Clint Eastwood Tribute
di Stefano Falotico
Clint Eastwood: in attesa di Jersey Boys, un musical sui generis, una veloce, schietta retrospettiva sulla sua visione crepuscolare del Cinema e della vita, prospettive morali
Mi ricordo…
Un tiepido, lunare, già vicino al mio licantropo, anno dominus del lontan ’92, quando il signor Clint, argentato di già capelli seriosamente brizzolati, con grande portamento, essendo egli il cavaliere pallido, salì le scale d’un teatro famosissimo, e afferrò il suo primo Oscar da regista, d’un Unforgiven stupendo, ineguagliato tutt’ora, sibilando in sua altezza nobiliare la marcia “funebre” d’u genere, il western, pressoché deceduto, a cui non crede(va) più nessuno e sul quale invece il Clint sigillò il marchio definitivo, oserei dire ermetico, anche in senso figurato, del suo impeccabile stile fra l’epico del cavallerizzo leoni(a)no che fu, la maturità lancinante e avvolgente tutto il suo excursus da revenant, memore delle sue prime “artigianali”, rugginose, “impolverate” già regie profetizzanti, e la quadratura del cerchio, abrasiva, taglientissima, spietata appunto, a monumento insindacabile di quella statuetta finalmente sacrosanta. Inappellabile vittoria (d)istruttiva, come dico io, da “Calibro Magnum”, da Callaghan vendicante tutto ciò che l’Academy prima trascurò e ignobilmente snobbò, sbuffandogli addosso solo un “distint(iv)o” da monsieur un tantino “reazionario”. Che madornale errore “impagabile”, risarcito però dal giustissimo colpo d’avergli assegnato appunto il dorato Oscar. Uno dei più meritati, anche coraggioso, anche a vedere oltre, per una buona volta. Perché, da allora, il nostro Clint non ha più sbagliato un solo “tiro al bersaglio”. Definendo la sua Arte assoluta, maiuscolissima da cineastico, “freddo” romantico catturante il blood work focale d’una perfezione devastante.
Un Cinema grandioso, magnificamente realista con superbi picchi commoventissimi di poesia vertiginosa, da spaccarti le iridi in mille pezzi soavemente profumati, squaglianti amore puro da riservargli d’eterno riverirlo e poi repentinamente coagulanti in vivida ammirazione sconfinata. E, prostrati al suo divino insegnamento, in sua onorificenza, noi, fratelli della sua congrega, vogliamo così omaggiarlo, celebrando tosto le opere già intoccabili del nostro ma anche decretando, altresì maestre e maestose, quelle tutt’ora, altro abbaglio imperdonabile, considerate “minori”.
Su Un mondo perfetto, I ponti…, Mystic River o Million Dollar Baby, mi parrebbe pleonastico ancora spendere ulteriori, (in)utili parole, ché già ne ho celebrato i fasti nel mio lirico saggio “Clint Eastwood, ghiaccio arcano di romantici occhi”, disponibile su lulu.com.
E Clint ama, come me, dire sussurrante senza ricamarci troppo sopra, essere incisivo senza troppi orpelli o retoriche a imbrodarsi.
Mi concentrerei invece, in maniera secca, veloce, rapida e morale, come il Suo Cinema diretto e senza troppi tronfi fronzoli, appunto sul Clint quasi “ignorato”, elargendo tre aggettivi cercanti la definizione al contempo adorante e oggettivamente sentenziante.
Una sobria dedica scritta e “diretta” dall’elegante Stefano Falotico
The Godfather, Amen
di Stefano Falotico
The Godfather
Da stagioni immemorabili del nostro scontento, qui vige una Famiglia di non viventi, alle pendici del nostro sacro patto demoniaco col Male…
… perché, traditi da una realtà di cannibali, lussuriosa e brada, noi, i Corleone, abbiamo aderito allo sviscerante, puro patto con un aldilà poderoso dal mortuario appetito sanguinario e violento, a sigillarci nella bara eternamente funebre, dunque vitale, perché emanante ardore autentico dei nostri cuori spezzati, da vampiri dei nostri sogni, ove gl’incubi sospirano delicata danza di morte nel fragore delle ingiustizie universali, ultraterrene, così umane nel nostro umanesimo crudele, d’arcani, irriverenti, buissimi giudici sentenzianti piombo fendente chi vorrà smorzare le nostre alienate e inalienabili, inquiete, nere anime gocciolanti cremisi asma da sepolti vivi… d’era in nostra aspra, cupissima terra… profonda, sepolcrale. Noi siamo gli stranieri, sì, più neri.
Coppola e uno dei suoi grandi, immensi capolavori. Forse, uno dei significati “inconsci” di quest’opera titanica, inarrivabile, unica, strepitosamente fascinosa, invincibile visione dopo visione a decretarne sempre più il fortissimo, magnetico valore, sta nell’enfasi soffusa dell’atroce senso mortale, ferino, squartante di malinconia impalpabile, eppur così suadentemente, irosamente urlante variegate, sconfinate emozioni lapidarie, secche e al contempo liquide, inafferrabili, che sprigiona di turgidissima monumentalità.
Un capodopera assoluto che spaccò le barriere di genere, ascendendo a Cinema limpidissimo, perché il più grande Cinema è intoccabilità della bellezza che scorgi, annusiamo, rapiti dal suo “carisma” irresistibilmente attrattivo come i tacchi da capogiro di Ava Gardner o d’una dalia nera stupenda, peccaminosa e tentatrice, che ci ruba l’anima e il nostro corpo a trasfonderci in suo delittuoso, magnifico, divino avvolgerci nel bacio della più languida, carezzante, morbosa notte maliziosa e seduttiva.
Un giovane dalle grandi ambizioni, Francis Ford Coppola, dopo un paio di produzioni, s’imbarca in un progetto “folle”, tutto di testa già immane sua da patriarca “petroliere”, oh sì, there will be blood, non solo del Cinema total(izzant)e e purissimo, ma dalla vastità cosmica già profetizzante il suo viaggio infernale nelle tenebre, qui già lucentissime, dell’Apocalisse a venire, già oggi in Kurtz/Brando, che a sua (s)volta altri non è se non la parossistica evoluzione della solitudine “maligna” del deluso Vito, il Padrino.
Sì, lo “sconosciuto” Francis compra i diritti dell’omonima novella di Mario Puzo e la propone alla major Paramount, che tentennerà non poco prima di dargli il nullaosta per le riprese, ma Francis riuscirà in tal impresa, cioè la sua ascesa-discesa nelle brame ferine del buio vivido splendente, cupido…
Affida al re dei re, Marlon Brando appunto, il ruolo “titolare” del film, consegnando però, al “vero” protagonista, Al Pacino, uno dei suoi ruoli epicamente più iconici e indimenticabili. Agli Oscar, invertirono i premi e le candidature, ma fu solo un servigio dovuto al baciar le mani di Marlon… d’Academy quasi alla carriera. Immolata a suo piedistallo.
Nelle sue mani da già stupefacente, espertissimo cineasta, Coppola, con questo film, risorgimentale, distrugge completamente tutto ciò che, sino ad allora, era stato il gangster movie. Det(r)onizzandolo a suo apice marmoreo.
Il film, nel suo plasmatico “plagiare” il Cinema a suo virtuosismo metaforico, diventa una galleria angosciante, bellissima di maschere di cera, di “mostri” perché asciugati dalla solarità della vita “comune” e impossibile per gente come loro, un tuffo spaventoso alle origini imperscrutabili, quasi messianiche, tristissime del Male più imbattibile.
Succede tutto per caso, o forse solo perché è, da generazioni e generazioni, soltanto inciso nel DNA della famiglia Corleone.
Allora, il giovane Michael/Al Pacino, il pupillo buono e giudizioso, avviato a una retta via diligente e onesta, sarà invece proprio colui che erediterà la tetra, allucinante successione al godfather deceduto.
Seduto, nella sua solitudine (s)consacrata, nella panchina d’un parco crepuscolare, nell’autunnale decadenza mortifera dell’incarnare la tragedia orrida sua da irredento vinto per l’eternità, Al Pacino diventa già lo specchio disilluso, oltre dell’orrore di Brando…
Nel suo glaciale star zitto, immobile, pensieroso, coi suoi occhi ieratici ma lacrimosamente cangianti, che parlan da soli, reciterà in silenzio un monologo analogo, infinitamente spettrale ma “muto”, da essere-non essere fantasma dalla (mai) nascita.
Tutto Shakespeare in pochi istanti.
L’apogeo malinconico della già qui tutta opera omnia di Francis Ford Coppola.
Tutta l’amarezza, tutta la sua vertiginosa grandezza.
Un titano, Francis, che ha sempre girato film diversi a livello baroccamente sperimentale e visionario ma, che in fondo, nella sua anima gotica, geneticamente scalfita, ferita, inestirpabile, da genio troppo grande per accettarsi, per girare… per il mondo come tutti gli altri, è solo… solissimo la sua rimpianta, mai più… altra giovinezza, il suo primigenio, profetico incarnato Dracula piangente la sconfitta indelebile, ineludibile d’aver “peccato” soltanto di enormità.
Michael Keaton, alias Batman, oggi è un vecchietto ma si (ri)farà, perché non è rifatto
di Stefano Falotico
Che fine ha fatto il grande Michael Batman Keaton? Rivoglio il mio Beetlejuice pipistrello, eh eh
Michael Keaton, un fenomeno. Lo fu, lo è ancora. Silenzio, e voglio che sia religioso, scrosciante ammirazione sottile.
Che volete farmi? Per alcuni attori “mediocri” io nutro un’adorazione devastante. Sì, quando nel bel mezzo della notte, me li sogno comparir nella mia stanza nell’incitarmi a tirar fuori il meglio di me, cioè una russata strafottente, tendente al ridente, che blandisca di gutturali suoni onomatopeici l’aria fritta della realtà, e me li vedo pittati nell’aura che i loro migliori personaggi cinematografici, che furono e sempre in mio cuore saranno, eman(er)an(n)o di trasmissione empatica.
Ah, che nostalgia, dove t’abbiam smarrito Mike…? Se ci sei, batti un colpo.
Al che, io e il grande Michael balliamo seminudi come scimmie, con me abbigliato solo dei pantaloni strappa-palle del pigiamino e lui in tonante, a mezzobusto, “carrozzeria” da uniforme batmaniana. Quindi, dopo esserci spos(s)sati in un balletto “fuori programma”, con la musica a tutto volume di qualche rocker cazzuto, svegliando tutti i vicini del condominio, corriamo verso la cucina e, afferrando una bottiglia di sano vinello, brindiamo alla faccia di chi non ha le nostre facce da culo, atipiche da topi, tipicamente al top del nostro tifar, anche stremanti e da gatti in calore, per il mondo vero nella trasformazione animalesca nel mentre cambiante (a) bestia, su sgattaiolare appunto coi canini vampiristici dei nostri cagnacci ululanti alla Luna, ungulati a petti da Bruce Wayne misteriosi, possibilmente stronzi, col cazzo nostro a mille nel tirarcele di brutto. Sì, noi siam b(u)oni ma anche bruti, schizzanti, stupendi, belli e impossibili, schifati perché veri, coi nostri occhi acquosi, i suoi azzurri cangianti in montatura di occhialetti fini da intellettuale handsome, i miei neri da mare mediterraneo su oceanici abissi del pensiero intonato assieme in scioglimento d’ogni ghiacciaio delle mentalità bigotte. Ed è un gran divertimento. Un gran concupirle, un gran sedurle e abbandonarle, lasciandoci andare ove altre stelline bruceranno, zampillando di cosmico esser geniali comici burloni, con l’anima dei poeti e le labbra dei piccanti amanti. Mugolando il twist del non ve li diamo… eppur facciam piedino, alzandole anche di coda, da pantere… (s)piazzanti. Corridori irrefrenabili delle nostre feline movenze da bastardini.
Ah ah! Nessun ci fermerà. Noi ve lo ficchiam a volontà di gran voluttà. (H)a voglia Catwoman.
E, chinati a comandamento d’un Dio mansueto, leccante i nostri figli di puttana, coccolandoci con una foto Polaroid su occhi nostri col rimmel “romantico” da mandare a qualche trascurabile donnetta, non da cavalieri oscuri ma da “consolare” sulla sudata… smorfia da leoncini sbeffeggianti eppur ammiccando di “graffiargliela”, svoltiamo all’alba già involati al volo fottuto delle nostre “onde di frequenza” da amanti della pura, totale, indistruttibile, sontuosa, imperiale libertà giammai demoralizzata dai viscidi ricattatori, dagli strozzini delle emozioni, da quelle di malaffare, da qualche edile affarista a cui dobbiam pagar il mutuo ma punirem(m)o sinceramente di mutismo con la museruola d’una vincita inculante al Lotto, e zittiamo le coscienze dei moralisti, addormentandoli di nostra sveglia pacata, praticamente assordante. Insomma, siamo due gatte morte all’apparenza, invero eleviamo l’apoteosi delle tenebre a lanceolate grida furibonde dell’estasi dell’anima più sinergica alla bellezza.
Non c’è un cazzo da fare. Guardavo le foto di Michael alla premiere di questa schifezza di reboot del Robocop. I capelli sono completamente “partiti”, dalla stempiatura siam passati alla pelata completa, salvo due peli irti appunto da lupo. Eppure il fascino si conserva integro… tolta la pelle del suo viso, oggi mangiucchiandogli le gote un po’ canute, quindi di pigmentazione sul senescente-maculato, nel disegnar una smorfia da tigre virile, fra il tenero “volergliele succhiare” e un naso “spiccato”, languidamente avvolto dalla cornice fisiognomicamente sexy nonostante l’attempata sua età da giusto farabutto di classe.
Ce la vogliamo dire?
Il suo Batman è quello vero. Christian Bale, non ci son muscoli che tengano, dinanzi all’espressività diretta, autentica, “spoglia” di Michael, è un principiante. E un “principe” così non ha bisogno d’un maggiordomo ma di un ratto detrattore come me, che lo irrida. Bale è un immondo, Keaton è ancora bello. Così è, così sia scritto. Mike è il superhero.
Michael ora vuole del caffè. E io lo servirò.
Quindi, dall’album dei ricordi, Michaelino estrarrà le immagini di scena della sua “filmografia” e io gli sussurrerò un dolce “Padrone, le ho consigliato io di firmare per questo film, ricorda?
Il film non è Batman, ma Birdman.
Il suo grande ritorno.
Ritratti d’attore, il grande Willem Dafoe
di Stefano Falotico
Fra gli attori indimenticabili, ce n’è uno che non viene quasi mai citato perché il suo volto, incastonato in nervi che si accartocciano in essiccazione marmorea sgualcente labbra cremisi, sottili, incendiarie, a libagione irsuta e tensiva di un suo cuore sempre scalciante rabbia, trattenuta, ponderata, esplodente in sopracciglia incornicianti iridi suadenti da vampiro cristologico, da Satana e Arcangelo, da emissario crudele d’un Dio spietato, è unico ma di una unicità troppo perlacea e labile, troppo inafferrabile per mai aver potuto ambire al ruolo da “copertina”.
E allora il nostro Willem diventa il Gesù più terreno dello Scorsese più controverso, (in)scritto nel Paul Schrader più sanguinante pulsioni oscillanti fra la carne e la spiritualità combattuta, spezzata dentro inevitabilmente, inguaribilmente da conflittualità insanabili, acute, taglienti l’origine umana dell’imbattibile scontro fra santità e peccato, fra desiderio legittimamente carnale e la predestinazione divinatoria d’una purezza che non può essere. Insomma, un Amleto in abiti da martire, da irruento selvaggio turbante, da anima perennemente turbata, distrutta da troppe pulsioni che l’uomo, in quanto limitato per sua stessa natura corporea, per suo infrangibile capriccio istintivo di vita e godimento, che può affannosamente reprimere ma, violento, primo o poi spaccherà gli argini del “contenimento”, non potrà mai soffocare. Anzi, maggiore è la sua voglia di casta ascesi e più potente sarà l’urtante urlo ribelle, più tentato tenterà di placarsi e più erosivi e impressionanti, in deflagrante devastazione interiore, saranno i suoi (s)colpiti lineamenti. A “intarsio” del conflitto, delle fitte, della Pentecoste incarnata.
Conoscete meglio di me che Willem ha lavorato coi più grandi cineasti del nostro tempo. Per molti di loro è diventato, oltre che amico nella vita privata, quasi una sorta di feticcio, di mascotte immancabile. Penso al già citato Schrader, a Wes Anderson e ad Abel Ferrara.
Ed è appunto (in)naturale che si verifichi questo, proprio perché il suo viso è l’incarnazione (in)espressiva, (im)mobile, impietrente e impietosa, straziante ed ieratica di ogni grande fantasia umanistica da poter plasmare nel Cinema che si fa proprio carne, si fa Sguardo, si fa (sovra)impressione.
Il Principe Gambardella è Grande Bellezza da “statuina”, cari tromboni
di Stefano Falotico
Ciao, son Jep Gambardella della mia fantasia reale, purtroppo o per fortuna, e vi racconto la mia misera vita che, in confronto a quella dell’umanità, è vita altissima, da fiero Principe
Ciao cari, sto qui, vicino al culone di questa Ferillona, anche se avrei preferito una Ferrari e planare, più che sulle sue collinette oggi un po’ sgonfie e di silicone, da ottavo Re di Roma nel colle euganeo di questi voi italiani da pigliar a schiaffi un tanto all’an(n)o.
Sto in posa per i fotografi della malinconia e dalla mia (im)mobilità espressiva nessun mi schioda.
Rifletto su come “trapassai”, in quanto remoto e già oltre fra il Tirreno e l’Adriatico, mentre voi ascoltate l’Oroscopo e date retta agli stregoni imbonitori, intanto, fra una chiacchiera e l’altra, un bicchierino e qualche spalluccia, a “liquore” scopate… così tanto sempre più i vostri neuroni annacquate. La gente mi schifa perché proietto, secondo tal massa ipocrita, un’immagine ripugnante da non adoratore del sociale. Sì, creo scompigli tra le feste eppur talvolta qualche gatta piglio. L’afferro con dei cocktail delicati della mia pelata mesta, brizzolata ai lati ancor folti su occhi miei non tanto focosi d’erotismo eppur foschi di puro non essermi corrotto ma rottissimo di tutto, oh che “lutto”, di pelle un po’ raggrinzita, imbrunente al plenilunio nell’arena della sua figa “al dente” come un piatto di pastasciutta all’amatriciana di voi “bone” forchette, miei panzoni.
Intaglio discussioni con la mia anima oramai trascendente, quindi, scambiato per demente, vado passeggiando fra “rive” del Colosseo e i miei pantaloni di velluto su sigaretta mozzicata con brividi dei passanti che vorrebbero gettarmi a mare. Non affogherò mai perché la mia “malattia mentale” tiene desta la mia ipocondria e, sapete, quando uno è ipocondriaco, soffre di sana idiosincrasia contro i crassi e i pachidermi ipocriti. Ah, sempre l’ipocrisia. Ippocrate era un ippopotamo e il porno tira o è solo una sega per buttarti via? Non lo so. Sabrina sta qua, mezza ignuda come mamma Anna Magnani l’ha fatta, e io la contemplo quando dovrei spruzzarle un po’ del mio “scibile” sibilante in suo culo da Maddalena. In realtà, fa schifo al cazzo. Poi, dovrei usare interdentali fil(ett)i di spazzolino. Sono un dentifricio smacchiante o un frocio andante? Comunque sia, finché la barca va, non si sa che pesce piglierai. Se la medusa o il suo pertugio. Sabrina, sì, te lo succhia e te lo riduce peggio delle acciughe. Ah, forse è meglio Alba Parietti, ché domani, dopo il tramonto, sarà ancora alga.
Sono uno stronzo ma meglio di quelli che, a Bologna e dintorni, fan i fighi a Ca’ De’ Mandorli, semi-ristorante di pub e disco(li).
Bologna è una città di merde. Alle medie già vengono indirizzati a esser pendenti come la Garisenda, e camminan tutti impettiti da dottoroni se ancor frequentano le Guido Reni e soffron di vertigini dal piano alto dell’Asinelli. I più “bravi” vengon poi spediti dai loro genitori “altolocati” ai licei classici Galvani o Minghetti, uno di destra e l’altro di sinistra, ma tanto Francia o Spagna… basta che si finisca all’Aula Magna. Dove leccheranno i docenti, che han fatto il loro stesso (per)corso, per rubar Laura a Loris e prendersi tutte le lauree con lodi.
Sono un Pinocchio da Collodi.
E ora, amici cari, me ne vo di romani “fori”.
Anche fuori dai coglioni.
Attenta, Sabrina, dopo la palpatina, devo papparmi la tua frittella cucinata ai fornelli.
Che potete farmi? Bruciarmi il cervello? Al massimo, potete mostrarvi i vostri grossi uccelli.
Io volo lassù e voi pensate sempre e solo a quel che sta in mezzo. Dietro o avanti, io sto fermo e vi guardo dai piedi alla testa, evitando di rider dei vostri testicoli perché siete come gli Oscar, statuine senza sesso.
Eppur vincenti.
Ciao.
La “grande bellezza” degli italiani, popolo di poeti, santi, navigatori, sì, a chiacchiere ché son tutti buoni a parlare e ad applaudire
di Stefano Falotico
La grande bellezza: rido gioiosamente delle vostre amarezze da italiani violenti, chiassosi e volgari, immutabili decadenti affaccendati nelle solite lotte piccine da spettatori passivi… della vita
Sì, è ora di dirsi la verità. L’Italia è il peggio del peggio. Sin da piccoli, tutti educati al catechismo giudeo-cristiano, la DC, l’abc delle s(c)uolette, abbindolati da una televisione di magna magna, col Berlusconi che v’ha inculato con la vostra ammissione di esservi piegati, coscienziosamente, ed è reato di casta proletaria enorme proprio perché non s’è mai ribellata ma attivamente gli ha consesso ogni libera, porca vanità, vi addito, sì, flaccidi servi di casta pronti a succhiare dai “varietà” un tanto a cosce, tette, caviglie su tacchi “altisonanti” dei vostri o(r)moni da maschietti fustigati, frustrati, presi per il popò con anche l’invenzione della parola “sfottò”, “coniata” da quel gran Kimbo del Pippo Baudo, uno che ha leccato Andreotti per piazzarsi in “Radio Televisione Italiana” e poi non ha potuto invitare al “suo” Sanremo, oggi ereditato dall’altro lacchè del Fabio Fazio dopo Frizzi Fabrizio e Clerici “seno de mamma” Antonella quant’è bel’ u’ balcon’ dei miei stivali…, sì, non ha potuto far partecipare al carrozzone delle canzonette da mezze calzette quella Ricciarelli “lirica” solo a urlar come un’indemoniata nei film di quell’altro morto di fame di Pupi Avati, un emulo patetico di Fellini, che già di suo era un medio omuncolo della Romagna sempre ripiegata nel prosciutto pseudo malinconico alla “bonazza” d’Amarcord con cartolina di Fontana di Trevi e Anitona da rigatoni romani ammiccante il Mastroianni più floscio del suo solito noto nazional-popolare. Vai, partigiano!
Ieri sera, ho assistito all’ennesimo atto di medietà conformista, irriducibile delle vostre teste di cazzo.
La grande bellezza vince l’Oscar e tutti si piazzano su Canale 5 a “godersi” la statuetta che fa “onore(vole)” al vanto italiota, all’orgoglio patriottico da quattro soldi. Sì, perché quando c’è da portare in alto il nostro “casato”, ecco che allora diventate esterofili della peggior stirpe, siete una specie inestinguibile di persone “speciali” alla Battiato, un altro cantantucolo che con quattro citazioni di Storia ficcate fra una “scrofa” e l’altra depressa, che si riconosce d’empatia “metafisica” nei momenti di pausa digestiva tra un caffettino del distributore automatico e una vita sempre in fotocopie d’abitudinario mobbing del padrone inculatore, v’ha pigliato in quel posto. Il mondo è grigio, il mondo è blu, come vi prendo per il cul’, cari cu(cu)li!
Sì, vi meritate le prime tv su Canale 5. Perché tu, donnetta fascista d’asilo nido, pedagoga per bambini che già ebetizzerai nell’uniformali al futuro però porcile da Altare della Patria, vai in brodo di giuggiole a “contemplare”. Sì, contempla questa minchia, signor tenente, puttana! Tanto non cambi tu, non cambia tu’ marito, un figlio di mignotta come pochi, ché ti tradisce un tanto a botta con la ciucciante prostituta della complanare di Roma e poi si fregia d’esser “nobile” signore con tanto di laurea schiaffata in faccia a chi umilia, sfrutta dall’alto, eh si capisce, del titolo di “studio”. Sì, quella stanza arredata di mogano, da finto monaco per celarsi nell’apparenza che inganna. E tracanna, volendo sbattere in manicomio i ragazzi, compreso suo figlio, che educa a castrazioni chimiche di farmaci, se si fan le canne!
Bravo lui, che guadagna sulle (s)palle degli altri, se la tira da “esimio”, e chi può toccarlo con tutti i fruscianti dollaroni che esibisce per pisciar in faccia a tutti, lui sì che mangia vivo…, e poi va a “rilassarsi” col cinepanettone ove De Sica balla a Cortina nel rione internazionale della nostra Italietta da esportazione, da Grande Fratello ove la buzzicona espone al “ludico” macello le sue cosciotte da polla arrosto perché spera, grazie all’audience, che la sua “marcia” per il s(ucc)esso da figa, sai che roba scaduta, sia cool e non s’inflazioni in una vita “paciosamente” domestica come le altre burattine burine delle sue colleghe. Lei sì che l’ha fatta, sfattissima, praticamente una “mollica” fra le gambe, dandola a destra e a manca, eh sì, basta che così tutti se li magni. E vai di vinello fra i tinelli di chi comanda il palinsesto! Sai che vanto quando la sventola come la nuova Flavia Vento de vo’ altri.
A idolatrare Marion Cotillard col cotton fioc fra le mutande perché tanto una così la vedete col binocolo dei sogn(ator)i e buonanotte ché siete tipi, certo, da ruggine e ossa. Comunisti con tanto di russe… sì, le emigrate dalla Siberia per riscaldarvi dall’esistenza piegata da impiegati con necessità, una volta ogni tanto, di sfogarvi.
Sì, non vi sopporto tutti quanti. E quell’altro? Corrado Guzzanti! Avevo ragione io quando, nel lontano 1994, già faceva il ganzo al Palazzo dei Congressi di Bologna e stropicciava il pubblico pagante-imboccato di cazzatelle pseudo polemiche al camaleontismo che, in confronto al Frankenstein deniriano di Branagh proprio di quell’anno, ha da spartire la sua faccia da mortadellone di bruttezza ipocrita camuffata d’intellettualismo colto… da me in flagrante.
Sì, e quell’altra meridionalozza con tutti i CD del Blasco, che ha “frequentato” il Copernico, soprattutto nei bagni umidissimi, a rotazione solare, ah ah, della sua gattina “timida” in calore da “morta” all’uccellin del “compagnone” da “ribelli” di polpette alla pummarola, che fine ha fatto se non sposarsi con uno che “tiene la f(at)ica” e scoreggia il suo “lavoratore duro” da chi se l’è fatto per star sul cucuzzolo della montagna nel grassoccio che cola nell’olio di Ricino? Ti vedo giù, stammi su, che forza che hai! Che uomo!
Tanto, un’altra estate a Riccione, e dai, dai, metti su nello stereo gli 883. Sì, siamo degli “adulti” tosti ma qualche volta vogliamo regredire al “giovanilismo” da merendine e Nutella. Praticamente sempre.
Poi, se danno Sorrentino, miglior film “straniero”, straniero degli Stati Uniti che continuano a farsi i pompini a vicenda, discriminando già nelle “premiazioni” le categorie, allora sì che siamo “fieri” di essere italiani!
E allora che sia un Fu Mattia Pascal.
Perché Pirandello aveva ragione e vi meritate uno, nessuno, centomila da triste eppur “dolce” Gambardella!
E vi meritate il calmo rimpiangere!
Sapete che vi dico?
Ve lo ricordate Verdone di Bianco, Rosso e Verdone, appunto?
Dovete andar a pigliarvelo tutti quanti…? No, tutti e tre i suoi personaggi vi rispecchiano.
E dalle vostre macchiette non vi pulirà neppure la rumena a “balia” dei vostri mal di fegato, ché ha però la macchia pezzata. E attizza.
Sì, la monnezza.
Oh, sulla 7 danno proprio lui. Ma come è simpatica quella merda. Vero poliziottesco tarantiniano. Eh, si capisce.
Non cambierete, non è cambiato nulla. Idioti eravate ai tempi di Mussolini e idioti siete oggi emancipati un tanto a musetti.