“Il cacciatore” by Davide Stanzione
Uno di quei capi d’opera che, quando ti ci affianchi per scriverne, la penna prima ti tremola e poi viene spazzata via dall’impeto di grandezza. Il Cacciatore di Michael Cimino è quel Cinema più grande della vita e più grande di tutto, che non aveva paura del rischio e del gigantismo, del lirismo spensierato che si riversava nel dramma cocente come uno shock anafilattico: scene da un matrimonio e poi il Vietnam, ba-da-bum, senza nessuna mediazione, tre quadri scissi di racconto che non temono la separazione e il taglio brusco. Dritto nel cuore di tenebra dell’orrore.
A rivederlo oggi, è uno dei più grandi e torrenziali prototipi di libertà sconfinata dell’ultimo cinquantennio di Cinema, uno di quei film che vorresti parlarne all’infinito, anche solo per dire quant’è maestosamente macabra e dolorosa questa o quella scena, che belle luci ha, che impeto maestoso e tragico che aveva la regia di Cimino. Uno che aveva un talento così limpido e incandescente che infatti s’è bruciato. Non fa una piega.
“The Crossing Guard”, Review
La verità di due anime “vigliacche”, vinte nelle cantilene solitarie d’anfratto addolorato
Un impermeabile passeggia. Lo indossa un ectoplasma.
Chi è Freddy Gale? O meglio chi non è dopo l’incidente mortale, casuale che ha ucciso sua figlia? Aveva solo sette anni e un “mitomane” ha ottenebrato la sua infanzia, ove è ascesa, forse, vergine estrema.
Sterza il dolore, singhiozza, titoli di testa “incastonati” nel freddo polare dell’orso Jack, il miglior Nicholson “vecchio”. Rancori da taxi driver d’un calvario a titanica colpa esistenziale.
Un biblico fruscio occhieggia nel suo Cuore, per sempre, “profanato”.
Si strangola in mattinate uggiose, “raschia” nella pelle “sciamana” dell’animo indelebilmente affranto.
Anestetico di alcol per tamponar la ferita ma s(t)rappa le ossa interiori, si morde la coda e attorciglia il sospirar fluido. Glaciale, mette i brividi. Opacizzato, geme Jack, invero urla in “dimesso” abito da “gioielliere” innanzitutto del suo sangue rubato, graffio che “dondola” a sacral radice dell’agonie imperiture, come un crash a turbarlo e corrugarlo, a invischiarlo nella tenebra perenne, a sguaiato smorzarsi, disancorato, perduto, fantasma. Una perturbazione fosca, scolpita nelle già ingiallite, sdrucite iridi “vagabonde” del suo “patetico” giullar apparir calmo, imperturbabile.
Crollato nell’amore, divorzio che non ci sta, si autodistrugge. E se ne scola.
Ma quei locali di spogliarelliste soltanto atterriscono. Goliardia d’“euforia” finto-erotica che puzza rancida, alone… di sigarette e di se stesso smarrito.
Il “mostro” esce di prigione, è “felice”… tanto che vuol baciare altre notti nel profumato Sesso della sua ex compagna. Se ne riavvicina, la “cattura” ancora e Lei l’accarezza, lo “stritola” nell’avvinghiato desiderar che il suo Uomo intinga il rimpianto di “bianca” assoluzione. Lui, tremore radicato, l’afferra ma poi la schiva, strozzando le lacrime nel volto angelico di rugiade “sporche”.
No, non si perdona. Colpa d’una manovra azzardata, d’un non brusco frenare, d’una distrazione letale.
Distruttiva d’una vita altrui nel riverberarla in sé “macchiato”.
Macchina che perse il giro. Involontario omicidio.
Freddy ha aspettato che quell’“ubriaco” tornasse a piede “libero”.
Per vendicarsi.
Concede tre lunghi giorni all’“assassino”. Ma nell’intermezzo ci son le lune “cattive”.
E la mira, tanto affinata, si sta arrugginendo, il tuo ruggito bestiale, squagliato, mormora un’imprevista traiettoria a riflesso dell’altro “spettro”… della medaglia.
No, entrambi segnati. Nessuno scont(r)o.
Sulla lapide della vostra, sì, vostra bambina, raccolti in preghiera siete, come tutti, inseparabili fratelli.
Un capolavoro, anomalo. Grandissimo. Ronza “inquietante” quella “Missing” di Springsteen. Ieratico struggersi.
Sean Penn dedica la sua intimità romantica all’amico Bukowski.
Mi manchi…
(Stefano Falotico)
“Tinker, Tailor, Soldier, Spy”, un masterpiece all night
Vanità disperse, nubifragi di anime, a sottecchi spie di (non) se stessi, fantasmatici.
I sospetti centran gli occhi sparvieri di Gary Oldman, incavato nel plumbeo della cravatta grigia.
Un thriller flawless come i suoi superbi attori, capitanati da un Oldman draculiano ancora una volta. Un vecchio volpone.
Una colonna sonora che vi ricorda il Nosferatu di Coppola? Eh sì, per poi prender il volo profondo.
(Stefano Falotico)
E perché mai “The Deer Hunter” dovrebbe esser inferiore ad “Apocalypse Now?”
Adoro le nuotate deliranti, apocalittiche, atemporali e mistiche di Coppola, ma il film di Cimino abita in un ambito di notevole impatto, forse senza dubbio meno visionario, ma visivamente emozionale in modo ancor più radicale, e a incubo della guerra purtroppo imbattibile della follia umana.
Lo spettro agghiacciante della roulette russa, giochetto assai pericoloso e da point of no return. Assolutamente.
Uccidere un cervo è come scorticare le anime dei puri. E assassinarle in modo letale, cerebrale. Di freddezza mortifera.
Cinema di ghiaccio magnifico.
Il cacciatore, Apocalypse Now e Full Metal Jacket: quale di questi è il vero assoluto capolavoro sulla sporca guerra?
So che, travolti dalla fotografia rosseggiante d’un Vittorio Storaro nell’immaginifica “contemplazione” cosmica di Coppola, tinta d’ombre foschissime, in auge elevate il suo imprescindibile a totem.
Ogni cameretta della mia generazione, non può dichiararsi “cinefila” se qualche locandina o manifesto non avete affisso su qualche parete, non so se dietro lo schermo del PC a “scrutarvi”, o nel fronte-retro dell’inabissarvene nei momenti di triste euforia umorale.
Lo so, siete fatti così. E appena la giungla viene “bombardata” dalla scossa di Jim Morrison, vi prefigurate quel ch’avverrà nichilista. Succhiandovi i “polpastrelli” oculari dell’asmatico respiro a polmoni di “pazzia” inconscia issata allo stremo del credervi combattenti d’un Mondo “color” orrore.
Così, “caricati” epicamente, come una cavalcata afferrate i neuroni sovreccitati e li “spruzzate” a raffica su qualche “valchiria” ch’assecondi le vostre foglie “decadute”.
Ah birbanti. Solito solipsismo. Rapportate perfino Francis al vostro “ambiguo” San Francesco frustrato.
Ma, sinceramente, eccezion fatta per i singhiozzi stupefacenti del mio Cuore fulminato da tanta Bellezza, angosciosa, dolorosa e posseduta a incapsulate perfezioni formali diluite nell’energia dei suoi eroi distrutti, “ficco” il Dvd del Kubrick…
A rivederlo, lo sminuisco, e non intendo cambiar idea.
Apprezzo la retorica dei “pestaggi” psicologi (e non solo) sulle palle di lardo che, da innocui buffoncelli ingenui, vengon trasformati in robotiche macchine da guerra “levigate” come i fucili stuprati nel proprio corpo percettivo spappolato.
La seconda parte…, un ribaltamento di prospettiva, ove finalmente i vietcong sono come gli indiani sterminati.
Ed è per questo che il Joker “ama” John Ford, perché è un pagliaccio della verità “a stelle e strisce”.
Dunque, tanto di cappello a Stanley. Programmatico a scoprire l’acqua calda ch’era stata gelata dai luoghi comuni “a cazzo duro” dell’America senza scheletri.
Poi, mi capitan “a tiro” le immagini lagrimose di Michael Cimino. E ogni scena del suo film è superiore a ogni minimo frame degli altri due capisaldi e contendenti.
Perché vive di più di poesia.
In poche parole, Cimino sta sopra, essendo gli altri due capolavori troppo diversi e non paragonabili.
“Il silenzio degli innocenti”, recensione
L’agnellino piangente lagrimò di bestial ferocia “innocua”
La saga lecteriana di Thomas Harris trova successo, planetario e oscarizzato in tutti i premi maggiori, nell’imperfetto capolavoro di Jonathan Demme.
Demme “entomologa” la banale psichiatria bestseller di Harris e la sbrana a lembo di lambs urlanti nelle silenti pareti fredde dei fragilissimi cunicoli (dis)umani, a brado raschiare le anime avvizzite e temprarle nell’accese frenesie del cannibalismo d’un rito sacrificale immolato alla sopravvivenza.
Ove Michael Mann esaltò le dinamiche “calibrate” della sua indagine da “licantropo” manhunter, un investigare assoldato all’Actor’s Studio della criminologia, arpionando il mostro dentro la spirale-specchio del suo signor Hyde “dolce” e dentro-fuori la maschera doppiogiochista della giustizia, una perfezione d’immagini elettriche-divoranti-fluide-cicatrizzanti, natanti nel brivido a pelle del diverso “spaventoso”, simbiotico nel vincerlo di nemesi punitrice, Demme gioca le sue carte nella spettacolarità colorata di rosso e denti aguzzi, sopraffino “fotografo” delle paure inconsce e (sovra)impresse a tagliente carisma d’un Anthony Hopkins radentissimo, sobrio, elegante freak dalla quasi messianica efferatezza “b(o)riosa”.
Anche Lui, Lui più di tutti, l’antonomasia stessa della carne lacerata del mostro morsicante.
Sigillato nelle mura d’una prigione che resiste al tremendo (non) e-spiarsi, dipingendo fantasia michelangiolesca nella vetta acu(i)ta del candore rubato.
Ruggisce calmo e asceta, erutterà sanguinario!
Lecter, linciato e vivo-“dead man walking”, bruciato-iracondo a supplizio “savio” nella condanna infernale, oh oh, gemi rattrappito e sibili come il Demonio pittato di gote “golose”.
Ti capita a “tiro” la tirocinante Starling, timida e permalosa, “cazzuta” e diplomatica, anch’ella come tutte le altre ancelle “cast(igat)e” nel servil prestar servizio “civile”, (ig)nobilmente soggiogato da un manicheo, oscur potere crudelissimo.
Vi “giocate”, vi guardate, esplorate nei vostri incubi a strapparvi l’innocenza. Tu, Lecter violato che aneli al libero volo, tu Starling la “contadina” impettita in un tailleur che arde d’erotismo “squadrato”, esangue muliebrità d’una bella Donna troppe volte “virilmente” umiliata dai branchi a “spruzzarti”, anche solo d’occhiatine furbe alla gonnella, le pudicizie “spermatiche”-impaurite, fiere dell’oggi tua femminilità “lapidaria”. Emancipata ma così ancor incerta, come tacchi “spaccati” in collant sofferenti, attillati alla disillusione che la purezza è oramai azzannata dall’“obiettivo” malizioso di chi, cineasta esperto o voyeur insaziabile, strangola la “sciocca” tua infanzia con lo zucchero filato sulle sbiadite bianche iridi illese.
Il “buffone di corte”, il (non) Sesso di Freud, l’eremo dell’ “insensibile” killer nella Notte degli orrori. Oh, che sotterfugio il suo stesso nascondiglio, bugia al suo Cuore desideroso ma invero (e)virato all’affrangersi “Nosferatu”.
Caccia senza tregua al “vampiro” delle verginità che succhia nella sua “culinaria” cucina soffocante.
Bavaglio anestetico al (non) piacersi. Crollato nella sua umanità, antropofago dell’anima sua recisa.
Accanito, il cagnolino è ora lupo e morde di “(dis)g-i-usto”.
Similarità con Mann nella dialogica “a penetrazione” di due vite spezzate, una (s)lanciata nella Donna Jodie Foster fighissima, e l’altra nel suo bramare una Luna serena già d’eclissi rugosa e “repellente”.
Un inseguimento di suspense tagliata con l’accetta, scandita dalle movenze oculari, dalle caviglie della Foster a “scandire” la bomba del suo seppellire le paure per sempre. Agguanta e uccidi il mostro, fisicamente, e l’alba non udirà più il lamento snervante, omicida delle pecore macellate.
I lupi…, tu e Lecter siete così “diversi?”. Due complementari “giustizieri”, (com)bacianti dietro un romantico cavo telefonico.
Squilla, squilla, squilla la vocina melliflua. E duole…, nelle profondità del vostro, nostro buio.
Di tutti.
(Stefano Falotico)
“La grande bellezza”, recensione
La grande bellezza è un film enorme e grandioso anche solo per la maniera suadente e meravigliosa con cui sfugge allo sguardo di chi lo guarda, proprio come una donna così avvenente da togliere il fiato ma con addosso un’aura di segretissima ritrosità. Per il modo in cui si sottrae, mellifluo e sornione, alle globali e facili letture di senso, come un gatto furbissimo, di quelli che hanno i baffi lunghi e ondeggianti. Un film bello ma non feroce come ce lo si aspetterebbe, con quello stesso vago sentore di indulgenza che si respirava ne Il divo, anche se qui la tonalità del racconto è a tratti meno stilizzata e più solenne (che musiche, in un continuo malickiano levare…), asservita a un’incessante danza pagana.
È un film senz’altro da rivedere, non facile, da ripensare per molto tempo ancora. Ma è pur vero che nella seconda parte il talento di Sorrentino pare come sedersi, in attesa di un’epifania definitiva che non arriva mai, inseguendo con la percussione dello stile la (sua) grande bellezza ma dando al contempo l’idea di non riuscire mai completamente a raggiungerla. Sorrentino si rintana (luminosamente, eh) nei propri misteri, da meraviglioso rabdomante qual è. Nel finale riflette sull’essenzialità (ed è emblematico che lo faccia, proprio lui…), come suggerendo che se la religiosità è povera e pauperista, l’arte invece, se è vera arte, non può che essere profana, (e quindi) opulente. Alla fine, dopotutto, “è solo un trucco”, nella vita, nel cinema, nel (loro) racconto. Però la sensazione è che la frase di Jep Gambardella – stavolta – valga anche per Sorrentino: “È così brutto essere bravi. A forza di essere bravi, si diventa abili”.
Davide Stanzione
Sean Penn, (im)mutabile
Sean Penn. Cosa posso dirvi? Testa calda, non la domi con una fiaschetta di buon vino alla Bukowski.
Tanto poi è più incazzato di prima e non ti conviene dargli due sberle per svegliarlo. Ti rifilerà una serie di ribellioni marchiate a sua pelle “indiana”.
Be’, indiano lo è… sempre stato, instabile di un’altra epoca, forse di una Terra Promessa straniera.
Uno springsteeniano dentro, e nella sua anima appunto risuona e scandisce una melodia tragica-amara con picchi pazzeschi, esorbitanti di poesia pura. Melodia!
Basta osservarlo negli occhi, non scorticarli con visioni “a prima vista”, frettolose, che non sanno un beneamato cazzo di chi li “abita”. E si muove nella sua sfrontatezza a Cuore introiettato dentro la via vera. Fatta di casini, gelosie, amici stronzoni, tradimenti, corna, pestaggi e risse. Perché no? Il carisma di Penn è un capire subito ch’è un lupo solitario…
Se non fosse figlio comunque d’Arte ma uno “qualsiasi” della provincia medio-bassa americana, eccolo… in un bar scalcinato a vomitare la merda del troppo tener dentro e poi scoppiare, dar di botto perché uno così non è un ipocrita e lo rifarà. Non ci provare!
Sì, un Bukowski magro con più fortuna hollywoodiana. Almeno, ha incanalato il suo “duro” di chi delle regole se ne frega. Anche del sistema “burocratico” della Mecca.
Sposa una Donna, Robin Wright, poi se ne scopa un’altra fra una “pausa” e l’altra, “schizzato” Sean, di brutto.
Divorzio? Aspetta prima di concedere a Robin le carte della pratica “inconciliabile”. Intanto, anche Lei non gli è “coniugale”. Una Madonna con scheletrini nell’armadio. Ah sì, Giulio Cesare avrebbe diffidato di una “magrezza” tanto “figa”. Non me “la” racconta questa figliuola…
E che gli puoi fare? Chiamare la stupida “assistenza sociale” di qualche regista “bravo” a raddrizzarlo?
Più “dritto” di così si muore. Non ci son cazzi, appunto.
Litiga con Woody Allen per un personaggio a modo suo, e manda in quel posto Oliver Stone perché semmai ha tagliato il suo “ciuffo” durante l’amplesso “boschifero” con la migliore Jennifer Lopez. Per una volta “seria” in quanto proprio puttana “sfruttata” a dovere. Piazzata sotto le frasche delle sue seduzioni a sedarla d’uno “Stai bonina nel culone e recita come Dio comanda”. La recitazione viene. Alla grande. Coppia che scopa ai pochi flash d’un film sbagliato, completamente.
Sean… io adoro i “pazzi”. Lui lo è, quasi meglio di me. Per il resto, c’è la cassiera dallo “scontrino” alla fiscalità vostra del vederla “eleganti”.
Sean è rozzo, animal-“rospo”, ed è per questo che sente il Mondo e combatte per una morale anche attoriale.
Principe e un po’ gigolò.
Se avete qualcosa in contrario, nulla da fare. Ve lo ficcherà nel popò. “Stai zitto papà!”.
Vi manderà sempre a cagare. Bene o male che Sean sia.
Amen, siategli cortesi. Per (dis)piacere.
Benicio Del Toro, dark eyes on moonlight
Benicio. Questo nome non mi è nuovo, eh no.
Rassegnatevi, centellina interpretazioni col contagocce ma è dotato di una sensibilità da “gozzo” alla base del suo carisma in quelle “gole” iniettato. Genialoide, saltella grassoccio di pellicola delirante a birbantissimi camei, cammello stanco di palpebre altisonanti e sonnecchiando ad abbagliarci. Occhiolin che (si) duole mai più sarà un nuovo Bobby Mitchum ma talentuoso egual forse gl’è anche superiore per discendenza “calma” da portoricano “triste”, dunque l’emblema del persuaderci che non è mai “sincero”, in quanto Del Toro in uno Sean Penn e dollari vostri scoperti di traffic solo grazie alla Natura fisionomica della sua mimica nello spargerci “ematomi” sui dubbiosi tanti toc toc di “testate” pertanto camaleontistiche fra il deniriano e lo “scorbutico” stronzo da cuoio nelle iridi intrecciate in folta capigliatura roboante! Non so dove cazzo sia nato Mitchum, un americano comunque. Benicio è superiore in faccia interplanetaria da culo come poche.
Egli va da una Donna e le strappa con ardor la “seta”, penetrandola colla dolcezza 21 grams. Poi, dopo l’amplesso di gran “levatura”, si veste “di strisce”, gira la “chiave”, romba nel motore del suo fegato e s’eclissa nel buietto a farvi la bua, imprendibile e ballonzolando, se gli va, se gli “tira”, in pigiamino alle macchioline di fragola e un sorriso al pistacchio che depista i poliziotti bastardi, rispettando solo la semaforica del suo Cuore pompato a mille. Ci può scappare un pompino allietante, Valeria Golino gli fu più “dentro” in mutande. E anche tutte le “altre”. Benicio punisce, Benicio gua(r)isce, Benicio “spinge”.
Basta con le frottole. Tu, moscio, ficcati nel deretano una “frittella” se di rivoltelle non vuoi esser per Benicio un “involtino”. Sgomita pure per chieder perdono, Del Toro non te lo donerà.
Guarda questi suoi film, e stai zitto, riga dritto e fai sparir, altrimenti ti sparerà, le righe di cocaina.
Secco, senza pensarci due volte, pensando alla terza “volta” dopo il due senza un terzetto di figone.
Son of a bitch, ecco il big cock a te, mio interdetto. Spaccati le nocche, lascia stare “quella”, buona d’albicocche e da coccolare nel Del Toro torridissimo come l’Estate (tra)montante d’Agosto in te “caduca” e delle fottute calure. Benicio è tenero col gentil sesso e fratturante se tu, “uomo” dei suoi stivali da cowboy, non rispetterai i segnali. Osserva come Benicio si pettina, come asciuga il ciuffo di frangetta a Cannes e come, 5 minutes later, è di nuovo “sbuffandoselo” di “gel” nello Sguardo “Woman, vieni qua, stacca… la croce del mio petto abbronzato su pantaloni longevi del fregartela nei pantacollanti”.
Benicio, Viva il Che!