Martin Scorsese nella “follia”
Sai chi sei?
Ricorda, ma il ricordo è già trauma e potrebbe essere confuso di no(m)i invertiti.
Ci sarebbe da discutere con più profondità riguardo a Shutter Island. Film non del tutto psic-analizzato.
(Stefano Falotico)
David Fincher
Cos’è l’apatia?
Un Peccato Capitale?
“Giocose” interferenze.
The game most dangerous is in the DARK
(Stefano Falotico)
Clip esoteriche dell’allucinazione cinefila negli occhi “neri” di Johnny Depp
Paura e delirio a Las Vegas, il Johnny Depp più maledizione della prima Luna ancor prima che s’allunasse nei tic di maniera del Cinema Disney. Qui, è favola davvero d’una follia geniale. Alle “maestranze” del visionario Terry Gilliam.
Un Depp romantico, quasi “Harmony”, nel capolavoro più sottovalutato di Michael Mann.
I rob banks, dichiara sfacciato, falciato dalla società, ad amore perduto della voglia di fuggire dalle regole stantie d’un Mondo che spezzò i suoi sogni prima che (ri)nascesse. Intrecci metacinematografici del Paradise alla Brian “Carlito’s Way” De Palma.
Rodriguez più Sergio Leone ma decisamente meno fascinoso e coinvolgente. Un giochetto ambientato in Messico, ove il Sole è accecante come la Bellezza angelica di un Diavolo, diafano, magnifico Depp.
La sua interpretazione, diciamo scherzosamente, meno vista di buon occhio, perché “secondaria”. Invece, centralissima di Sguardo alla sua icona maledetta che fu.
(Stefano Falotico)
David Cronenberg’s “Spider”, review
Who is Spider?
Un uomo mingherlino, rachitico, scheletrico, s’aggira lungo il “tragitto” d’una Londra “endovena” al suo smarrimento, groviglio scarabocchiato di suoi neuroni feriti, rannicchiato nella ragnatela del tendersi all’oblio, inabissarsene per sempre alla radice “intravista” d’una strada amputata. Una recisione piangente, una giovinezza scomparsa che “ammicca” di raschiata “botanica” all’ossigeno non osmotico d’una realtà “clorofilla”. Spaurito, “bambino”, teneramente avvolto nelle fasce “artiche” d’articolazioni mentali lacerate, che si sfiorano invisibilmente fra angoli bui, oscurissimi d’ogni meandro a incubi “daltonici”, distorsione che s’opacizza nel reiterar la morsa del suo “eraserhead”.
Sì, anche uno stroboscopico, non identificato delirio lynchiano, indecifrabile, ignotissimo come un dream di glory days mai stati, mai (e)statici, estasiato d’immobile mutare anche regressivo o perenne aggredirsi d’inconscio psicotico, fulminante cannibale di suo “gioco” vizioso ai circensi circoli dell’apparenza che, tramortita, tremante, (non) c’è.
Fiumi di porpore smaniose nell’ardimento esistenziale infinito.
Inseguimento di sua persecuzione, ossessivo il martello è cicatrice che si sbrana, che urla disperata fra silenti nebbie, macerati castelli di sabbia, polvere “maculata” d’una mente fervidissima, inferma, ristretto spazio d’espansione angosciosissima, gola fratturata, polmoni atarassici, deserti e sprazzi lucidi di miraggio invero invisibile. Si guarda e riflettiamo, s’introflette e (non) pensa nell’irta spirale che mastica lune martiri, luci fosche e tetre, cieli ingrigiti o forse, chissà, ottenebrati solo per requie “moribonda” all’instabilità d’un tremendo “singhiozzo” devastante in un altrove che torna e tortura potentissimo.
Acceca e svia la vista.
Un Ralph Fiennes mimesi totale, memorabile in metacinema altissimo del David Cronenberg paradossal-mente incompreso, colmo di perfezioni intersecate, ombre di altre immagini nitrate, aspirate e iniettate con classe agghiacciante di Bellezza, di McGrath rielaborato “a lutto” del genio canadese, appunto, e di un attore inglese maestoso.
Si staglia, si (di)stacca nell’immensità di un’interpretazione “mostruosamente” ignorata dagli Oscar, forse tanto simbiosi e “sorda”, concisa e finissima da non coincidere coi parametri dell’Academy.
Il film passa a Cannes, silenzio. Ignorato.
Che scandalo!
Poi, per scusarsi, dopo un po’ Cronenberg viene “invitato” a presiedere la Giuria.
Vorrebbe premiare il “bruttissimo” Irréversible ma vengon scelti i più “didattici” impegni dei fratelli Dardenne.
Telepatia ed empatia? Anche lì una storia di orrore, di violenza, di mutazione a suo modo identica.
D’identità rubate. Uno stupro fisico contro quello emotivo.
Cronenberg, infatti, con Spider raggiunge l’apoteosi della sua poetica. La carne è chirurgia dell’anima, prima di A Dangerous Method, psicanalisi all’impossibilità mortifera da Edgar Allan Poe e progenie.
Superstizioni, una madre castratrice, amanti orripilanti, nessun “sangue”, ma l’anima è un mare di plasma “radioattivo”.
Non c’è, liquida in un posto che nessuno saprà mai, neppure Spider.
Il capolavoro più sottile, più radente, più sleeper di Cronenberg.
(Stefano Falotico)
“Jimmy Bobo – Bullet to the Head”, recensione
Un vichingo nel fango dei baci romantici da “sentieri selvaggi”
Sly è un corpo in azione, un fumetto fantasioso, istintivo, metallico, intagliato di ferrea robustezza a imbrunirsi morbido su beffarde angosce esistenziali, sospirate nella “gola” dei suoi zigomi “al rasoio”.
Monolitico ed espressivo di simpatia a pelle, reminiscente, nella carne “oculare”, tutta la galleria di anti-eroi “macchiati” nel sudore, dentro le “locande” bastarde e att(r)accate a “borchie” di Lune opache, lottatrici per non morire quando il sonno non cal(z)a negli occhi martoriati d’un dolore antico.
Elettrico di pelle levigata, muscoli raggrinziti ma teutonici e “smunti”, dirompenti, acuiti nel nervo fiammeggiante d’una rabbia sempre nascosta, “rassodata”, tirata, adirata per temprare il carattere a “freddezza” canaglissima di chi non è servile al sistema, lo combatte con pugni secchi, lo ingurgita e aspira in vene dilatate dei bicipiti “sforzati”, collegati alla grinta della sua “ottica”, buono di tante sfumature color ombra “crema”, che passeggia con sbilenche gambe “annoiate” ma irrigidite nel doppiopetto anche di magliette aderenti su addominali eretti d’un orgoglio sempre a testa alta. Anche quando lo “sterno” ti rompe le vertebre, strizza l’amore e ti ruba perfino la migliore insonnia, quell’istante, lungo un Giorno, per cui vivere, tanto sai che domani sarà un’altra sfida e poi ancora agnizioni di tue anime, chissà ove sepolte, per scoprire chi sei o chi mai vorresti essere, quindi il tuo Io da tener a freno nel ringhiare da indomato battagliero fra queste convulse notti vagabonde. Ti ami? Quanto credi in quella faccia da schiaffi… donati e a-rmati? Per un rinnovato albore, per un altro tuo Cuore, per altre fratture da ricomporre con la “saldatrice” arrugginita del vento crepuscolare al mai tramonto dei serali, tristi “addii”.
Un finale alla John Wayne, un rapace fra gli indiani, con un cattivo identico ma “moderno” del classico Ford. Un Momoa etnicamente diverso, agguantato di scultoreo carisma antipatico nelle orbite visive d’un Walter Hill che plasma i personaggi come argilla fra mani di fotogrammi ruvidi ma luminescenti, un montaggio che aspetta la “mossa” e poi svolta, incrocia di flashback a durar un frammento del sangue, a saturarli, striarli, stritolarne il vagito, poi vira di scintille come falchi e fantasmi, come ombrose iridi di Stallone, splendido nell’essere proprio Sylvester. Hill gioca infatti con la sua icona, recupera addirittura una “locandina-immagine” dall’ultimo Rambo, John il proletario a caccia dei brutti ceffi, sbirro-sgherro tutto “storto”. “Appassito” ma Lui, resistente agli urti.
E “spettacolarizza” la massa muscolare di Sly, tergendola in una sauna di “Calibro” a “gocce di suspense”, esalta di dinamiche corporee, senza ralenti o effetti, spinge in un’impazzita lotta fra piscine, marmo e nightmareimmarcescibili. L’atmosfera soffusa, che strizza l’occhio al genere per un autore Hill mai in pilota automatico, è la Natura di Jimmy Bobo. Una creatura “buffa” ma che va per la sua strada. Grezza, erronea forse, eppur saggia da chi esperito e sputato! C’è anche Sergio Leone, c’è un barbaro “invincibile” più duro delle lame.
Anni ’80, e anche immersione in quel che viene prima e forse dopo, postmoderno, appunto instant classic.
Un grande film è la dimostrazione che la trama è una banalità, gli ingredienti sono il lievito della miscela, del carburante “inutile”, del “Non succede niente, almeno così sembra, tutto è successo però vediamo in che modo, anche nel prevedibile”.
Quindi, due colleghi amici. Uno vien fatto fuori per ragioni “stupide”.
S’innesca la miccia della vendetta, del “viale” da duellanti.
Delle faide cruenti, crude d’artigli su nocche profumate di pistole western. Come sfondo, una metropoli lucida, incandescenza roventissima. Rapimento, ostaggio, perché aspettare però con dilatazioni narrative? Hill arriva subito al sodo e al “suonarle”.
Bang, dissolvenza, si cambia prospettiva, non cambia nulla.
Sly è un gigante stronzo. Fa buon viso a cattiva sorte, tira i dadi, estrae dalla fondina il suo “Buonanotte”.
Titoli di coda.
Arrivederci, sogni d’oro e grazie.
(Stefano Falotico)
“Gangs of New York”, recensione
Genesi storica, agli albori delle fangose streets
Un capolavoro, nel frastuono di “spari” accoltellati, può essere l’equivoco d’incomprese lotte fra un produttore da Oscar e un regista “intimista” ai margini del borderline?
La domanda è enigma come una timida Luna nelle notti bianche e ambigue di un’intera umanità allo sbando, generata forse da una distorsione radicata nell’Adamo ed Eva, “fedifraghi” d’ermafrodita mela fraudolentissima per “impiccagione” alla sventura cagionevole del Mondo erroneo e orrido, sempre nel “velo” sanguinoso di conflitti a fuoco tra fratelli ambiziosi d’egemonia vessillifera.
Solito castello che “ronza” come la frusta d’un domatore di circo, crudele e cruentissimo, a linciare le bestie e a “sodomizzarle” all’arbitrio sadico del macellarne le carni.
Antro, carne sventrata! Sventolano gli assassini agli innocenti, abbindolati e imbrigliati!
Chi è il gran “ammaestratore” del circo? Bill il Macellaio. Cutting e tagliente come un serpente a sonagli, titano statuario nel Daniel Day-Lewis più carnale ma spettrale di metafisica “vitrea”. Monocolo a potere insindacabile della Big Apple nei suoi primi vagiti “extrauterini”.
L’ancestrale bestia a villain “guascone”, sporco, lacerissimo però elegante nella sua fredda crudezza mostruosa. Un “gentleman” a doppio taglio, già. Bardato a festa da giullare di corte m’anche violento caporale del crocevia mortalissimo. Fuoco pirotecnico dell’azzurre sue iridi plumbee ma vibranti porpora efferata. Anche Lui ferito da un Cuore forse tenero, da spezzar con una lama pungente, sprezzante, affilatissima, “calibrata” d’aguzza e levigata malvagità luciferina. Mefistofele ha davvero i baffi e i “piedi caprini”.
Quartiere di Five Points, luogo della disputa, delle faide eterne fra Bene contro Male, biblico “anfratto” inne(r)vato di “color” rancore e vendette imperdonabili. Di warriors notturni nel gelo mattutino di un Incipit tra battaglieri fantasmi, issati negli stendardi “dinamitardi” del “progresso” modellato alla cenere barbarica e “virile”. Tutti vigliacchi, antieroi bastardi!
Un “prete”, padrone d’antichi valori e un orco della favola nera, Padre Vallon vs William.
Morirà il più “sacro”, divelto da un “rasoio” fulmineo e agghiacciante, scolpito nell’acciaio più indelebile a forgiarsi dentro il viscerale odio indelebile del figlio “orfano”, Amsterdam.
Riformatorio e “Titanic” per un Iceberg stavolta rosso come l’urlo di rabbia, ammansita e frenata nella calma diabolica, “efebica” d’un DiCaprio oltre le “prime armi”.
L’oggetto della disfida si macchia di western alla Sergio Leone, d’una Cinecittà “arrostita” nel più eterno dilemma: chi è il vero cattivo?
E l’amore salverà l’anima, mai più cicatrizzata del trauma sofferto, inferto con animalità bestiale?
Jenny è una prostituta-boccoli d’oro, una Milf “gentile” e “romantica”, abbigliata della Cameron Diaz più “gioiello” d’abbigliamento malizioso d’occhiolini.
Pretesto sciocco e vanità di giochi “adulti” fra rivalse “mascoline” e muscolari.
In verità…, l’inganno a fulcro dell’azione. Non è Jenny il premio, ma la rinascita spirituale!
La competizione di due facce della stessa medaglia, la duale miscela che si mischia al “vino” delle rose, delle spine, delle vene urlate e conficcate nelle “giugulari” del nemico.
Acerrimi, nemici-amici, “guardoni” a spie delle mosse da scacchiera. Il “matto” t’imbroglia d’arrocco, tra fatiscenti periferie d’un degrado suburbano, metropoli sorta dal fango.
Assoluzioni, benedizioni, sere ingorde d’alcol e sesso lercio.
Il grande Sogno di Scorsese girato a (meno della) metà, la sua Mela! Sempre Lei.
Ascendenza del Peccato, d’ogni colpa e martirio.
Tutto ha inizio negli ottanta, quando Martin “acciuffa” Asbury Herbert e il suo libro, fra il documentario e un Tarantino “serio”.
Asbury come Asbury Park, patria dei diseredati e senza neanche un tetto ma con in dono le chitarre melodiche dell’esistenza?
Sarebbe piaciuto a Bill Clinton, forse a Bruce Springsteen.
Ma Martin ne possiede i diritti da tantissimo Tempo, il Tempo…
Quei gangster di New York, questo avevano di straordinario: erano materiale narrativo puro, grezzo ma di grande valore, carne da romanzo, racconto che si fa sangue e pelle, ferita e cicatrice.
Pensa subito al suo pupillo, Robert De Niro, per il protagonista Amsterdam.
E alla musica dei Clash. E chi ti dà i soldi per un’opera così costosa, per di più che siamo negli ’80?
Gira quindi Re per una notte, e a Joe Strummer affida un cameo “banda”.
Poi, altri capolavori, ma questo chiodo fisso non gli va giù, non gli passa.
Ecco che Bob De Niro può tornare comodo. Lui, con una Tribeca espansa, e la Miramax vorrebbero “fondersi” per un grande studio d’aprire in quel di Brooklyn. Il sindaco Giuliani prima dà l’approvazione e poi ci ripensa, “smontando baracche e burattini”. Uno studio, piazzato nel bel mezzo di New York, a livello topografico, sarebbe una macchia. Anche quella ha cancellato, e non comparve neppure, se non sulla cart(in)a “geografica” dei progetti irrealizzati. Troppa “pulizia”, Giuliani!
Scorsese però ama Bob. Alla Miramax, continua a piacere parecchio l’idea di questo colossal alla Via col vento.
Vuole davvero investirvi dei soldi.
Scorsese affida a De Niro la parte di Bill, causa invecchiamento e “ribaltamento di ruolo”, anche a livello “iconico”.
Ma De Niro gliela combina “bella”, che brutto scherzaccio al tuo Marty. All’ultimo momento, dietro l’alibi d’una stupida causa legale per l’affidamento del figlio con la sua ex Grace Hightower (si risposeranno, di “differenze conciliabili” da conigli, comunque, perdutamente innamorati…), abbandona “The Butcher” al “vacante”. Mette anche in mezzo la storiaccia che, se il film verrà girato a Roma, non vuole saperne di salpare oltreoceano per “imbarcarsi”. Ricordi della Francia di Ronin, ove fu dalla polizia parigina prelevato per una nottataccia di domande “formalità” in merito a un suo possibile, “sconvolto” coinvolgimento con la entraîneuse Charmaine Sinclair, accusata di sfruttamento della prostituzione da pantera matrona nera con tanto d’avventurella “dating” proprio an-n-i fa col suo stesso Bob più “birichino?”.
Forse…
Comunque sia, il Butcher rimane senza faccia. E che si fa? Scorsese prova a convincere De Niro in ogni modo, simil Herzog con Kinski. Ma il “matrimonio non s’da fare”. De Niro, pagato 15 milioni di dollaroni, preferisce The Score con Brando e Norton.
Ecco allora che Scorsese si scervella. Alla mente, gli vien il nome di Willem Dafoe. Willem non vuole essere William. Non sapremo mai perché. Nick Nolte, Eureka Eureka, evviva! Trovato il volto giusto di corpo e “volume!”.
Macché! Anche Nolte non ci sta. Come mai? Mah.
Nessuno pare disposto a trasferirsi a Cinecittà per tanti mesi.
Harvey Weinstein ha dunque memoria del nome del padre… C’è un signore che fa il ciabattino a Firenze?
Come? Daniel Day-Lewis è un calzolaio? Eh già. Lo fu. In quanto, stressato dall’ambiente hollywoodiano, non volle più calcare le scene ma correggere il “callo” delle scarpine col tacco della buona società (alla) fiorentina.
La proposta è pero allettante per un ritorno da annotare sul “taccuino” dell’antologia. Geniale! Da bacheca!
Dopo molte pressioni, Daniel lascia la bottega, si abbottona la “cerniera” ed entra nelle vesti di Bill.
Le chance, le shoes…calzano a pennello!
Ne salta fuori un’interpretazione epica. Apripista per There Will Be Blood. Il petroliere c’è già tutto…
Opera controversa, molto se ne discusse, dieci nomination e neppure una statuetta. Tanto “rumore” per nulla!
La canzone degli U2 “stona”.
Rimane, a prescindere…, un grande! Il film in Scorsese più Daniel in Leo bravo a crescere.
L’ho deciso io!
(Stefano Falotico)
“Rambo”, recensione first blood
La montagna sacra(lità), muscolare nelle ferite roventi
Un dirupo struggente, strapiombo lagrimoso del patimento che si fionda, aggrovigliato d’urlo a fondersi martoriantissimo nel gemer di propri silenzi “acustici”, nell’acuire la metallica, coriacea armatura ventricolare dell’anima scuoiata.
Animali!
Fotogrammi inturgiditi nel ralenti maestoso, immortalato d’acquatica plasticità titanica d’un corpo a vivificarsi negli strazi del dolore.
Il dolore è implacabile, è l’orgasmo d’ogni licantropo che ne ha sofferto, d’ira laconica, ogni più striata increspatura. E non l’attenua, intingendo la fronte nelle sorgenti della salvazione.
Lo (s)cova, se n’immerge a risorgimentale monumento d’arcaica e connaturata forza istintiva.
In città, arriva uno stranger, già marchiato dagli occhi nebbiosi d’uno sceriffo che lo stigmatizza per accerchiarne e mortificare il suo “zombi” di lì a scoccar infiammato. Scalfito come una lama crudele che risveglia l’assonnato guerriero.
Ostaggio nei bisbiglii delle fantasmatiche bugie catechistiche. Questa città vive di morte, è da generazioni che se n’è attanagliata di “tenerezza” orrenda.
La gente vuol vivere tranquilla, dormire i sogni di chi sgranocchia le emozioni come pasti caldi del “morbido” aguzzino che “morde” l’aroma cremoso d’un caffè oscurato nel nero virale della “bianca” schiuma per legarla e “legiferarla” nei denti abbrancanti dei branchi quieti da dominare con la dura, spietata legge ad arrestarne le ribellioni (in)visibili. Quel tintinnio, allarmante, da guardingo sorvegliarlo nel massaggiarlo, assediarlo, dargli come assaggio la ghigliottina caudina a seviziarne, “gustarne” lo sfregio prima che, detonando, lacererà la coltre meschina dei “vivi-dì” scheletri plagiati a pedagoga (d)istruzione giornaliera. Si perdonano, ogni Domenica, di false confessioni e genuflessioni rigide.
Reduce dal Peccato ignominioso d’una Nazione militaresca con manie monopolizzanti d’imperante capitalismo che agogna a un solo “clero”, l’uniformità della propria razza a perpetrare la scissione atomica ché, se non discernerai il dogma, t’aspireranno come “sismologici” con la concentrica, coercitiva “radiografia” a eliderti d’ogni lava eruttiva.
Rambo è una caverna isolata di carne modellata nell’antico codice valoroso d’un samurai invincibile. La chetezza d’un chiaro bagliore amputato dalla sua lucentezza. Muscoli (e)stinti nella metafisica ascetica, poeta delle contemplazioni per non “(ar)ridere”, inaridirsi alle cicatrici impresse nelle “stalattiti dolomitiche” del suo derma che piange, sviscerato, il sangue dei giusti.
Ma, sulla sua strada, incontra uno sceriffo, più che cattivo, reo del crimine meno punibile, il sospetto.
Il sospetto per chi comanda, vessillifero, le blasfeme regole “caste” d’una casta di raggelarla nel “sazio” ammansirla dalle “pericolose” entropie del prevenirle-curandole ancor prima che azzannino, è il crimine di cui s’è sempre macchiata, “incolpevole”, la società dei mentitori (auto)inganni.
Così, “scheda” subito Rambo, lo redarguisce d’ammonitorio sorrisetto, gli porge “delicatamente” la mano “pulita” sulla spalla ma, al primo accenno d’accensione “squilibrata”, lo ammanetta per torturarlo con ignobile sadismo.
Scarnificato sotto le gocce violentissime d’una doccia spruzzata “a freddo”, deturpato per “purificarlo” nel ferreo castigo d’un untorio lavabo di colpe mai commesse, forse l’“idromassaggio” alle impurità di chi rabbrividisce dinanzi al suo specchio già ghiacciato e preferisce arrostire l’ectoplasma che gli mormora, anche solo e solidificato di scultoreo, mamoreo suo “levigarlo” da ottusità “leguleie”, il mostro personale che rifugge nei sonniferi delle sue notti “vellutate”.
Dinamitardo, scalcia ribelle e salta gloriosamente in sella alla fuggitiva libertà dai miserabili, esecrabili abomini.
Ma si caccia… all’uomo nei “pasticci” della persecuzione ostinata.
Rambo viene “trivellato” di colpi, sepolto vivo, sparato, spiato, d’ogni Luce “spento” nel tunnel dell’aberrazione “artigliera” al suo Cuore.
Ma non muore…, è lui che stringe mordace, che chiude il cerchio, che paralizza l’offensiva, attaccando “in difesa”, sbrana, uccide come un animale mitologico, si ciba dei suoi cannibali, potenziando l’annichirli della stessa potenza di fuoco e dei tagli inferti, infettivi, sventra la rovesciata, issata bandiera del morbo nei “mor(t)ali”.
Da qui nasce la leggenda, d’epigoni a inseguire la vendetta, un sequel appunto osceno ché dilania lo Sguardo (e)marginato del primo capolavoro e trasforma la vittima in carnefice di pari, allucinante assassinio, poi il terzo, già un po’ meglio del secondo: Rambo è la non violenza tibetana di chi s’è taciuto nella foresta “pietrificata”. Il laser del suo radar a cui non (s)premere più il rosso incendiario. Ma poi, massacrato dai macellai, a mitragliarli nelle budella e farli saltare per aria fra giugulari recise e squartante furia.
Fino a John…, fine epica dell’epoca.
Fine di una Storia.
(Stefano Falotico)
“Zero Dark Thirty”, recensione di Davide Stanzione
Forse è più comodo e agevole sparare a zero facendosi scudo con posizioni rigide e spartane, piuttosto che accettare la problematicità di uno sguardo, la schiettezza di una visione che delega gli interrogativi a chi guarda e non cerca certo le risposte nel tessuto intimo e interno delle proprie immagini. La Bigelow, nel suo ultimo film, tende al massimo le corde della tensione e problematizza, dando voce a una realismo documentato e documentario, veritiero proprio perché in esso i buoni assumono i comportamenti dei cattivi e viceversa, le demarcazioni si sfrangiano e gli elementi rassicuranti sono davvero al livello di guardia. Tenace, rigorosa e impietosa, la regista californiana trova il suo riflesso più limpido e cristallino nella meravigliosa interprete-specchio Jessica Chastain, un raccordo che congiunge due sguardi femminili volitivi e non convenzionali, muscolari ed energici, pronti alla sofferenza tesa e scattante, ad essere sole contro tutti (o quasi). Zero Dark Thirty è una tragica opera civile con bandiere americane in penombra che si addensano nei margini delle inquadrature, il racconto frustrato e logorante di un obiettivo da raggiungere a dispetto delle impotenze dolorose e inesorabili e dell’approssimarsi implacabile di un fallimento, la cronaca di una fine quasi ineluttabile, a cui non può che fare da controcanto una storia macchiata da pieghe collaterali che sono anche innegabili piaghe, adombrate da “peccati” schiaffati in faccia allo spettatore in tutta la loro animalesca ferocia. La protagonista, mossa da quella riottosità ribelle ma anche stranamente controllata nel perseguire ciò che intende ottenere sopra ogni cosa, non la si conosce mai fino in fondo: non si sa cosa davvero si muove, vive e pulsa dietro quei capelli rossi e lo sguardo da ragazzotta costretta a crescere troppo in fretta, quei pasti alla spicciolata consumati freneticamente, quel suo essere volutamente asessuata, quell’asservimento totale a una meta che finisce col coincidere con la sua stessa vita. I suoi veri sogni, i suoi veri amori, la sua vera anima ci è negata, la sua autentica rabbia viene fuori solo qua e là, e l’unico barlume di autentica verità, sotto quella scorza coriacea, emerge solo nel bellissimo e dolente epilogo, unica concessione sincera a uno spettatore al quale fino a quel momento la Maya della Chastain si era inesorabilmente negata: le tensioni si sciolgono, le lacrime scorrono a fiumi. Come un lavacro conclusivo e solo in apparenza purificante, un’espiazione collettiva di colpe forse necessarie, forse (in)evitabili, di sicuro ancora non del tutto comprese a dovere nella loro profonda ambiguità. Zero Dark Thirty squarcia le fragili velature di un abisso (a)morale in cui si addensano le frattaglie di un’etica mutilata e ci costringe a guardare dentro di esso. Raccontare e non giudicare per rimettere, a chi osserva dall’esterno, il vero lavoro sporco di riflessione, è l’unico atto eticamente possibile di uno sguardo grandioso e impeccabile come quello di Kathryn Bigelow, spogliatasi dei suoi orpelli qui come non mai, subalterna a un’esigenza pressante di verità che suona perfino generosa e maestosa: basta vedere l’interminabile scena del blitz ad Abbottabad culminante nella morte del grande capo Osama bin Laden, una sequenza magistrale epurata delle soggettive convulse di Point break e Strange Days. Dinamica ma terribilmente controllata, impetuosa ma anche secca. Dritta al cuore (di tenebra) di una nazione.
Firmato Davide Stanzione
“Blade Runner”, recensione
Anche la malinconia è futurismo placido nel lago fugace d’increspate, assonnate metropoli
Indagatori degli incubi e del planarvi con sonnolenza stordita, come una commovente Donna dai tacchi fluenti dei suoi tocchi magici, profumati d’erotismo cremoso di labbra “in minigonna” attillata nelle calze setose del suo annusarti letalissima. Affilata d’odore color femmina. Implora la carne e tu, detective spaesato che gironzoli e voli in macchina, fantasioso e imbrunito nei cristalli porpora “inerpicati” su cangianti occhi sospiranti, cogli l’incognita misteriosa della nostra umanità strangolata nei collassi fantascientifici d’un barbarico caos.
Indagine a scoprirti, appaiata a un nemico androide che rispecchia, a-nemico e nemesi però simbiotica, i tuoi segnali del Cuore. Batte d’elettrocardiogramma fosco, noir e ceruleo, sì, impallidito dalla sfida immortale alle origini del Tempo.
Occhieggia Philip K. Dick, cacciatore del suo tormento esistenziale “adattato” solo nell’aspirar i neuroni variopinti delle sue creazioni inghiottite dalla grotta della sua anima scura.
Storie ai confini della realtà, plasmate da un favolista delle profezie fatali, scoccate nella premonizione “vera” o quasi ad aderirvi… dentro la realtà (ig)nota odierna.
Ancor notturna, ancora da spiare, che barcolla incerta come uno spolverino da investigatore.
Trama “scarna”, predatrice. Rick Deckard, l’Harrison Ford leone del suo ghiro apparente e bugiardo, viene incaricato d’acciuffare quattro “fuggitivi” del nuovo sistema.
Delle macchine da laboratorio degli orrori, “chimicamente” dinamici ai comandi del rivoluzionario robot antropomorfo, anche troppo, Roy Batty.
Batty, Rutger Hauer già ammantato di leggenda e mantello d’iridi sue gelide m’angeliche, eyes levigati nei polmoni ansiogeni all’immutabilità della nostra razza progredita quanto sempre primitiva per l’inconscio cosmico ancora sconosciuto.
Ispezioni, raggiri, femmine più sexy del neon caldo della lampadina orgasmica, lì a frignarti e a inondarti nel seno di Rachael/Sean Young.
Un inutile “in-cubo” d’intrighi e sospetti, volti che si scambiano la faccia nell’interscambio stellare.
E il prodigioso rimpianto nella piovigginosa sera dei ricordi, ancora “assolati”, sete di vita che piange la sua principesca decadenza inascoltata nella celeberrima…
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
(Stefano Falotico)
Il silenzio. Una favola di Edgar Allan Poe
Silenzio alla Poe-ta
Fratelli della congrega, so che la società vi sta direzionando verso risate smargiasse da combriccole a me assai intollerabili.
Da anni, nonostante titubanze, arretramenti e mentalità retrograde che vollero incupirmi per sbranar il lupo in me sempre germogliante e or rifioccato, perseguo una linea inossidabile, il più altero disprezzo per chi disprezzò le mie scelte, corroborate di notti a immaginarmi pasciuto nelle vostre valli di lagrime, ove rassodavo i miei glutei in totale sfacciataggine che fischietterà sempre infischiandosi dei fiacchi, dei fianchi e dei vostri fiancheggiamenti.
Sono erede della tradizione lunare, e non intendo, sebben provarono a tentarmi, e dir che ne fui quasi quasi attenuato, a farmi retrocedere. Invece eccedo, insisto nella mia resistenza forse a non esistere ma che di tal moltitudine infelice non sa se soffiarsi il naso o sbugiardarli nel Pinocchio.
Io nudo, io che scalzo le mezze calzette e tutti obbediranno alla inviolabile legge del mio fragore, dei miei frastuoni.
Udite idioti la voce del Signore, e non inveite di sbeffeggiarla ché, da dietro la tua testa, potrebbe rasarti il cranio nel frantumarlo.
Signori, colui ch’è, un perché qui:
Adoratori miei, il trono è nostro.
Orsù, cavalchiamo. La Notte è lunga. E va addent(r)ata.
Stefano Falotico