L’isola perduta
di Stefano Falotico
Perdiamoci nel titanico Brando, ad “adipe” d’afflato recitativo magniloquente, ché lui è l’incommensurabile Kurtz in ogni evoluzione della specie… cinematografica
Questo film non esiste, è un’allucinazione incompresa, un’altra perla malinconica del grandissimo John Frankenheimer, che da da Herbert George Wells trae l’ennesima versione, però qui corroborata di natura vivida intessuta allo splendore del melanconico sonno del “Pianeta delle scimmie”. Apocalypse vent’anni dopo, ai primordi indietro d’ogni esperimento di clonazione a venire, avveniristica time machine intagliata nel carisma immortale dell’eterno Marlon. Grasso da far ribrezzo, e dunque da celebrare come l’inno habemus Papam a ogni sua apparizione, cronometrata di potenza visionaria nel filtro grigio-languido del Frankenheimer d’avanguardia. Che osa oltre il suo Cinema di spie e complotti, rivoluzionandosi coraggiosamente nel trionfo, vittorioso, d’un film vinto da una Critica frettolosa e turbata da ciò che non avrebbe dovuto violare con la lor boria prosopopeica da impiegati del ca(ta)sto esegetico. Io sono esigente e anche Frankenheimer lo è, rischiando con un film che forse non gli appartiene, “raschiato” da troppe (im)perfezioni e grossolani effetti speciali, addentrandosi nei meandri notturni di un’isola perduta nelle memorie di noi, la razza oramai estinta.
Ove spadroneggia oscuro il Dottor Moreau.
Non dovevate estirparlo perché esso vive di un’aura, e quindi in una roboante area, tutta sua.
Ove i fruscii delle foglie della giungla, permeandosi agl’ibridi umani, sono antropomorfico rimembrarci l’orrida morfologia evolutiva della nostra (dis)umanità.
Il film è Brando, stratosferico in ogni eccesso, dal trucco bianco-latte alle sue mani tozze che soffrono la bellezza della sua grandezza, distillata con insuperabile stile e classe originaria dell’acqua vitale, come ogni biologia anfibia del Creato e crearlo Dio.
Dio intinse la sua mano a benedirci, perché sapeva che, dando all’uomo la coscienza, egli avrebbe azzardato da incosciente, minando l’innocenza nei suoi laboratori da Frankenstein.
La bella Anne Hathaway, belante, INTERNa(u)ta con Bob De Niro
Secondo The Hollywood Reporter:
Anne Hathaway is in talks to replace Reese Witherspoon in The Intern, the workplace comedy to be directed byNancy Meyers.
Robert De Niro is also starring in the project , which tells of an owner of an Internet company who gets assigned an intern who’s a retiree (De Niro). He becomes a valuable resource and the two develop a relationship.
Witherspoon was involved with the film when it was selling at AFM but left the project mid-January. Scheduling was blamed at the time.
Scott Rudin, who is producing, and Meyers then quickly zeroed in on some key names with Hathaway doing a table read with De Niro and Meyers last week that went well.
Hathaway will next be seen in Christopher Nolan’s Interstellar and is coming off the Sundance premiere of the drama Song One.
Al Pacino comeback!
di Stefano Falotico
Questo sarà l’anno del comeback del “vecchio” Al Pacino, fra i più grandi di sempre, e lo voglio di voce roca da prete stronzo, adirato e di zigomi incendiari come del rock martellante su tempie shakespeariane!
Sì, dopo una “vaga” assenza, profumata però di Broadway, ove titanicamente, ingobbito ma non domo, ha fatto risorgere il monumentale, mametiano “Glengarry Glen Ross”, Alfredo James Pacino, all’anagrafe Al e basta, cari succhiacazzi, tornerà a infuocarsi come suo Satana comanda. Questo diavoletto “nano” di statura ma gigante di allure furoreggiante, imprendibile, tensivo di scatti nervosi come uno che può sbattertelo in culo da un momento all’altro su (e giù, a 360 anche di tutto sfincare) monologhi inchiappettanti da primo della classe, e devi solo obbedire da seduto e in suo goduto avertelo sanamente sbattuto. Stando muto, adorante la sua spettacolare grandezza da uno che certo se ne fregava delle sc(u)olette per damerini ove il pensiero primario è leccar le tettine fragolose della scema al terzo b(r)anco. Carpisci, sì io cammino perfino a carponi, caproni, che dai suoi occhi dev’essersela vista brutta mille volte. E, soffrendo come un can bastonato, come immigrato “clandestino”, ex gigolò per farsi pure di buchi, non solo a metter(vi) in ginocchio, Al ha deglutito la merda della vita, il cazzo fritto che può riservare a chi ha sempre creduto a valori alti e principi (ficcate l’accento anche nel Principe di “i” acuta su baritonale gola sfumata in Giannini Giancarlo, doppiatore ben erede di cotanto padre, da non confondere con l’ex centrocampista della Nazionale italiana e romanaccio di amatriciane e puttanesche), rinascendo prodigiosamente a Padrino di panico a Needle Park. Drogato, tossico, romanticissimo, roba che i ragazzi coi cazzetti, e i calzini “firmati” di oggi, posson solo invidiare le donne che annusava da vero lercio, vivaddio, vivace e amante della vita in senso alato, mica un pollo come voi altri, lecchini del direttore e sotto-segretari di qualche troia a farvi pisciare in testa solo per un po’ di tronfie, orgiastiche perversioni. Al vi fotte. Abbaia, bau bau, fa male, sgranocchia colli su portamento svenatosi a dar le perle ai porci. E voi dovete osannarlo, intitolargli strade e piazze, perché egli di tutti quest’attorucoli contemporanei fa pestaggio e pulita piazza. Pulizia etnica d’uno che può permettersi questo e altro. Di entrare da Dunkaccino in un Mc… d’una interzona stronza e ballare con la stella delle ciambelle cremose. Fra negri servi e sciacquette a cui offre la superbia del “Fatemi il baffo” e anche i capelli “arrugginiti”, scarmigliati di pista da ballo su pavimento di Moka al colore caffè del suo parrucchino arruffato e carismatico.
Ed eccoci qui, fascisti, semi-nazisti e tromboni da farci venir du’ palle come tua madre che le vorrebbe finalmente in quell’impotente che t’ha messo, quando gli funzionavano, al mondaccio infame.
La prima “sparata” è Imagine, Al che riceve la lettera da John Lennon. Cazzo, imperdibile, oh, rendiamocene cont(r)o, un inglesino buono a inumidire le sessantottine dei Beatles casa e chiesa, da cui “Yellow Submarine” in caso di troppo umidità (si sa, il sommergibile salvo dalla marea… ah ah) e, dall’altra generazione, eppur di stessa età, quasi, da sopravvissuto, Al, uno che in casa avrà vinili del tricolore che fu(mava).
Poi, The Humbling. Ah, finalmente. Ci voleva un Pacino senile a prendere Greta Gerwig per la figona che è, e insegnarle la “dizione”. Scandendo ogni “scala” su ecco il LA, poi il fall(it)o.
Al diapason, al Diavolo!
Ma il pezzo forte rimane Manglehorn. Questo fabbro sudato, sporco, che recita appunto il ruolo del coglione ma tiene nascosta la sua doppia personalità da mai redento, invero, gran volpone.
Al Pacino, un nome e un cognome, Arte di enorme sapore.
Il resto è tua sorella che vuole il labbro leporino di Joaquin Phoenix e riceverà invece solo la (com)messa storta e dislessica. Da quello non si scampa, vai a sbarcar il lunotto del tuo retrovisore inculato da pienotta.
Guadagnati, scema, il pene e la pagnotta coi co(n)tanti dei cessi da Barbie. E che si radessero con garbo, non usano neanche il dopobarba. Ah ah!
Fidati.
Ed entrerà con lanciafiamme in quest’a(i)u(o)la.
E ricordate: Al scopa e mangia senza carte stagnole.
Care (s)chiappe.
Scent of women
di Stefano Falotico
Pensando troppo, pazzo son stato nel futuro. Ieri era la giusta e saggia, invero, età dei sentimenti lindi, domani sarai solo nell’era geologica del fossile a pietra d’emozioni già soffocate, ingiallite, di ruggine assopite.
Sfiancato, avvolto dalla goffa raucedine di starnuti per sbarcare il lunario d’una vita non dimezzata ma, seppur corrosa, da tanti sbagli minata, inseguitrice ancora delle inarrestabili, ampie aurore.
Per mescermi agli arcobaleni trionfanti, all’anima mia non più da scorticare, lottando, sì, certamente con quel coraggio che mai deve esser assente nei momenti d’affanno, di debolezza che t’affrange. Quando, abbattuto dalle sfortunate circostanze o dai capricci cattivi della tua mente birichina, vai a pezzi e dovrai riesumar, di nuovo uomo o nel tegamino a uova del tuo strapazzato, l’interiore forza che s’era temporaneamente spenta. Perché, inacidito da rabbia terrificante, hai scazzato d’altro erroneo sbraitare, accanito anche contro l’ascensore che scende troppo in fretta o le scale d’una gerarchia che non puoi, non solo scalare, ma neppure scavalcare.
Cavallo matto, scacco(li), che schifo ti fai. Gran figa, ops, scusate fifa, e perdi tempo in banali chiacchiere nell’architettura d’un sogno già in là con gli irrecuperabili anni. A poltrire afasico perché così, almeno, ti senti in gamba, sai che cavalcata, per immobilizzarti stagnante nel fango, di colmo, più allettante del tuo goduto letto in santa pace.
Tormento, rubacchi sorrisi altrui per dipingerti ad anima intonata, per qualche attimo illusoriamente felice, a qualcosa in cui credere, la bellezza della labbra, semmai una donna dal profumo tanto delicato quanto “astringente” il tuo cazzo d’erezione in “piantina” stabile. Visione dei loro visoni, alcune impellicciate però spingono d’arrostirtelo e sei bimbo, regredito, in salamoia al tuo pisello da burattino. Così, cazzeggiando oggi e domani fottendoti di schiaffi in faccia ricevuti, indossi la calzamaglia e semmai ti specializzi nel far i centrini, mentre i cretini se le palpan in pieno centro, di culi ben torniti, camminanti orgogliosi nei “portavalori” delle false sacche…
In saccoccia, così te la (s)passi, d’un “guardaroba” da far invidia al coniglio di Alice delle meraviglie, e succhi un gelato al tuo leccarti “a sbafo”.
Insomma, fai merda al cazzo, eppur si (s)tira, campando fra un giretto in campagna, una che vuol mungerti il sangue, da cui la definizione di figa sanguigna, e un po’ di latte per addolcir il pancino di gran scol(arsel)o.
Vai in bagno, te lo scrolli, una pisciata da non bagnare d’altro… i pantaloni, e tiri lo sciacquone mentre stavi facendo salir su la lampo… cazzo, ci stavi rimettendo le palle per quella “leva” di push.
Ti sdrai sul divano, accendi questo televisore scassato di terza mano, vinto coi punti dei budini del market da succhiauccello che sei. Ti “sintonizzi” su una di buone cosce, basculante oscilla il “tuo” di zapping.
Sopravvivere è onanismo, è meglio, fidatevi, un bicchiere di sana cedrata. Da spalmar poi sulla tua cera e tenerla secca come ogni “pistolero” che sa la lunghezza… dei cavalli.
Pedali, che cazzo vuoi?
Io sono quel che sono, un fantino fottuto dalle pedine. E, in questa scacchiera ch’è la vita, va da buono al bue di me l’agnello di Dio che toglie i recinti di torn(i)o, in quanto me la suono di chitarrina del West e canto di country man.
Ora, devo “metter su” la lavatrice. Ci son un sacco di mutande che meritano una lavatura “coi fiocchi”. Qui piove anche di top(p)e bucate.
Finito il lavaggio, devo “ricucirmelo” di gran ago. Ahia, potrei infilarmelo.
L’infernale Quinlan
di Stefano Falotico
Touch of Evil
Demoniaco è il poliziotto ambiguo coperto dal tocco maligno della legalità al confine…
Il genio assoluto di Orson Welles furoreggia in questo turbolento, “calmissimo” e incendiante noir magnifico. Vetta iridescente e invincibile sotto l’egida fiammeggiante del “logo” della Universal, responsabile però di non pochi tagli e rimaneggiamenti, prima che questa monumentale, sesquipedale opera venisse restaurata nel suo antico, modernissimo fasto, grazie all’intraprendenza “amanuense” del carissimo Walter Murch.
Un’opera sconfinata, profetica, imbastita “solo” sul carisma mefistofelico del suo (non) protagonista, l’infernale capitano Quinlan, un Welles in doppie vesti “bifronti”, non solo da regista-attore su suo leggendario, mellifluo, inconfondibile stile sfrenatamente mastodontico di splendore barocco.
Celeberrimo il piano sequenza iniziale, una scena d’apertura vertiginosa, uno stupefacente, mirabolante lavoro minuzioso di perfezione formale mescolata raffinatamente al poderoso estro cineastico d’un Welles mai così ispirato, zenit furentissimo della prodigiosa virtuosità tecnica intersecata, a “chirurgia” visiva, nella cura certosina dei dettagli più “nascosti”. Simbiosi fra l’Hitchcock più sperimentale d’ottiche visive e appunto il nostro Orson illuminato, irrefrenabilmente immolato a superamento perfino della maestria stordente di Quarto Potere. Un’esagerata incursione d’avanguardia, che profuma di vivida materia cinematografica dal colore più limpido nel suo lancinante, parossistico, commovente, bellissimo talento liquido… Cinema nella sua luminescenza flagellante del puro incarnarsi ad apice inarrivabile.
La storia è “banale”, ma è Welles a plasmarla in qualcosa di così altissimamente affascinante, corrosivo, indimenticabile.
Un poliziotto messicano, Mike Vargas, è in luna di miele con la moglie. Entrambi assistono alla morte di un ricco imprenditore della zona, la cui macchina salta per aria. Vengono interrogati subito da Quinlan, “ispettore” che (non) la racconta giusta nemmeno all’imponenza autoritaria della sua maschera grottesca.
E la trama si tinge, repentina, di rosso vivido, emergono “delitti imperfetti” e qualcuno, la cui apparenza inganna, potrebbe essere la talpa, l’occhio che invero guarda…, rimesta nel torbido soffuso delle verità contraffate e (non) svelate.
Aleggia anche la spettrale, nerissima Tanya, dama-strega amante d’un personaggio oscuro, indefinibile… nell’apparizione memorabile d’una diafana, eterna Marlene Dietrich.
Come andrà a finire? Come “qualsiasi” altra storia di complotti e bugiarde macchinazioni…
Ma non è questo che conta, bensì la materia organica della struttura, una fitta rete gialla incardinata alla dinamica poliedrica della visione di Welles, creatore, possiamo dirlo, d’una rivoluzionaria concezione altra del noir.
La portentosa grandezza del genio… oltre le barriere temporali del Cinema, qui a noi ancora più avanti e da rivedere senza mai non stupirci del suo impressionante essere Welles, oltre.
Il cadavere di Dracula
Da ieri disponibile in KINDLE-AMAZON. Presto, molto presto, anche in cartaceo ed eBook.
Il mio castello s’erge trionfante e agghindato di foschie perenni, accucciato in una valle disperata, immalinconita all’erosione eterea della mia nobile decadenza notturna.
Mura sfavillanti di nera Luna impressa nel mesmerico profumo tenue e roccioso d’una pietra sacrale a perpetue folgori scagliate nell’antro di blasfema rinascenza…
Il mito di Dracula, attinto dal capostipite Bram Stoker e riletto in una versione sinuosa di liriche a glorificarne l’immortale Nosferatu. Creatura ancestrale, notturna, che al plenilunio danza coi lupi e con l’accorato romanticismo martoriato dalla morte della sua amatissima, mai dimenticata Mina.
Dracula, imprigionato nel suo sarcofago, resusciterà in auge dall’antichità mefistofelica del suo corpo congelato, asperso in senile torpore gracchiante, per librarsi in svettante e risorgente furore, veleggiante coi suoi scudieri servi, al fine di sbarcare a Londra e poter riabbracciare la reincarnata sua eterna Mina…
Un viaggio innanzitutto spirituale, una scandagliante esplorazione della sua anima, da un irredento, lungo sonno assopita nel buio del suo segreto eremo, per rifulgere solare o trafitto dall’insondabile balia dell’ingrato, maledetto, inestirpabile destino?
Buon compleanno Michael Mann
di Stefano Falotico
Della sua signorilità, ne son pieni gli oceani dei temerari che, veleggiando in sue dinamiche incendiarie, compreranno assolutamente, inderogabilmente il mio libro a lui dedicato, “Fracture, la Luna marmorea…”, disponibile in cartaceo per “accartocciarvi” nel mar fantasioso della mia poesia cinefila mesta, forse irrequieta, ai tempi d’ogni templare ardito in vene metalliche di carrozzeria oggi pesante domani (caval)leggera.
Leggere è un ordine futurista da non prender legger-mente, abbinato al Cinema distopico, di stroboscopie manniane. Manhunter, sei solo agente Vincet Hanna, mani in alto McCauley Neil! I suoi adepti respireranno l’aria salubre della “malasanità” in celluloide vivace, scoppiettante, fra dualità (a)nemiche ed ere contro i colletti bianchi, l’incarnazione rivoltante della squallida cera delle carnali e non sognanti cere.
C’era una volta… Sergio Leone, poi lo Zio Sam e quindi Friedkin. Poi, fu la (s)volta di Mann, che io congiungo a idolatria mai del suo Cinema sazia, in quanto saccente e schierato, a tambur battente, contro una famiglia di dementi, (tele)guidata da un padre, spacciatosi per giornalista e invero portantino dell’ANSA, oggi in patetica, flatulentissima e pantofolaia pensioncina, su scoregge a iosa della sua bor(i)a nazifascista da bolognese della malora, trapiantato con una moglie più loffia delle cicorie di Bari, eppur proveniente dalla Sicilia con limoni della sua secca frigidità. Ah ah!
Sì, io adoro Mann contro tal nucleo d’infelicità e ne son sfacciata, a “frontali” come i suoi inseguimenti mozzafiato, spericolatezza dell’essere “socialmente pericoloso” a inondarli di schegge in faccia, da merdosi che se le meritano di gran strombazzate.
Scabrosità falotica! Perché osanno Colin Farrell, conclamato erede di Don Johnson a inchiappettarli con sterzate feroci su ciuffo di gel alla cazzo di cane d’attore mediocre, dunque che buca lo schermo, che è da ficcante corridore in ogni vostro ipocrita corridoio. Ed è corrivo, sì, fottuto a sbattervelo al Gong (Li) da ultimo dei mohicani.
Michael Mann, battete le mani!
E spaccate culi e teste, anche di testacoda, di Heat!
Io sono un cyber!