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Stefano Falotico intervista Federico Frusciante in merito a Martin Scorsese

Che cazzo facciamo? Le cenine?

Che cazzo facciamo?
Le cenine?

 

1) Martin Scorsese. Quale dei film dei suoi ultimi anni hai apprezzato di più e su quali/e hai delle riserve?

Degli ultimi 15 anni, direi… Al di là della vita, Shutter Island, Hugo Cabret. Qualche riserva per The Aviator.

2) Da anni Scorsese sogna di girare Silence, un film religioso ambientato nel Giappone medioevale del diciassettesimo secolo. Probabilmente, riuscirà a concretizzare il suo sogno la prossima Estate. Che tipo di opera ti augureresti? Come L’ultima tentazione? Provocatoria?

Spero che valga anche solo la metà del capolavoro da te citato… ma con Scorsese butta sempre bene.

3) Da anni, si parla anche di un grande progetto biopic su Sinatra. Lo sapevi che anni fa, a poco dal primo ciak, saltò in aria il film Dino, biografia invece su Dean Martin col cast già assoldato e pronto? Tom Hanks/Martin, Travolta/Sinatra, Jim Carrey/Jerry Lewis. Ti sarebbe piaciuto vedere questo film che, invece, mai vedremo?

Scorsese per me vale sempre la pena e ogni suo progetto non andato in porto è un male per il Cinema.

4) Nella parte del Butcher, doveva esserci De Niro. Ma si ritirò all’ultimo per problemi legali con la ex moglie, che poi ha sposato di nuovo. Come avresti visto Bob al posto di Daniel Day-Lewis?

Male. DDL è un attore perfetto per la parte, De Niro avrebbe avuto la solita faccia inutile degli ultimi 10 anni.

5) Per finire proprio con De Niro. Dopo Silence, Scorsese ha finalmente dichiarato che girerà The Irishman. De Niro nei panni di Frank Sheeran, a quanto pare uno dei mandanti dell’omicidio Kennedy e di Jimmy Hoffa, che sarà Pacino. Credi che, per l’ultima collaborazione, Scorsese e De Niro ci regaleranno la coppia d’oro che fu o, appunto, De Niro è oramai “rincoglionito?”.

De Niro non è rincoglionito, è senza stimoli secondo me. Fa di tutto, quando dovrebbe accettare ruoli più interessanti ed evitare merda, ma quest’ultimo progetto sembra ben promettere.

 

Stefano Falotico intervista Federico Frusciante in merito a Stanley Kubrick

 

Scrivendo, impazzendo, interrogando da demiurghi

Scrivendo, impazzendo, interrogando da demiurghi

 

1) Il tuo film preferito? Non rispondermi “Sono tutti capolavori”. Ti chiedo quello del Cuore.

2001 e Stranamore li adoro fino alla follia.

Shining

2) In Arancia… non assistiamo alla scena dello stupro così come in Shining il sangue è davvero poco rispetto a quello che (non) potevamo aspettarci, ma il terrore nasce dall’inconscio. Dalla “Cura Ludovico” di Stanley che ci apre gli occhi, eyes wide shut. Concordi? Quali aggettivi ti saltan in mente (dimmene tre senza pensarci troppo) appena evochi la nomea dell’immenso Kubrick?

Precisione, freddezza. Come sostantivo: forza.

Shining 2

3) Secondo me, il “peggior” film di Kubrick è Full Metal Jacket e non Spartacus. Non ti spiego perché, anzi sì. Full è “calcolato”, Spartacus è parzialmente “sbagliato”. Quindi, fra i due (im)perfetti, opto per quello che sbaglia di più, di meno. Tu quale metti in “ultima” posizione, se dovessi fare una classifica (im)possibile?

Eyes Wide Shut

4) Bando alle ciance. Credo che Cronenberg si creda migliore di Kubrick. Non l’ammetterà mai ma è così, secondo me. Secondo te, invece?

Credo che Cronenberg si ritenga migliore come regista horror e non posso che dargli ragione , ma Shining rimane un capolavoro.

5) Secondo me, Jack “Torrance” Nicholson è già pazzo prima di “diventarlo”.
La tua “visione”, o versione, invece?

Questa è una delle cose tra virgolette criticabili del filmone di Kubrick, ovvero il fatto che non esista cambiamento nel personaggio di Jack che è già folle sin dalle prime inquadrature. Ma lui è sempre stato lì per Kubrick, no?

 

SHINING

 

 

“Grudge Match” Premiere, De Niro & Stallone

De Niro perché porta il cappello? Perché, attualmente, è pelato per esigenze di copione.
Sta infatti interpretando la parte di Ray Arcel in Hands of Stone, questa volta nei panni di tal allenatore storico.
Vedi, alle volte? E la Basinger è un maschiaccio.

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“Caccia spietata”, recensione

Ti ho trovato

Ti ho trovato

 

Never turn your back on the past


Uno slogan a promuovere un intero grande film incompreso. D’una “banalità” stupefacente eppure non c’è altro da aggiungere. Funziona diretto e secco come questa regia di David Von Ancken.
Presentato al Toronto Film Festival, inspiegabilmente mal distribuito qui da noi, è un’opera di tale eccentricità “balorda” da far sì che io, eletta stramberia incarnata nell’impersonare tal “vizio”, non potessi sfuggire al suo fascino “roccioso”, grezzo e tanto altamente sofisticato, di scuola pregiata e sottilissima, per l’eternità esser invaghito sobriamente di esso. Incatenato!
Diretto con maestria “spaventevole” per bravura tecnica, tempi perfetti su sincronizzati due volti “intagliati” nella pietra dei duri, Neeson e Brosnan, è un film costruito sul “nulla”. Una storia proprio di vendetta dalla trama tanto semplice da toccar livelli d’un parossismo acuminato in bellissimo frangermi dentro le sfumate increspature color crepuscolare del Cinema rovente, denso, forse oggi scalfito dalle “modernità” plastificanti. Appiattenti anche laddove basterebbe, come in questo splendido caso, solo “girare” e fluttuare liquidi di frame tra i falchi delle montagne. Dando fiato al “coraggio” della celluloide, impressionando i fotogrammi nelle immagini di paesaggi mozzafiato inquadrati con scaldanti filtri a bruciarci l’anima d’emozione fervida.

La vendetta arriva per chi sa aspettare…

Anche in questa tagline, nulla di nuovo sotto il Sole. Solita “sciocchezza” della revenge da servi fredda, nella calma diabolica. Invece, i raggi solari schiamazzano tensivi in lune d’enorme attrazione ipnotica, suadenti a elevar sonanti nostre liriche da licantropi agguerriti.
Sì, il regista, un “uomo venuto dal nulla”, ci regala il John Hillcoat che abbiamo sempre sognato e che forse mai sarà. Un western poetico come pochi, ma davvero profumato di ruggine e pura road… centrifugata nella “clessidra” della rabbia, di entrambi i contendenti a contundersi, consuma(n)ti a lubrificarsi un po’ di armonia e poi, di scatto, a fuggire, inseguire o essere inseguiti, più che dall’ombra del nemico, dal tormento metafisico. Dal demone del passato tornante, “orrendo”, a squamarti dentro, a farti urlar di gelo e paura nelle notti scure delle foreste in cui ti rifugi nell’estemporanea requie. Illusoria, come il canto “sirenesco” dei wolf, come un rocker triste che piange e ride nel virtuoso suo “catarro” su chitarra bluastra d’illividita limpidezza sgolante, inferocita in rugiade mansuete, linde e dolorose. Dell’esistenzialismo oltre le regioni confinanti dell’anima stanca. Qui, si combatte, le palpebre si stan chiudendo ma si apron d’incanto. E si feriscono. Le gambe crollano e vien scandita la battaglia che, anche se arranca per la bandiera bianca del predato già quasi abbrancato, si risveglia sempre incazzata e brada. Anime selvatiche.
Siamo nelle dirupi di Ruby Mountains, i lupi ululano, i cuori duellano e i coltelli sposano i fucili di arsioni all’amore, rubato, inganna(n)ti “per la pelle” a scannarsi per “stupidi” orgogli da uomini.
Siamo in “zona” guerra civile. Un sudista ce l’ha con un nordista. E, sino alla fine, non capiremo perché. Solo qualche “illuminante”, non tanto, flashback, qualche apparizione tra urla e fiamme.
Non voglio svelarvi chi (non) vincerà in questa fascinosissima sfida.
So solo che la fotografia, immortale, stupenda, è del grande John Toll. Direttamente dal suo amico Malick.
E il cameo di Anjelica Huston dice tutto.
Due interpretazioni titaniche su cui la spunta Brosnan “per un pelo”, nella sua prova migliore di sempre. Ma Neeson rivaleggia comunque di Liam chiaro come un miraggio sorseggiato nel deserto arido e fresco. Un Liam tosto, sgorgante.
Il titolo originale, poi, Seraphim Falls, oh mie cascate, vale già il prezzo forte.
Ora, stacca il biglietto e bacia il devil.
Qui c’è poesia, ragazzi. Cazzo.

(Stefano Falotico)

 

Seraphim Falls

 

Taxi Driver, chirurgia del dolore

Sangue martire contro i marci

Sangue martire contro i marci

di Stefano Falotico

 

La visione “religiosa”, stroboscopica e innatistica di Travis Bickle

Labile corrosione nel corpo cristologico di Travis. Martirio in “pietra” d’uno scheletro a(r)mato in sé “pietistico” quanto poi a incendiarlo impietoso, autoreferenzialità che ingloba ossigeno agonizzante, si “carbonizza” a calvari suoi stessi trasformistici, senza valvole di sfogo, ecco che scoppia il “mostro” creato dalle falsità. Tra un Mondo frastornante che segue logiche “savie” ma in realtà sbagliate e dunque virtualmente sempre nel mentirsi dietro parametri effimeri, in un Mondo già (e)stinto ove impera il bieco ed egoistico solipsismo erroneo, cupo, sordo e orrido, culminerà la sua “tragedia annunciata”. Oh oh, Travis nostro errantissimo. Zigomi d’un taglio e recisioni corporee d’un invero ectoplasma marmoreo. Scultura “plastica”, ad appannaggio di lui stesso “appannato”. Vibrante in virar acuto ad “ago” nelle vertebre dei folli. Come un volante che ruota “ispido”, sospeso nella suspense parossistica traballante, di “colore rasoio” colante fra il Peccato, da cui tutti i credenti ma anche gli agnostici provengono in tal “atea” società, in apnea, di spettri penosi corroboratisi negli alveari del miele fake, tra le aggroviglianti emozioni superficiali e della filigrana che ha perduto non solo la propria anima… ma soprattutto delittuosa nel “crimine” silenzioso del tacere l’animismo sincero alla base d’ogni spirituale elevazione.

Lui che si “orgasmizza” è invero proprio la veritas profonda in mezzo agli schi(ama)zzi frivoli, alle risate del coccodè di massa, dal pollaio se n’estrae e lotta una guerra già vinta perché “vittoria” di oscurarsi nel Buster Keaton privo di “vita” all’apparenza, quindi il suo simbiotico “cattivo” al contrario di tutto e tutti. Un “comico”, un buffone lontano però dalle corti e dai nasi con le gambe corte. Trasparente, si mostra “mostruoso” per quello ch’è. E non scende a compromessi.

L’estrema urgenza di non star mai fermo, di cambiare perennemente, d’evolversi a battito cardiaco del “getto continuo” sanguigno. Vitrea opacità del collettivo, terrificante rapimento. Di quello che vediamo ma non vediamo, è come se tutti sappiamo ma lui ha il coraggio, anche patetico o senza senso, “scellerato”, di denudare in una “finale” esibizione che, per paradosso e proprio colmo di ribaltamenti “reali”, diviene il gesto sacrificale d’un “eroe” contro la sua (non) volontà.

L’incoscienza di Travis e del suo (in)compreso senziente.

Una perla, Taxi Driver, che ancora sconcerta a distanza d’oltre… un trentennio. Apocalisse di rumori, anche nostri, di fondo, chiarezza lapalissiana del pasto nudo sociale e “luculliano”, ove tutti i lupi mangiano e proprio l’agnello assurge a wolf underground, sotterraneo, eppur presente. Anche troppo. Da brividi a pelle.

Fa male, (si) sente…

Fra ilarità violente, irrispettose e scevre di “Vergine”, Travis “impazzisce” per reazione “sospetta”, per “gastroscopie” al suo ventre che non più sopporta.

Ed esplode.

Non sense. Forse sì. In sen(s)o alla vita delle rincorse, (ri)corrente contromano.

 

Avanti, dici a me?

Avanti, dici a me?

 

Casinò

Casino Scorsese De Niro

di Stefano Falotico

Una magnifica perla che si rinnova a ogni visione…

Illuminandoci ad acuto splendore d’un Martin Scorsese violento, incantevole nei sublimi strazi di una tragedia annunciata, così come l’incipit esplode già nel melò a “bruciapelo”

Dopo il logo fiammante della Universal, “targato” 1995 d’antico nostro evocarci quanto lucenti abbagliavano perfino i naïf marchi delle “superate” major, una zoomata lentissima all’indietro che (a)dora un De Niro in giacca e cravatta sgargianti su impeccabile camminata sua celeberrima. Imponenza attoriale d’immediata presa scenica su gambe “sbilenche”, inguainate in pantaloni aderentissimi di velluto. Pochi passi scanditi dalla sua voce narrante (nel nostro doppiaggio resa in modo perfettamente “roco” da un perfetto Gigi Proietti sfumato, densa subito di malinconico squillarci nell’anima e “bruciarla” di limpidità “peccaminosa”), che c’annuncia quanto (non) vedremo d’allora in poi in un “finto” gangster movie di proporzioni shakespeariane. Ascesa dal nulla di Sam Ace Rothstein e, dall’esplosione in medias res con improvvisi, sfavillanti e al neo(n) titoli di testa di Elaine e Saul Bass, un viaggio dentro Las Vegas, centro nevralgico d’ogni sognatore “ingenuo” che sarà lapidariamente fregato. Fottuto, per dirla come s’esprime il nostro Joe Pesci, a sua volta fulcro centrale su cui un immenso Martin Scorsese fa ruotare i destini di tre “viscidi” scalatori sociali che calcolano tutto d’ambizioni sfrenate ma scordano proprio il nervo vitale della loro esistenza, l’anima.

Dimenticando l’anima, che han venduto al Diavolo, riceveranno in sorte prima l’inganno camuffato dalla ricchezza dei fruscianti soldi e poi, in tragica “serpentina” d’errore enorme, chi la morte atroce e chi, come Sam (spoiler), la sconfinata, inestirpabile e più funeraria amarezza.

La fine di ogni sogno.

Il tanto decantato, attraente, ipnotico e suadente American Dream s’è schiantato di ferocia abissale quanto così veloce salì le “scale”.

Ecco che Martin, dopo aver fatto saltare in aria la macchina lussuosa di Sam/De Niro e dopo gli avvolgenti, enigmatici, “tenebrosi” quanto folgoranti titoli di testa, piazza subito la storia dentro la cornice del 1983. Poco prima che la lancetta dell’orologio decreterà l’ultima, “estrema unzione”, di tre vite che hanno superato ogni confine, per avidità, voglia matta di diventare qualcuno, per aver corrotto la propria integrità morale nel barattarla con lo stesso rischio azzardatissimo su cui loro hanno scommesso, rubando “di nascosto” ai già falsi giocatori (dis)illusi.

Ecco che, all’improvviso, dopo la sibillina detonazione, Martin fa saltar il “pallino” della voce narrante al balzo (a)temporale di quella di Pesci/Santoro. Un mafiosetto di mezza tacca, ammanicato di qua e di là ma senza un piazzamento preciso, soprattutto tanto paranoico, impulsivo e testardo da mettersi inevitabilmente nei guai, trascinando con sé il suo “inseparabile” amico d’infanzia, Sam appunto, e una stratosferica, gran figa Sharon Stone. Bravissima “regina” che ammalia come una strega sua vita a imbruttire nel precipizio della fornace “divina”, la trinità di alcol, sesso e droga dalla quale s’era sganciata, approdando nelle braccia di Sam ma, nella cui stessa avviluppante spirale, “crollerà”.

Un ottimo allibratore che non sbaglia mai un colpo viene notato da qualche “capo” di Kansas City. Così, di “buoni” accordi “legali”, gli “recapitano” la gestione di uno dei più importanti casinò di Las Vegas, lo statuario, “brillante” Tangiers.

Questo allibratore è Sam, il “perfetto” Rothstein. Sam ci sa fare fin da subito. “Regola i conti” a modo suo, con acutezza via via maggiormente sorprendente, coi suoi “metodi”, tanto concisi quanto a muso duro se qualche truffatore pensa di scappare col malloppo estorto in modo baro ma inconsapevole che Sam, le sue videocamere color occhi a cui non sfugge niente e i suoi “bravi” scagnozzi, gli ha(n) già teso la trappola mortuaria. Se freghi, Sam ti vede, anzi (ti) ha già (pre)visto tutto. Chi vince grosse cifre a Las Vegas è sempre, a detta del nostro, uno che l’ha fatta sporca e non può quindi svignarsela di tutta franc(hezz)a.

Sam è un perfezionista, un calibratore d’ogni mossa tua vincente, dunque subitaneamente da perdente se ti va bene, da morto ammazzato se pensi di fuggir via da “vivente”.

Sam s’innamora però (classico colpo di fulmine “irrazionale”, ed è il primo delitto ai suoi raziocinanti calcoli…) di Ginger, prostituta-ballerina incarnata nella gran “falcata” strepitosa d’una Sharon Stone da Oscar. Addirittura, la convince a sposarlo. Promettendole, per l’eternità, una vita da favola paradisiaca. Ginger ci sta, ma è innamorata, non si sa perché, di un figlio di puttana come pochi, un fallito scarto di nome Lester Diamond, la versione ancora più spettrale del James Woods di C’era una volta in America, il suo fantasma forse mai “morto” e “riciclato” da un geniale Scorsese di casting beffardo. Di puro metacinema al di là d’ogni immaginazione.

Una miscela esplosiva, ecco che cos’è questo capolavoro assoluto. Tre protagonisti più un quarto incomodo (il poker), si mescolano poi le voci fuori campo di De Niro e Pesci, l’intreccio c’abbacina e stordisce, il congegno batte il tic tac per la fine che non può essere altra. Non c’interessa sapere come andrà a finire. Sappiamo già, in effetti, che in una maniera o nell’altra andrà malissimo per tutti quanti. Ed è in questo che consiste la magia di Scorsese. Riesce ad appassionarci a una storia vista mille volte ma mai raccontata così. Poi, i protagonisti a chi non starebbero antipatici? Eppure c’emozionano. Perché tanto umani. Altro ribaltamento di prospettive empatiche. Non “tifiamo” per nessuno, anzi, desideriamo in cuor nostro che crepino, proprio “trivellati” dalla sciagura che puoi augurare al tuo peggiore e “odioso” nemico.

Eppure Scorsese ce li “attacca” addosso, il flusso d’immagini è magnetico, apparentemente nulla di nuovo (infatti, in molti lo paragonarono a Goodfellas, dunque copia-“carbone” di “uguale” Martin stesso, che superficialità!), ma è quello che sappiamo di “vedere”, non sapendo come lo vedremo, a meravigliarci. Scorsese depista le vie sue già percorse, reinventa il suo Cinema con una trama “identica” a mille altre.

Unicamente Casinò.

Ed è per questo che Casinò, appunto, è insuperabile. Una delle vette più alte degli ultimi vent’anni della Settima Arte.

 

 

Secondo voi, Batman potrebbe essere Travis Bickle? Parallelismi fra due miti cinematografici

Ih ih ih, denti affilati da pipistrello, ih ih ih

Ih ih ih, denti affilati da pipistrello, ih ih ih

La favola o fava di Batman nel vampiro a sonagli, mai assonnato Travis Bickle lo straniero a mano a(r)mata di malessere


di Stefano Falotico

La più grande favola “nera” di Natale mai raccontata, secondo la versione ancestrale di Batman il balestriere delle emozioni risorte in grembo dalle sepolte sue macerie, qui scagliate a freccia veloce
Scevro da mielose smancerie e sconcezze varie di tal perduta società allo sba(ra)glio perpetuo, immolo il mio corpo in “immonda” santità divina. E, in questo salmo mio scalmanato, scotennerò il Cuore amatissimo dinanzi alla lussuria vostra sempre più ad affannarsi per altro infranger le tempie del Tempo che, sol di rammaricarvi privi oramai d’amore, creperete assonnati di “tanta” oscurità e già vecchio, opaco lindore che mai fu, dunque non foste, neppure quando io nacqui oltre.
Giungo nei pressi di un’abitazione tinta di “fresco”, “rinomata” di tutto punto nel bel mezzo d’una radura nebbiosa, avvolta da frasche appassite che si spezzan di fronte a mia lucida rifrangenza vellutata. Quasi una villa come se ne vedono nelle cartoline delle periferie di Londra. Ove l’aplomb dei londinesi s’appaia in tragicomicità da tè “bollente” a una contemplazione da me adesso ripudiata per sempre sfuggire alle balorde e ottuse ostinazioni dei vostri amarognoli e dolciastri caffè. Perché, nelle mie viscere, è riscoccata la fiamma spellante del ribelle bello e tal mio baldo ardere… ardirà a giammai più adombrarmi tra i forestali alberi. Se i lupi ululano, tu sei urna come i corvi che gracchiano, orinandoti. In tal “loculo”, stagnato nel groviglio di “salivare” piante rampicanti, salgo la scalinata, dopo averne divelto il portone nello scasso ingegnoso su ac(u)me della mia “truffaldina” ma sana mente da unico umano, non menomato, aggrappato ancor alle voci dell’anima in voi già smarrita. Oh, digradaste in valli di lacrime “rabbonite” da una “dolcezza” bugiarda che affila la ruffiana maschera sociale al (de)turp(ar)e, quindi arrotiti siete arrosto di carnaio in vetusti ingranaggi già arrugginiti e non raggianti delle vostre vene avvizzite. Così come il vino invecchia di miglioria in ornato aroma gustoso, io evolvo di stagione in stagione succosa, succhiando le fragoline di bosco tra i vostri loschi affari da teschi. Care esche, io pesco le albicocche e suggo la matura pesca col “duro”. E qui, in quest’autunnale mio vagare vicino a voi gli scheletri, “incornicerò” l’affamato “famoso” a sfamarmene sin al midollo spinale. Ché, con protervia arrogante e ignobile sdegno, mi giudicò a priori prima che (ri)nascessi. Volendomi perfino ficcar in naftalina a ripetuto bloccarmi. Dopo aver (m)assaggiato, di gustativo sorseggiare ogni zampillo frizzante d’effervescenza mia “solitaria” d’una fontana qua adiacente, sgorgherò fulmineo in tal suo nascondiglio. Ottenebrerò il suo credersi arrivato in cima al comando del vigliacco “comandante” che è. Ché, poi, di chissà quale vertice è ambizioso il nostro “ammiraglio?”. Ohibò! Borbotta alla porta, mi riceve, ceniamo e non s’ode per ora nessun trambusto anche se, silenziosamente, riceverà sode botte poco “digerenti”. Glielo rassoderò. Che sederino…
Pare che mi stesse aspettando e ciò mi sorprende, mi piglia alla sprovvista e attenta alle mie (s)palle. Dal di fuori, son entrato con passo felin e felpatissimo, come un pagliaccio gelante di fantoccio a neve appallottolata ma a lui non sarò glassa bianca e neppure galante in quanto menestrello “folle” dalle risate beffarde e in tutti i suoi buchi (s)cavalcanti. Egli apre l’uscio con l’intenzione presto di pisciarmi nel cervello. Vorrebbe ingarbugliarmi nelle sue “dotte” teorie del Mondo, al fine affilante d’infilzar il mio Cuore d’inconcepibili, da bile e fegato marcito, assurde quanto grottesche visioni dell’esistenza più lardosa e laida. Da maiale subito di quanto pen(s)i scannato. Vorrebbe uccidermi con sottigliezza “posata”, scarnire proprio me, che sempre credetti all’arbitrio libero quanto sospiro illeso da libellula danzante e alle farfalle “aperto”, affinché il Mondo sia felice di mille concezioni dentro un arcobaleno intrecciato alle detonazioni intonanti i colori delle soffuse tonalità roventi fra il rosso bruciante del fiero copulare e il fornicante, lavico indaco fulgido in nostre scremature virenti e profonde, non sciovinisticamente infornanti e lontane anni Luce, oh Dio la Luce, per nulla di forbici come il nostro che ama deformare al for(n)o “caldo”. Io che rappresento il lindo non inaridito e l’anima non glaciale da chi ha resistito a duri temporali dalle piogge malinconiche e sferranti colpi per vincermi nell’ingloriosa essiccazione che i cinici desiderarono s’accalcasse, come calcare, a mio sporcarmi in acrilico sbiadire per “voluttà” rivoltante del loro c(l)oro disumano e “unanime” d’aberrazioni infierire in ferite a traumatizzar di più le mie rimarginate cicatrici e a lederle indelebilmente col dolore amaro vicino alle acrimonie odiose dai contorni poco briosi ma da brividi, gli sarò (in)grato. Grattando a raschiar tal asino che subito può scongiurare quel che accadrà ma, già (de)caduto in mia trappola del congelarglielo, è topo nell’avvertire il formicolio d’un tremante in subito “scioglierlo” fra le mutande. Cagarella sciolta e di mia briglia nel sacro abba(gl)iante.
Mi presto al suo “gioco” ed egli incalza, sempre più incazzato, di avvilenti domande.
Mi chiede, di tutti personali con “Grazie” ma non suo ringraziamento eppur “grazioso” di falsità “nuda” in mio occhio indagatore, d’associare tre parole alla parola “Amore”.
Mi dà in mano un foglio, “scarto” la stilografica dai pantaloni e scrivo di getto “simpatico” un inchiostro mio “nero” da finto anatroccolo come Calimero.
Dal calamaio, colan vergate queste mie simbiosi con la Trinità, che io “allieto” di poesiole per abbellire la cartastraccia, cioè…:

amore degli stronzi a me non s’addice del neppur dir un solar dì da quattro soldi se di nettare sarai (s)fortuna a sua margherita triste e non da quadrifogli, amore è bacio di liquore se, della malelingua, nonostante il malincuore, lei non ti fotte di striscio, amore è una canzone di tal ritornello…
i fringuelli scesero a corte per “dorarla” nel permear quel che, imbucato, è sporco panno imburrato poi da lavare dal caramello anche se è un’educanda imbranata eppur che io “imbracai” in lago a barchetta o donnaccia da gastrica lavanda, e trotterellarono a frotte per punire la mignotta butterata e bruttarella.
Fine.

Il tizio urla tosto che mi spaccherà le ossa e il “mio” che sta mobilmente rigido e umorale in mezzo a lei e al tuo culo eppur nella bella donna dietro belante, e quindi non arretro di fronte spaziosa nei retri della mia non celata “bottega” di olio parsimonioso.
Non capisce un cazzo e chiama la polizia perché mi crede matto e pur “volgarmente” ozioso. Acidulo come l’uva passa nelle passerine su mio mai ingravidarle da passeggino ma solitario in quanto pascolo di olive ascolane in ani da passerone.
Passerà? Tu lo sai? Allora, il sale…
Al che, gli ricordo che sua moglie se la fa con un negro, e assomiglia al “cameo” di Martin Scorsese di Taxi Driver nel mio Bickle in fondo in fondo guardante da voyeur e ridente di beffarlo nel “porco” del mio parco rider sotto sotto.
Il tassametro va, il suo cazzo spara di grilletto (dis)armante.
Paga il pedaggio, vai a vivere sotto i ponti, adesso scendi.
In realtà questa non è una fav(ol)a ma un’inculata.
Se tal freddura non hai digerito, ci son le fave di Fuca.
E lascia la fica se ficcante le fui affondandolo.
E Batman?
Batman ordina di battere le mani. Il resto è un gioco. Il Joker è la carta rubamazzo.
Un po’ “schizza”, poi sta buono più del cattivo nel “doppio”.
Il Pinguino è anche un freezer.
Il resto si fotta.
Compresa tua madre da compresse.
Non pressasse, sono stanco del pressing. Io giocavo ala, tu sei pollo e il goal provoca un olè!
Evviva “colui” che nel cu(cu)lo “vola”.
Le (s)ole.

Post scriptum: piacevolmente ti lustrerei le cosce con far (r)affinato, solidamente solidale al seno tuo sporgente, tu chiamala se vuoi infatuazione o in fata di mio affamato.
Detta brevemente, lo allunghi ma sempre Sharon Stone di Casinò rimani. Ti meriti solo Santoro, sia il demagogo e sia Pesci. Via troia! Sei un’italiana media, mangia l’insalata e vai a far spinning nel tappeto rollante u’ caz’ en cul’ de’ mammata santissima per tonificare quando “lo” incrocerai muscoloso. Guarda Neri Parenti e stai comunque accorta al mio serpente.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Maps to the Stars (2014)
  2. Il Cavaliere Oscuro (2008)
  3. Taxi Driver (1976)
  4. A proposito di Davis (2013)
Doppa personalità o la stessa maschera double face? Batman è nudo, la Regina è lupa!

Doppa personalità o la stessa maschera double face? Batman è nudo, la Regina è lupa!

 

Casinò, lo splendore tragico del melò, dalla francese eleganza mélo alla Mela torbida del Peccato in quel di Las Vegas…

Sa(l)m(o)

Sa(l)m(o)

di Stefano Falotico

La Mecca d’un Cinema parsimonioso, doloroso, croce e delizia di martiri annunciati, di angeli bruciati dall’odor ludico del denaro. Che s’azzanneranno dietro falò turbinati, da ricchi lussu(ri)osi della vanità irosa e più diluente in tramontar del rosso che fu splendido. Ma solo per un istante illusorio. Vite già al capolinea del passaggio a livello, della segnaletica semaforica a forarli nella crepa delle loro inestinguibili macchie.

La smania di potere “gravita” in Sam “Asso”, giocatore d’azzardo, scommettitore invincibile che afferra vincite d’intuito “imperscrutabile”. Come un De Niro imponente, pauroso nella sua (non) sempre azzeccante lucentezza d’abiti sgargianti.

Sempre in giacca e cravatta, sarà il primo fottuto “croupier” d’una vita spalancatasi a (non) essere meravigliosa che, per colpa della follia dell’avida moglie-puttana e dell’amico avventato e bastardo, colerà a picco, arsa viva come il luccicante incipit d’un deflagrante Saul Bass.

Dopo il bagliore rotante del logo Universal(e), ecco il piano sequenza sulla camminata fiera di Sam. Che esplode! Cadenza i suoi passi a cronometro dell’esplosivo già Martin incendiante. Gira la chiave e boom! Scoppia in aria.

Fine dell’inizio o siamo solo a metà del viaggio infernale? La costruzione è già Cinema di altissima scuola, di quelle carrozzerie perfette che oggi non si fabbricano più. Respira di nostalgici ’70, crepuscolare narratore De Niro a raccontarci l’antefatto e i prossimi, a nostro vederli rabbrividendo, “bianchi” misfatti.

Dal nulla, una pedina del sistema gangsteristico, uno “qualunque” che non sbaglia mai come allibratore, viene scelto dai capoccia di Kansas City per star a capo, di lor “capi”, d’un casinò “desertico”, il Tangiers.

Sale le scale della gerarchia, s’illude ma sba(di)glia, come si suol dire. Fra gli squali, distrarsi un secondo è letale. Sam azzecca tutte le mosse, un cavallo purosangue… che, fra la violenza, è principe del gioco. Tutti arrivano a Las Vegas pensando di far banco e cassa, invece non lo sanno che schiatteranno. Lui ha calcolato i perdenti ma non la sua possibile, devastante perdita per troppo orgoglio. Ahia, dolore di cui ti pentirai acu(s)t(ic)amente.

Nessuno, in pratica, vince… è già (iper)visto che moriranno dissanguati, sepolti vivi nella “slot machine” delle appunto lor ca(rca)sse da morti viventi. Las Vegas puzza di vecchiaia dietro le paillettes da Elvis Presley.

Premi invece il pulsante che non dovevi spingere e sei finito.

Lo sa Nicholas Pileggi, direttamente dall’evoluzione in salsa melodrammatica dei bravi ragazzi. Qui a miscela pregiata del caffè più amaro, zuccherato di cucchiaino al biscotto di tre vite inghiottite(si).

Le altre tre ore sono Storia del Cinema. Pura mattanza della Bellezza disossata, fulminante è Martin nell’apoteosi della magnificenza che odora di limpida carne nella celluloide perfetta a stamparci lo sguardo distrutto d’un De Niro petroliere…

Re-view again and again, ancora!

 

Il grande match, featurette e personale retroscena di un film a suo modo epico…

Seppur già “imbarazzante” vista la “mole” vecchiotta dei due stagionati suoi interpreti, De Niro e Stallone. Un De Niro però “addominalmente” (ri)temprato in un fisico d’insospettabile quasi asciuttezza con vaghissimo accenno di pancetta “schiacciata”, senza dubbio sfavorito dinanzi al sempre allenato e più tonico Sly.

Ma due icone storiche e immortali si lanciano la sfida duellante d’una “atemporalità” entusiasmante. Gravitan in me i ricordi, dalle nebbie del Passato emerge il brio di due antieroi solitari, De Niro, uno dei più straordinari, impressionanti trasformisti attoriali del Cinema, e Stallone, a suo modo emblema di un’epoca forse oramai dissolta(si).

Alla Warner Bros, arriva una sceneggiatura da “mani nei capelli” che però suscita guilty pleasure e fa gola. “Tratta” di due pugili andati con l’età, anzi d’anagrafe davvero avanzata che voglion tornare sul ring a 30 anni di distanza dal loro ultimo e “definitivo” incontro. Una rivalità che fu… “inoppugnabile”, pugnacissima sfida fra titani della boxe.

Il Tempo arrugginisce la pelle, le rughe appaiono sgualcenti e i muscoli s’indolenziscono nel pianger appunto di rimpianti, nei pugni soprattutto della vita “vera”. Ah, quanti tutti ne incassiamo, li diamo e poi li riceveremo. Così è, un piatto della bilancia che oscilla, come il peso che è in forma poi soffre di pesantezza. Vita dura dunque ove, prima o poi chiunque, almeno una volta, va al tappeto. Alcuni non si rialzano, altri tengon sempre alzata la vittoria!

Ma Kid non ci sta. Adesso è uno stimato ristoratore, eppur qualcosa dentro di lui lo duole. Si chiama profumo rancido di mai assopito rancore, da cui il titolo originale della pellicola di Segal. Prima, fu lui il vincitore, il gran campione che buttò giù l’orso “buono” Razor ma, alla rivincita, perse in modo “ignominioso” con la “clausola”, “firmata” Razor, ritiratosi da allora in poi, che un terzo combattimento per decretare, sancire e (de)finire chi, fra i due, fosse stato the best(ia) forever, mai più avrebbe avuto luogo in questo Mondo. Fine dei giochi, Razor ha deciso.

Lid, per un trentennio appunto, ha provato a dimenticare quell’affronto. Quell’esser stato colpito e dissanguato, “sbucciato” come una pera cotta, a virtù invece innalzata nella carriera di uno troneggiante e considerato perciò più forte nell’averlo buttato giù al secondo match sacramentante, non l’ha digerito. No, assolutamente. Ecco che, quando credi d’aver sedato l’acredine, scoppia la voglia di vincere.

Ha ingoiato il pugno mancino del nostro “Balboa” e, riverso con la mascella slogata e la derisione collettiva, ha dovuto giocoforza attenersi ad attenuare la rabbia di non poterlo più vincere a singolar tenzone. Un fighter umiliato che, oggi, si barcamena col carisma malandato del saper di non essere il primo ma sul podio dello sconfitto. Sigillato nell’applauso di tutti, che gli riconoscono il valore, il coraggio, l’energia che fu ma anche a ritenerlo battuto e a posizionarlo su-giù nel gradino inferiore. Sul piedistallo degli annali, v’è invece l’antologico Razor.

Guadagnante l’amore delle donne, il posto d’onore in bacheca, la medaglia e il “cinturare” Kid, beffato da “buff(ett)o” con tanti sassolini nella scarpa per disossargli il fegato d’impotenza che, volente o nolente, deve ammettere la scon-fitta estrema.

Kid sogna la resa dei conti. E non è mai troppo tardi, sinché fiato hai in gola e sangue nelle mani furenti, per scagliare la provocazione che possa ripristinare il torto.

Una fottuta illusione, però colta al volo da qualche “maniaco” nostalgico. Che, dietro la scusa d’una “pubblicità” internettizzata, coglie i “guantoni” al balzo affinché i due pugili “tremanti”, forse anche di primi accenni di Alzheimer, si riuniscan di nuovo a distanza d’un quarto di secolo.

Questo è Il grande match.

Film stupido ma da non trascurare.

Perché, comunque, non abbiamo mai assistito a Rocky vs Toro scatenato.

L’abbiamo sempre sognato. Forse, per un film drammatico e non autoironico.

Ma è meglio di nulla.

Anche se sarà un plateale (in)successo e fischi degli spettatori, dei critici a bocciarli di “punti”, o d’un De Niro che, sia lodato il suo sforzo ma non ce la può fare di credibilità, in piedi rimarrà.

Aspettando le versioni alternative del già annunciato Dvd, ancora prima che il film sia in sala.

 

(Stefano Falotico)

 
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