entra dentro…, coglie il suo respiro da “fiato sul collo” eppur non gode, non viene… “soddisfatta”. L’ombra è palpabile ma l’uomo è non è pappabile, la donna non vede la sua ombra, non lo vede per niente, come può dargliela? A chi la deve dare? Dove sta, come si fa a scopa’ se fisicamente non si può acchiappar’?
E l’ombra va, gironzolando di notte qua e là, tastando e annusando, furbescamente “fottuta”.
Coi Coen e con Hail Caesar, celebro la loro filmografia in modo “folle”, come piace a me, autarchico, elegantemente visionario
di Stefano Falotico
Quanto mi attizza il nuovo film dei Coen, Hail Caesar con Josh Brolin e Clooney, evviva l’idiot trilogy dei Coen…
Sì, i due fratellini hanno annunciato il loro nuovo film, che si prefigura come un evento devastante. S’intitola Hail Caesar, una sceneggiatura che loro hanno scritto una “miriade” di anni fa, sempre custodita gelosamente ma mai, alla fine, concretizzatasi in un film, come sovente accade, da lor stessi diretto. Perennemente procrastinato a favore di altri progetti, forse meno complessi, più immediati, più “di presa” per il pubblico. E allora ben venga Non è un paese per vecchi, ostracizzato, ostico, forse sopravvalutato, comunque oscarizzato con tanto di statuetta strameritata a uno Javier Bardem con la pettinatura più oscena della storia, l’uomo che non c’era versione McCarthy cinico eppur con un toupet spaventosamente “simpatico”, sì, A proposito di Davis ci può stare fra un gatto che batte tutti di sole fusa melanconiche da strapazzarlo e un giovane che sembra Al Pacino versione meno talentuosa e meno cazzuta, e in mezzo, anche dietro, un sacco di roba, che poi incenserò.
Ma arrivano, anzi arriviamo a questo Hail Caesar. Pochi dettagli sulla trama, si sa solo che Clooney torna a lavorare con Joel ed Ethan, appunto, dopo il “mezzo bluff” di Fratello, dove sei (sì, diciamocelo, un 6 stirato in pagella, dopo averlo rivisto, lo salvo solo per il pacioso sempre enorme Goodman e per un Turturro più strabico del solito) e quella cagata immonda di Prima ti sposo, poi ti rovino, un filmettino proprio piccolo sostenuto solo dai fan “senza fegato”, ah ah, dei fratellini, pronti a scommettere che fa gentleman ironico alla George- Cary Grant, appunto, con quel pezzo dell’uvona della Zeta-Jones, una che se metti in “pause” sui seni procaci della scena in ascensore, be’, non c’è bisogno che salga lentamente… arriva già a destinazione, e mi raccomando spingete “alt” per evitar il “contraccolpo” dell’esser venuti precipitevolissimevolmente, la parola più lunga dell’italiano media di “lingua”, che io batto di fantasia alla Mary Poppins, estraendo dalla mia “borsetta” sotto le occhiaie un super-fica…, ops, scusate, supercalifragilistichespiralidoso di basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Non il Viagra, il Valium per contenere l’effetto “scoppiato” dell’ormone impazzito, ah, Catherine… allunga… che sedere poi, stia sedato!
A cuccia! Ma ci sarebbe da ciucciarla, cari ciuchi, sì, il caciucco, la cicuta. E la Paprika? Secondo me, è più bona Erica, senza k, non ci son cazzi. Sì, però è un po’ car(iat)a.
Sì, va “pene”, scusate, devo riprendermi dalla “botta(na)”, sì, volevo dire bene, volevo dire “Lei è un fallito!”, certamente, perché no, facciamo un viaggio alle (senza) “palle” da bowling formato trascurato Jeff grande Lebowski, il Bridges più cazzone che vedrete mai. Un genio assoluto per dei Coen ispirati da Dio. Oh, my Jesus, ancora due grandi John…
Ma che film è questo? Di un altro pianeta! Altro che oroscopi, mie donne frustrate da gastroscopie. Scopate! Vergine, in capricorno su ariete, potrebbe partorire dei gemelli o un toro in “congiunzione” abortista da piste, da ballisti, da freak, da pistolini come Steve Buscemi, “parto malato” della società tutta sballata, spaziale quanto Bridges che se le rompe con quella femminista artista dei “coglioni” della Moore, dunque gli parte l’embolo sideralmente congiunto a un’onirica visione di Saddam Hussein ed è un brutto trip(pone). Una squallida scopata in un pazzesco copione. Dunque, Ben Gazzara, uno da pornoattori, ex Bukowski qui con Lebowski, ordinaria follia, citazione (in)volontaria, e un finale dolceamaro da farci solo una gran risata.
Sì, questo mio post è da rimaner secchi, “senza parola”.
Ma la vita sta nel genio di quella battuta strepitosa…
Questo è il tuo compito, Larry? Questo è tuo, Larry? Questo è il tuo compito, Larry?
Che puoi dire?
Bravo!
Anzi, sono due. Bravi!
Tornando invece ad Hail Caesar. I Coen hanno dichiarato che questo sarà appunto il clooneyano terzo tassello mancante al loro succitato duetto, un terzetto sia filmografico sia di réunion da doppi registi consanguinei affratellati a Georgino. Loro l’hanno definita la trilogia dell’idiota…, ove Clooney, come nei due precedenti “casi”, interpreterà appunto il classico idiot savant. Uno che non sai se ci è o ci fa? Ma è bello, ha fascino. Sì, dello stronzo. Ed è giusto, se lo può permettere.
A cui Josh Brolin cercherà di parare il culo, in modo fixer…
Auguri di compleanno a Johnny Depp, che varca l’incredibile soglia dei 51 anni (?)
di Stefano Falotico
Sì, costui credo sia l’incarnazione del Faust di Goethe.
Balza all’occhio l’impossibilità della sua età anagrafica. Cinquantuno anni così “indossati”, be’, posso firmare per ottenere la sua “pelle?”.
Com’è possibile? Dio mio, che razza di perfetto Peter Pan ha creato sua madre (natura).
Tutti invecchiano, chi più chi meno. Una sorte ingrata che “sfigura” lentamente il viso, appaiono così inevitabilmente le rughe, il corpo imbolsisce, la stanchezza crepita nelle iridi d’occhi appisolati nel mesto ma inesorabile trascorrere pigro e triste del tempo purtroppo invincibile.
Invece, Depp, nato nel Kentucky il 9 Giugno del 1963, con all’attivo una pluripremiata e trentennale carriera alle spalle, sembra un mio coetaneo. E qui c’è d’aver piacevole, impressionante paura. Sobbalzo!
Un ritratto vivo e vegeto, prolifico di celluloide, alla Dorian Gray, senza cellulite, ancor magrissimo, con due peli di barba appena, a renderlo virilmente riconoscibile. Altrimenti, avremmo il sospetto di trovarci dinanzi a un imbroglione della sua carta d’identità.
Sì, con il pizzo alla Dean Corso de La Nona porta, Depp vagamente ci ricorda la sua effettiva età. Ma, sbarbato, urliamo di “terrore”.
No, siamo di fronte a un uomo che ha pattuito un contratto inestimabile per preservare la sua intatta giovinezza. Un uomo che sa abbinare, fra l’altro, al carisma sensuale… una classe eccezionale, una bravura da farci impallidire molto più della sua carnagione ceruleissima da La fabbrica di cioccolato.
Sì, resto basito, quasi perplesso. Un uomo che si fa il mazzo sul set e quindi qualche colpo alla sua bellezza dovrebbe accusare e invece, oltre che rimanere immutabile, sempre più elegantemente recita d’asciutto sguardo penetrante, ammaliandoci nel gioco delle sue palpebre dall’accigliato suo ammiccare vanesio ma con perfetto, armonioso bilanciamento del concupente malandrino che sa esser “effeminato”, mantenendosi maschio puro. Però! Capperi! Che figo/a!
Che levigatezza, che occhi, che splendida lor nerezza. Che romantico da gran tenerezze eppur bastardello in tanti ruoli da “gaglioffo”, da saltimbanco, da freak burtoniano, da gangster (in)verosimile.
Sono etero, credo anche tutto inte(g)ro. Eppur stringo la mano ad Amber Heard e le sussurro “Che culo che hai”.
Inteso in senso “doppio” come Depp, bello e impossibile, e come il suo didietro sfacciato.
Ah ah!
Lo stato anomalo di Travis Bickle
di Stefano Falotico
Molta gente, dopo aver visto Taxi Driver, credo sia rifuggita dal senso intimo del film. Il significato di tal capodopera, che io serbo nella mia anima di tutta gloria, risiede negli occhi di Bob De Niro. Occhi lancinanti che il sol volervi addentrare… tremar d’angoscia vi farà. Un “reietto” che s’auto… esilia, navigando un po’ fra lo smargiasso e il cinico romantico nelle notti calde d’una violenta, tumefacente New York notturna. Egli scruta gli animali strani, ne soffre a pelle l’ingordigia, ode il lamento dell’umanità, raggrumandolo nei suoi lineamenti sempre più smagrenti. S’allupa per labili, velleitari moti impulsivi di sua irascibile indole tanto propulsiva di scatti quanto invero negligente a qualsiasi principio di realtà “tranquilla”. Anela la bionda che lui idealizza, la sogna ma forse solo la trasfigura di effimero neanche volerla toccare, forgiandola a un’immagine (in)violabile tutta sua di purezza e perfezione. Similmente, come molti vedono in Nicole Kidman un angelo e io invece vedo una donna nella sua nudità raccapricciante, una donna perlacea, la quale a voi appare tale, che superficialmente ne ammirate le gambe slanciate, avvoltolate in vertiginosi tacchi di strascico su espressione “dolce” da docilissima femminilità di porcellana, una donna viziata, capricciosa, che io relegherei all’ufficio degl’imborghesiti Barry Primus a corteggiarla di “buffetti” e carinerie dall’insopportabile, rivoltante smanceria. Travis è un folle lucido che scorrazza fuggiascamente. Addolorandosi a letto, (s)tirando muscoli in allenamenti “orgasmizzanti” senz’alcun senso. Sì, il suo mettersi in forma non è indirizzato a niente. Tanto che alcuni spettatori credono si tratti d’un demente, d’uno che non capisce niente e fa sempre la mossa sbagliata per far la fig(ur)a da fesso. E qui cascano gli asini. Travis sa ponderare invece, è un temporeggiatore, scandisce da metronotte la melanconia dell’ineludibile assurdità del mondo, si fracassa il cranio d’incognite che agli altri appariranno farneticanti idiozie, rinsecchisce a vista d’occhio e monologa col suo fantasma allo specchio. S’illude di “raddrizzarsi” in quella rituale pratica quotidiana in cui fa i piegamenti nel suo ment(i)re di (ri)flessioni per altra sospensione a tutto. Non è un culturista e non lo fa per apparir bello, i suoi esercizi ginnici assomigliano soltanto a un onanismo senza capo né coda. Tanto che si stremerà, logorato dal non aver scansato la sua “erronea” natura, una natura primordiale da diverso, da silente osservatore, da taciturno saggio, da “spione” delle vite altrui perché della totalità del vivere è scontento, sconcertato, incarna la tetraggine della bellezza nel suo scheletrico sterno. Uno sterno a imbuto, voragine di ogni peccato(re). Della società nelle sue iridi (non) vedenti, da veggente, quasi un vampiro profetico. Un prefiguratore dell’orrore… una maschera di sangue e lacrime capitata per maledetta sciagura nel caos d’un mondo già distrutt(iv)o.
Questo è Taxi Driver. L’apice dell’aver visto cos’è la condizione umana. Che (vi) piaccia o meno.
Robert De Niro, L’intoccabile
di Stefano Falotico
Ebbene sì, c’era da aspettarselo, miei aficionados fratelli della congrega o meglio di tal community. Lo so, lo so, dopo tanti miei libri strambi, alcuni esoterici, altri che si “perderan per strada”, dopo anche tanto mio pavoneggiarmi da autarchico, semmai a tarda notte da solo in auto, sostando in un caffè che sfavilla tra rifrangenze lunari d’un plenilunio denso come un caffè pregno di nostalgico amore, ops, scusate aroma, tra sbandare, rifugiarmi “nudo” in solitarie riflessioni, poi semmai, con un colpo di culo (s)bottante con una donna da veri amanti, con lei che mi spaccò il vetro del finestrino perché voleva la mancia, dopo favell(ar)e e nel torbido rimestare, fra il menestrello, la riscaldata minestra, i luoghi comuni da me abbattuti, tra fratture e cittadini frazioni, fra sinistr(oid)i e (ambi)destr(ors)i nel dar la precedenza a un ignorante con “patente” da “figo”, dopo Clint Eastwood e di come m’immalinconì granitico, dopo Cage Nic e la sua recitazione da “passaggio a livello”, ché è ticchettante fra un espress(iv)o e un farti aspettar il treno con faccia annoiata da pesce lesso, tra il perplesso e un clacson, come non potevo parare su Bob De Niro?
Io e costui, da tempo (im)memorabile siam fratelli di sangue. Di come, precocemente già “straniero” di questo mondo, idolatrai immedesimandomi il suo Travis Bickle da scorsesiano colpo geniale su Schrader ispirato al massimo, non solo da Albert Camus. E abbandonai le frivolezze di quell’età acerba per accelerare nella mia indolenza da mohicano, fra il ribelle, lo “schizofrenico” suadente quanto ai papponi nel suonarle, le notti grondanti sangue, dolore a pelle, smagrimenti, pochi rancori, molte altrui apprensioni perché davvero ‘sti stolti credettero che io mi credessi un ne(r)o e invece amo anche la montagna, specie se col Bob dribblo le valanghe degli ottusi e scalo le vette. Non ho ambizioni da imbonitore letterario, lascio ai buonisti coccolar le ragazze al cioccolato coi loro aforismi “dolci” quanto a me disgustanti, bensì al solito privilegio me stesso, imperterrito anche se patirò le pene dell’inferno come un raging bull o, da king of comedy, solleticherò il mio once upon a time da Leone e non da pecorone.
Ed ecco qua il mio “biopic” su Robert.
Son tanto folle da partir proprio in medias res, da Ronin. Procedendo di narrazione avanti e indietro, basta che ci do dentro.
E a voi mostro tutto il primo capito(mbo)lo. Che piaccia o meno, io piaccio. Nessuno è perfetto, tranne io e De Niro. Mi dispiace per gli altri ché sono tristi e non sanno ancora cos’è Casinò. Anche perché la scena nel deserto, fra Bob e Pesci vale tutta una vita. Il resto è un gioco a dadi, io preferisco le dame agli scacchi.
Negli anni settanta, Hollywood si rinnovò e spuntò, dalle nebbie d’un Cinema retrogrado e oramai consunto, sull’orlo del collasso perché incapace di ammodernarsi, dalle opacità appassenti d’un nitrato d’argento troppo arrugginitosi, sì, spuntò Bob De Niro.
Così, Bob, l’apostrofiamo di primo nome simpatizzante d’empatia nostra amicale.
Bob De Niro e il suo neo distintivo, marchiato a volto inconfondibile che subito s’impresse nella memoria, radendo al suolo i visi impostati d’attori del passato già sorpassati. Li surclassò, beffandoli con la sua risata ambigua, fra l’ammiccante pensieroso a (non) discernersi ma (s)mascherarsi nudamente traspirando una smorfia enigmatica, dallo stupefacente chiaror lunatico nell’arsione levigata di labbra “argute”, peccatrici dell’unica colpa d’esser un Dio della recitazione, erede già designato di Marlon Brando. D’altronde, il destino è firmato di Oscar per lo stesso personaggio che interpretarono, appunto, in epoche diverse, cioè Vito Corleone, ma collocato d’egual carisma altisonante, magnetico, impossibile da scordare.
A scorticarci dentro nei fiammeggianti, sfumati colori d’una sottigliezza altissima d’attori nati divini.
E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica. Anche solo “masticando” la pelle del suo volto in abrasione nostra a congiungerci amanti dei suoi sospiri di diaframma denso, sanguigno, iroso o arrossendoci di tale forza penetrante d’ardore camaleontico da raschiarci e scuoiar le nostre pulsanti vibrazioni interiori.
L’emozionalità della grandezza empatica, il flusso caloroso del transfert attore-spettatore.
“Non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in trenta secondi netti”
(Heat – La sfida, Neil McCauley/De Niro)
In adorazione, lo celebrerò…
Perché, dopo averlo visto per la prima volta, ipnotizzato dalla sua portentosa forza ammaliante, irriducibilmente ne son invece perpetuamente invaghito, anzi, che dico, ferocemente, indubitabilmente scalfito nel cuore a lui più permanentemente an(s)imato e avviluppato in bramoso, turgido struggimento, a estatico rapimento rinvigorito sempre più di sua incandescenza carismatica di me inchinato nell’adorazione più soave e ascendente di maggior amarlo imperituramente, di sua aura plasmante il mio passionale, avvinto, posseduto incendiarmene d’iridi sue nere, increspate da sentimenti penetranti, da contrasti poderosi e persino contraddittori d’una sua stessa anima burrascosa, vivida e sanguigna, di suo ne(r)o cangiante e volto espressivamente esplosivo a far sì che me ne deflagri prostrato d’infinita, eterna venerazione giammai lesa, da strenuo fan che, anche dai suoi sbagli, mai infranto rammaricherà d’esserne stato, d’essenza mia intima così fragorosamente toccata d’ebbrezza come un delicatissimo, violento, turbinoso colpo di fulmine a ciel sereno lustrato di luce intensa e fiammeggiante, esserne tuttora e per sempre imprigionato d’occhi squartati in delizia, di suo inarrivabile talento, gioiosamente immerso d’amore immenso.
Ronin
De Niro e il noir, o meglio il polar, e voglio iniziare questo lungo excursus, partendo “in medias res”, dal capolavoro di John Frankenheimer, Ronin, appunto.
Ma prima, spero perdonerete questa mia digressione favolistica, voglio narrarvi di un mio sogno. Di come oggi, dopo tanto trambusto, inerpicandomi lungo la via esistenziale dei ricordi, a lor volta riscaturitisi da stagioni mie enigmatiche d’una craterica, ansiogena vitalità congenita, mi trovo qui nel bel mezzo del cammino a rielaborare tanti lutti, le penombre fosche in cui m’adombrai e, da tale stato mentale tetramente assorto nel languido torpore della mia stramba vita navigante nel profondo del magma arcano e mesmerico, o se preferite marasma oscuro eppur rifulgente, asfaltandomi di lustrato crepuscolo argenteo, a libagione d’un rinato, risorgimentale cuore, passeggiando a ritroso di memorie, che credetti per sempre perdute, agganciandole come s’afferrerebbe un toro per le corna, scuoiandolo perché sanguigno, anziché ucciderlo, proprio nel far sì che dall’arpionato morente si ridesti arrabbiato e vigoroso, lo sp(e)roni di rabbiosa ferocia più vivida ed energica affinché urli di possanza guerriera, eccomi a sbranare il mio passato perché m’infonda non tristezza melanconica, giacente nella mesta e sfinente rassegnazione, bensì gioia malinconica risvegliatasi grandiosa.
Ed è una sottile, quasi impercettibile sfumatura magnifica qual è, questa sì, la vita nella sua essenza vorace e fervida, euforica e ribalda di rivolersi ancora.
Scalciante e maestosa, come un impero di travolgenti sensi a sbraitar furiosi, dopo tanto averli troppo accuditi di quietezza e morigerate, però ingannevoli saggezze… la vita qui, ribaciante le gioie che mi parsero smarrite, si rianima e sogna ancora, gemente i lamenti e i lividi superati e risorti d’acuminato, rinnovato, stupendo candore strepitoso.
Ed eccomi allora senza un soldo a (re)immaginare la mia vita e a pensare all’ancor incerto destino. C’è da scommetterci che verrà tante volte di nuovo infranto e poi si spaccherà in mille pezzi, così come è l’evoluzione pura, ma non più di nulla impaurita, del perder la strada e imboccar poi la via non più rotta ma respiratoria dell’immenso gaudio respirante aperti, dardeggianti orizzonti.
Perché evolvere significa anche soffrire, il cambiamento costringe a guardarsi dentro. Ad affondar nel buio che ti linciò, in cui guaisti inascoltato, deriso ma, dal ferimento brado, anziché dissanguato morir spellato d’anima, invece più forte come un’armatura qui adesso invincibile che si stritolò di pianti sommessi, anche urlanti nei tuoi agghiaccianti silenzi, quindi guarire di bacio in pace col mondo.
Indago fra i miei desideri spentisi e di nuovo riaccesisi furentemente, e lucente scorgo me a gestire una libreria nel quartiere parigino degli artisti, la culla per antonomasia d’ogni (in)nato artista, Mont-Martre. Sì, sono il proprietario di questi sogni racchiusi in pagine di levigati intarsi svenevoli di bellezza, tanto quanto meraviglioso fu l’antico samurai senza padrone di nome Sam, un ipnotico De Niro battagliero, apparentemente morto dentro, invece più vivo e splendente che mai.
La magnifica Parigi fredda dell’ultima perla polar di John Frankenheimer
Cinque mercenari, appartenenti ognuno ad un’agenzia segreta di spie, che non ci viene rivelata così come rimarranno nascoste le identità dei loro membri.
Tali membri chiamati semplicemente per nome “anonimo”, oggi oseremmo dire nick, vengono convocati in un luogo misterioso ubicato alla periferia di Parigi. Sono stati assoldati per una missione: riunire le forze e la loro esperienza in tecniche di guerriglia urbana per venire in possesso di una misteriosa valigetta, il cui contenuto, però, rimarrà a noi ignoto sino alla fine.
Insomma, il perno dinamico attorno a cui, è proprio il caso di dirlo, convergerà l’action nevralgica della struttura del film è il classico “colpo” da MacGuffin, quello stratagemma narrativo, diciamo espediente “depistante”, coniato da Alfred Hitchcock per il perseguimento del quale si concentra l’intera vicenda ma che, per gli occhi di chi guarda, non ha alcuna rilevanza proprio perché la sua importanza ci viene tenuta nascosta.
A capo dell’organizzazione, l’algida Deirdre (Natasha McElhone), che spiega alle spie, tutte specializzate in uno specifico campo (ad esempio nell’elettronica o nella guida delle auto), come portare a termine la missione attraverso le loro uniche abilità. Una prova d’addestramento, diciamo, con tanto d’ingegnoso piano studiato nei minimi dettagli, per riuscire ad estorcere dalle mani di un boss della mafia la valigetta tanto ambita.
Come si suol dire in questi casi, è naturale che qualcuno tradisca, forse perché infiltrato. E l’intreccio si complica. Chi fa il gioco sporco? Chi è il “consigliere fraudolento”?
Il film è come un caffè amaro bevuto in un bistrot raffinato. Diluito nella pregiata miscela d’un Frankenheimer nel suo nostalgico, svettante canto del cigno. Un Frankenheimer che torna alla grande dopo anni di appannamento, ambientando il suo ultimo capolavoro in Francia, fra le viuzze crepuscolari di Nizza, i tramonti languidi di pregna malinconia, inseguimenti automobilistici mozzafiato e “d’antan”, cioè ricreati in modo “artigianale” e “in diretta”, senz’uso della computer graphic o effetti speciali posticci.
Un film antico, quindi, memore di un’altissima scuola cinematografica oramai sbiadita dalla convulsa frenesia del finto luccichio dell’odierna, indigesta Hollywood tutta botti e spari ma, a differenza del grande nostro John, priva di anima.
Secondo gli stilemi propri d’un classicismo da far rabbrividire per maestosa maestria registica, puntiglio tecnico, calibrata dosatura delle inquadrature, “ciniche”, secche e veloci come un’appuntita, ficcante, glaciale lama di rasoio, dopo tante peripezie, inganni e robusta adrenalina sontuosa, la missione viene portata a termine.
La valigetta finisce nelle mani dei buoni. Ma sono davvero buoni? Su questa domanda, senza risposta, Frankenheimer ci stordisce d’altro impagabile retrogusto ambiguo da applausi. Un film perfetto, che cresce col tempo. Sottovalutato quando fu presentato fuori concorso al Festival di Venezia, è invece, ribadiamolo, un raro esempio d’impeccabile stile, rinvigorito da un parterre di volti d’attori straordinari, sui quali spiccano un grandioso De Niro “melvilliano” e il bessoniano Jean Reno, fenomenale accoppiata di recitazione sobria, giocata sugli sguardi, i furbi ammiccamenti complici, le “freddure” delle battute scritte dai due sceneggiatori, J.D. Zeik e soprattutto il solito beffardo, inarrivabile David Mamet, qui accreditato sotto il nome di Richard Weisz.
La fotografia nitida e acquosa, “allineata” alle rigide atmosfere decadentiste del film, a firma di Robert Fraisse, e le “sottili” location indimenticabili, contribuiscono a quel tocco di magia nostalgica ed emozionale, da lacrime agli occhi, tanto quanto la romanticissima colonna sonora di Ella Cmiral, ispirata, mesta, “dolorosa” e innervata dentro le coordinate d’una superba vetta melanconica dal profumo grande Cinema.
Taxi Driver, secondo me, rimane il più grande film del mondo, a prescindere da Sorrentino e Pasolini, Scorsese è più pazzo, dunque più genio assoluto!
di Stefano Falotico
L’Italia e la nostra retorica nazional popolare. Il nostro qualunquismo, i sindacalisti a destra e a manca, poco di sinistra ma che s’infervorano fintamente per le ingiustizie quando sono i primi a commetterle e poi il crimine bianco, omettendolo di striscioni da salvatori della patria, forse solo per un paio di pantaloni, eh sì, van sempre sul velluto e la gente li applaude, tanto è un popolo che magna e gli spaghetti attorciglian le budella loro di solite salse, vai col liscio, un po’ di vinello e chi tromba, all’osteria numero uno, la figona più (l)ambita di lambade, forse quella più lampadata, fra torte in faccia, sfottò, prese in giro, barzellette sui carabinieri, superficialità a iosa ma basta finger eleganza e le donne non si toccan neanche con un fiore, se son rose fioriranno ma tutti si danno al “foro”, tutti professori, oratori, in realtà penso solo paraculi.
E io, invece, Rambo adoro. Quando, preso di mira da sciacalli della sua anima, dopo esser già stato ferito a morte, penzola dallo strapiombo e si lancia nel vuoto, scorticandosi, ricucendo il braccio tagliato per poi iniziare una guerra tutta sua, l’unica che vale la pena per la propria sopravvivenza, per un’integrità morale che gli immorali già immemorabilmente strapparon dalla terra, e getta nello scompiglio tutti, vivaddio bestemmino e s’accaniscano. Che lo copran d’ingiurie, che gli sparino “freddure” per metterlo a tacere, per soffocarlo, di castighi e umiliazioni, credendo di massacrarlo. Poveri idioti! Non faranno altro che renderlo più forte! Scuoiato, sarà ancor più corazzato, denudato, disgustato a prelibate degustazioni delle palle gustative degli stronzi totali. Nessun’assoluzione, solo Dio perdona. E fortunatamente sono ateo.
Popolo di “scienziati”, di tuttologi del cazzo, minchioni leccati da quattro troie da prender solo a calci. Operai che prima fan le crociate e poi divarican quelle delle “sfruttate”, che sfruttatori, che poveri papponi. E non si lamentassero delle pappine. Sempre poi a chiamar la mammina. Le dottoresse. Di che? Dell’aver effeminato a “figo” ogni “meravigliosa” puttan(at)a.
Hanno tutti ragione… sostiene Sorrentino. Ed evviva il mar a Sorrento.
Tutto quello che non sopporto ha un nome. Non sopporto i vecchi. La loro bava. Le loro lamentele. La loro inutilità. Peggio ancora quando cercano di rendersi utili. La loro dipendenza. I loro rumori. Numerosi e ripetitivi. La loro aneddottica esasperata. La centralità dei loro racconti. Il loro disprezzo verso le generazioni successive. Ma non sopporto neanche le generazioni successive. Non sopporto i vecchi quando sbraitano e pretendono il posto a sedere in autobus. Non sopporto i giovani. La loro arroganza. La loro ostentazione di forza e gioventù. La prosopopea dell’invincibilità eroica dei giovani è patetica. Non sopporto i giovani impertinenti che non cedono il posto ai vecchi in autobus. Non sopporto i teppisti. Le loro risate improvvise, scosciate ed inutili. Il loro disprezzo verso il prossimo diverso. Ancor più insopportabili i giovani buoni, responsabili e generosi. Tutto volontariato e preghiera. Tanta educazione e tanta morte. Nei loro cuori e nelle loro teste. Non sopporto i bambini capricciosi e autoreferenziali e i loro genitori ossessivi e referenziali solo verso i bambini. Non sopporto i bambini che urlano e che piangono. E quelli silenziosi mi inquietano, dunque non li sopporto. Non sopporto i lavoratori e i disoccupati e l’ostentazione melliflua e spregiudicata della loro sfortuna divina. Che divina non è. Solo mancanza di impegno. Ma come sopportare quelli tutti dediti alla lotta, alla rivendicazione, al comizio facile e al sudore diffuso sotto l’ascella? Impossibile sopportarli. Non sopporto i manager. E non c’è bisogno nemmeno di spiegare il perché. Non sopporto i piccolo borghesi, chiusi a guscio nel loro mondo stronzo. Alla guida della loro vita, la paura. La paura di tutto ciò che non rientra in quel piccolo guscio. E quindi snob, senza conoscere neanche il significato della parola. Non sopporto i fidanzati, poiché ingombrano. Non sopporto le fidanzate, poiché intervengono. Non sopporto quelli di ampie vedute, tolleranti e spregiudicati. Sempre corretti. Sempre perfetti. Sempre ineccepibili. Tutto consentito, tranne l’omicidio. Li critichi e loro ti ringraziano della critica. Li disprezzi e loro ti ringraziano bonariamente. Insomma mettono in difficoltà. Perché boicottano la cattiveria. Quindi sono insopportabili. Ti chiedono: “Come stai?” e vogliono saperlo veramente. Uno choc. Ma sotto l’interesse disinteressato, da qualche parte, covano coltellate. Ma non sopporto neanche quelli che non ti mettono mai in difficoltà. Sempre ubbidienti e rassicuranti. Fedeli e ruffiani. Non sopporto i giocatori di biliardo, i soprannomi, gli indecisi, i non fumatori, lo smog e l’aria buona, i rappresentanti di commercio, la pizza al taglio, i convenevoli, i cornetti con la cioccolata, i falò, gli agenti di cambio, i parati a fiori, il commercio equo e solidale, il disordine, gli ambientalisti, il senso civico, i gatti, i topi, le bevande analcoliche, le citofonate inaspettate, le telefonate lunghe, coloro che dicono che un bicchiere di vino al giorno fa bene, coloro che fingono di dimenticare il tuo nome, colore che per difendersi dicono di essere dei professionisti, i compagni di scuola che dopo trent’anni ti incontrano e ti chiamano per cognome, gli anziani che non perdono mai occasione di ricordarti che loro hanno fatto la Resistenza, i figli sprovvisti che non hanno nulla da fare e decidono di aprire una galleria d’arte, gli ex-comunisti che perdono la testa per la musica brasiliana, gli svampiti che dicono “intrigante”, i modaioli che dicono “figata” e derivati, gli sdolcinati che dicono bellino carino stupendo, gli ecumenici che chiamano tutti “amore”, certe bellezze che ti dicono “ti adoro”, i fortunati che suonano ad orecchio, i finti disattenti che quando parli non ti ascoltano, i superiori che giudicano, le femministe, i pendolari, i dolcificanti, gli stilisti, i registi, le autoradio, i ballerini, i politici, gli scarponi da sci, gli adolescenti, i sottosegretari, le rime, i cantanti rock attempati coi jeans attillati, gli scrittori boriosi e seriosi, i parenti, i fiori, i biondi, gli inchini, le mensole, gli intellettuali, gli artisti di strada, le meduse, i maghi, i vip, gli stupratori, i pedofili, tutti i circensi, gli operatori culturali, gli assistenti sociali, i divertimenti, gli amanti degli animali, le cravatte, le risate finte, i provinciali, gli aliscafi, i collezionisti tutti, un gradino più in su quelli di orologi, tutti gli hobby, i medici, i pazienti, il jazz, la pubblicità, i costruttori, le mamme, gli spettatori di basket, tutti gli attori e tutte le attrici, la video arte, i luna park, gli sperimentalisti di tutti i tipi, le zuppe, la pittura contemporanea, gli artigiani anziani, nella loro bottega, i chitarristi dilettanti, le statue nelle piazze, il baciamano, le beauty farm, i filosofi di bell’aspetto, le piscine con troppo cloro, le alghe, i ladri, le anoressiche, le vacanze, le lettere d’amore, i preti e i chierichetti, le supposte, la musica etnica, i finti rivoluzionari, le telline, i panda, l’acne, i percussionisti, le docce con le tende, le voglie, i calli, i soprammobili, i nei, i vegetariani, i vedutisti, i cosmetici, i cantanti lirici, i parigini, i pullover a collo alto, la musica al ristorante, le feste, i meeting, le case col panorama, gli inglesismi, i neologismi, i figli di papà, i figli d’arte, i figli dei ricchi, i figli degli altri, i musei, i sindaci dei comuni, tutti gli assessori, i manifestanti, la poesia, i salumieri, i gioiellieri, gli antifurti, le catenine d’oro giallo, i leader, i gregari, le prostitute, le persone troppo basse o troppo alte, i funerali, i peli, i telefonini, la burocrazia, le installazioni, le automobili di tutte le cilindrate, i portachiavi, i cantautori, i giapponesi, i dirigenti, i razzisti e i tolleranti, i ciechi, la fòrmica, il rame, l’ottone, il bambù, i cuochi in televisione, la folla, le creme abbronzanti, le lobby, gli slang, le macchie, le mantenute, le cornucopie, i balbuzienti, i giovani vecchi e i vecchi giovani, gli snob, i radical chic, la chirurgia estetica, le tangenziali, le piante, i mocassini, i settari, i presentatori televisivi, i nobili, i fili che si attorcigliano, le vallette, i comici, i giocatori di golf, la fantascienza, i veterinari, le modelle, i rifugiati politici, gli ottusi, le spiagge bianchissime, le religioni improvvisate e i loro seguaci, le mattonelle di seconda scelta, i testardi, i critici di professione, le coppie lui giovane lei matura e viceversa, i maturi, tutte le persone col cappello, tutte le persone con gli occhiali da sole, le lampade abbronzanti, gli incendi, i braccialetti, i raccomandati, i militari, i tennisti scapestrati, i faziosi e i tifosi, i profumi da tabaccaio, i matrimoni, le barzellette, la prima comunione, i massoni, la messa, coloro che fischiano, coloro che cantano all’improvviso, i rutti, gli eroinomani, i Lions club, i cocainomani, i Rotary club, il turismo sessuale, il turismo, coloro che detestano il turismo e dicono che loro sono “viaggiatori”, coloro che parlano “per esperienza”, coloro che non hanno esperienza e vogliono parlare lo stesso, chi sa stare al mondo, le maestre elementari, i malati di riunioni, i malati in generale, gli infermieri con gli zoccoli, ma perché devono portare gli zoccoli? Non sopporto i timidi, i logorroici, i finti misteriosi, i goffi, gli svampiti, gli estrosi, i vezzosi, i pazzi, i geni, gli eroi, i sicuri di sé, i silenziosi, i valorosi, i meditabondi, i presuntuosi, i maleducati, i coscienziosi, gli imprevedibili, i comprensivi, gli attenti, gli umili, gli esperti, gli appassionati, gli ampollosi, gli eterni sorpresi, gli equi, gli inconcludenti, gli ermetici, i battutisti, i cinici, i paurosi, i tracagnotti, i litigiosi, i superbi, i flemmatici, i millantatori, i preziosi, i vigorosi, i tragici, gli svogliati, gli insicuri, i dubbiosi, i disincantati, i meravigliati, i vincenti, gli avari, i dimessi, i trascurati, gli sdolcinati, i lamentosi, i lagnosi, i capricciosi, i viziati, i rumorosi, gli untuosi, i bruschi, e tutti quelli che socializzano con relativa facilità. Non sopporto la nostalgia, la normalità, la cattiveria, l’iperattività, la bulimia, la gentilezza, la malinconia, la mestizia, l’intelligenza e la stupidità, la tracotanza, la rassegnazione, la vergogna, l’arroganza, la simpatia, il doppiogiochismo, il menefreghismo, l’abuso di potere, l’inettitudine, la sportività, la bontà d’animo, la religiosità, l’ostentazione, la curiosità e l’indifferenza, la messa in scena, la realtà, la colpa, il minimalismo, la sobrietà e l’eccesso, la genericità, la falsità, la responsabilità, la spensieratezza, l’eccitazione, la saggezza, la determinazione, l’autocompiacimento, l’irresponsabilità, la correttezza, l’aridità, la serietà e la frivolezza, la pomposità, la necessarietà, la miseria umana, la compassione, la tetraggine, la prevedibilità, l’incoscienza, la capziosità, la rapidità, l’oscurità, la negligenza, la lentezza, la medietà, la velocità, l’ineluttabilità, l’esibizionismo, l’entusiasmo, la sciatteria, la virtuosità, il dilettantismo, il professionismo, il decisionismo, l’automobilismo, l’autonomia, la dipendenza, l’eleganza e la felicità.
Non sopporto niente e nessuno.
Neanche me stesso.
Soprattutto me stesso.
Solo una cosa sopporto.
Le sfumature.
E Pasolini?
Qual è stata la parole d’ordine di Lenin appena vinta la Rivoluzione? È stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso «sviluppo» di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica… Vinta la grande lotta di classe per il «progresso» adesso bisognava vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa, per lo «sviluppo». Vorrei aggiungere però – non senza esitazione – che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. È ciò che, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.
Sì, credo che Travis Bickle, per quanto “folle”, fosse un genio.
Molti sostengono che Taxi Driver non parli di nulla. Infatti, non parla, non ha bisogno di dire proprio un bel niente.
La vita è niente, ogni cosa, che pensate sia (s)corretta, è una fottuta (dis)illusione.
Amen.
Addio.