“The Bag Man”, Synopsis, videogallery and Rebecca Da Costa!
Sull’argentata statua della stupenda Rebecca Da Costa, fascino esotico su gambe vertiginose in guaina letale da pantera dei sensi, ecco questo aka Motel, cioè The Bag Man definitivo.
Film che viene annunciato in uscita negli States il 28 Febbraio. E di cui presto, scommettiamoci, vedremo il primo trailer ufficiale.
Official, invece, sinossi… eh eh.
THE BAG MAN is a taut crime thriller that follows JACK (John Cusack), a tough guy with chronic bad luck but human touches, and legendary crime boss DRAGNA (Robert De Niro). DRAGNA has summoned JACK and a host of shady characters to a remote bayou motel for unknown reasons, and over the course of a long and violently eventful night, Jack’s path crosses with the stunningly beautiful RIVKA (Rebecca Da Costa). All of their fates intertwine, and when Dragna arrives on the scene there are sudden and extreme consequences for everyone involved.
Le prime foto mettono assai l’acquolina in bocca. Trucide inquadrature roventi, viranti spesso al rosso “paludoso”, alberi (s)morenti in verde horror, un film che profuma di noir–mistery con salsa splatter e una gran figa, appunto, (in)delebile, non amputabile.
Puttana! Whore da perderci la valigetta, il sonno e il posto letto. Con un posteriore di quel “bagagliaio”.
Quentin Tarantino: Stefano Falotico intervista Ilaria Mainardi in merito
Tarantino: lo conobbi a Capri durante una spaghettata con una mia vecchia fiamma di nome Fulmicotona. Mi alzai dal tavolo, avvistai Quentin e gli offrii un piatto di meloni affumicati, sfumandoli al tramonto dei faraglioni. Egli li spolpò di buon grado e m’illuminò sin all’alba. Giunto il mattino, scoreggiamo felici, incoraggiando Leonardo DiCaprio ad accettare Django. Sì, fui io a suggerire al nostro il bel Leo. Lo scorsi vicino agli scogli, tutto bello scottato. Ma non era bruciato nella salsedine tergente, bensì scosciante, con la sua modella, una colazione nutriente.
In realtà, questa è una stronzata devastante, come il Cinema di Quentin. Sembra all’apparenza un divertissement ma invece è postmoderno alla Frusciante.
Eh sì, sfogliando i suoi film, te la spassi sempre. Fra una barzelletta, un’inquadratura “al dente”, qualche spappolamento truculento, sanguinolenti scene di giusta e sacrosanta violenza, anche all’osso sacro, labiali di attori titanici e un Waltz più grande dell’aver scoperto Travolta ancora. Non so se in un insolito destino nell’azzurro mare d’Agosto come questo raccontino all’arrosto.
Da rivedere sempre. Contenti. Anche se talvolta muoiono nell’anima, come Jackie Brown. Di finale triste oppure trivellante alla Kill Bill. Di marziali anime. Mai al marzapane.
1) Non le sarò pleonastico, non mi piace ribadire Pulp Fiction. Lo diamo per assodato. Tenendo per buonissimo il primo colpo da regista, Le iene. Io sono un patito di Jackie Brown. Non mi vergogno a dire che è il suo capolavoro assoluto. Tu, diamoci del tu, cosa ne pensi?
2) Dovessi scegliere obbligatoriamente fra Bastardi e Django, quale scegli e perché?
3) Sono fra i pochi che considera A prova di morte meglio di Kill Bill. Tu?
1) Non credo sia il suo capolavoro assoluto – del resto lo stesso Tarantino affibbia la patente a un film successivo – ma trovo che, dopo gli exploit de Le Iene e Pulp Fiction, Jackie Brown sia stato ingiustamente marginalizzato. Forse è il caso, a dire il vero ennesimo, che conferma la massima “la storia nulla è, tutto sta come si porta” perché, all’interno di una trama tutto sommato convenzionale, Quentin riesce a ritagliare dei caratteri complessi e interessanti, apparentemente inseriti all’interno delle regole di genere, ma poi pronti a sgabbiare, quando meno te lo aspetti, grazie a una scrittura scoppiettante e mai banale.
2) Difficile, ma scelgo Django per una sola ragione, fondamentale: all’interno del topos tarantiniano della vendetta, Django riesce a trovare una leggerezza, riassunta nella battuta metacinematografica “I couldn’t resist” che dà avvio alla giostra finale, che probabilmente manca a Bastardi senza gloria, film che in ogni caso adoro. Cerco di spiegarmi meglio, di spiegare il valore altissimo di questi due lavori, frettolosamente bollati come divertissement o come calco di un genere che sappiamo essere caro a Quentin.
Se trattiamo il Cinema come uno specchio della Storia, non ne verrà fuori alcuna verità, perché il Cinema non è Storia, ma immaginazione della Storia, “falso” per statuto, appartenente a una dimensione altra. Il Cinema è caratterizzato da una natura ambivalente: da una parte si riferisce continuamente a se stesso, al proprio linguaggio, dall’altra è rivolto altrove, alla vicenda che narra come al periodo storico nel quale il dato film è stato realizzato. Ciò è stato chiaro, fin da subito, ai pionieri del Cinema, a partire dai fratelli Lumière (Cinema con valore testimoniale) o da Méliès (Cinema che crea un mondo artefatto). Dunque: come trattare un argomento che, se normalizzato, rischia di diventare banale, se lasciato a se stesso, vista la sua intrinseca e tragica indicibilità, rischia di essere metabolizzato in un disgraziato oblio storico? Sia In Bastardi senza gloria che in Django Unchained, Tarantino omaggia il Cinema come mezzo per cambiare la Storia che infatti viene completamente reinterpretata attraverso il suo sguardo.
Noi, pubblico, sappiamo che le cose non sono andate come Quentin ce le racconta, ma non è questo che rende questi film meno importanti o riusciti di quello che sono. Tarantino ci mette di fronte alla straordinaria complessità dell’essere umano, una complessità che potremmo definire shakespeariana per la sua natura mai scontata o rassicurante, sempre plurale.
I caratteri che delinea in sceneggiatura mettono lo spettatore in crisi, di fronte a dilemmi etici che non accettano soluzioni semplificate. Gli eroi hanno aspetti antieroici che non possiamo, in tutta onestà, trascurare, gli antieroi per eccellenza, d’altra parte, ci sembrano, non alieni da un altro pianeta, ma uomini (come noi?). E il cattivissimo generale delle SS, Hans Landa, suscita in noi un insieme inestricabile di fascino e repulsione, come Riccardo III, come Macbeth. E Django, schiavo liberato, eroe in potenza, in nome di un bene per lui più grande, fa sbranare un uomo dai cani…
Accanto a lui, una scrittura magistrale di caratteri, destinati a incidere a lungo: meraviglioso il Dottore che non mangia il dolce, cosa che invece faceva, sadicamente, il colonnello SS, interpretato dallo stesso interprete (e qui termina l’analogia). Si tratta di un uomo disilluso e malinconico, eppure romantico, fino al più tragico degli esiti. Schultz, un atto d’amore in scrittura, risulta quasi un demiurgo omodiegetico, fool quanto basta per vedere di più e meglio il proprio destino e per sacrificarsi in nome della Storia e del Cinema.
Bellissimo il personaggio di Samuel L. Jackson: un nero che ha interiorizzato il razzismo o che pure, come Storia ci insegna, ha semplicemente dimenticato se stesso e l’empatia/compassione per gli esseri umani in virtù dello scranno del potere, sul quale infatti si siede.
Interessante anche il personaggio di Di Caprio, un villain stupido e borioso che teorizza su una pratica frenologica che lo contraddice de visu (il servo, ben più scaltro, ne guida le azioni).
Il Cinema di Tarantino, in questi due ultimi lavori, ci pone dunque di fronte a dei quesiti fondanti: “che cosa posso fare io?” “che cosa avrei potuto fare e non ho fatto?”, “che cosa sono disposto a fare, a tollerare per qualcosa che bramo?” come uomo/donna, come intellettuale, come artista, sono quesiti che il Cinema ci pone e che non dobbiamo mai dimenticare. Il regista americano, con i propri mezzi e con il proprio personalissimo stile, si assume la responsabilità di raccontare una storia che tenti di reinterpretare la Storia, ma che non si esaurisca con essa. Perché la Storia è stata fatta da uomini, e noi che cosa siamo? In conclusione vale il verso di una celebre canzone di Francesco De Gregori, “la storia siamo noi, nessuno si senta escluso”. Ci rasserena certo sostenere che “noi siamo diversi”, che “a noi non poteva capitare”, ma si tratta di un alibi poco elaborato e fallace poiché intolleranza, razzismo, guerre ecc. appartengono al nostro tempo, ci coinvolgono e devono indurci necessariamente a fare delle scelte, a dire “io faccio”, non “voi avreste dovuto fare”.
3) Non lo considero migliore di Kill Bill e credo che sia una parentesi di puro divertimento per Tarantino, ma ritengo altresì che Kill Bill sia un film diseguale che funziona soprattutto come insieme di momenti folgoranti (un esempio: la scena del duello fra Uma Thurman e Lucy Liu, sulle note dei Santa Esmeralda), più che come un film (o due film) unitario.
Alì di Michael Mann
di Stefano Falotico
Le Ali della grandiosità
Volteggia un discusso eroe lungo gl’impolverati sentieri del suo destriero, coriaceo s’invola a mantello alato che striscia giocoso di mosse prelibate, inafferrabile sferra pugni secchi e roteanti, guascone “delicato” d’avanspettacolo, saltimbanco del ring ove umilia i miseri altri fighter per nutrirsene vivamente orgoglioso, cumulo di rabbia esplosiva che si arrampica nei suoi ventricoli, li amplia ed enfiato corrobora carnalmente la massa muscolare perfetta d’atletismo, elastico balletto che, danzando veloce, schiva i colpi e ne assesta di più ferini, attorcigliando la sua ieratica figura diabolica nel santo angelico d’una morsa vampiresca, bigger than life.
Il capolavoro più incompreso di Michael Mann abita in una zona pugilistica che va oltre, ben oltre i confini del Cinema di genere sportivo. Strizza la pelle di Cassius Marcellus Clay Jr. per immolarla alla sacra mitologia del più grande di tutti, fatto Muhammad Ali.
Cassius viene imbrigliato dalla stessa America che mai gli riconobbe in effetti i natali, perché era “negro”. Schiavo come tutti gli altri suoi consanguinei d’una alterità genetica mal vista alla base dall’irreprimibile culto sciovinista dell’ariano concepire l’uomo. I neri, ieri come oggi, nonostante il tanto buonista politically correct e Obama alla White House come risarcimento d’ogni Amistad mai davvero sigillato nell’urlo di libertà, sempre trattenuto in gola, smorzato dall’evidenza caudina dei fatti e delle psicologiche torture mascherate da leguleia “giustizia” etnica ché, se ti ribelli, t’interdiremo di ricatti, deturpando la tua “faccia” e macchiandola di più “colore”, i neri… non hanno mai trovato vero, urlato riscatto.
Tutte moine ruffiane per altro gelarli d’ipocrita asservimento, rispettoso come “ogni” cittadino comunque delle leggi “inappellabili”. Guai a mormorare.
Così, anche un campione di tal “razza” viene incastrato dal sistema bugiardo. E imprigionato per “diserzione”, una scusa banale per sottrargli il titolo.
Ed è qui, in questa fracture dolorosa da far paura, da ucciderti nelle membra del tuo decoro vitale, che Classius si “divinizza”, ascende oltre al decretarsi portabandiera dell’islamismo, prima ripudiato per “spirito di adattamento”, quindi elevato in gloria, estrema, “masochistica”, da disossarsi, da volontà spasmodica di non dichiararsi mai e poi mai vinto. Lo coprono d’offese, gli mangiano il Cuore ma più è dolente appunto l’umiliazione e più sputa il suo respiro, quasi cosmogonico per elevatezza valorosa, di brindarsi invincibile.
Così, dopo anni di “segregazione”, deturpazione alla sua anima, meschini “complotti” celati dietro qualche fascicolo “incriminante”, Muhammad ritorna a battersi.
Riunendo attorno alla sua figura il canto del cigno d’una intera massa di “indiani”.
Il prodigio registico di Michael Mann sta “solo” nell’aver fatto detonare il suo mito a eco selvaggio. Vi pare poco? Non è un film biopic, non un mero esercizio di stile sulla boxe, è.
Perché, quando incalza la musica, romba Rumble in the Jungle.
E lì non ce n’è per nessuno.
Ed è qui, nel Cinema strepitoso di Michael Mann, che Ali viene accentato di Alì.
(Stefano Falotico)
Io sono morto di Vera Q., leggetelo assolutamente, in modo inderogabile
Una recensione di Stefano Falotico
La storia a ritroso di un dead man già all’obitorio
Fabbris è morto, uno spettro rancoroso che ha già valicato la sogli(ol)a dell’aldilà e, allucinato, in preda al panico della zona senza ritorno, serpeggia in un aleggiante incubo rosso sangue, vivo come non mai, di terminali neuronali che lo schiacciano in un’umanità quasi da Innominato nel suo Terzo Grado del confessionale-“postribolo” dei suoi peccati dell’essere-not being stato.
Così, accerchiato dalle divinità più disparate, vaneggia in farneticazioni “ultraterrene” coi piedi però ben piantati a terra, urlando nella propria anima da irredento che non vuole, non vuole proprio redimersi. Sfugge agli orrori del suo passato obbrobrioso, colmo di scheletri nell’armadio, “afferra” per le tenaglie del suo cuore inacidito e ancor di più adirato i parenti e ogni nemico, accusandoli di alto tradimento e viltà. Specchiandosi forse da fantasma, uno spaventapasseri evanescente che prova a esorcizzare la sacrosanta, (in)giusta sua morte. E s’indemonia di spaventosa rabbia.
Ma il finale non vi svelerò.
Vera Q. è una scrittrice che sa dosare la prosa più arzigogolata e fantasiosa a virtuosi segmenti fortemente satirici, è secca ma miscela le parole con parole “acustiche”, che sì risuonano permeate d’un gusto “macabro” dell’ironia più perfida e sottile. A dissacrare la nostra misera umanità, denudandola per quel ch’è invero, nuda, cadaverica, emaciata e flatulente, putrida e gemente solo patetici lamenti, qui incarnati nella “voce” tetra, pallida e glaciale del (non) silenzioso Fabbris, tutto ciò che ogni medio borghese sicuramente è ma finge di vivere… quello che è nel siete, siamo, essi vivono…?
E, in tale spettrale lungo racconto, quasi tutto scandito briosamente in prima persona narrante, infarcito di dialoghi esplosivi che sbalzano raffinati e goliardici da citazioni horror a personaggi neri viranti al “cremoso-tenero”, oltre allo stesso Lucifero “in persona”, appaiono “comparsate” diaboliche nella lor ingenua cattiveria cinica e impietosa, e vanitosi “cammei” di personaggi buffi ma spietati da ricordarci quello che potrebbe essere uno spassoso Devil’s Advocate in vesti davvero funerarie, “cimiteriale” e Tim burtoniana la nostra Vera è verissima.
Coniuga l’umorismo dark al comico “allegro vitale”, donando al suo libro un ritmo irresistibile, ammonendoci in tal odioso Fabbris “demonizzato”, all’ammoniaca slavato d’ogni onta colpevolissima e bianco-cera.
Che penna.
E tutto assume un tono soave di mesto cordoglio.
Che colpo.
Tic toc, toc toc, forse Charles Dickens e “Christmas Carol…” ambientato, in modo originale di tempi nostri?
Fabbris e la sua già macchina ad orologeria.
Cinema eyes wide shut
di Stefano Falotico
Il Cinema è sguardo, levigato struggersi per ammirazione sconfinante a mirar le alte vette anche nevralgiche o ipocondriache, i monti e le valli brune, l’orgoglio invaghente…
… in cui ampli la mente, di iodio acquatico spumeggi solforico, congestionato dai valori sibillini dell’acustica emozionale, spadroneggiando nella lindezza assoluta, l’infinita bramosia degli occhi nudi, veleggianti in briose languidezze oggi briose e domani dai colori opachi o nel brillar d’indaco mansueto.
Terrence Malick e il suo essere… incompreso.
Di come “risfoglio” un vecchio VHS del National Geographic, intitolato “La Costa degli Scheletri”, di come Terrence è amore per la natura in donarle intonazioni smaglianti, fra abissi d’immagini si perde fragoroso nei cuori a divorazione dello squarciarci di bellezza. Di come intesse fotogrammi come “relitti di nave” nel Tempo maiuscolo.
Questo è Cinema.
Stanley Kubrick e come volteggia appassionandoci nei mille e più orizzonti delle notti odisseiche, luccicanti o eyes wide shut e c’innerva d’emozioni vere anche quando sempre romanza qualche nuova novella di genial reinventarla.
Questo è Cinema.
Fumacchiare avidamente una sigaretta “permalosa” che ammicca birichina le cosce della barista, sporca non so di “cosa” su grembiulino bianco come la Prima Comunione.
Addentare un trancio dolcificante di pizza croccante, affondare i canini nella mozzarella appena lievitata e calda come le mammelle d’un seno schiumoso, latteo e glorioso, pregustando il dessert di forchetta ficcante.
Anche questo è Cinema.
Perché i sogni sono la vita, senza sogni non c’è neanche la (s)figa.
Così è, così è deciso.
Ora, sparecchiate. Aspetto il caffè.
Cinema è un mesto sparviero che, all’ombra serale del suo ultimo sombrero, fa le somme degli idioti che gironzolano, ribaldi e già macchiati da tante oscure onte, nel mantello del mattino, succhiando i pollici su della scalza “felicità” che a me par oscenità, vivandiera come una nubile ma racchia cameriera, buona a servire i piatti freddi del suo riscaldarsi nel cuscinetto dell’alibi, sognando albe che le sian allietanti, (s)tira a campare, con un Campari offerto in bar di campagna. Ma camp(an)erà? Din don dan, la vedo sempre più trombata, ah, rintronati. Le capre invecchiano, suonan le campa(gnol)e. Chi mi ha rubato la pantofola?
Idiota è un “forestiero” della sua esistenza che disserta d’arte, e qui si (ar)rende minuscolo, distraendosi illuso di farla nel chiacchierare, vestito di tutto punto e intonazioni di virgole e “a capo” finto-intellettuali, in un parco con le oche, sia bipede suo che quadrupede del mai sfogliarla… a quadrifoglio.
Idiota è la coscienza di chi si crede adulto in base alle proprie esperienze ed elargisce quei consigli supponenti, da me tanto odiati, utili soltanto alla sua pancia, alla (sup)posta e all’acquiescenza dell’innovazione delle anime personali.
Cinema è rinnovamento, in quanto cammina, cambia, muta (f)orma, domani è un altro giorno.
Adesso, assumo una pillola, accendo la pila qui al buio, non possiedo neanche una lampada, leggerò un buon libro ché già lessi(co), è ora di andar a letto, si è fatto tardi, non si farà neanche fra cent’anni, la mia stella brilla a Oriente nel mai levante e levar le palle dalla vostre ancore. Oh, forza e “coraggio”, guarda che sorriso mio “raggiante”.
E questa malinconia è criminosa? Tu la giudichi così perché, non combattendo, ai tedi ti sei (s)teso vi(va)ce alla vita pomiciante, io qui balzo triste e pensato come stanco. Ma sempre in piedi. Sono un podista e non amo i primi podi.
Non sono un santo.
Adesso, scopo.
A quali scopi?
“American Hustle”, Review
L’arte di arrangiarsi, rubare per sopravvivere e (non) reinventarsi
Giochi pericolosi di attrazione, il fascino del potere che ammalia chiunque, il fragore dell’inganno svel(a)to…
Presentazione dei veri personaggi
Non c’è mai due senza tre, senza il quarto (in)comodo e il quinto (dis)onesto, come nel Poker
Christian Bale/Irving Rosenfeld, un’esistenza a combattere il f(r)egato da rinsaldare nel prestasoldi, il riscossore delle (sue) tasse, del debito di gioco alle vite sperperate, il gaglioffo ingegnoso con pancetta da commendatore tronfio della nullità “sicura” di sé, l’impavido amatore senza s-prezzo del pericolo, l’allibratore numero uno a un’esistenza condannata da quando nacque, la personificazione “paciosa” del Male più “scaltro”, la furbizia dissimulata in un riporto formato toupet per nobilitare un po’, come può e vorrebbe ma non posso, il turpe imbroglione “elegante” che invero è, colui che elargisce, su misura del cavallo large, i prestiti a chi prende in giro, il prestanome della sua “buffa” e sempre celata identità sporca, bisunta e gocciolante laida avarizia. Grassoccio, però curato, sgargiante con risatina sotto i baffi… da pagliaccio.
Chiunque navighi in cattive acque ha dinanzi a sé un abisso di disperazione ed è lì ad aspettarli… con falsi “assegni”. Per altra sua apparenza che (non) inganna, da abito (non) fa il mon(a)co e neanche una (in)credibile (s)b(i)anca(ta).
Christian Bale è perfetto, perché con questo look assomiglia ancor più a Pinocchio, un bambinone mai cresciuto che mente, quasi non lo fa apposta, e s’invaghisce della sua fantasia “migliore”, quindi peggiore, la donna diversa e in gamba, la statuaria Amy Adams, anche lei Fata Turchina dalla doppia personalità seduttiva ammantata, in (ca)muffa, da strepitose gambe.
Entrambi cercano lo sgambetto per virar dalla vita retta, da (non) dritti, quelli che si dicono i bari, i gambler.
Così, l’attrazione è “sfavillio”, scintilla nel colpo di fulmine per innescare la bomba, non solo sexy ma corrosiva e corrompente, d’una magnetica relazione d’amore e… d’affari. In-fedeltà appaiata al tradimento, alla fedina penale impulita, da impuniti…
E così i fedifraghi della “bella” società si sculacciano a colpi di “culo”. Schiaffeggiano l’onestà morale dei disperati nel so(li)do popò della “bontà” finta della Adams.
Una reputazione, come si suol di “soldi” dire, “adamantina”.
Ah, tutto per lei, amata, (o)dorata Amy…
Amy Adams/Sydney Prosser, esibente vertiginose scollature finissime, soprattutto languide a carezzarti di sobrietà recitativa, delicata come l’imbrunire armonico di dolce beltà, iridi mansueti che, di malizia (im)pudica, occhieggiano corteggiatrici nel concupire il tuo cauto uomo da riscaldare, furba volpe fulva dagli ustionanti ricci dei suoi capelli pruriginosi, lisci come le s(i)e(s)te oniriche delle più segrete e intime da “timida”, forse veniali o no capitali…, svettantissima in sbranarti su pelle di porcellana fresca e attizzante…
Per quello che ho potuto vedere, tutti s’imbrogliano a vicenda per ottenere quello che vogliono. Imbrogliamo anche noi stessi, ci convinciamo di cose… abbelliamo cose di cui non abbiamo bisogno e che non vorremmo pur di farcele piacere. E non consideriamo il rischio, non consideriamo la considerevole verità. Pensateci bene… stiamo tutti imbrogliando noi stessi in un modo o nell’altro solo per poter tirare avanti.
Jennifer Lawrence/Rosalyn Rosenfeld, maniacale, malata di mente, “pazza”, isterica, litigarella, depressa a fasi alterne, social fobica, ansietà (s)fatta dorata sensualità, manipolatrice, mangiauomini (in)felice, irredente e che ride sguaiatamente da favolosa sgualdrina, ricattatrice, in una parola irresistibile.
Il karma per come Bale si approfitta delle persone, la “bimba” ragazza madre che mette l’amore su bocca di rosa… da gran b(i)on(d)a.
Be’, un trietto che si truffa di tu dai a me e io do a te, ma la losca e “liscia” transazione cozza contro Richie DiMaso, agente dell’FBI, che a sua volta li (ri)scopre, prende “in ostaggio”, per tre giorni… li distanzia l’uno dall’altro e li ricatta, anzi li ritrae di segnaletico identikit, poi li ritratta di “ripescaggio” da chi, anche lui di (s)porco giochetto, li va a “raccattare” per far sì che si attacchi un pezzo mancante… anzi quattro arresti di (falsa-r-e-i) testimonianza.
E solo perché anche al nostro Amy Adams piace… tutto per quella…
A far da perno, il “pollo” politico sindaco Jeremy Renner/Carmine Polito, un altro davvero… “pulito”.
Stavolta, vi devo dire la verità.
In questo Mondo di apparenze, di luccichii ammalianti ma peccaminosi, di tentazioni che difficilmente resisterete, esiste una sola vi(s)ta, e quella non la inganni mai, neanche se vorresti venderti ma dentro non puoi tradirti. A vederla soltanto in bianco e nero, devi calcolare non solo la (de)costruita “bianchezza” ma anche il pozzo precipitevole tuo nella pozza di più truffaldina nerezza. Su questo non ci piove, puoi provarci ma poi, se imbrogli, t’imbrigli da sol(d)o, facile no? E affoghi. Fioca fioca va la tanto (l)ambita fiammella da bruciarti presto di quanto (non) te l’aspettavi. Chi la fa, in una piscina di denaro si tuffa, di rubar mai si stufa ma verrà “stantuffato”. Plof.
Ecco, penso che chi rispetta i patti chiari per le amicizie lunghe, non di “gambe” allungate ma “corte” di bugie e finto bijou, sia costretto alla solitudine o, ben che gli vada, a contemplare le lunghe notti della condizione umana, seduto vicino a un camino con pochi amici ma buoni, forse troppo buoni, quindi “sfigati”, e forse con una sola donna.
Il resto si fotta e, prima o poi, se da malfattore fotti, sei fottuto. Sappilo. Non puoi durare a (s)fottere.
Be’, ragazzi, so una cosa. Scommetteteci, è vera come sono (non) ve(t)ro io. Non mi rompo ma credo che la vita sia davvero come questo grande film.
Gli attori? Se non sono bravi, fingono male. E tanto avanti non vinceranno mica tanto.
E qui recitano benissimo la parte. Se la reggono per oltre due ore, fra (s)cambi anche di partner. Insomma, quel che si dice un ottimo parterre.
Cioè, chi parte col piede giusto difficilmente sbaglia… anche la battuta. Chi sbaglia di falsa partenza, riceverà la botta(na).
David O. Russell? Venditore anche lui d’aria fritta? Sì, può darsi, ah fa tutto per i “danari” e invece non puro Cinema dà? E che deve dare? Il “reale” caso Abscam?
Per quello ci son tanti migliori documentari, se volete solo i fatti della “realtà”. A me piace la sua invece regale cifra stilistica, come anch’egli cambia le carte in tavola, diciamo che adoro i cineasti che non si limitano alla trama. Fanno della “finzione” un modus operandi di perfetto intaglio. Come i gioiellieri più raffinati, gli chef che mescolano saporitamente gli ingredienti.
Il film racconta cose… di cui già sappiamo, ma è la maniera, non manieristica, nonostante gli omaggi a Scorsese, di come (la) si (rac)conta quel che è il conto finale.
Allora, se ad Abscam coniughi vorticosi giri di videocamere, attori da Actor’s Studio e un cameo memorabile di De Niro/Victor Tellegio, il quasi capolavoro è servito.
Il resto potrebbe essere un imbroglio.
Ma a me (non) frega in fin del racconto. E dei “conti”.
Sì, al conte ho sempre preferito il principe.
Anche se Dracula è entrambi.
E, su quest’hustle, detta anche bullshit, vi lascio con un palmo di naso e di parrucchino.
A forza di annusare e abbuffarvi, siete davvero buffi, e mi nauseate.
Sono inusitato? Permette un desueto desinare, mia damigella?
Come, mi ha preso solo per un ciuffo di “uccello?”.
Ma che “morsi”, ops scusate modi sono questi?
Ma manca però lo “scemo” del vi(ll)aggio. Lo sceicco? Sì, e (non) è uno sciocco…
Che c’interessa?
Ancora una volta O. Russell continua nel suo Cinema fuori da ogni muralismo e sorprende con un finale straordinario, (non) assolutorio.
Perché l’arte di sopravvivere è un’avventura che non finisce mai…
Ciao.