Il Cinema e il mare, un connubio emotivo vincente quando le emozioni volano nello splendore acqueo come liberi surfisti
di Stefano Falotico
Il mare. L’immensità del suo abissale spettro nero, intangibile, biologicamente denso, crepuscolare quando il tramonto, in lapidario strazio degli ultimi vagiti del Sol dardeggiante, si spande placido, increspato dal cicaleccio di gabbiani a sventolar il culmine del loro covo in rovente branco alato. E l’aria fosca solfeggia, imbrunendo cheta sulle purpuree trasparenze al di là del vento che, torbido, pacato, avvolto a “nodi” del totale, disarmante struggimento, cangiandolo lo penetra e lo colorisce serenamente, nelle cupe sere anche d’alta oceanica limpidezza, di riflessi come arcobaleno in burrasca. Il mare m’attrae e, come ogni anima senziente e profondamente umana, ipnotico mi brama affinché io crolli colante in lui asciugante i dolori irrequieti e, nella mansuetudine calda delle sue coccole mortali, poi feroce, in turbinoso vortice irreprimibile, improvviso, mi stinga nell’ultimo fatale respiro del mio annegarvi. Giacendo col creatore che pose le mani sulla Terra e la plasmò a sua nascita primordiale. In me innata. Io, il marinaio mai nato. Che s’ammainò, rammaricato da sé stesso, sommerso, visse oltre, e di nuovo, per un attimo fulmineo, s’illuse e s’innamorò. Dal mare nacquero gli anfibi che s’evolsero in esseri rampicanti di forma umanoide e, nel pensar crescente della montante, irrefrenabile sapienza, il grande mare demiurgo, docile, modellò l’uomo a sua ribellione anche di pari immagine e somiglianza pura, tormentata, donandogli il cuore vivo e zampillante del sentir cavalcante.
E allora mi trovo qui, ai bordi d’una fatiscente periferia di morti viventi, e come Johnny Depp de Il coraggioso odo il mio assassino recitarmi le parole letali, “fetali” d’un mostruoso e immenso Brando, Marlon Brando. Fra le pareti anguste d’un rifugio per nati erronei, egli recita uno dei più pulsanti monologhi della storia…
E si crogiola, beatificato dalla sua insuperabile bravura, anche laconica, di capo dondolante così come le onde si frangono fragili e impudiche alla vita addolcendola, nella sua recitazione divina dolcemente spegnendola…
Mi domanda se ho mai assistito al parto di una donna. Quando le acque si rompono e comincia il dolore eterno, senza fine e senza requie, m’immerge a sua maledetta benedizione per augurarmi buonanotte e far crollare, in un istante spasmodico, il tanto dolere che dalla nascita forzatamente ho sempre tentato di reprimere ma mi sta innegabilmente affogando in un bagno di sangue… e Brando piange, travolto dal ricordo di tutta una vita, della fiamma mia affievolitasi, del cielo che ora scuro mi costringe a vederla realmente buia, obiettivamente imprimendosi fra le sbarre imbattibili del mio mistero nerissimo. Dei miei occhi da lupo e della mia pelle da indiano.
Però, prima di morir(ci), mi domanda quali sono secondo me i grandi film sul mare. E io gli mostro la foto di Patrick Swayze in Point Break, chiedendogli l’ultima forza adrenalinica dell’avventura giunta alla fine. Egli m’ammicca, sorride fra il triste, il faceto, l’eleganza garbata del suo cranio rasato, del suo impressionante carisma, non arrochitosi nella stanchezza d’una comunque visibile vecchiaia.
Ancor forte lo odo narrare… e del mare raccontare anche se assieme ci stiamo disancorando.
Evoca le stagioni nostre felici, di come passeggiai allegro negli spensierati corridoi imprendibili, qui a noi vividamente mnemonici dell’infanzia, di come presto cambiai sguardo e, da infante rannicchiato nel mio nido, vol(t)ai in vista da falco.
Rumoreggiando nell’adolescenza annichilita, quindi sbiadita, sfumata d’intenso incenso armonico. Di come odiai i miei coetanei, affaccendati in riti tribali delle cacciagioni volgarmente sessuali, premature ma fingendosi adulte per far felici la tradizione di genitori già marci, reiterando i loro madornali errori solo per pigrizia mentale e non volontà di cambiare, di come tutti si son avvinti alla flaccida borghesia, suonandosela e cantandosela, di come io stesso sbavai come rossetto coprente le rughe dei miei polmoni perché volli sol non corrompermi nel soffocamento di massa. Sporcandomi delle mie bacianti labbra all’universo toccanti…
Al che, mi chiede come mi chiamo, e io gli rispondo Bodhi…
Maps to the Stars, recensione
Cronenberg e del suo sguardo planetario incredibile, ipnosi psicanalitica ai bordi d’una Hollywood bruciata viva
di Stefano Falotico
Pomeriggio memorabile, da ricordare innanzitutto d’aneddoto amicale…
Attendo un mio amico, infatti, che da Este è giunto a Bologna in treno, andando a prenderlo alla stazione centrale di Bologna. Ci rechiamo supersonici al cinema The Space e attendiamo due ore prima dell’apertura dei cancelli, scatta l’ora x, 14.50 in punto, dieci minuti fra biglietti, toilette e posizionarci nelle poltroncine. Calan le luci e il sipario inizia per venti interminabili minuti di pubblicità. Alla fine, menomale, stanchi ma entusiasti, assistiamo all’ultimo capolavoro di David…
La trama oramai era stata diramata ancor prima dell’ufficiale proiezione a Cannes, dai cinefili imparata a memoria, guai comunque in vista per chi non l’ha visto, sciagurato lo è e s’affretti a riparare, il mio è un imperativo d’ordine plebiscitario.
Scarna d’effetto “nausea” nell’implosione incancrenente di personaggi fauneschi in quel della “luminosa”, scurissima, mai così asettica Los Angeles. “Arredati” solo di sé. Un’attrice fallita, un guru fisioterapista, un autista di limousine con ambizioni anch’egli attoriali e il sogno nel cassetto di divenir un pezzo grosso come scrittore, “riciclando” l’esistenza apatica dell’abitacolo da tassista fra viali ripresi di scorci suggestivi ma decadenti, imputridenti di latente deflagrazione d’una coralità nei lor denti stretti, nelle loro vite ambiziose sempre sull’orlo del collasso stressante, poi una ragazzina piromane, dimessa dal manicomio e “tornata a casa”, (non tanto) a posto rimessa, un enfant prodige suo fratello con turbe allucinatorie alle spalle, anoressico e anche lui non raddrizzato e storto, e una “filastrocca” invadente, ammonente che torna sovente a colorar anime già svanite da sempre…
Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome…
(Paul Éluard, “Libertà”)
Echeggiano sempre i fantasmi, sono esseri infidi che camminano come zombie, ibridi dunque tra la forma umanoide e l’aldilà oltrepassato d’ogni pudore tranciato. Rifiuti della tossicità malsana di cui il mondo, non solo moderno ma, dall’albore primordiale dell’ere torpide e cupe già avvelenate da un’irrimediabile primitività putrescente dell’animo nostro corrotto, fu invaso senz’ombra di dubbio, perversamente gironzolan(d)o nell’arido panorama all’apparenza “stellare”. Lombrosiani, scarniti d’ogni umanità, solo marcescente parvenza che raggela, “grumo” d’ossa spolpate dalle crudelissime ambizioni, divorazioni a (vi)cen(d)a di cannibali “guarniti” d’abiti finto eleganti, pacchiani, sguaiati, mai guariti, fintissimi, manichini ad orchestrare i loro cuori anneriti, illusi d’esser dom(in)atori del gioco da ex attori di “classe”, forse mai lo furono, e i visi sfumano, agghiacciandosi, nel de profundis più gastrico, purulento ed eruttivo di cattive ansie, di fetido dolore asmatico, di maschere d’ossigeno su grottesche, inguardabili tragicommedie da liberi in gabbia, imprigionati dalla “bioetica” delle logiche dello star system ove, se non sei più sulla scala dorata, almeno devi reggerti, anche di plastica, la faccia troppo levigata, esper(i)ta di respirazioni strozzate nel sangue malato, in vitr(e)o, sventrandoti a fuoco lento di costipazioni poi esplosive, che ti/li (de)nutre, sia(n) loro da stronzi (s)fatti e rettili, noi nel disgustarli e violati in vomiti, conati, lacerazioni sfilaccianti, tumefazioni e logoramento straziante, strangolandoli, in cordoglio freddissimo. A chirurgia dell’esser(ci) tutti smembrati. Anzi, costellati di glorie lor lo furono, schiacciati nell’impresso loro “balsamo” già a mummificarli, all’asciuttezza lapidaria, singhiozzante solo l’imbarazzo e il gelo nelle scricchiolate nostre ossa dell’esterrefatto, essiccante prender coscienza dell’inevitabile, apocalittico, sigillante e ardentemente ermetico finale-funerale tremendo. Senz’unzione assolutoria, senza bontà consolatorie. Un’eruzione di tutto il male, il male della Los Angeles a prima vista luccicante, invero bestiale… Pazz(esc)a idea di Bruce Wagner e le congestioni dei marci fegati marciano in processione di cere che una volta c’erano… delle stelle. Il firmamento è ora buio acceso di lor firme color tenebra (di)struggente. Prima il successo, quindi il consumato e consumante sesso, le bruciature, il crollo di nervi, la “piromania” dell’adolescenza dalla fiamma troppo viva per spegnersi nell’asettico arredamento lindo, astringente di specchi troppo puliti per non romperti scarnente di vetro acuminato a doppio taglio. C’è un’urgenza, impasticcate e sedateli. L’asettica vita perfetta è un diamante pungente, taglientissimo, un rasoio affilato come lo sguardo profumo lama d’un Cronenberg d’annata. E sia benedetto questo incompreso suo altro capolavoro a noi stupendamente straziante. Maleditelo e David se ne freg(h)erà delle vostre risate additanti. Ardite ad arderlo, a coprirlo d’infamie e a cancellarlo subito dalla vostra memoria. Sì, è un perentorio ordine perché non ve lo merita(va)te e quindi è giusto che (lo) dimentichiate. Perché se sfegatati fanatici della sua Arte dapprima vi dichiaraste, così scelleratamente da bifolchi stroncandolo senza mezzi te(r)mi(ni), io vi dico che del suo Cinema non avete mai capito un beneamato cazzo. Siete dei vermi striscianti, delle termiti falsamente adoranti, siete pieni di boria, dunque non vivete, e in verità vi rivelo che le cialtronerie, con cui vi (s)coprite, son solo borchie della vostra pelle neuronale morta. E non chiamatelo ex vostro beniamino. Non v’azzardate! Voi, infingardi fan dei vostri co(s)mici vuoti, voi, pneumatici, fingeste di conoscerlo soltanto leggendo topos di frasi in calce come “nuova carne” e “mutazioni transgenetiche” da avidi topi di biblioteca senz’alcuna dignità né palle. Non avete mai vissuto né poteste dunque sentirlo! Il Cinema non è un Bignami, figuratevi se pot(r)e(s)te ubicarmi David in vostri laboratori di chimiche critiche, di frasi fatte, puzzate di scadenza, di superficialità densa, di copia-incolla da qualche rivista in ogni sen(s)o di “moda”. Di ciò che fa tendenza e dunque boccia, sboccatamente, quel che considera superato, scaduto, invero sempre troppo veloce di tempo suo in avanti, rivelatorio a profezia del Cinema puro e d’avanguardia tanto semplice d’apparir un ritratto fotografico sbiadito e senza nerbo. Ah ah, che immonda superficialità come la scritta troppo “pulita” di Hollywood che alberga sulla famosissima collina e a me invece incute timore, cupezza, opalescenza, imbruttimento di ogni umana trasparenza, (in)decenza della buoncostume perché tutto il film, dal primo all’ultimo minuto in gola, è un monito così fulgido da bucarti la retina oculare e divorarti il fegato. Hollywood e la sua scritta gigantesca, minuscola se guardata in tale prospettiva, prima sobria al mattino e poi notturna, (s)cremata fosca, nel bacio fra due amanti (s)finiti. Già dapprincipio ischeletriti. Uno specchietto per le allodole, un pugno in un occhio di lettere cubitali al mondo e al suo ineludibile format(o) cubo, con le sue regole prefabbricate, immutabili, ansiogene ma che non evacuano mai il vero, tenendo tutto dentro per la “copertina”, ove i “divi” firmeranno sempre autografi d’inchiostro, troppo nero, colore buio avvolgente, per mangiare i fessi che li osannano sol adocchiandoli d’ammirazione su “Vogue”, sognando le loro o(stri)che e le lor invidiate cene da vongole e ripieni ché sarà solo una grande abbuffata e, tutti giù per terra, daremo assieme di stomaco! Vomitando assieme “allegramente” il marcio di tanta patina che addolcì le nostre intestina, sbudellandole di dolce, svenevole, precipitante ipocrisia. Ed è urlo! Ferocia del dissanguamento dei visi “celebri”, appunto delle arse cere, del passato che giocoforza (ci) smembra, il rimembrar com’eravamo e come, rovinando nella perdizione delle dissipatezze, della frivolezza più appariscente, che fa solo inutile, pacchiana, parassitaria (s)cena, cimiteriale c’augura una beffarda morte annunciata. Una tragedia mondiale, un orrore di proporzioni bibliche. Se nella Bibbia, le rane caddero dal cielo contro i faraoni egizi per avvertirli d’una imminente ribellione storica degli ebrei, qui il “Mar Nero” sommerge tutti di fiamme divine cattivissime. Un deus ex machina impietoso, flagellante, un fulmine potentissimo dal quale non puoi salvarla e crepi anche tu, crollato, un colpo letale che non perdona nessuno. Assolutamente!
No, ritorniamo “indietro”. Tutti malati, dei “viventi” in abiti “normali”. Degli essi vivono… Dei cannibali sofferenti la facciata proprio della doppia apparenza da (bi)fronti. Oddio, mi sa (e)ruttanti anche l’acuta, crescente, a lor scarnificante demenza. Scusate, mi sto troppo scaldando! A sentirne così lapidariamente parlar nei vostri scortesi, irriguardosi modi, miei merdosi, mi vien il sangue al cervello. Che esploda(no), scanners! Siete terminati, su di voi è già calato il velo pietoso. E la mannaia da lupi mannari che alla mia lupara non fa paura! E io v’ho seppellito perché ho deciso. Chiuso, siete finiti!
Amen.
Dopo l’omelia, osanna a David! Cantate e vogliatene tutti! Questo è il suo “corpo” offerto in sacrificio per voi.
E si apran perciò le danze alla recensione brillante, miei spenti internauti delle tristezze più a volerlo vanamente affondare.
Io ho sentenziato. Chi non accetterà questo mio colpo d’accetta, che accetti, altrimenti, prima il mio (ri)getto e poi soffocato sarà nel cassonetto. Poveri cazzoni da cinemino di cassetta e cazzatelle.
Nel retro, falsi vati, siete più tetri dei personaggi di tal altissimo film.
Apertura…
No, finisce qui. Non c’è molto da dire. Era prima che il danno si compì, il resto è Dio David che guarda col solito sguardo ginecologico ed estrae il parto malsano della società sifilitica. Estraendo il figlio dei vostri demoni, grida d’immagini che imprimono male, curando però la beatitudine degli eletti che, incantati, estasiati, s’inchinano al cospetto del suo lucidissimo, prodigioso aver visto ancora una volta giusto.
E Dio va adorato. Senza se e senza ma.
Così è, così sia scritto. Incorniciate Maps to the Stars nell’empireo ed esigo una cornice lucente come la stella e non le scialbe, putride lor hollywoodiane stelline da fuochi fatui, da chi contrasse il morbo contrattuale di Faust nel mefistofelico aver ceduto alle lusinghe del s(ucc)esso, dell’avidità, dell’effimera “celebrità”.
Ora, silenzio.
Titoli di coda… con Dio Cronenberg che li fa scodinzolare in diabolica dissolvenza.
E si riaccenderanno le luci, accecandoci della vita (dis)umana.
Così sempre andò, questa è la fottuta evoluzione delle atrocità incarnate nell’uomo bestia…
Non rimane che urlare, già morti…
Sepolti, (dis)illusi…
… Su tutte le pagine lette
Su tutte le pagine bianche
Pietra sangue carta cenere
Io scrivo il tuo nome
Sulle dorate immagini
Sulle armi dei guerrieri
Sulla corona dei re
Io scrivo il tuo nome
Sulla giungla e sul deserto
Sui nidi sulle ginestre
Sull’eco della mia infanzia
Io scrivo il tuo nome
Sui prodigi della notte
Sul pane bianco dei giorni
Sulle stagioni promesse
Io scrivo il tuo nome
Su tutti i miei squarci d’azzurro
Sullo stagno sole disfatto
Sul lago luna viva
Io scrivo il tuo nome
Sui campi sull’orizzonte
Sulle ali degli uccelli
Sul mulino delle ombre
Io scrivo il tuo nome
Su ogni soffio d’aurora
Sul mare sulle barche
Sulla montagna demente
Io scrivo il tuo nome
Sulla schiuma delle nuvole
Sui sudori dell’uragano
Sulla pioggia fitta e smorta
Io scrivo il tuo nome
Sulle forme scintillanti
Sulle campane dei colori
Sulla verità fisica
Io scrivo il tuo nome
Sui sentieri ridestati
Sulle strade aperte
Sulle piazze dilaganti
Io scrivo il tuo nome
Sul lume che s’accende
Sul lume che si spegne
Sulle mie case raccolte
Io scrivo il tuo nome
Sul frutto spaccato in due
Dello specchio e della mia stanza
Sul mio letto conchiglia vuota
Io scrivo il tuo nome
Sul mio cane goloso e tenero
Sulle sue orecchie ritte
Sulla sua zampa maldestra
Io scrivo il tuo nome
Sul trampolino della mia porta
Sugli oggetti di famiglia
Sull’onda del fuoco benedetto
Io scrivo il tuo nome
Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome
Sui vetri degli stupori
Sulle labbra intente
Al di sopra del silenzio
Io scrivo il tuo nome
Su ogni mio infranto rifugio
Su ogni mio crollato faro
Sui muri della mia noia
Io scrivo il tuo nome
Sull’assenza che non desidera
Sulla nuda solitudine
Sui sentieri della morte
Io scrivo il tuo nome
Sul rinnovato vigore
Sullo scomparso pericolo
Sulla speranza senza ricordo
Io scrivo il tuo nome
E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.
Un irriconoscibile, invecchiatissimo Johnny Depp nelle prime foto dal set di Black Mass
Varie foto dal set di Black Mass, il nuovo film di Scott Cooper (Crazy Heart), con protagonista il nostro sempre amato Johnny Depp.
In due versioni, quella di lui da pelato in là con gli anni e quella sempre proprio di lui soltanto di capelli platinati per le scene che lo vedranno appunto più giovane nel suddetto film.
Da poco iniziate le riprese, Depp interpreterà la parte del gangster Whitey Bulger, un personaggio storico in senso negativo.
Il film verterà sulle sue sfortunatamente celebri imprese spericolate nella maledetta Boston degli anni settanta.
Ove regnava il crimine più losco e pauroso, nonostante il programma di pulizia messo in atto da J. Edgar Hoover.
Il suo camaleontismo fa sempre rabbrividire, il suo fascino rimane comunque immutabile.
E piace, va detto, anche sotto un look che indubbiamente lo abbruttisce non poco, con tanto di denti ingialliti e cariati.
Actor’s Portrait
Ebbene, amici, ho pubblicato il mio libro su Robert De Niro. Prima o poi, sul grande Bob sarei andato a parere. Era inevitabile. Al momento, è disponibile solo su Amazon-Kindle.
La prossima settimana sarà acquistabile anche in cartaceo e, sempre coming soon, verrà distribuito nei migliori digital stores e nelle maggiori catene librarie online.
Stavolta, per la copertina, che spero possa piacervi, mi sono avvalso di un bravissimo e sofisticato disegnatore, che ama farsi chiamare col suo nick, Ambro Jordi.
Questo è il suo canale video. È particolarmente specializzato nei ritratti appunto attoriali.
Sfogliamo alcuni suoi bellissimi video che, “velocizzati”, mostrano in pochi minuti la cura e la dedizione che lo rendono così ricercato e geniale.
“Graffia” i visi delle star a suadente grafite ipnotica.
Ve ne mostro alcuni. Manca proprio quello su Bob De Niro. E sapete perché? Perché modestamente me lo son intascato io. Eh eh.
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Master and Commander
di Stefano Falotico
Credo che questo capolavoro incompreso non meriti una semplice recensione.
Merita molto di più.
Una mia poesia.
Titanica epica marina suadentissima a mescersi pacifica nel Pacifico, alla ricerca forse della mia intima Atlantide, fra limpidi, sobri e schiumosi oceani della mia mente abissale, che si spande navigante a illuminarmi nel vento caldo della bellezza universale. Ignote notti mie profonde luccicano baluginanti a prua e a intrepido baluardo del mio infinito coraggio senz’alcuna più paura, con le tiepide stelle polari a riscaldare e a rischiarare il buio che fu del mio nero cuore oggi lucentemente riemerso. M’adombrai in una cupa vita soffocante, sì, poi però, come un miracoloso fulmine a ciel sereno, fui eletto glorioso alla solarità intensa della Luna ipocondriaca ma maestra, squillante a rintonar nella mia anima sempre burrascosa, persa e naufraga nella tormenta, quindi detersa a virtù timoniera della robusta, insanguinata e mai doma mia passione per la libertà tutta. Io sono il capitano della mia anima, oh Capitano, mio Capitano e colgo ogni attimo (non) più fuggente. Vivendo al di là di tutte le immaginazioni, ampliandomi perennemente nei nuovi divoranti orizzonti profetici. Il viaggio, miei amici, sarà ancora lungo. Ma il domani, nonostante rischiammo di affogare, potrebbe prospettarsi invece splendente e prodigioso.
Noi non c’arrendiamo. I vili sventolano bandiera bianca, i mai vinti vivono!
Ecco, quando affermo che questo film è un capolavoro indiscutibile, molta gente ha da obiettare.
E mi fa notare che non hanno girato i seguiti perché secondo loro il primo non ha funzionato.
Io rispondo che per loro non ha funzionato. Posso dirlo perché i seguiti li ho già girati nella mia mente, avendo letto modestamente tutti i romanzi che hanno ispirato il capostipite cinematografico.
Quindi, continuano a non credermi. Così, quando il plenilunio più morbido accarezza di generosità la mia anima, li faccio entrare comodamente nella mia casa, offro loro un ottimo tè, e leggo a voce altissima appunto i migliori estratti.
Cullandoli nella navigazione.
Cannes: Maps to the Stars, Cronenberg e il mio “La Mecca del Peccato”, libro hollywoodiano da rispolverare
David Cronenberg ha presentato oggi Maps to the Stars. E già son fioccate le ingiuste, lapidarie e frettolosissime critiche.
Non è dal luogo comune di un critico malsano che si giudica un genio del Cinema sanissimo e vivaddio oltre.
Ricordatelo.
Riguardiamo, invece, coi miei occhi, ben meno miopi, il photocall in tal pulsante video-slideshow.
Un anno fa, scrissi un libro, La Mecca del Peccato.
Un modo che ebbi come un altro di immedesimarmi nelle nevrosi delle stelle di Hollywood.
Mickey Rourke, slimmer physique da museo delle cere e degli orrori
Non si può vedere un Mickey ridotto così, smagrito chirurgicamente su camminata da paraplegico.
Comunque, ho trenta lunghi anni meno di Mickey. Due anni fa, lo incontrai a Los Angeles, mi strinse la mano e mi offrì una cena di funghi porcini, ironizzando giustamente sul mio viso, dandomi un dolce di buffet(to). Sì, non ero messo meglio di lui.