“Per qualche dollaro in più”, recensione
L’età dell’incoscienza, della giovinezza sverginata e stuprata, dell’insanabile torto mai cucito, la vendetta odora d’ocra impolverato ai piedi delle rive sanguigne
Ci sono film che non invecchiano. Anzi, col tramutarsi delle stagioni, respiran il sapore nostalgico d’una poesia incantata, incuneata nervosamente a spettro gelido dei crepuscoli nostri. Quando l’alba tremava per un bacio o impavido scheggiavi la Luna ombrosa in veglie tanto funebri e laconiche quanto diurne in erto, selvaggio accorartene, aggrappato alle melodie del Tempo infinito. Il Tempo maiuscolo era illusoria svenevolezza dell’anima, un ritmo “isterico” della frenesia cardiaca, delle onde oceaniche in tuffi vigorosi ad altri antri divoranti del cielo romantico. E qui vivevi, come il grande Cinema. Vibravi, sì, di vita!
In uno spazio tutto suo e tuo, un ritornello personale che oggi, distratti dalla noia del globo piatto, s’è scor(d)ato, flebile in me invece tambureggia, riscocca languido e appunto sonante risorge. Anzi, lo sorseggio come caldo liquore.
Rammemorando echi dei vivi ardori, d’aridi paesaggi imbruniti nel Sol levante dell’immoto fluirmi, sperduto a cornice dell’amor perpetuo.
Sibillino e poi sibilante fra labbra “stordite” d’una fisarmonica mesta, apparentemente riposata. Avventura che si tranciò, divelto è quel soave dormiveglia.
Dalla “trincea” riemerge piano, prima ancor sonnecchi, sveglio in pieno e miri i bersagli.
E fuggono. Prima “picchiando”, dopo cagandosela. Un tremolio… invertito, d’una orizzontale revenge ché dovevi ucciderlo quando potevi. Ma non ci sei riuscito, ogni losco stratagemma è qui un frontale spaventoso come un atterrito, sudante Volonté appena riparte la musica del duello finale… Lì, comincia davvero ad aver paura, un fantasma lo tormenta, un crimine che (non) si perdona e che vorrebbe tacere con un “freddarlo”. Non si può dimenticare. Da ambo le parti, a singolar tenzone. Adesso che dinanzi a te c’è l’incarnazione del tuo peggiore incubo…
Questa è una storia di vendetta, monumentale, epica al tinteggiante dì del Dio Morricone, una ballata al diapason carillon che inseguirà la preda a costo di rischiare tutto. Di morire due volte…
Due “scapestrati” cacciatori di taglie si mettono sulle tracce di una banda che ruba, ammazza, rapina e semina il panico.
Una “società” che unirà l’utile al dilettevole per far piazza pulita? Non ci sono indiani ma solo visi pallidi. Coriacei, abbronzati, roventi. Al sangue.
Sì, la trama è un pretesto. Perché il capolavoro è dominato da un’irreparabile ossessione che martella le tempie del cattivo e aspira le vene del buono… più “saggio”.
Certo, c’è la “strategia” non solo filmica dell’infiltrato, dei depistaggi, dei sottili equivoci, dei dialoghi tagliati al contagiri come una punizione… da 40 metri perfettamente bilanciata in secca rasoiata, l’umorismo colore “carta vetrata”, l’amarezza sacrosanta di fondo, lo scandirsi narrativo, veloce, calmo, abrasivo, tormentante, dilatato, folgoranti, esasperanti primi piani, l’adorante Clint col sigaro “di traverso” malfamato, onesto e non sa fumarlo eppur devi fumarti un carisma così, il suo ciuffo indimenticabile fra la pettinatura perfetta e il soffio increspante del caldo soffocante, l’arsura d’una forma concentrica di rara sottigliezza, il candore della “violenza”, la metrica “saltellante” di Sergio Leone, il proustiano già c’era una volta, chi bramasti, chi uccidesti e come morirai.
La storia la conoscete.
Le ombre camminano sul carro dei morti ammazzati… nessuna retorica, un leitmotiv che lentamente svanisce.
Nell’assopirsi del rosso tramonto.
Ti dissi che avresti pianto tu. Ma non volesti darmi ascolto.
Indio, tu il gioco lo conosci…
Questa è una recensione o una lirica personale?
No, una litania…
Io non cambio mai musica. Non lo sapevi?
(Stefano Falotico)
“The Grand Budapest Hotel”, Trailer
Un gioiellino per gli occhi, un cast enorme dominato da un inedito, buffo Ralph Fiennes.
Wes Anderson ha già colpito ancora, lo locandina è se possibile più illuminante.
Il grande Cinema è un quadro di Wes.
“Cose nostre – Malavita”, recensione
La strada “criminosa” d’una non molto bianca, sbilenca (im)moralità “immune” con munizioni fucilanti a lancinante De Niro scorsesiano nell’amarcord rimembrante l’antologico goodfella epico
Introduzione virante a plumbeo, “biografico” ne(r)o
Innanzitutto, evidenzio ancora di rinomata stilografica mnemonica il mio sviscerato amore passionalissimo per Bob De Niro.
Di come, nei primi palpiti dell’adolescenza da me “deviata” nell’“anomalia” dostoevskijana d’un sentir diverso, “traviò” rifulgente il mio spettro visivo, incantandolo a cantilene incatenanti d’una briosa, luminescente al plenilunio onirico, (pro)pulsione esistenzialista sulle fratture suadenti di mio Cuore fenomenale, miscelato su incognita che si generò (s)g(retol)elante in misterico ignoto, e non violerò mai il segreto di tal inturgidirmi per sua venerazione adorante.
Dai vicoli “ciechi” di Mean Streets, quel furoreggiante Johnny Boy che saltellava “incosciente”, “maniscalco” d’una manovalanza subito d’“iniziato” da “bravo ragazzo” in erba e piromane dinamitardo dalle luccicanti esuberanze. Vivace, nervoso, adirato in volto, corteggiatore playboy impagabile del fottuto incular la vita, soprattutto la sua anima inappellabilmente condannata al buio eterno. Al “silenziatore” d’una morte annunciata, della tragedia paradisiaca, infernale tant’amata dal primo Martin in poi. “Casinò” acquiescente dell’Icaro aviatore che verrà schiantato dal Fato ineludibile. Un falò di vanità deflagrato ad autodistruzione del masochista raging bull, 15 minutes di “virtuale” celebrità periferica da re per una notte.
Il vampiro Travis Bickle, specchio dell’alienazione (dis)incarnata, incagnito ma “pacifico” sin a quando esploderà appunto letale. Ira di Dio flagellante a suo stesso angelo “tetro” e ultraterreno perché troppo vivo, magniloquenza dei dolori soffusi ad anime metropolitane inascoltate. Che fremon taciturne, d’occhi febbrili e “malati”, scarna e macilenta auto-radiografia del Paul Schrader “laconico” e ad agoni demoniaci.
Esorcista della propria vita, persistente ago masochista nei ventricoli “soffocanti”, claustrofobia “impaurita” dei tunnel lerci, lacere consunzioni d’una magrezza scolpita in viverla sotterranei, in abissali profondità “veggenti”, mesmerico “fantasma” languido, illuso, utopia romantica che idealizza una Donna dei sogni ma riprecipiterà accigliata per un onanismo strenuo sul Bob ischeletrito, divorato dinanzi alla sbranante, punitrice “realtà” del ver’orrore.
De Niro, genio virtuoso, inquieto camaleonte e quindi “macchina” perfetta “Terminator”.
Come se mai Robert placasse quell’esigenza spirituale, divina del mutar sempre faccia nella “galleria”. Simbiosi con Travis, you talking to me? sparato a suo sbeffeggiarci.
Adoro le sue iridi “corrucciate” e incastonate a pelle “ustionata” del classic neo untouchable, icona mistica del trascendere demoniaco su “buffonesco” e ilar volar sempre alto, se eccessivo è esagerato, se energizzato troppo si dimena gestualmente scalmanato, “prigionia” a doppio taglio mim(etic)o della permanente oscillazione craterica per generare altro attoriale nervo lavico (irre)quieto, inventivo e stracciante la “voluttà” estatica dell’essere carne d’attore assoluto, se “conciliato” porge il suo clown parodistico nell’ironia “ven(i)ale” fra stronzeggiar su battute strozzate d’eloquente “muto” che china solo la testa, se annuisce in tono Al Capone canzonatorio delle odi personali malinconiche o è mille intonazioni del (ri)flettersi dentro, attorno mille e più personaggi.
Adoro i suoi lineamenti senz’età, “giovanili” anche ora che son “senilmente” aggrottati in un sorriso bifronte al mito ch’è, sì, gli basta un (ac)cenno nell’illuminar le pupille “invecchiate” e squarcia le palpebre cinefile d’orizzonti nostri perdutamente affascinati dai mari schiumosi naviganti la memoria di Robert De Niro. E di chi se non Lui?
De Niro elegante ieri, grezzo, senza Tempo nell’“apnea” borderline di psicotici “brutti” ceff(on)i, pestaggio al suo corpo, di cui abusa per usar le interpretazioni a pelle istintiva.
Spaccata, martoriata, macellazione per (ri)crearsi “mostro” di Frankenstein.
Mai s’è calmato, sulla filmografia impressionante ha impresso colpi taglienti, “erronei”, un attore proprio errante ed ero(t)ico d’inimitabile personalità. Sbandato, traiettoria senza capo né coda, serio poi “comico”, commediante o figlio di puttana a marchetta dello svenduto più insopportabile. Quindi, da scopare. Da idolatrare!
Sghignazza nel motteggiar un mugugno ad angoli di labbra (s)piegate, “accartoccia” la barbetta da duro per “effeminarla” nella dolcezza da buon padre rassicurante, quindi sterza il pel innato, assottogliandolo da lupo irto con immancabile giubbotto, seducente a congenito esser di nuovo Vito Corleone. Malizioso e fascinoso. Non puoi resistergli.
Brandiano, recita spesso con lo Sguardo maiuscolo, istrione dell’espressione che non ha bisogno di parole d’aggiungere perché è tutto (non) detto…
Figlio di un’epoca Elia Kazan, ammodernato negli anni 70 d’avanguardia più avanti del “Cinema” vecchio-odierno. Cinema anestetizzato, “buono”, odioso e da paraculi.
De Niro è nero, è poliziesco, è il noir straordinario Ronin d’una argentata Nizza col poster sventolante del capolavoro di Frankenheimer a Cannes, ove la Costa Azzurra dei “ricchi” vien “impolverata” dalle polveri da sparo di mitragliatrici “spie” che (s)puntano fra inseguimenti automobilistici color BMW.
De Niro di altra carrozzeria, “arrugginito” in giubbotto “sporco”, non è una “figa(ta)” da Mercedes e cazzi falsi. Umorale incide, mira e assassina carismatico, variabilità “atmosferica” del suo impermeabile profumo lungo addio.
Non ha mai interpretato Marlowe? Invece sì, anche quando fa il gangster.
I suoi gangster sono infatti tutti “tristi”, disillusi, indagano “sonnecchianti” nella chimera che uno “score” rischiari l’amarezza. Neil McCauley di Heat è un Conte di Montecristo versione Melville. Credo di sì.
Può prendere l’aereo e “salpare” per un lido non più tormentato, invece è ossessionato dai conti in sospeso, appunto. Si lascia ammazzare apposta da Carlito/Pacino nei rovesci della medaglia.
Perdonate la mia schiettissima franchezza, ché divorai Bob in tempi non sospetti, quando m’affamavo scolpente a ebbrezze “nostre” sospiranti un’epoca forse smarrita per sempre, la mia adolescenza innervata a diamante “fosco” del respirarlo/a…
Ne riparleremo con più oculatezza quando avrò smaltito altro “denirare”, scusate volevo “incider(mi)” a coniar invece il mio delirare. Eh eh.
Malavita di Luc Besson, ebbene eccoci qua…
… nel “bel” mezzo del cammin “oscuro”…
Titoli di testa incorniciati già ad “adrenalina” della voce narrante di De Niro.
Arrocchito e malinconico “perso”, nostalgia quasi francese per una veloce torsione nella “dissolvenza” dell’ambientazione, la Normandia, infatti. I fatti son questi. Attenetevi e vi è andata pure grassa.
Ubicata a “magione protezione testimoni” d’una family di mafiosi.
Già indaffarati a disfar ancora i bagagli per trovar la “giusta” sistemazione o meglio collocazione (non) adatta al Mondo. “Relegati” in una villetta spettrale, memore del lor freakeggiar burtoniano, gli Addams devono abitare nella “normalità”. Sotto copertura s’ integreranno i nostri non tanto integerrimi, (cor)rotti eroi?
Una peripezia che scivola ritmata fra esplosioni improvvise, cambi di regia “frastornanti”, una tastiera che batte all’unisono della violenza “soffocata” d’un De Niro “pacioso” pronto nell’attimo fatale a torcerti i capelli e adirar le rughe in ringhio cannibalesco. Per poi farti il sorrisetto.
Infonde amor paterno da padrino (ir)redento, in remissione dei peccati dentro le memorie, mandibolari la sua anima (im)punita, per appunto (non) colpevolizzarsi. Se ne fotte!
E a canini, scusate accaniti, tifiamo per questo doppio Fred Blake/Manzoni appaiato a una splendida Michelle Pfeiffer, allietati da duetti “tagliati con l’accetta” con il grande Tommy Lee Jones, perennemente accondiscendente e “amicone” del gioco “pericoloso” e ficcante, illuminati da Dianna Agron, della quale vi rivelo che m’invaghii ai tempi delle medie.
Era bionda come Dianna e se possibile più figa. Ma non ebbi lo stesso culo di sverginarla come il nostro suo matematico. Lei è infatuata e rischierà il suicidio a(r)mante ma il bastardo prima la cucca, la palpa e sudato di “timidezza” se ne fionda beato pur “beota” per poi vile svignarsela da “separazione amichevole”, date le inconciliabili “differenze” e le estrazioni dinastiche. Uno stronzo che da me riceverebbe solo un’altra “racchettata” piazzata nei coglioni.
Omaggi spara(n)ti, Besson si rifà al suo stesso Cinema citante e sovreccitato in cambi di rotta “ammortizzati” fra un pianto sincero, momenti d’autentica commozione, suspense “funebre”, campanili gotici, ma la solitudine impera sovrana e non puoi fuggirla. Lenta svanisce per ripartire altrove, come ultima, opacissima inquadratura.
Ti salvi la pelle ancora, nostro Fred “canaglia”, e i “cattivi” son stati stesi e “disonorati” col tuo valore…
Il film di Besson, al solito da pochissimi già compreso, adocchia il genere a modo Luc e solo Besson. Assoldato a se stesso.
Un Cinema che solo Besson sa…
Il resto guardatevelo, godete a più non posso, una delle rare black comedy che non fa ridere ma sogghignar amaro, mette i brividi e vuole, dietro la camuffa della solita (in)utile trama, perturbare, bombardarci per sussurrarci: “Siamo tutti come Henry Hill”.
Chi è Henry Hill? Ma che c’entra Ray Liotta di Quei bravi ragazzi?
Fred/De Niro ricorda… e anche il produttore esecutivo Martin Scorsese.
Il resto è un bel colpo, una meraviglia visiva in Dianna e un De Niro che recita senza recitare. Lui è.
Il mio è un delirio?
E a te cosa frega del mio De Niro?
Allora, dammi Dianna.
(Stefano Falotico)
“Interceptor” (Mad Max), Review
Arma letale scatenata, dalla violenza più turpe si può (ri)generare un h–ero warrior!
Afferro la mia carta d’identità per le intercapedini dei ricordi seppelliti, sgretolato nello snodarli e acciuffar capelli d’un ciuffo mio brillante che, dall’opalescenza ottusa di molta gente meschina, fu “ammattito” all’ingrigito incattivirmi per poi rifulgere d’estasi quando li punii d’esecrabilità pari al lor stuprar stolto, “guascone”, da “motociclisti” inneggianti risata sguai(n)ata e goliardica, golosità loro affamata dell’orrore più ad abominio tremendo. Da terrificarti tanto da trasformar il tuo congenito, sacro pacifismo in “pericolosa” fiamma divinatoria, potenziata d’ira e spezzata in Lancia travolgente. Sì, una delle mie macchine cronenberghiane favorite è Crash mischiata dentro far male ai dannosi ch’ammaccaron la mia immacolata, innocente e lucentissima carrozzeria. Delta o Musa… ispiratrice, son io adesso a targarli, “tampono”… le ferite ce bruciaron d’ostinazione con recidive ripercussioni e “pneumatico” asfaltarli. Di crudezza unforgiven.
Vivo o morto, tu verrai con me, lapidaria “stigmata” d’arrossato, infervorato Robocop transformer partorito dal dangerous method.
Tornerà di moda quest’anno il capolavoro di Paul Verhoeven attraverso il reboot, speriamo non brutto, d’un futur(istic)o immaginarlo in più avveniristici effetti speciali collegati all’amnesia del protagonista, dunque al mnemonico ricucirlo total recall attraverso i filamenti organici della “lubrificazione” androide intessuta in un’anima spezzata. Sdrucita! Bruciata pelle di giubbotto serpentesco!
Che c’entra Robocop? Tutto forse parte da questo Mad Max antropocentrico, crocefisso nelle interiora sventrate di un Cuore distrutto. Esploso a deflagrazione vendicativa.
Ché, una volta riazioni i circuiti mentali, qualche connessione potrebbe riagganciarsi alla rimembranza emozionale, le membra ventricolari dell’amore rubato riscoccheranno turbinosamente a carburar la vita tranciata. Di netto frantumata, “deformità” d’una potenza di fuoco stellare.
Lo capto di mia nascita a classe 1979.
In un futuro apocalittico, forse più tribale di Apocalypto, la società vive senza leggi.
Le città son “bombardate” da psicopatici coi caschi e dalle maniere brutali.
La polizia non riesce a fermarli. E, quando uno azzarderà troppo d’affronto all’orda cannibalistica, gli trucideranno non solo il collega bensì anche i suoi affetti più cari, moglie e figlio piccolo.
Da allora, in Mel Gibson/Mad s’attua una modifica d’Arancia meccanica ribaltata. Impressa a marchio!
Intercetterà uno a uno i colpevoli del massacro, li distruggerà, li assedierà come una furia implacabile. L’ultimo implorerà pietà, ammanettato allo scandir, “in sincronia”, d’un uguale “risarcimento” mortale. Impietoso!
George Miller crea la sua opera grandiosa, epocale, biblica, spettrale, allucinante, la sequelizza magnificamente e l’issa in gloria nell’Oltre la sfera del tuono, lo canta nel cigno “nero” d’una Tina Turner pantera.
Una trilogia spettacolare, seminale che cresce mitologica d’anno in anno.
E, fra pochi mesi, (ri)nascerà nelle vesti arrabbiate del grande Tom Hardy, per un quarto capitolo tutto da (ri)vedere.
Sono un intellettuale, rifletto sempre sulle conseguenze delle azioni obbrobriose.
Chi subisce un torto di proporzioni così colossali, può vendicarsi di kolossal.
Il resto è una benedizione per consolazioni. I resti del tuo pezzo di merda non saranno mangiati neanche dagli avvoltoi.
Ci (ri)vediamo al cinema.
Non ti è rimasto niente per cui (ri)vivere. Ora, sei veloce vista, riveduto e (s)corretto. Come pretendo di (non) essere.
(Stefano Falotico)
“Il medico dei pazzi”, recensione
Quando, da un equivoco “manicomiale”, si può generare una trama “distorta”, contorta a viso del poliedrico, insuperabile Totò
Non comprendo, eh sì, son “tardo” di comprendonio, infatti adesso devo servire il parroco in refettorio. Il parroco è un tipo mesto con ambizioni da Padre Pio. “In fallo”, “stigmatizza” le suore parruccone in sagrestia e io verso loro della sangria divina, allietando il “girovita” da me(n)dicanti d’una bontà talmente “pura” che Cristo spunta da dietro gli altarini e, a ossa dello sgranocchiarli, li picchia con ferocità. Li bacchetta in modo inaudito sulle ditina. Assieme a questo “povero” Cristo, poi vado a gustar tutte le impudiche chiesastiche che san d’oculatezza reggerci lo scalzar i tabù più ottusi e “integerrimi”. Ci sbizzarriamo fra donne d’una età avanzata eppur di sesso a pelle, lor se ne sbellicano, spelliam le veneri alla Botticelli, da benedir con tanto di “cappella” sverginante, sì, “scappelliamo” di gentilezza per poi avanzar fra le giovincelle dotate ed educarle a una preghiera in pace del Signore. Quando la Luna colora di pepe e noi le adoriamo di pece “ado(mb)rante”, ecco che tal signoria si prodiga in “castissima” e notevole “virtù”, mentre innalziamo il calice della Comunione per un’alleanza di noi a (ri)fiutarle nel sollevarle. Che solletico. Siam selettivi, Cristo d’altronde siede alla destra del Padre e non amiamo i “tiri” mancini, soprattutto se a “tirarcerli” son quelle racchie che assomiglian tanto a tua madre. Sempre sconsolata e adirata. Sua “sorella” è più bona, San Francesco la spogliò di “cantico” a “creatura” dell’uccellaccio alla Pasolini. Non è un caso che il grande Totò poi sia approdato a Pier Paolo… come infatti recita l’epistola di colui illuminato nei pressi di Damasco… non Davoli Ninetto bensì non darmi dell’inetto se son diavolaccio! D’altra pasta rispetto all’adesso buonista Benigni, convertitosi al “dolce” ecumenismo. Prima sì ch’era un papocchio, il primo suo rincoglionimento fu Pinocchio.
Se per tale “oscenità” mi giudicate matto, ebbene lo so(no) e non ho nulla di cui pentirmi. Io (s)confesso e nessun mi fa fes’…
Cari miei baccalà, abboccate puntualmente alle mie provocazioni e (ar)restate con un palmo di naso, ché non modererete la mia indole boccaccesca nel vostro star ad aperte bocche. Pasquale! Oh, mio psichiatrino di bocchino, quante raggiri e poi t’imboccano?
Io sono il vero erede di Totò, mi faccia il piacere! Vada a prender per il popò un babbeo più inculabile e “inguaribile” delle sue che glielo inguainano. Sono il tuo guaio, sono il gatto dalle sette vite e tre per tre non fa sol prova del nove. Mio da diagnosi, son agnostico. Dovevi calcolare il metterti mio a novanta. Tal trombone si laureò con lode ed eccole allora la mia colante “adorazione”, croci e spine da porcospino. Come la decollo io, neanche San Giovanni ildecollato.
Sono Felice Sciosciammocca, sindaco di Roccasecca, e di genialità non rimango mai a secco. Di viso naturalmente a essiccarti e adesso sbianchi perché ho sbancato.
Da piccolo, giocavo col mio (pu)pazzo Ciccillo, Ciccillo è assonnante a cuculo. E vocalizzo aitante, tutto a rizzartelo, mio peloso inculato. An(n)o fortunosissimo e non mi dannare, devi solo risarcirmi i danni.
Funambolo della parola, Principe della commedia napoletana, fatti una “sana” risata.
Ride bene chi ti fa piangere di colpo di (s)cena. Mai giudicare un genio e reputarlo “mostro” se invece si (di)mostrerà istrione da palcoscenico. Animale di tutte le scene. Oh mio da scemette. Shampiste!
Regge da solo l’intero pe(r)so…
Soprassediamo sui tuoi “orrori”, occupiamoci di ciò che rende la vita gioiosa. Ché dei dottori son stanco e le sarò qui a “raccontargliela” francamente. Ecco la mentina, il mio scioglilingua deciso ma che lei non decifra nonostante salivare glielo appioppo (ai pioppi, car cipresso è lei il depresso) nelle chiappe il “francobollo”.
Ciccillo si fa mantenere dallo zio. Per anni durati un’enormità, si “professa” studente di psichiatria. Invece, fa la bella vita alle (s)palle di quel “coglione” del nostro Paperone. Molto meno tirchio del personaggio della Walt Disney e però “tagliato”, come dicono a Napoli, patria delle pizze, intese a taglio. Pulisciti col bavaglino. Ove, fra tanti ingenui e sempliciotti tarchiati, nacque De Curtis per decurtar i luoghi comuni sui “nullafacenti” partenopei.
Sì, lo zio Totò comincia a stufarsi. E si mette in viaggio, con moglie e figlia, per andarlo a trovare e tastar con mano se sia davvero padrone di una clinica per pazzi, come il nostro “nipotino” sostiene… a spese… del son cazzi tuoi.
E ora che farà il nostro millantatore? Pochi esami ha dato, è di debito arretrato, può soltanto inventarsi un’altra bugia grande come una casa. Anzi, come una Pensione Stella.
Sì, dichiara allo zio, per svignarsela dalla menzogna vergognosa, che una pensione tranquillissima altro non è che un manicomio e che i clienti dell’albergo sono suoi pazienti. Che “pazzia”.
Da questo (in)voluto malinteso, si scatena il casino.
L’imbroglio sarà al solito scoperto e il filibustiere nipote (s)fregato.
Ma Totò è nobile d’animo, signori si nasce, e perdonerà di lieto fine. Che finezza. Che classe, modestamente non è acqua e lui lo nacque.
Insomma, uno dei film preferiti della mia infanzia, è eterno.
E ho detto tutto…
Qui divento Peppino ma non da caffè della Peppina.
Caro Peppone, Don Camillo alla Terence Hill adesso ti spacca.
(Stefano Falotico)
Mads Mikkelsen, world’s greatest actor
Mads Mikkelsen, il più grande attore di Cinema del Mondo, superiore per “faccia” ad “Hannibal Lecter”/Hopkins e danese di puro “scantinato” alla Totò
Da dov’è spuntato questo Dio attoriale, il cui corpo “barbarico” par plasmato da un geyser nordico, da fanghi delle cascate cristalline, i cui seducenti, ambigui, rocciosi occhi azzurri traslucidi sfumano artici d’artistica eleganza da serpentello verde smeraldo? Un volto intagliato nella pietra delle leggende montuose, un angelo con demoniaco carisma e sex appeal travolgente che sa coinvolgere anche l’eterosessuale più convinto, “persuadendolo” nella sua spirale recitativa a pomo d’Adamo virile su cravatta d’una serie televisiva ipnotizzante, un genio che colora di psichiatria adulante, un entomologo pornografico delle nostre emozioni, un fenomeno alto circa due metri e non oso immaginare la lunghezza del suo “cavallo”. Che poi si spoglia, suda, fa l’ispettore ch’espettora l’anima brada e la tatua a pettorale taurino, “scoscia” in voce imperiosa, penetrante d’ammaliarci, sofisticato e nudo, rude e piangente, romantico e figo, di un altro Pianeta.
Diciamocela… se fosse nato negli Stati Uniti trent’anni fa, ogni anno avrebbe vinto l’Oscar in tutte le categorie degli attori. Perché sa essere impressionante come protagonista e anche attraente più dell’algida, inespressiva Nicole Kidman.
Gli ho spedito una lettera d’amore, vi leggo il contenuto:
Hi Mads,
I love you. My name is Falotico. Love me tender.
Per il nostro matrimonio, voglio come testimone un pastore tedesco.
Basta che non sia un nazista.
Sì, mi “sgretolo” per Mads e m’innamoro di grottesco, scopandomelo nella grotta del lupus.
(Stefano Falotico)