David Cronenberg on Christopher Nolan
From http://blogs.indiewire.com/theplaylist
For those of you have queued up to see “The Dark Knight Rises” three or four times now, and are ready to proclaim it as a filmmaking masterwork, David Cronenberg has got a news flash for y’all. “A superhero movie, by definition, you know, it’s comic book. It’s for kids. It’s adolescent in its core,” Cronenberg recently told Next Movie. “That has always been its appeal, and I think people who are saying ‘The Dark Knight Rises’ is, you know, supreme cinema art, I don’t think they know what the fuck they’re talking about.” Looks like the director brought some burn sauce with him from Canada on his press rounds for “Cosmopolis.”
Perhaps he’s still a bit upset about “Eastern Promises 2” getting scuttled, or maybe just the mood in Hollywood these days put him off, but the filmmaker didn’t hold back, proclaiming that one of Nolan’s earliest movies is still his best. “Christopher Nolan’s best movie is ‘Memento,’ and that is an interesting movie. I don’t think his Batman movies are half as interesting, though they’re 20 million times the expense,” he said. And he’s not entirely wrong. In fact, in our recent retrospective of Nolan’s films, we said that “it could be argued that it’s the director’s most complete film to date.”
However, Cronenberg does admire one aspect of Nolan’s expensive tentpoles. “What he is doing is some very interesting technical stuff, which, you know, he’s shooting IMAX and in 3-D. That’s really tricky and difficult to do. I read about it in ‘American Cinematography Magazine,’ and technically, that’s all very interesting,” he said, before adding a last jab. “The movies, to me, they’re mostly boring.”
Now, before every fanboy loses their mind and thrashes their keyboards with rage, Cronenberg isn’t entirely wrong here. Superhero movies have been, for the most part, been “adolescent” aiming for a big mainstream audiences that includes making sure kids want to see it. We’d agree that something like “The Avengers” — a big, critically acclaimed earner — isn’t “cinema art.” Successful? Hell yeah. Something that goes beyond being mere entertainment (even if highly accomplished)? Not really. But we generally tend to think that Nolan is delivering something a lot richer than your standard comic book fare, but Cronenberg is free to disagree.
But the director isn’t Captain Bringdown on everything about the genre, and does say he would like to be involved….just not as a director. “Honestly, as a crew member or an actor, to be part of a huge industrial enterprise like that — ’cause that’s what it is when you’re spending $250 million — would be interesting. And also, it’s not taking up two years of your life or three the way it does when you’re directing. So if you can dip in for two months or three months, why not? And make a lot of money and have some fun. I’m not saying there’s anything wrong with that,” he said.
Anyway, you can see if Cronenberg raises cinema art himself when “Cosmopolis” opens on this Friday.
Scorsese is one of the greatest?
Abbiamo un sito intitolato a Lynch e alla sua vetta, Mulholland Drive, a mio avviso, nella sua essenza “impercettibilmente” smagliante di onirismo non toccabile, autentico e istintivo, superiore al pur grandioso Inland Empire.
Se ho utilizzato il termine grandioso, figuratevi cosa rappresenta, personalmente, Mulholland. Ah ah! Un Mohammad Ali, Alì, altissimo.
Strada perduta e perdizione, delirio sublimissimo. Da incantarmi anche dovessi finire a lavorare al catasto. Accatastando i sogni smarriti dell’emozioni che furono e da palpare fra scartoffie e racchie.
Cazzo sì, puro trip esoterico che non bada a intellettualizzare l’autoreferenziale. Prende la sua via labirintica nella Beverly Hills cacciata a velocità parsimoniosa d’un folle delirare totale. Senza filtri, schiaccia l’acceleratore filmico e non “trattiene” per paura di sbandare. Salta di palo in frasca, azzarda, osa ove deve e può, cambiando rotta.
Sbancando proprio al casinò. Ah ah!
Ma, per me, Scorsese non ha mai sbagliato nulla. Quindi, adorando l’interezza del Cinema, abbrancandolo in ogni suo palpito, diversific(c)andolo, tagliandolo a pezzi, rimontandolo a mio e solo, mai solipsista, piacimento, ne godo di varietà. Oggi un David, anche Cronenberg, un John poi Carpenter nel Ford di sentieri selvaggi e di nuovo zio Marty, eccolo di gigantesco “nomignolo”, far capolino e breccia dai “cunicoli” della memoria.
Corridoi della “paura“.
Che cosa voi vole(s)te sindacare di Shutter Island? C’è in “it” più geometria inquietante “dentro e fuori” un solo fotogramma, come dicono i detrattori, “a tavolino”, d’interi manierismi nolaniani Christopher in questo citazionista Kubrick suo Scorsese di tante bieche scopiazzature “tornasole”. Buone alla sola! “Sbava?”. No, mai buona la prima visione. Riguardatelo e non cazzeggiate per buttarmi giù questa Torre dal faro contro le vostre, sì pazze, fanfare.
Scorsese non è materia di studio per fringuelli dall’uccello ammanettato alla fighella, poveri stronzi.
Qui, si parla di vita vera che se ne frega di “fregiata” laurea guadagnata col “bonus” della “bontà”.
Come direbbe Travis Bickle, beccat(ev)i questa! In pancia! Secca, essenziale, genio devastante! Papponi, fa a pappine i falsi Papa e le false moralità.
Egli (at)tenta come un Cristo ambiguo. Perché la vita non è questione di centimetri, “caro” Oliver Stone né retorica per quattro pupazzetti.
Coglioni, preferirò sempre Martin a un Soderbergh Steven di cui me ne sbatto.
Vogliamo mettere questa perfezione shakerata con le puttanate “studiate” della “carineria” oggi “piacevole?”. Vaffanculo!
C’era una volta il West di Sergio Leone
Il mito della frontiera negli occhi ruvidi di Henry Fonda e Charles Bronson per una sfida pura prima della scomparsa.
Si può aspettare tutta una vita in silenzio.
Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, recensione
Very “bad” guy e Tenente… Gun!
C’è una peculiarità ammirabile nel corpo attoriale di Nic Cage, la totale strafottenza mimica e gestuale, l’incontrollabile “amministrazione emotiva” che scatta fluviale in stato cardiaco recitativo d’una nevrosi come un teschio, sovreccitato in defibrillazione “giallo magma”, a non inibire, anzi ad accelerare, fin al parossismo “screanzato” e sporco, i “dettagli tecnici” del suo “spararsi” in vena, adirata e imbizzarrita, quei sacrileghi dolori che serba dentro, sino a “ucciderli” in schiamazzi e urla “spermicide”.
Werner Herzog, per finanziarsi altri progetti più “autorevoli” e “autoriali”, accetta la proposta della Millennium Films e del suo guru Avi Lerner…, per una commissione che possa, in qualche modo, coincidere con la sua poetica flagellata di superomismo (auto)distruttivo.
E riesuma Abel Ferrara per un remake aggiornato ai suoi cari temi: il doppio, il credersi onnipotenti, al di sopra della legge morale, legale e soprattutto “divina”. Ma un diverso, insanabile conflitto alberga in te. Piangerai e urlerai, non puoi cambiare.
“Inalando” in Cage il cadavere “scomposto” del Kinski allucinato e matto.
Operazione riuscita a metà.
Non starò a citarvi tutti i ruoli in cui Mister Cage è stato simbiosi coi suoi nervi poco saldi.
In tanti, hanno visto in Nicolas una “macchina” adatta al desiderio registico d’“impressionargli” addosso il teorema “schizzato” del delirio, del complesso di colpa, della rabbia alla radice del suo istintivo, chemical “partire in folle” e contorcersi (av)volto(io) in smanioso, iperanimato, incontenibile “estro” (in)sopportabile.
Lynch lo tatuò in un selvaggio heart, Figgis lo strapazzò e “conciò per le feste”, aspirandogli il sangue nell’azzardo già postumo (non solo di sbronze…, ma proprio funerario, un morto che cammina per un destino irreversibile…) della Las Vegas “concubina” ed Escort al “pompino” scacciapensieri di un illusorio romanticismo già terminato in “bocca di rosa”, strangolata, recisa, sfiorita e dal troppo amore, “sdolcinato” ed eroticamente profluvio nel Sesso “ai margini”, singhiozzante dentro il loculo.
Brian De Palma aveva avvistato un potenziale Al Pacino scatenato. Non a caso, nel casting iniziale di Omicidio in diretta, il suo “amico” rivale doveva essere proprio il grande Al.
Lo stesso De Palma stava progettando il suo Howard Hughes con Nic, prima che la sua sceneggiatura, “improponibile” per l’ottusa Hollywood, fosse bloccata in “rampa di lancio”.
Il sogno aviator riuscirà algidamente a Scorsese, con un magnifico DiCaprio cristologico, film però “tarpato in volo” da Harvey Weinstein nel ri(n)toccarlo di mainstream oscarizzabile, dunque un Icaro smorzato, rimpicciolito nel suo gigantismo reminiscente Orson Welles.
Prima di questo capolavoro mancato, Nic incrocia proprio Scorsese.
Si chiama metacinema purissimo.
Invero, la Paramonut ha obbligato zio Marty a scritturare il nostro. Scorsese aveva già preso accordi col nuovo De Niro, Edward Norton. Perché Al di là della vita è lo specchio “maturo” di Travis Bickle ancora più schraderiano d’incubi maledetti.
Cage non è De Niro, traballa e non è convincente fino in fondo. M’alcune inquadrature sui suoi occhi azzurri vitrei, spalmati in una New York nera e livida, sono sad eyes di acro g(i)usto after hours.
Poi, le manie matchstick d’un Ridley Scott “sincronizzato” alla Natura Cage della “compulsione”. Da panico!
Il migliore Nic che mi ricordi da più d’un decennio. Riesce a essere appunto over ma con una sordina improvvisamente commovente nel vivace eppur trattenuto donare Cuore al suo stile “fuori dalle righe”.
Un “fallito” geniale. D’applauso e quasi da statuetta.
Nic non sarà adaptation alla cosiddetta “intensità” e, appena s’impegna ad apparire “sofferente”, un barlume di lucida faccia da stronzo emerge sempre. E Nic lo sa. Serpeggia!
Anche Herzog che, prima di consegnargli quest’erede di Harvey Keitel, deve aver studiato attentissimamente la sua filmografia “sgrammaticata”.
In Ferrara vibrava la vetta dell’addiction più doloroso, un lieutenant affliction e mal di vivere atroce, blasfemo.
Un Gesù “satanico” che (non) perdona, inginocchiato in abside a sue sedi marce senza speranza di redimersi e “ascendere” al bene. Il gesto finale è uno sberleffo a se stesso. Altro fottersi, spacciato!
Werner compie comunque un’operazione personale, sganciata da Ferrara, da cui prende in prestito solo l’intuizione del personaggio per imbastir una trama vicina al culto herzoghiano.
Il tenente di Cage è il Gary Sinise di Forrest Gump, spaccato nelle vertebre, paraplegico d’una frattura innanzitutto non cucita al non darsi pace per il tragico “ridicolo” ch’è. Tenente Dan! Che brutto scherzaccio!
Slanci di passioni, Eva Mendes (non) cura le ferite, uno squalo orrendo che picchia, scopa le ragazzine e si droga con dosi da cavallo.
Quindi, è insospettabilmente capace d’essere “pateticamente” poetico e (in)credibile.
Il film cazzeggia come il suo Cage, è lisergico ma ha paura di contaminarsi, non è Ferrara neanche a guardarlo “di striscio”.
Le lucertole appaiono, fanno male, pungono, dissanguano il “vampiro” Nic, lo rinsecchiscono, lo violentano, con “calma” strisciano.
E lo mandano in quel posto.
Ove (non) merita. La cucina del suo “Inferno”.
Una presa in giro.
(Stefano Falotico)
Escape to Victory, review
Escape for liberté, egalité, fraternité
John Huston nel suo spaccar le tempie con una deflagrazione di lancinantissimo grido.
Un dramma “intimista” anche questo, nelle vertebre scolpite di antieroi per un sogno libertario da incidere nella memoria, per non dimenticare le ingiustizie, un sofisticato colpo al Cuore di massima, istoriata virtù a mirabolante “celarlo” dietro un’avventura “per ragazzi”, forti, vibranti, intrepidi e liberi nel librato sgranchir le ossa, arcuare i muscoli e feroce dilapidare il nazismo e ogni coercizione alle anime con l’alato magic touch, leggerissimo, folgorantissimo, di un cineasta in stato di grazia.
Come dirigere un capolavoro per tutte le età, “infantile” nelle sue “grida del silenzio”, scatenato, irresistibile, abbacinante e maestoso in squarci di grande Cinema. Il Cinema cos’è se non una proiezione della condizione umana in ogni sua sfaccettatura monumentale al nostro respirare le emozioni, aspirarle con sognanti voli e anch’illusorio donarcene in salvifiche armonie?
L’impossibilità della victory per chi è nato “perdente”. “Plagiato” a ogni sciovinismo contro la fratellanza ch’è alla base antirazzista d’ogni forza gravitazionale antropocentrica.
Una storia “scarna”, ginnasta di vecchie glorie “martoriate” fra le sbarre e ancora una volta Sly Stallone, emblema rilucente del popolo ribelle, a icona decisiva.
Sarà lui a parare il rigore che vale tutta una vita, il riscatto, l’impulso distruttivo, rabbiosissimo di un ralenti “smorzato” nelle sue labbra “storte”, in posa plastica “sbilenca” a paralizzare e gelare il sangue per l’estatico tifo finale, sprigionato come tutto il marcio divelto in un attimo sospirato.
Il genio di John Huston svia apparentemente dal suo Cinema drammatico, invero è una prosecuzione già avanguardistica di magniloquenza fenomenale.
Un’altra pellicola corale, imbastita sui volti indimenticabili anche, e soprattutto, di grandi calciatori, fra cui proprio il più grande, il leggendario Pelé.
Michael Caine dirige le facce di cuoio, i “miserabili” (ogni citazione a Victor Hugo non è affatto casuale…), per un’improbabile partita “a scacchi” su un campo di calcio, verde e illuminato dalle avvolgenti prodezze dei suoi prodigi balistici.
A tramortirci di grandezza epica, basterebbe la “giravolta” di Ardiles e la sforbiciata “aeroplano”, innalzante, strepitosa, arpionante, strappa-applausi proprio di Pelé.
Il grande Cinema non ha bisogno di sofismi, oggi di moda, qui c’è vera ruggine, il resto “odierno” tanto incensato, a confronto di tale schietta, tagliente “strategia” registica, è un orpello di cui volentieri faccio a meno.
Che gli altri spendano “agghindate” parole retoriche per il Cinema di Soderbergh, mi tengo cara l’austera action di roventissima, romantica destrezza di John Huston.
John dimostra che la parola “Retorica”, appunto, non esiste quando la si doma, la si glorifica con “giocate” ingegnose di dosaggio sapiente e poderosa leggiadria.
(Stefano Falotico)
L’ultimo dei Mohicani
Tu conosci l’avventura dell’ultimo sopravvissuto della tribù coraggiosa dei veri pellerossa?
Michael Mann, innovatore e memore “imprigionato” nei 70 per accelerarli di futurismo, anche sviando, estemporaneamente con una picaresca “dipartita” dai suoi soliti temi di Natura thriller.
Attinge a Fenimore Cooper e lo incide nella secchezza atletica d’un Daniel Day-Lewis condottiero e d0una sensualità liscia come capelli sciolti tra gli intrecci sopraffini di lotta divorante.
Inversione della tendenza, nessun bianco contro l’indigena selvaticheria.
Indiani… gli uni contro gli altri, ai margini delle guerre colonizzatrici, “aristocratici” selvaggi contro brutali d’efferatezza primitiva.
Sopravvivenza delle dinastie e dei valori impressi a scalpo, a nitrito d’attriti “consanguinei”.
Trama innestata su un “rapimento”, come nelle storie di suspense moderna. Ma d’intelaiato classicismo da far impallidire ogni viso “nostro” pallido. Tatuandoci di draghi virenti a emozioni epidermiche, fluide nella musica martellante d’un Trevor Jones ispirato dalla movenza “pifferaia” di afflato ed epicità libera come aquile nell’alba del vivido detonarle raggianti.
Una sfida, già heat, un mostro nero come gli orchi delle favole.
Ruba e “stupra” l’innocenza e le verginità, e il suicidio annuncia la vendetta deflagrante di un urlo nella foresta.
Day-Lewis lascia il mezzogiorno di fuoco al padre putativo e gli consegna tutta la potenza della sua giovinezza.
Il padre impugna un’ascia sanguinaria, lesto accerchia il mostro, lo agguanta nel respiro già annichilito e lo sgozza vivo.
Poi, il tramonto di un’epoca.
Madeleine Stowe, capolavoro di Donna nelle luci a planare d’un commovente “Io sono l’ultimo, l’ultimo dei Mohicani”.
(Stefano Falotico)
Il fascino ne(r)o di De Niro
Da brividi, un volto sardonico che, in pochi frame, si trasforma in orrore. De Palma in De Niro.
Un “fallito” che (non) ci sta.
Requiescat: Indagine sulle morti di Cajkovskij
Sono di parte ma recensisco ugualmente.
Ipnotico, “breve” capolavoro che racchiude, in lirismo d’immagini fuori d’ogni epoca, l’assoluta anima di un genio “vergato” nei patibolari ultimi suoi giorni prima dell’addio definitivo ma immortale per l’umanità. Magnetiche presenze s’intersecano a gravitar di congiura e testimonianze discordanti, diluite in plumbei nitori fra inquadrature accorate, soffuse, “al liquore”, avvinghiate all’enigma per sempre misterioso, aura di fascino “arsenico”, dolce-amara visione del Tempo scandito nelle lucenti, incantevoli note della sua impareggiabile colonna sonora colore Bellezza.
Spettralmente, appare dalle nebbie L’Inquisitore, figura “mascherata” flamboyant, voce gotica che s’incarna (in)visibile dalla penombra, si sviscera dalle e dentro le tenebre profonde di quest’indagine maestosa. Quindi, sfilano i suoi amici, i suoi conoscenti, i suoi “assassini”. Il rimpianto dell’amore e di una vita sacrificata per un bene altissimo, estremo. Poi, il Cielo lievissimo s’increspa nella Notte.
Complimenti a tutti gli interpreti, con particolare menzione per il protagonista, nel cui “vegliardo” volto brilla la saggezza vivida di un grande Uomo, per Valerio Vannini, perfetto, stupendo sentire ad aderenza del dolore così elegantemente espresso, e a Ottavio, “fantasma” inquietante da “lugubre” cerimoniere.
(Stefano Falotico)
Michael Mann, il liturgico fascino dinamico della Notte
Il Cinema di Michael Mann, sempre di sguardi “retrovisori”, proiettati in quel che scorgeremo, annusiamo fra le Lune dei nostri umori, destini incrociati, rovesci della medaglia, analogie, specchi e simbiosi di somiglianze agli antipodi.
Una calma mattutina albeggiante, poi detonazione improvvisa di messa in scena velocissima.
Questo è Michael Mann, giusto un assaggio da lasciar “secchi”.