“2001: Odissea nello spazio”, Review, camera con vista!
La scimmia sa–piens poiché pensando è già allunandosi e cosmogonica, penando d’eterno le pene eteree dell’erectus!
Non ho mai recensito…
il capodopera di Kubrick anche se, distinguerlo di prima posizione, è già un grave torto agli altri indiscutibili, indissolubili capolavori.
Del Maestro non son stato “bravo” a descriverne la grandezza, “limitandomi” a decantar il suo genio, giudicando a priori troppo ovvio scrivervi “sopra”.
Ma, riflettendo, perché non vergare il mio essere e inciderlo nel magnificare chi tanto m’emozionò e sempre, spazialmente, illuminerà indimenticabilmente la mia anima mentale?
Questo non è un film, chiariamoci subito. E ognuno è libero di speculare… ad allegorico suo dolce naufragarvi, adorarlo e di chiome fruscianti nell’assoluta Bellezza maestosa sprofondare ove il Cinema sfiora le profondità adamantine, io così l’ammanterò di “filosofico” e personale omaggio.
Circoscriverlo in un riassunto didascalico è reato se ardir mio “fu” già qui incensarlo a gusto estatico di quel che “vidi”, vedrò domani mutate…
o trasformandomi a balzo di nuove scoperte incantate.
Le incognite esistenziali… essendo uomini siam figli degli animali.
Discendiamo dai pesci di lacustri primitività, poi “assurgemmo” eretti o più rettili nell’evoluzione d’un malsano “progresso”.
Pontifichiamo ora sulla Scienza ma siam sicuri di non aver pattuito un viscido ed esecrabile patto, o “parto” distorto, con la senescenza più (in)dotta, quindi involuti a casti liberi arbitrii che, in quanto ammortizzati dal civil “quieto” vivere, han perduto la gloria dei sensi nostri più gioiosi e istintivi? Non so, scorsi uno scorcio “interminabile” d’ore altrove nel risorgere, roteai per frammenti onirici…
d’un viaggio interplanetario a mistiche erudite…
anche arrugginendo la mia “calma” omeostatica, sul vi(b)rar nel meandro ignoto del buio, degli squarci viventi dei primi esseri, scimmie “cattive”, signori delle mosche…
per iniziali egemonie dell’entropie, del caos, della baraonda, del vertice gerarchico da “dominatori” dell’Universo. Ma c’è tanto da “esplorar(ci)” e, a ogni stella od ostacolo, carpiamo vividissime, soavi e ancestrali, quindi catartiche, luminescenze.
Abbasso le odalische.
E i profeti di chi vince di pesca.
Dolor piacevole delle rifrangenze emozionali. Questo è l’Uomo.
Ogni passo in avanti è uno indietro per assaggiar le sue orme, l’impronta “digitale” dell’anima.
O dell’animismo nostro da cacciatori notturni. Alle fiaccole arse nella paura di rimaner soli con un Sole a divinatorio idealizzarlo in qualche Dio o entità sovrannaturale.
O-nanismi! Un lungo “sonno”.
E si riparte in quinta, a razzo d’una navicella, galattici nello scibile sibilantissimo d’una astronave-caravella. Cristoforo Colombo non s’accontenta più sol, appunto, dell’America.
Quel che bolle in padella è un uovo concentrico.
Le frontiere abbiam “contaminato”, la Luna è un cratere issato al monopolio americano, Armstrong “gigante” o noi nani dinanzi alla vastità del “buco nero?”. Che non è soltanto salto temporale ma indagine nell’ego di noi vicini a Dio mai conten(u)ti.
Titanismo, manie d’onnipotenza.
Perché coltivar l’orto quando possiam fluttuar fra le meteore dorate? Cosmici perché la vita terrena è oramai epidemia di lotte insulse, d’inusitata prigione a noi già di “umanità”, per sua stessa origine, sbarrata nel “confino”. Sconfiniamo! Vai, orsù azioniamo i raggi motori dell’ambizione sfrenatissima, involiamoci fratelli nel “vuoto” da riempire, di pianeti e conquiste, troppo disumano astio c’ha resi vittime del sistema triste. E pariamo antropomorfi.
Amorfissimi. Ammorbati!
Dov’è quella scintilla vitale del nostro monolito?
Ah, monolitico fratello irrigidito, affidiamoci ad HAL 9000, a bordo del PC piccino di queste craniate da troppi gigabyte.
Ci eravamo imbalsamati!
Abbiamo registrato tutto tanto da smarrir la memoria.
Che amnesia.
Quel computer invece sa tutto…
un’enciclopedia del nostro “navigatore” reminiscente.
Forse, dobbiama apprendere dai più viventi antenati.
Perché ci siam alienati.
Quanta tecnologia ma poca vita!
Io, Robot e invece la macchina si ribella Terminator e distrugge il primordiale, grande, immane Sogno! Ah, che brodaglia!
Qui c’è Asimov a far capolino, linee d’una narrazione antilineare, allineata a puro Kubrick liquido e oltre.
Oltre tutto, anch’egli come tutti dubbioso.
Chi sono? Da dove vengo? Perché ebbi quello svenimento?
E cos’è l’innamoramento?
Ah, sto diventando un demente.
C’è però necessario bisogno d’infantilizzare la coscienza, voglio cullarla bellamente nell’amniotico scioglimento.
Mi son ghiacciato, dunque bruciato, spazio sì da una rotta o forse già distrutto.
Stanze coi bottoni, eyes wide shut profetici della rivelazione a un semplice “Scopare”.
Cos’è o chi è-sarà più greatest?
Orson Welles e il suo Quarto Potere o il mistero…
di Stanley, shining del genio sempre al di là?
Scettico, ateo, ad ampliare gli orizzonti di gloria, a metterci in guardia da ogni guerra, ché genererà solo mostri d’una clockwork orange a base del nostro Gulliver.
Oggi ci crediam grandi, “arrivati”, domani ci svegliamo…
microscopici a fissarci l’ombelico coi telescopi.
E ancora ci facciamo… tanti problemi quando scopiamo.
A Lei non piaci, sei troppo “a scoppio”, scappa.
E dove cazzo va?
Al circolo, vizioso del cucito alla sua bocca (im)morale.
Ah, voleva morderlo e invece s’è trattenuta.
“Ingoiata” da sola, come te, come me, chi più ne ha e più lo (e)metta. A manetta… Sì, questa esistenza è un film anche satirico da Dottor Stranamore…
Un pamphlet che cambia forma, inquadrature, geometrico in cui Nolan può sol che sognare Interstellar da quattro “saldi”.
2001 è Lui. IT! Qui è gravità.
Il resto son articoletti di critichetta e di qualche cretinetto oggi fottuto, non solo da Nolan, ma anche dal nulla.
Potrei scrivere per ore su 2001, ma è il 31 Luglio del 2013, piena Estate. Stasera, mi guarderò ancora 1997 di Carpenter.
Poi, ho da pensare anche ai miei sogni.
Non ho mai visto dal vivo New York ma son sempre con la testa a Los Angeles.
Buona visione. Buona quella, me la farei.
Buona Notte, speriamo con Lei nuda.
Plenilunio. E “ululo” alla Doc–Zemeckis non sporcone del “Porco Giuda” ma in grandi gioie, oh sì, “Grande Giove!”.
Che figa Angelina Jolie!
Ricordate: life is back to the future.
Se non mi credi, solo rimpianti e aste piantate.
Fidati, io ho fiuto.
Applauso!
(Stefano Falotico)
“Donnie Brasco”, Review
L’amarezza piange negli occhi vitrei…
di due antieroi anacronistici…
Fuori Tempo e dalle mode, esce un oggetto misterioso, “targato” Mike Newell. Come? Nel 1997, un film “di mafia” incentrato su due perdenti, sì, entrambi lo sono, e diretto da un inglese? Con Al Pacino, e qui l’icona del Padrino ci sta, ma il suo antagonista-amico-intimo confidente-traditore è Johnny Depp.
No, forse quando lo vidi al cinema, devo aver bevuto. Ricordo male, avrò confuso tutto. Invece no, la memoria appunto non mi tradisce… Quale geniale coppia, innestata in una sceneggiatura “a orologeria” perfetta (Paul Attanasio “metronomo” dei dettagli più sofisticati che ha imbastito, nell’eppur linearità della trama, il complesso aspirarla), che “gemellaggio” straordinario, e qual bislacco colpo fenomenale è stato inventare tal perla in piena post-era Tarantino!
Un Donnie Brasco scagliato indimenticabilmente con tanta acuta personalità.
Un film che mescola tutti i crismi del gangster movie, li “shakera”, frena e dosa, trattiene la violenza, la “singhiozza”, la cela fuori campo e raggela le nostre emozioni sin alla commozione più autentica. A detonarci in lagrime amare.
Ci scuote, ci distrugge.
Un film che non strizza l’occhio ai lieti finali, duro pugno che frattura, con sensibilità insospettata, profondissima, la nostra pelle dell’anima, la scuoia e, nel suo disincanto “funebre” pauroso, prima ci “ovatta”, poi ancor ci depista, ci fuorvia con dialoghi bellissimi da metter i brividi, con un balletto attoriale di primissima, fine recitazione sontuosa, scandita rispettivamente da un “gobbo” Pacino che gravita in rancori rochi, “malfamato” gran signore d’occhi tristi m’affamati, nevrotico, misurato, asciutto, ectoplasmatico nel dominar la scena con impalpabilità laconica, così com’è plumbea l’atmosfera malinconica che respiriamo-gemendoci, e da un Depp che svetta, “spurio” sex symbol qui strepitoso nello scarnirsi d’ogni maschera platinata a incendiato, “assatanato” ma sofferto viso indurito nella tempra del performer essenziale, due esplosioni di carisma impressionanti a divamparci nella formula, qui vincente, d’una miscela registica che li specchia in “duello” iridescente d’occhi già a penetrarci.
Sì, perché questo capolavoro, al di là della prodezza dei dialoghi, della “prontezza di riflessi” in battute secche, subito memorabili e mai leccandoci, mai ammiccando da furbetti fotogrammi, c’incunea in una delle storie più (a)simmetriche da “rovesci della medaglia”.
Medaglie pallide.
Due uomini, due destini diversi che combaciano.
Un “tutore”, un infiltrato che, ahimè, si lascia proprio “infiltrare” da uno dei valori più magnificenti dell’esistenza, l’amicizia.
Errore letalissimo?
Nessuno, oltre a John Woo, forse…
figurarsi gli americani o un cineasta da Hugh Grant, si sarebbe azzardato, a fine 90, ad avventurarsi entro le traiettorie pericolose d’un sentimento “patetico”, specie se virile.
Invece, Mike Newell scommette tutto, e sbanca nei nostri cuori.
Creando un’opera sorprendente.
Il resto della storia la sapete.
Oramai, chi non ha mai visto Donnie Brasco?
Forse, il senso lancinante di questo film sta qui.
La moglie di Donnie nota che suo marito sta cambiando…
Stai diventando come loro, gli urla, disperata.
Donnie: No! Io sono uno di loro. Donnie n’è sicurissimo, per niente.
Assolutamente, no, affatto.
Nell’ultima inquadratura, che s’impianta nella nerezza d’un Depp avvilito, avvolto nella pioggia dei suoi martorianti, oramai eterni rimpianti, pare che, ancor prima del suicidio di Pacino, soffra in noi la domanda che ogni Uomo prima o poi si pone: ho fatto la scelta giusta?
Forse sì, anzi certo.
Che te lo dico a fare? Ci tormenta il dubbio, implacabile non fa dormire, non ci assolve.
Siamo soli, tutti.
I raggi del Sole si son avvizziti.
(Stefano Falotic
(Stefano Falotico)
“Killing Season”, Review
DON’T TAKE YOUR GUNS TO TOWN
Falchi e cervi nell’imbrunir melanconico del favoloso Johnny Cash, in mezzo la guerra e rancori da “medaglie” al valore.
Armi e scagionarsi dal Peccato del desiderio umano di essere “uomini”. Polverosi cowboy nel panorama autunnale d’una tetra stagione dell’orrore, che scalpita a ferir cicatrici d’una rimarginazione mai estinta.
Pulsan le rabbie, il dolore non s’accheta e, per scacciarlo, Benjamin Ford (De Niro) va a viver lontano dalla città… Tra gli spettri ombrosi dei verdeggianti fiumi, le chiome vigorose del forestale buio, il suo lupo illude d’ammansire.
Fantasma già morto, sangue coagulato in reliquie d’asceta roccioso. Muro di zigomi lacerati dall’artiglieria e dalle trincee. Sardonico morso alla sua anima espirata, cullata dal tepor d’una insistente ballata a ingrigita perla di grinte stanche.
“Dracula” è il vampiro dei suoi sogni perduti, essiccati da sua stessa pelle martoriata, raggrinzita nelle iridi coriacee di Emil Kovac, un serbo nella sembianza “impossibile” d’un Travolta sospirante gracchio sporco e disillusione a ogni battito della sua nera barba.
Occhi sibillini e a trangugiar amarezza, a sputarla in catarsi di labbra rossissime. L’erta vanità del suo Cuore spento, ad apice d’infernale bocca “addentata”. Ora carnivora, un “mostro” gigantesco e minaccioso.
Rispunta da un fascicolo nascosto un volto conosciuto, Benjamin quasi Kurtz, ma Emil conosce il tenebroso Benjamin e non viceversa, nonostante si siano “sfiorati” in un attimo fatale e “omicida”.
Dissolvenza e una rigogliosa, ancestrale baita scandita dalla notturna ed epica colonna sonora di Christopher Young. Ispirato come un’aquila, come un cacciatore acquatico dell’emozioni distrutte, risorte in lucentezza glabra, divinatorie agli arcani incanti dopo le piogge e i tormenti esistenziali. Non v’è vita più in Benjamin, crepuscolo d’affetti che han bruciato anche l’ultimo elettrico suo esserci in suo figlio amato, che non vede e non vuol più però vedere da anni.
Che “cattura” per sporadico, effimero trancio di scossa. Roco, inabissato nella Notte più profonda.
Ludro il bosco si sbriciola e fruscia in una vendetta ad “asserragliare” il nemico di tutta una vita, o solo un alibi per andare avanti.
“Fortuitamente”, Emil si trova dalle parti di Benjamin. Un solito guasto al motore, te lo riparo io. Buona serata, copriti, fa freddo. In giro, ti daran ospitalità. Ma le gocce di “rugiada” colan violente sotto la Luna fosca.
E Benjamin ci ripensa. No, non può abbandonare un forestiero nel bel mezzo della tempesta. Creperà “assiderato” o sbranato da qualche “bestia”.
Ingrana granitico la marcia indietro, accorre in suo “soccorso” e gli riscalda la cena. Fra una chiacchiera amena e il teutonico liquor amarognolo Jägermeister, “logo” centrale da deer hunter indelebile, marchio di fabbrica nella citazione di un colpo solo.
Non scolartela in fretta, ubriachiamoci da saggi “bracconieri” della nostra pellaccia. Ci siam salvati dall’orrore… C’eravam imbarcati fra gli squali della nostra purezza.
Siamo induriti ma sopravvissuti.
Good night and good luck, my “friend”. Il domani, o il Passato, però non muore mai… Non lenirà. Frecce troppo appuntite, una dinamica balistica d’un “Cristo” flagellato, oggi orso delle nevi, che riscocca furioso.
Attento Benjamin, sei invecchiato, i riflessi son un po’ arrugginiti, Emil è più giovane, grande, grosso e carico di rabbia mastodontica.
Vuole ucciderti lentamente, ci sei arrivato tardi, sai?
Entrambi esperti, tu maestro quasi alla Rambo in un De Niro più credibile di quanto l’anagrafe potrebbe far sospettare. Scaltro, di smorfia dentro il licantropo ancor scattante, veloce di mira freddissima.
Incuneato nella grotta dei peccati.
Una bella sfida, interrotta da qualche ingenuità o frettolosa, sdrucciolevole trama con alcuni buchi e “tranelli”.
Archi, sbronze a macellarvi, cascate schiumanti…, fiotti nervosi da schiacciasassi e il macigno della colpa.
Ammazza il bastardo, non graziarlo ancora. Prima di sparargli a “Salve, siamo entrambi vittime scarnificate, cinici perché rapiti dei polmoni vitali”, quasi un “ralenti” a fermar in primo piano De Niro, martellante di monologo più emblematico d’una revisione storica giocata d’approssimazione e retorica. Meno propagandistico del previsto, raggrinzito in cerea capigliatura argentata… e d’occhi “innervati” nel pianto singhiozzato, “commosso” in gola.
Sta sorgendo l’aurora…
Guardami negli occhi, amico-nemico-fratello.
Torniamo a casa?
Abbiamo entrambi imparato la lezione. Si può morire dentro, ma possiamo e dobbiamo respirare, rinascendo. Crepitar perché non del tutto morti. Anzi.
Dai, goodbye da amici, lottatori e un caldo abbraccio di anime spezzate, per nuove lietezze a brezza del rinnovato, finalmente, mattino.
L’ho visto oggi pomeriggio in lingua originale, attraverso il Tubo, ove è già disponibile.
Se l’avesse firmato, come inizialmente stabilito, John McTiernan, forse sarebbe stato un grande film.
Mark Steven Johnson comunque, nonostante le molte stroncature in “madrepatria” e il suo background da Daredevil ciechissimo-inguardabile, confeziona una decorosa avventura più vera di quanto si poteva immaginare.
Anche se, ripetiamolo, falsa un po’ gli accadimenti “reali”.
Ma, in effetti, la sceneggiatura black list di Evan Daugherty è buona, schiacciata e traballante solo per colpa dei limiti “commerciali” imposti dall’egida Millennium Entertainment, il cui capo Avi Lerner par che propugni il motto “Taglia-cuci-non aggiustar né va perfezionato nulla”, e Johnson si “limita” così arbitrariamente, “d’accetta”, a un compito svelto, discreto che “sbava” cruento in un paio di scene “marchiate” in forte truculenza e senso spettacolare un po’ monodimensionale. Poco sfumato e poco dilatato, in una narrazione compressa per le facili immediatezze di massa. Un film che, se diretto da man più maestra, poteva magnificarsi in poetico, gelido canto dei cigni.
Allora, perché 4 stellette? Perché nell’insieme è efficace, ha momenti appassionanti, regge la tensione, reggono benissimo il grande Bob e un Travolta bravo, simpatico. Stronzi tutt’è due.
Tiratori scelti, tant’è che, appena uscirà nelle nostre sale, me lo risparerò.
(Stefano Falotico)
“Amadeus”, Review
L’invidia può spezzar la gola d’un libero e immortale genio?
Ora, quando si parla di grandi registi non più in attività, balza “all’occhio” l’immane Michael Cimino.
Ma quasi mai, eccezion fatta per i cinefili purissimi, spunta il nome dell’altrettanto “schivato” Forman.
Entrambi paladini e difensori d’un Cinema meraviglioso oramai estinto, spazzato via dai soldi facili del guadagno “assicurato”.
Entrambi premi Oscar per due caposaldi inamovibili, titanici della Storia.
Che te lo dico a fare?
Cimino con l’epico, impareggiabile Il cacciatore e Forman col “cattivo”, arrabbiatissimo urlo del cuculo…
Un Cinema troppo forte, troppo “disturbante”, troppo forse per questo Mondo appiattito e vorace, prostituitosi in dissipatezze frivole, mercanteggiante d’ironie d’accatto e compravendite “volatili”. Quello di Cimino, di Forman e di quelli come loro, era (è) Cinema schierato, “diverso” come spesso tali sono sia le loro gementi storie difficili e sia i protagonisti “contorti”, incompresi e bigger than life, “anarchici”, libertini, errabondi, geniali, contro tutto e tutti non per propria scelta ma per innatismo che non può combaciare col gusto orrendo di massa.
Scherzaccio dei geni emarginati in virtù di essere geni.
Che orrore!
Che verità tristissima! In questo capolavoro assoluto, Milos “ardisce” al biopic sui generis, e lo adatta alla sua visione nel filtrare gli occhi d’un Mozart “infantilizzato” nella romanzata atrocità invidiosa del suo antagonista per antonomasia, il rivalissimo e “mediocre” Salieri.
No, Salieri non era mediocre affatto ma, in confronto a Mozart, sfigurava.
Salieri lo sapeva, non gli andava appunto a genio.
E, alla fine, il vero protagonista del film diventa proprio l’orco Salieri.
Mozart divien invece un Tom Hulce d’incantevole sottofondo indimenticabile. Tanto che a vincere proprio la statuetta come “Migliore Attore Protagonista” sarà il “bastardo” F. Murray Abraham.
Comunque, attorialmente strepitoso.
Mimesi allucinante della più bieca, incredibile crudeltà. Abraham, nei suoi occhi luciferini, addensa le sfumature sottilissime di ogni disumana meschinità e vigliaccheria. Salieri adora Mozart, n’è profondamente innamorato nell’inconscio…
Ma il suo amore universale si tramuterà pian piano in raccapricciante odio. Perché non sopporta la grandezza d’un compositore obiettivamente migliore di lui. Irraggiungibile, un “mostro” che partorisce sinfonie sin troppo perfette.
Da bravura che sconfina e anche supera il celestiale assoluto.
Mozart è divino ma è così terreno nella vita “reale”. Perché Dio avrebbe scelto un fanciullo osceno quale suo strumento!?, grida Salieri infastidito a morte, tanto da desiderare addirittura ardentemente la rovina di Mozart. Sino ad architettargli contro un piano suicida. Così, lentamente e a “fuoco lento”, l’avvelena. Innanzitutto nell’anima, flagellandolo nel suo tallone d’Achille, la sua purezza. Vulnerabilissima, nuda come la pelle appunto di un infante. Fin-finissimo a macellargli il Cuore, a dilapidare la poesia d’un “inspiegabile” diverso.
Mozart è certamente un diverso, forse in questo consiste il suo genio. Risiede sacrale, per paradosso, nella confusa, inconciliabile, sempre franta sua coscienza tra l’irrazionale immensità come artista e il suo “nanismo” come “uomo”.
Non può essere appunto un comune “mortale”, è un freak che mette a soqquadro le normali logiche.
Mozart è come un “bambino” capriccioso, ridacchia, si ciba di donne bellissime con la “grazia” d’un moccioso irritante.
E questo a Salieri non va giù.
Alla fine, tale sarà la sua invidia nei confronti di Mozart, che lo “ammazzerà” davvero. Lo farà “impazzire”.
Quindi, si recherà fra i lebbrosi ove Mozart era “ospite illustre” prima del decesso e, sconvolto terribilmente dalla sua cattiveria, rabbrividirà beffardo verso se stesso.
Ridendo come un matto dell’orrore da lui ordito.
Piangendo la scemenza sua, del Mondo e dei mediocri che non capiranno mai.
Salieri è stato capace di annientare un genio, di ridurlo davvero come un idiota.
Che assurdità.
Meglio allora ridere che piangere.
No?
E, dostoesvkijanamente, Salieri così ha firmato la condanna a morte della sua anima. La sua indicibile brutalità lo ha marchiato di rimorso nell’eternità imperdonabile. Agghiacciante.
Mentre Mozart, purtroppo o per grande fortuna nostra, vivrà per sempre.
In questa ridicola contraddizione, vige la grottesca vita ribaltata.
I mediocri vivono, si fa per dire, i geni sono destinati a soffrire come minimo.
Il resto è la condizione umana.
Una storia horror che ci ricorda qualcuno? Già. Ridi pagliaccio!
(Stefano Falotico)
“Robin Hood. Principe dei ladri”, Review
Il capolavoro di Kevin Reynolds, l’apice di Kevin “A Perfect World” Costner
Ci sono film che non sono grandi film ma, con quietezza strabiliante, quando ti senti gagliardo o troppo “adulto”, forse dissipato nel nero dei disillusi, come tutti… riaffioran dolcissimamente e allevian la durezza. Coriaceo, mi stavo “inamidando” a tal album-e di ricordi fotografici, perso in una contemplazione del tutto vivermi ma non succhiarla davvero… vita che mi baci, mi avvolgi e anche tanto smantelli la Bellezza delle mie tante adolescenze, rinate, sommerse, rispuntate, “sbeccate” o qui a me spiccato ancora.
Falco che “naviga” impetuoso fra nuvole d’un creaturale cratere, magma che odo profondo, squittisce, si sfama, s’assesta, tempestoso s’infligge altri castighi contro i “buonismi” falsi del mio nascondere chi sono, dunque sbattertelo in faccia e, acuto, raschiare le montagne in me soggiaciute, di come tacqui e ammutinato fui sfiancato.
Forse, solo mia troppa franchezza, si sa… la sincerità non paga e chi è generoso sconta lo scontro con una realtà tosta, testardissima, cocciuta, ma proprio di coccio, cazzo. La scacciai, la rinnegai, mi negarono e appunto annerirono.
Ma qui son “vegetale”, domani un Twin Peaks nei labirinti del groviglio mentale, spasimante a candido o ribelle accanito, veggenza e alterità oltre, altare e ateo, in un’altra era, così sia o chi siamo nelle esistenziali foreste a uccider ogni megera, a leggerci fra una roccia di sobria ed enigmatica fluorescenza, pesci in un acquario o turbinare in dissoluzione oceanica, a (s)cro(s)ci degli eletti, profeti biblici ma non Messia.
E, fra tal autunnal riflettere, costellami Donna di beltà odorosa.
Come ti chiami ora? Lady Marian?
E stasera la Luna sarà più vera.
Pura come il vetro di maree veneziane, spoglia il tuo animale e liberati in fluide vacuità pregne di valor virile.
Ergimi nel crepuscolo di tutti i solstizi, allevia la mia solitudine, sii chiara e oscuriamo il finto clero. Oh, acclara la mia pecora “nera” fuori dal coro e aggregati nella pastorizia del mio “grezzo” gregge. Via dal violento branco, io dinastico, dallo sporco Mondo con le sue usanze e tal volgare transumanza, ammansiscimi e “allineami” a tua caldissima l(i)ana.
Son scimmia, Uomo evoluto e poi poeta estinto, stronzo e liscio, grosso e belloccio, domani un arciere. Il Principe del ladri.
Il sangue blu!
Chi è Robin di Locksley?
Figlio della nobiltà di Londra. Combatte le crociate per onorare Riccardo Cuor di Leone.
A Gerusalemme, viene catturato dai mori. Lo torturano assieme ad Azeem, un prigioniero di colore. Robin gli salva la vita e, da allora, si giurano promessa eterna. Assieme scappano e Robin s’imbarca per riabbracciare la sua patria.
Azeem è “obbligato” a seguirlo. Secondo la sua religione, infatti, chi salva la vita a un Uomo deve diventare lo “schiavo” del suo eroe, finché debito non sarà ripagato.
Robin, dopo anni di duro soffrire in terra straniera, a ritoccar la polvere di quella spiaggia agognata, come Cristoforo Colombo dinanzi alla vastità di quelle rive ancora vive, urla di piacere sconfinato, si commuove. Perché è sopravvissuto.
Ma la gioia dura poco.
Nel frattempo, suo padre è stato ucciso da uomini bendati, capitanati dal minaccioso Sceriffo di Nottingham, l’Alan Rickman più die hard bastardo. Il villain, con l’inganno, s’è insediato in posto di comando.
Usurpatore maledetto del nostro splendido regno!
Doveva essere un trionfante ritorno, mio Robin.
Invece, hanno accecato anche il tuo umile servitore Duncan, tuo padre han vigliaccamente assassinato, e la tua magione è stata bruciata.
Sei stato trucidato nel Cuore!
Hai perso tutto, chi crederà ora al tuo onore e alla tua dinastia?
Al tuo sogno da Principe?
Con gli occhi distrutti dal pianto, Robin guarda il vuoto.
E viene illuminato come per miracolo.
Da allora, si trasforma in un lupo.
Hai servito l’Inghilterra, hai prestato fede ai valori dell’amicizia e dell’amore. E ti hanno ripagato con questa porcata devastante?
Solo chi è stato “ucciso” nell’anima può non avere più paura di nulla.
E Robin diventa Hood. Difensore degli oppressi, dei deboli, dei sottomessi, degli umiliati e dei vinti.
Il Principe del Sole e del vento.
A sconfiggere e ribaltare il traditore Tempo! Fulmine e tempesta!
Forza e potenza!
Li raccoglie uno dopo l’altro come Cristo, come San Francesco, come Che Guevara. E vanno tutti a vivere nella foresta.
Lo sceriffo diede ordine di ammazzare i vecchi, pochi son scappati al massacro, e gli uomini dello sceriffo hanno arso le case della povera gente, stuprando le loro donne, uccidendo a sangue freddo perfino i bambini. Solo un pazzo, un sognatore senza più regole, un anarchico furioso può compiere la missione.
Solo un salvatore!
Perché rinascerà Lui e chiunque sia stato brutalmente “morto dentro”.
Un suicidio annunciato? No, una vendetta scagliata con acutezza, una strategia infallibile, nella minuziosa cura d’ogni dettaglio, programmata in ogni particolare. Sino al finale.
Il malvagio bugiardo viene smascherato.
E ora amore sia. Benedetto dall’intoccabile Sean Connery.
Molti anni fa, forse ne saran trascorsi una decina, gente spietata mi urlò: “E che puoi farci adesso, nostro Narciso? Ammazzarci? Ah ah! Ammazzati, la tua vita è finite!”. Ma “Robin” deve ringraziare questa scelleratezza dalle proporzioni mostruose perché, da allora, ha ingigantito invincibilmente il suo genio.
Lo ha (ri)caricato!
Quindi, mio “fratello”, Christian Slater, cristiano che mi aveva sempre reputato un viziato capriccioso e bimbetto, capì tutto.
E mi resse il gioco.
Si va avanti, buffone.
E quando ti vedrò crepar fra le sbarre dell’Inferno, allora riderai ancora?
Al che, mio fratello grida “Ammazza quel porco! Robin, fai giustizia!”.
E io: “Io sono il Principe. Lui no. Lui è già morto dalla nascita. Ed è per questo che io sono il Principe”.
(Stefano Falotico)
Questa parte conclusiva personale si chiama frecciatona!
“15 minuti. Follia omicida a New York”, Review
Nel Futuro… In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes
Fame, it’s not your brain, it’s just the flame
Sulle note d’un Bowie fiammeggiante e famelico di “fama”, la fauna di New York.
Ove Lucifero si nasconde, qualcuno lo sa, ed è proprio lo sbirro Eddie Fleming, un De Niro allucinato nella sua “viscidità” a (p)ungere duplici omicidi di personalità multiple “appaiate” in due.
“Tumefatto” nei suoi sigari che lo stropicciano, “appiccicato” alle “spine” della sua “rosa”, Nicolette Karas, una Melina Kanakaredes tanto “cara”. Da invitare in cene intime per “intimarla” a baciarti “alla francese” d’“accento” pronunciato sul “ne(r)o” di un’indagine “ad alto fuoco”. Infatti, in questa strambissima detection, il nostro Eddie viene affiancato dal “vigile”, anche troppo, Jordy Warsaw, un Edward Burns in mezzo al “burning”. Fra pedinamenti a Central Park, incendi “backdraft” (memori-e del Ron Howard “assassino”), parrucchiere “spione” e forse proprio i protagonisti a esser pedine, “pedoni” piatti di poca acutezza e fiuto tanto istintivo quanto assai rischioso. In questo trambusto, in quest’“arrosto”, puoi rimetterci le penne, Eddie…, la morte corre sul filo del “citofono”.
“Chi è?”. Toc toc, o tic tac?. Cattura(ti?). Non gridare troppo presto “vittima” se sei carne già a pezzi.
Brividi freddi, a “combustione lenta”, “legati” a una sedia “elettrica” ove ti squaglierai, amico “Fleming”.
Long goodbye…
Questi due russi non se la russano, assolutamente. Orribili storie(lle) di “fornelli”, da “storpi” molto “furbetti”.
Pazzi sì, uno così folle e, “infuocato” (già), da azzardare anche di “psicopatia” pura come una diagnosi cucita a pelle.
Sì, il più “matto” arriverà a prendere in ostaggio Jordy, filmare tutto, farsi dichiarare “infermo di mente” e, una volta uscito dall’“ospedale psichiatrico”, (s)vendersi al giornale da prime time d’un Kelsey Grammer più cannibale di “successo”.
Questo qui non vede l’ora di avere fra le mani “roba che scotta”. Quasi quanto le cosce di Kim Cattrall… sex and the city. Che figa!
Un casino pazzesco, microfoni che volano, “piatti da lavare”, perfino l’effigie” di Rocky Balboa, vetri frantumati, la bandierona americana un po’ “insicura”. Traballa quanto le certezze che vacillano.
La Statua della Libertà a far da sfondo a questo putrescente “fondale”.
Charlize Theron per un favore “cameo” a John Herzfeld, per due minuti senza respiro, Vera Farmiga prima di Scorsese, già carina forse di più. Che departed di bizzarro parterre.
De Niro ancora “autoparodistico” che monologa allo specchio col suo anello di fidanzamento, ma non ci crede, bravissimo è un “braccio violento della legge” al suo Marlowe di completino marrone. “Maculato” nel cappuccino che sarà “incappucciato?”.
Scop(pi)a lo scandalo, qualcuno parlerà. Che assurdi gli USA. In Europa si sta peggio.
Qualcuno “emigrò”, la guerra fredda è sempre un terrorismo giocato su regole “opposte”, così simili che quasi si sfiorano, anzi, si toccano per un attimo, si fottono a vicenda, si (s)cambiano gli abiti.
Chi è il fascista? Chi è il difensore della “Patria?”.
Si salvi chi può!
E tutto brucia di un cazzotto che si merita il “Vaffanculo” finalissimo.
Così è, così stanno zitti tutti i pezzi di merda.
Ha vinto Edward, ha vinto la giustizia!
(Stefano Falotico)
“City by the Sea”, Review
Le ceneri dei ricordi, sopendosi ermetiche, giacciono in una coltre sospesa d’errori imperdonabili, complessi “paternalistici” che s’ereditano in geni “fuorvia(n)ti”.
La gioiosa giovinezza s’amputa e lagrima in brezze gelide vicino a una baia che proprio sta abbaiando il suo morso selvatico urlante.
Rapporti genitore-figlio divelti, indifferenza, il Male più grave ché incide di non sentire. Nessuna empatia, lontananza, ognuno per la propria strada.
Onde marine in burrascoso frangere le speranze. Ci sono ancora o è un turbinio di “circostanziato” sbaglio?
Forse sì, sbadigliasti, travolto dall’impetuosità d’impulsi autodistruttivi che non hai dominato quando dovevi calmarti…
Come il mare, è oceanica delizia la contemplazione del vuoto o, meste, le profondità dei tuoi abissi ti spaventano.
Ti divori, il livore ti succhia l’anima, guaisci e piangi da solo, spizzichi le corde d’una chitarra “muta”.
Ascolti il rumore tiepido del nero e del non senso. Rapito, incantato o per sempre negli incastri dei tuoi arrugginiti spasmi dilaniati?
Quando azzardasti, troppo ferirono. Quando liberasti l’urlo, violacei apparvero fantasmi omicidi.
Genealogie che non estirperai, DNA radicato in te, via fosca, sempre più buia.
Rimpianto od ossuta immolazione dell’issarsi finalmente in una visione che non sia demistificato tuo essere nel sembrar perennemente chi non sei mai stato?
Michael Caton-Jones e la sua voglia di ricominciare, dopo una vita che forse non lo è stata davvero, o come la si voleva.
James Franco, James Dean, eccolo a “sostituire” DiCaprio. Il padre è ancora una volta Robert De Niro.
Lì era un padre manesco, qui invece irresponsabile o semplicemente problematico, incasinato tanto da non potersi più occupare del sangue del suo sangue.
Alcune straordinarie, magiche e luminescenti riprese di New York evocano Taxi Driver. E il fotografo Karl Walter Lindenlaub sfoca le tenebre in plumbee malinconie lievi.
Film che, apposta, sbanda fra il poliziesco, il melodramma, meraviglioso racconto sui generis di formazione, sottovalutatissimo. Intrecciandosi in suggestioni di forte impatto emotivo.
Indimenticabile colonna sonora tetra, ossessiva, quel campanellino che “ronza” in riva al tramonto ci tormenta. Che fischietta del Passato, che rinasce fra le nebbie e la tragedia sfiorata.
Un film straordinario.
(Stefano Falotico)