I migliori film sulla malinconia
di Stefano Falotico
Malinconia
Questo sentimento antico, pressoché scomparso fra la gente oggi frivola e mendace, o forse solo illusa che viva nel rammendar le giornate con altri lamenti camuffati da cheto viver falso, questo sentimento non voglio scacciare e, come Ismaele di “Moby Dick”, mi rinforza a navigare nel gironzolare per la città, senza meta precisa, solo per piacere a me stesso, un piacere egoista da voi incompreso e mi stupirei del contrario, essendo, come già accennato, proprio voi gli adoratori di tribali, carnali chimere e assalitori della mia anima intonata a quest’emozionalità che tanto aborrite, schivate per timore che io possa contagiarvi e rattristare la vostra felicità fasulla, consolatoria, sempre prodiga di slanci vitali che a me paion solo un modo come un altro perché non accett(i)ate la mera, ineludibile verità, cioè che siete fanatici della fame danarosa, protesa sempre ad altro arricchimento, che per me è deturpamento, giochicchiando da mattina a sera di pinzillacchere tanto amorevoli che mi provocano soltanto nausea via via, ogni giorno che passa, più vigorosa d’orgoglio mio da uomo cupo, da lupo che ha ben poco da decantar la vita se non contemplarla in passeggiate ascendentemente plumbee all’oscurarmi e tenervi lontano ché, adombrato di tal senso spettrale, anziché ammorbarmi nel vostro mortifero intenderla, che io invece reputo funerario ma voi pensate gioente, mi do robusta forza polmonare, respiro aperto ove invece voi vi soffocate solo di sesso, di unzioni a (vi)cen(d)a fraudolenta e piccinerie a montar cas(ch)i e vicende da ritenervi avventurieri… sì, dell’immondizia vostra incarnata e da me sbuffata in quanto sono l’emblema della tragicità vera dinanzi all’idiozia pura. La purezza non esiste ma vi specchiate contenti… voi, dopo notti infauste, immorali, orgiastiche e viziose, dopo esservi drogati, dopo aver bevuto e tracannato come maiali, e vi vedete sempre belli. Ma io vi dico, già, che da tempo siete morti. Probabilmente è così, non c’è molto da discutervi, anzi è una certezza migliore e più (r)esistente del vostro percorso di “tope” a tappe e a tappar i vostri “buchi”, anche riferendomi all’inalarvi cocaina in nasino di aspiranti narici con in mano il bugiardino per controllar la lardosa dose che vi salvi dal morir sbavanti con in bocca l’eruttante saliva a strozzarvi… La vita umana è stata sempre sbagliata. E credo sia giusto essere sinceri. Lo so di provocarvi ribrezzo perché in me vedete tristezza e fallimento. Ma più vedete questo e più passeggio guardandovi di sbieco. Non so se mi spiego… Non mi (s)piegherete.
- La 25ª ora (2002)
- Melancholia (2011)
- Taxi Driver (1976)
- C’era una volta in America (1984)
- Il lungo addio (1973)
- La zona morta (1983)
- J. Edgar (2011)
Il genio di John Belushi
In suo onore, scrivo ciò…
di Stefano Falotico
Scrivo a una che vorrei e lei mi vuole. Sì, uccidere. Ma me ne fotto e insisto perché amo gli omicidi esagerati addosso a me.
Ciao, sei grande per me e credo abbiamo poco da condividere, siamo effettivamente agli antipodi.
Smentiscimi, ne andrei fiero di piacere enorme.
Sono uno scrittore e poeta, anche se le mie foto forse contraddicono quanto dico, perché esuberanti di clownescaapparenza. Invero, come tutti i pagliacci, sono enormemente malinconico. Ho da capire se è un bene, un male, un godimento masochistico, un sadismo che mi perpetro, spero di penetrarti, ops, scusa, sì, lo vorrei ma un’amicizia è meglio, dai su.
Optò per una presa per il culo. E fu presa di ottimi glutei.
- 1941. Allarme a Hollywood (1979)
- I vicini di casa (1981)
- Animal House (1978)
- The Blues Brothers (1980)
Tim Burton, lode a Dio!
di Stefano Falotico
Il Cinema di Tim Burton: ove c’è un freak (ci) sono io, e ne vado fiero, ove c’è un’alterità, vivrò di etereo splendore, ove c’è “normalità”, vi guarderò agghiacciato…
E, goticamente dark, osannerò Edward, regalandogli il mio sorriso a forma di “forbici”, carezzando Winona Ryder di mani affilate nel torbido incresparla di mio scremato uomo strano
Sì, ho usato con pertinenza l’espressione alterità e non diversità, perché c’è una profonda, (in)visibile, sottilissima differenza fra la stramberia, l’eccentricità dell’animo e la diversità, appunto, intesa spesso come una sorta, Dio che obbrobrio, di “handicap”.
Il termine diversità, infatti, vien tradotto dall’uomo “normale”, Gesù perdonalo, semplicemente come diversa “abilità”. Un (in)giusto eufemismo… come per dire quello è “scemo”.
E dei danni di tal bieca, stolta, miopissima borghese mentalità potrei narrarvi da Omero su un transatlantico battente bandiera della più (s)concia libertà delle variegate, sia lodato…, san(t)issime ed elett(iv)e bellezze onoranti l’aroma soffice, godente del vivandare proprio orgogliosamente l’esser sé stessi.
Se l’essere noi stessi coincide con saviezza a non leder il prossimo, non solo nella sua incolumità, bensì anche nel suo intimo amor proprio, allora ben venga esserlo… diversi.
Ché non vogliamo prima ingiallirci nella borghesia “metodica” d’abitudinaria “crescita”, propugnante solo mot(t)i vanagloriosi del danaro ad avvincer la carne umana a porcile “elevato” ad “amorevole”, “dolce”, calmo… sì, come no, navigar pasciuti e (in)felici in tal valle di pacatezza falsissima, poi al precipitar del tutto nell’atimia dei lor insensibili, stagnanti pozzi neri. Me ne scampi!
Meglio Burton e la sua “tetra” bellezza!
Giammai mi lederete di ricatti a vostro agognar invero, miei laidi maialini, soltanto la ricotta e il di lei “buchino”. Io son fresco, ardo di giovinezza e, per me, gioventù combacia anche con sana, splendida “buffoneria”.
Allorché, alle prime luci dell’alba, dopo aver stiracchiato il corpo mio indurito da un altro incubo soave di illuminante “nerezza”, faccio sì che il mio viso accolga la rugiada mattutina in tronfio affacciarmi al balcone, scandendo un gargarismo quasi ruttante la digestione pesante della sera prima, con la vicina dirimpettaia, assomigliante a Winona (sì, quasi, forse il mio balcone è troppo distante e non metto a fuoco di ottica oggettiva), anch’ella levatasi di buon ora, che mi saluta svel(a)ta di “ciao” tingente il mio capriccio di voler attardare al (ri)vestimento nel desiderar volare verso di lei nell’investirla di brulicante calor a pelle su nebbia “rifrangente” dell’atmosfera già d(i)ur(n)a su effetto gravitazionale del levarle le sol mutande che indossa e inserirmi da “produttivo lavoratore” nella sua avvolgente, aspirante, umida cavità…
Il (non) fare un cazzo, e rimandare, è amore!
Al che, innervosito da tal pensiero sognante, ché sia mai non tale, dimesso mi metto i pantaloni non prima d’aver emesso un peto sfrigolante su caffè addolcito con del latte.
Bagnando il “biscotto” nel rimembrare il film di Tim Burton, che vidi quando calò “colante” il tramonto del domani sperante, addosso, godo sbrodolandomi.
Così, questa ricordante fantasia mi sprona ad abbigliarmi senza giacca e cravatta ma, in “doppiopetto” da fottuto… arrogante del mio strano cervello, recarmi in bagno e lasciar che tutto vada il mio abbassar i calzoni del pigiama nello svuotante “principe” mio sul p(is)el(l)o.
Questo è il Cinema di Tim Burton, un Cinema che ha il coraggio di dir cose anche non tanto lecite con l’erezione malinconica del permearsi in premente urgenza d’esser sé stessi.
Da tuffarsene, amarlo, odorarlo, sentirlo tutto, entrarci in profondità, inondarsene. E (s)fregarselo di gusto unico.
E non da comuni uomini con una moglie che i panni stende e poi deve far la giornalista da quattro soldi, senza sottana col (di)retto(re) di “attributi”, nel darsi delle arie da “vuota”, nello stilar altre stesure.
Io, invece, (s)tirato, viaggio su nuvole a vapore dei miei abiti da (non) far il mon(a)co.
Se tale mio scritto non v’ha indotto alla risata, allor sì che siete dei “topi” seriosi e con me avrete poco da spartire la collezione in Dvd del Burton.
Nicolas Cage, l’attore vampiro: il mio libro e i suoi sette film intoccabili. Silenzio! Poi, ammazzatemi! Forza!
di Stefano Falotico
Sinossi, sì, di mio pugno scritta col wild at heart, perché si può odiare a morte, attaccarlo su tutti i fronti (in)espressivi della sua spaziosa fronte, provare a smussare gli angoli del suo volto ovale, essere gelosi del suo fisico, indubbiamente amante delle canottiere profumate di ascella sudata, dunque adamantina, potete sognare di strappargli i peli del petto villoso o cavargli le iridi, che giudicate da ebete/i, ma non potete confutare la sua infinita classe, sì, il portamento fiero, indiscutibile di uno stile totalmente crazy, da vero Nic. Come piace a me.
Nic, il versatile, imprendibile mutante… torturanti emozioni lo grattano, raschiando il suo sanguigno istinto a esuberanza talora volgare ma madida delle sue interiora vivide e sudanti…
Nicolas Cage, amato, odiato, disprezzato da molti vili detrattori, osannato, beniamino per gli eletti che sempre lo apprezzeranno, criticato, discusso, controverso, spesso al centro dell’attenzione, futilmente onnipresente anche quando non necessario, comunque sia, che piaccia o meno, un attore capitale degli ultimi trent’anni del Cinema contemporaneo. Presenza, sì, persistente, imprescindibile, fondamentale, irrinunciabile, che non si può assolutamente trascurare, perfino invasiva e talvolta disturbante, importante, focale, un folle performer ingiuriato, bistrattato, molte volte enormemente sottovalutato a causa dell’invidia alla sua grandezza, Nicolas Cage è l’incarnazione del camaleontico, bizzarro corpus attoriale nelle sue trasformazioni mimetiche più versatili, l’intensità malinconica d’uno sguardo languido e focoso, fulmineo e impetuoso anche nei suoi repentini, laceranti, esplosivi schizzi irosi da vigliacco, buffo e dunque simpatico, eccessivo gaglioffo quando, caricato, sberleffa sé stesso oppure, rannicchiato nel carisma della sua abbacinante, stordentissima unicità, fulgido se ne squama in pelle di serpente da cuore selvaggio d’avvincerci suadentemente a lui e squagliarcene, ammirandolo infinitamente, in quanto Nic è gioconda inimitabilità, qualsiasi cosa faccia col suo volto che non si può eludere, data la considerevole eccentricità anche balzana ma a potente, abrasiva, penetrante ferocità di un’arte personalissima.
Una retrospettiva saggistica, fortemente lirica, che non si pone l’obiettivo, oserei dire ottico, di passar al vaglio l’intera sua filmografia o di sviscerarla accademicamente, ma si sofferma a scandire i suoi ruoli più iconici e la seminale lor forza magnetica che Nic, come un vampiro famelico, ha propagato a suo addentare il soave nitrato d’argento. Ad abbrancarci dunque a suo morso succhiante l’ipnotico ammaliarcene. Svanendo in Nic, gioiamo esangui, sunti in affascinante adorarlo, prostrati a riverirlo e, chinati ai suoi cinematografici comandamenti, in gloria elevarlo.
Molti mi chiedono perché ho fatto ciò. Appena è comparso il link della vendita sul Kindle di Amazon, il mio telefono è squillato assieme al cellulare, ho ricevuto su Facebook delle gravi minacce di morte, mio cugino mi ha promesso di non rivolgermi più la parola, perfino Paris Hilton, una delle sue concubine che fu(rono) mi ha contattato dal Boscolo Hotel di Bologna, ove risiede stanotte in trasferta bolognese per ringalluzzirsela domattina in Via Indipendenza e poi mostrarla al Baglioni, 5 Stelle, cazzo che botta di vita e champagne, nello sconcerto eccitato dei paparazzi al tortellino, e mio padre mi ha disederato, augurandomi che nei prossimi an(n)i lo riceva solo fottutamente, a bestia, nel sedere.
Ma io insisto, in Nic credo e lo elevo a totem.
In questo mio libro, a parte gli scherzi, è racchiuso il mistero della sua Arte maiuscola, prominente, da leader della celluloide moderna, perché Cage Nicholas Kim Coppola non è solo il nipote, finitela, del Francis Ford. Certo, deve al patriarca oggi panzuto e col vinello dei ricordi andati in vaccone ubriaco, i primi suoi ruoli. Ma non dimentichiamo mai che non è da una raccomandazione, anche spinta, che si giudica appunto un man.
Ed egli lo è. Trovatemi un altro, sì, cazzo, vi sfido, che avrebbe interpretato meglio Stregata dalla luna, sì, un fornaio bifolco, con gli occhi strabuzzati, la pettinatura arruffata da vero Abatantuono atletico, di accento italo-siculo-partenopeo al babà, che piglia quella gatta morta di Cher per le cosce e la slinguazza da panettiere che sa cosa è davvero la lievitazione del pene come Dio comanda. Facendola ascendere alla Notte degli Oscar, perché fu una Moonstruck di lenzuola dorate.
Trovatemi un altro che prima scopa Jennifer Beals, cazzo, quella di Flashdance, in Stress da vampiro, poi, ustionato dai sensi di colpa di essersi fatto una così, ché non gliela poteva fare proprio, trasmuta nella fantasia migliore/peggiore di ogni reaganiano edonista, cioè perdersi nelle notti affamate da vampiro. Eh sì. Al che, tutto nevrotico, si reca affannosamente in cucina e mangia vivo uno scarafaggio raccattato dai fornelli arrugginiti.
Trovatemi un altro che, senza se e senza ma, lavora con Lynch, Scorsese, De Palma, Woo, Scott ed Herzog e, nonostante reciti da cane, fa la sua porca figura.
Trovatemi un altro che fa sesso con Jenna Jameson mentre è sposato con Alice Kim, e finisce nella biografia della pornoattrice, che non ne parla benissimo. Sì, Nic se ne fotte e va avanti di brutto. Non lo fai fesso.
In poche parole, Nic sono io.
Basta con questi salottieri, coi salamini da intellettualotti di sinistra, Nic va in pasticceria, ordina un bombolone e poi tratta la garzona con le pinze, rimpinzandola, già, di dolcetto allo zucchero filato, addolcendo il suo bulbo stempiato con tutta la folla di appetitosi guardoni a chiedere altro mascarpone.
Questo è Nic!
- Arizona Junior (1987)
- Cuore selvaggio (1990)
- Via da Las Vegas (1995)
- Face/Off (1997)
- Omicidio in diretta (1998)
- Al di là della vita (1999)
- Il cattivo tenente. Ultima chiamata New Orleans (2009)
The Great Beauty is a masterpiece
Le lucide parole di un saggio lontano dalle piccinerie degli pseudo-intellettuali da quattro soldi, parole sante.
Pregiatevene di condividere.
Tolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.
Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.
Ma, quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro, intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.
Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco, Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).
Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.
Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.
Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?
Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.
Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.
Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali, di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.
Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchi repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.
È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.
A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.
Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.
Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.
In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.
Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo, mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».
Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro), è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.
In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla tragressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.
Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.
Pasolini di Abel Ferrara, prime immagini di Willem Dafoe nei panni di Pier Paolo
Il Pasolini di Ferrara: compaiono le prime immagini di Willem Dafoe nei panni di Pier Paolo ed evocano, all’unisono, il mio “omicidio” di similarità, rinascente qui, ora e per sempre
Di Stefano Falotico
Lettera a (crepa)cuore divorato dai cannibali
Lo sguardo. Aperto, libero, compassionevole, diverso, di sanguigne palpitazioni vergate rabbiosamente nei poetici versi, lo sguardo profondo, a radice d’una sensibilità martoriante, a escoriazioni nell’anima sempre inquieta, che giacque nel buio di luci intense notturne.
Quando, nei primi fremiti dell’adolescenza, distaccandomi dai miei coetanei per una necessità morale della mia intimità, anche sessuale, già molto incompreso, fuggii nella perdizione di me, remoto poeta freak in congenito combattere un porcile lontano dal mio cuore.
Ma fu solo una guerra persa già in partenza. Inutile, masochistica, forse stupida. Perché tanto questo è il mondo, e la gente è una massa di idioti.
Ottusa, belligerante. Se la combatti, ti ammazzerà, prima o poi.
Perché a quell’età i ragazzi, (non) come fui, pensan solo ad accontentare i genitori nel patto tacito ma ipocrita di rispettare la “segnaletica stradale” del comune percorso “indirizzante”. Soggiacendo complici al già farsi iniettare da ordini (d)istruttivi perché un giorno, una volta “adulti”, sian le persone stabili che tutti noi conosciamo e che io, tutt’ora, mi rifiuto di voler conoscere, eppur li so. Tristissimamente.
So come, schiaffeggiando i propri figli, solo perché ribelli vollero amare l’emancipazione giovane da una società dura e castrante, li obbligarono a frequentare le “buone” compagnie, nel ridanciano ma “compassato” (uni)formarli a quell’apparato burocratico, deformante e livellante che chiamano liceo classico. Ove ottemperano a vetusti e “ligi”, rigidi codici di compostezza per poi poter acquisire, di laurea “maggiorante”, la facoltà discriminante del discernimento borghese, quell’orrenda coscienza di cui Pasolini fu nemico ostinato, pur appartenendo, tormentato, inquieto sin allo sfinimento d’ogni più fine lineamento del suo viso, a tale identica classe sociale. Lui, sì, letterato e filosofo. In lui vissero sentimenti contrastanti, imbattibili, alla fine a sconfiggerlo inevitabilmente, fra il voler essere uno di quelli come gli altri e il non potere, in ogni senso, per inconscio proiettato a una sacra visione della vita a sua volta erotta nelle viscere da una carne che lo tradiva, lo torturava, gl’induceva malessere psicofisico che lui trasformava nella creazione… estenuante, mai a vincere i demoni di questa sua crocefissione a fuoco lento. Ad arderlo, a consumarsi, a vivere con la passione del pensatore che non vuole fermarsi all’apparenza ma, nel suo lancinante proiettarsi a scoperta di sé e di chi lo circonda, d’un mondo che non cambierà mai e che gli gravitò intorno, morì ancor prima d’essere brutalmente assassinato. Si lacerò “terroristicamente” da solo. Da qui il conflitto devastante fra la sua natura da “ala sinistra” dei campetti di strada, fra l’ingenuo esser sé stesso anche nel sesso dichiaratamente d’alterità orgogliosa quanto, dalle ragioni dell’educazione cattolica instillatagli, a generargli atroci ferite che tentò di rimarginare con l’Arte più “violenta”, a ferire l’omertà di un’Italia e d’un mondo (anche suo interiore) perennemente in lotta. Un mondo (s)porco, divoratore, di bugie e inganni, di scannamenti col “potere” dei poteri forti non scardinabili, un mondo che non puoi sognare migliore perché, forse, tu sei il primo, “recidivo”, ostinato e agguerrito peccatore.
Con questa mia, ambigua, che ognuno può interpretare come meglio, o peggio, vorrà, sono io.
A costo di morire, di essere ucciso da chi continua a non capire, non cambio. Perché per me il piacere è anche enorme sofferenza. Inscindibile, unico, diverso. Forse perché sono uno dei pochi che ha il coraggio di (non) essere me stesso.