THE BATMAN, recensione
Ebbene, belli guaglioni e ratti agonadici, se v’imbatterete nel pazzo che sono io, no, nel pezzo sottostante, anzi, già l’adocchiaste di preview disarmante, immantinente penserete… questo è fuori! Chi mai leggerà o vorrà pazientemente leggere, nel 2022, cioè periodo tempestato dalla frenesia e dalla sveltezza “giornalistica” d’accatto, infatti, un papiro pieno di lessicali ghirigori e arzigogoli interminabili, cioè una recensione a mo’ di geroglifico incomprensibile? Da decriptare e decifrare senza che si abbisogni di spiegazioni, lavagnette a scopo didascalico e citazioni fra parent(es)i?
Ora, tanto per essere chiari fin dapprincipio. La prima parte non è mia, non è plagiata ma copia-incollata, cioè digitalmente scritta da questo link che qua vi appioppo: https://www.wired.it/article/the-batman-film-recensione/
Lasciando stare la forma grammaticale dell’articolo riportatovi, abbastanza corretta, va ammesso senz’infingimenti, a prescindere dalle virgole usate ogni quattro righe e congiunzioni nostre neuronali che saltano durante la lettura, che è piuttosto giusta, anzi, fin troppo politically correct, ah ah.
Dopo vi sarà la mia finale freddura… intanto, leggiamo, io l’ho già letta, voi amate i gialletti? No, così, tanto per… chiedere. Ma non perdiamoci in voli da pipistrelli, no, in futili, pindarici voli di calembour non necessari, miei rettili, derelitti e reietti (dis)umani dei più miserrimi.
The Batman, quando Hollywood fa così è da perdere la testa
A sorpresa questa quinta versione del personaggio per il cinema è una delle più coinvolgenti e riuscite in assoluto
The Batman è l’apoteosi delle possibilità a cui oggi tendono i cinecomics e più in generale l’apice di cosa possa ambire ad essere un film di Hollywood pensato per il maggiore incasso possibile. Una volta tanto ci sì trova di fronte ad un film di grande maestria e acute invenzioni che non ha a cuore solo la tenuta psicologica dei propri fan ma che cura anche la propria dimensione visiva con la medesima ricerca estetica dei più particolari e stimati disegnatori di fumetti. E come per i fumetti disegnati meglio anche questo film con le sue scelte cromatiche (ma anche con un sonoro fuori dalla grazia di Dio) è capace di andare oltre la propria storia, oltre i personaggi e oltre gli eventi per creare una dimensione astratta dentro la testa di ogni spettatore, fatta di sensazioni prima che di dialoghi. È la rappresentazione dello spirito di Gotham city, città derelitta in cui niente migliora mai, che sembra esistere solo di notte e con la pioggia, ricettacolo di criminali e corruzione. Un mondo in cui The Batman fa battere un cuore sentimentale soffocato da tutto questo nero. Perché stavolta nonostante la presenza del Pinguino e dell’Enigmista è chiaro che il nemico vero di Batman è questa città ingovernabile nella quale, lo dirà lui stesso, nonostante siano due anni che agisce il crimine è addirittura peggiorato. Gotham è la sua nemesi, il mostro contro il quale si batte e che a tutti i livelli frustra il suo desiderio di fare la differenza e che, in una grande idea finale subirà nelle sue strade e nei suoi spazi la furia degli elementi, come se davvero fosse un personaggio. A questo ben si accosta il fatto che fin da subito questo Batman è adolescente. Nella pratica non lo è, ha circa 30 anni come tutti i Batman (e come il suo attore), ma lo è nell’atteggiamento, perché sia Reeves (il regista) che Robert Pattinson (il protagonista) portano al personaggio delle note da rabbia adolescenziale eccezionali ed inedite. Batman è il ragazzo che non si integra, poco popolare, chiuso in se stesso e nel proprio dolore, Batman ha il trucco nero intorno agli occhi (lo vediamo quando si leva la maschera), Batman in una delle scene più belle viene guardato malissimo da tutti i poliziotti mentre cammina accanto a loro (rappresentazione di autorità), Batman non è accettato dagli altri, Batman è accompagnato da una band simbolo della teen angst, i Nirvana, Batman è un ragazzo che scopre che molto del suo idealismo e di quello che sapeva su di sé e sulla propria famiglia non è vero. E ovviamente Batman trova in Catwoman una sbandata come lui con cui coltivare uno strano sentimento fatto di affinità.
La scena dei due in moto al cimitero è forse uno dei momenti più raffinati e sensibili di tutto il film, che dice tutto (di nuovo) non con le parole ma con le immagini e i movimenti delle due moto che rappresentano due volontà. Sia chiaro che sono tutte cose che già avevamo visto (o più che altro letto) ma che qui si colorano proprio di quella tinta tra Il corvo e Batman: Year One (anche se siamo al secondo anno di attività) che Reeves centra come nessuno prima di lui. Ma come abbiamo detto, The Batman è il trionfo della macchina film sul personaggio. Nonostante quello di Pattinson sia un Bruce Wayne/Batman originale e intrigante, a reggere tutto è quest’aria da detective story classica (anzi da hard boiled, a voler essere cinefili), le indagini, le scoperte e la catena di marcio a tutti i livelli che appassiona lungo una durata apparentemente spaventosa (3 ore) che invece scorre liscia, in un caos notturno creato così bene ad arte da essere eccitante. Ad un certo punto in una stanza d’ospedale senza finestre o sbocchi sull’esterno sentiamo la pioggia battente in sottofondo ad un dialogo. Non è possibile ma è perfetto, la pioggia di Gotham è dentro la testa dei personaggi e quindi nella nostra, è un tappeto quasi musicale che ben si accosta con la colonna sonora di Michael Giacchino che sembra non stare mai zitta. Perché quel mondo marcio e piovoso è l’esternalizzazione dell’intimità traumatizzata e derelitta di Bruce Wayne stesso. The Batman è una vera impresa, un cinecomic come ancora non ne avevamo visti, fortemente d’autore, dotato di una personalità visiva fortissima, unica, e proprio per questo capace di usare quelle figure note per dire qualcosa di diverso e unico. Merito di Peter Craig e dello stesso Matt Reeves che sono riusciti nell’impresa di scrivere un Batman ingenuo senza snaturare un personaggio che ha nella sicurezza nei propri mezzi una caratteristica cruciale. E in questo si rivela perfetta la scelta di Robert Pattinson, con la sua naturale inclinazione verso l’introspezione e un corpo al tempo stesso molto maschile ma anche molto sensibile. Lui recita perfettamente la tenacia e la tensione innaturale di Bruce Wayne verso una missione che è al tempo stesso un trauma e l’inarrestabile forza di una persona sensibile.
Lo stesso purtroppo non si può dire dei villain del film, che ne costituiscono la parte meno incisiva. Il Pinguino di Colin Farrell è ai margini di tutto, un personaggio secondario, mentre l’Enigmista arriva quasi nella seconda metà del film e Paul Dano è subito stonato, l’unico membro del cast in overacting, cioè che recita con un tono carico ed espressionista là dove gli altri invece si tengono più misurati e ancorati ad una certa forma di naturalismo. Sembra appartenere ad un altro film. È così un altro personaggio, a sorpresa, ad emergere, il Carmine Falcone di John Turturro. Criminale con tutto in mano e personalità al tempo stesso dimessa, familiare e corrotta, il polipo con i suoi tentacoli in tutta Gotham, avatar perfetto del padre da tradire e metaforicamente uccidere, quello che mente, truffa e distrugge la vita dei figli. Che poi è una figura che non manca mai nel cinema di ribellione adolescenziale.
- La mia replica da Joker
Ora, questa recensione è un bidone e niente di quello scrittovi corrisponde al vero. Invero, in verità vi dico, sì, io che non sono onnisciente ma molto sapiente, che poche persone, le quali erroneamente si spacciano per critici frettolosamente, sono veramente intelligenti. Non sono deficienti ma, se vogliamo essere onesti, non sanno quasi niente. Pontificano sulla settima arte e non solo, sparlando anche d’ogni persona con faciloneria da cogl… ni dei più deplorevoli e ignoranti. Attenendoci, comunque sia, a questo articolo sciatto e un po’ tirato via, come si suol dire, The Batman di Matt Reeves è esattamente così come descrittoci. Ah, dunque che dico, deliro e mi contraddico? No, vi suggerisco di aprire gli occhi e attestare, con obiettività e lucida cognizione di causa riflessiva, altresì sanamente recensoria, che proprio in virtù, o a causa, delle ragioni genericamente espresse nell’articolo citatovi e qui ficcatovi, The Batman è un film che poteva piacere al sottoscritto a quindici anni. Ma oggi ne ho 42, quasi quarantatré e ne dimostro 13, eh eh.
No, a parte gli scherzi, Pattinson non è un grande attore, ha una gamma espressiva più limitata di un boomer, il quale scelleratamente sbandiera ai quattro venti di essere dotto (falsità assoluta e tragicomica, oserei dire assurda, forse astratta) ma la cui varietà e apertura mentale, invece, è a sua volta più minuscola di un mollusco.
Sì, il vecchietto ammira, semmai, Pattinson per la sua bellezza e il suo talento in crescita, cosicché dice… uhm, bellino e bravino, smentendosi, cinque minuti dopo, poiché nel frattempo s’è recato su Google e ha rinvenuto le nuovissime foto di lui accompagnato per strada da una bella figliola. Anzi, bando ai francesismi, il vecchietto assistette a Pattinson immortalato assieme a un’enorme figa con tette più grosse di Eva Notty. Che siano fake tits o vere, il risultato non cambia e non importa, il vecchietto arriva… in zona erogena, no, infarto e viene… spappolato di cirrosi epatica per immediato sentimento devastante di antipatia poco empatica.
Lui esplode di rabbia e, in silenzio pensa, sono più bello e bravo io!
Sì, so come sono fatti i vecchi rancorosi. Ché, essendo in andropausa da una vita, rosicano e di rancori ribollono d’ire pericolose che essi scagliano contro i giovani in fiore e a livello ormonale calorosi, al fine, non tanto finissimo, di castrarli in un nanosecondo, urlando perfino loro: dovete ancora mangiarne di pagnotte, siete dei nani onanisti e, se continuerete a masturbarvi, non solo il cervello, non combinando un caz… o da mattina a sega, no, a sera, la vostra vita andrà a mignotte! Per la Madonna! E non bestemmiate, dio Porco!
Mah, se lo dice lui che ha l’abbonamento ai maggiori siti a luci rosse e si lamenta d’essere povero in canna in quanto sputtana tutta la pensione con le puttane, costui va giustamente sputtanato.
Comunque, i porno li guardiamo tutti. E se qualcuno afferma di non guardarli, ah ah, mente spudoratamente. Voyeur, io vi guardo, ah ah!
Ebbene, non tutti i vecchi sono invidiosi, gelosi e bavosi. Non generalizziamo, suvvia, non facciamo di tutta erba un fascista, no, un fascio… di loro nervi poco saldi.
Molti sono così, in effetti, ciò è indubbio. Gli altri sono affetti da demenza senile, son in ospizio oppure sono morti, ah ah. Insomma, se prima furono cazzuti come Danny Glover di Arma letale, ora sono Glover di Nonno scatenato, e ho detto tutto lapidariamente. Più che altro, non sanno neanche più recitare una piccolissima poesia di Natale, in quanto sofferenti di afasia e rimbambimento mentale dei più devastanti, nemmeno una pappardella a memoria. Mangiano la pappina, si fanno chiamare papini e usano il pappagallo. Oppure sono come Willem Dafoe di The Lighthouse e ho detto tutto… per l’ennesima volta.
Per dovere d’onestà e di beltà, Pattinson è un bell’uomo ma erano più belli, rispetto a lui, Brandon Lee e Johnny Depp. Che cosa? Johnny Depp non è mica morto. Praticamente, sì. Amber Heard gli sta divorando il conto in banca, diffamandolo in quanto Johnny non arretra dalla sua pensione, no, posizione… del Kamasutra? No, ideologica, sostenendo difatti che Amber meritava degli schiaffoni pur essendo una sberla, in quanto un puttanone. È vero, Johnny ha ragione. Non rompetegli più i coglioni.
E voi, bambagioni e bambinoni, finitela di pensare che l’adolescenza sia uno stato mentale da bei tenebrosi malinconici tanto idealisti e romanticamente nichilisti quanto speranzosi e nient’affatto cupi, bensì di purezza incantevoli e nei cuori, apparentemente neri, in realtà luminosi. No, io a sedici anni non ascoltavo i Nirvana. Neanche adesso li ascolto. Giammai infatti compresi se soffrii di senilità precoce o di oligofrenia atroce.
Che sia io quindi il Peter Pan di Finding Neverland? Mah, non lo so. Ma veniamo… a noi, figli di tr… ia.
L’incipit di The Batman è identico a Blade Runner, Pattinson, più che figo dall’anima inquieta che piace sempre alle sbarbine che si bagnano più di Gotham City, ché vogliono il topo, no, il tipo dal fisico asciuttissimo ma non economicamente all’asciutto, dunque già arrivato… coi soldoni e il macchinone, dicevo… Pattinson sembra un drogato di Piazza Verdi di Bologna con la differenza che Pattinson/Bruce Wayne non finirà in rovina ma, al massimo, in rehab. Poi, ricatterà un’infermiera in ospedale, chiedendole di dimetterlo subito dietro una sveltina con tanto di lauti quattrini elargiti lei in camuffa con tanto di mascherina… per passare inosservato e recitare la parte del pulitino…
Tornerà a casa, a Beverly Hills, si farà di nuovo… anche la nuova accompagnatrice rimorchiata su un sito di Escort dell’Hollywood hard–core, si rifarà poi il look e sfilerà in passerella con un’altra super-passeron’.
Perché sa che The Batman è un film di merda per nerd e per uomini mai cresciuti che l’osannarono ancora prima di vederlo e che è giusto combattere per una giusta causa… finanziaria. Se considerate questa mia recensione delittuosa e mostruosa, chiamate la neuro e fatevi ricoverare. Siete puttaneschi e non direte mai che il film fa schifo perché vi siete, oramai da una vita, prostituiti da lingue marroni.
Perciò, uomini facilmente impressionabili e suggestionabili, abbindolabili, uomini smidollati, qualunquisti e pressappochisti, cioè pressappoco la stessa cosa di sinonimi, Eraclito sostenne, a grandi linee, dei concetti dicotomici di natura duale ineluttabile. Per esempio: se c’è la normalità, c’è anche la pazzia e viceversa.
Lo/a fanno studiare a scuola, pensa te che roba…
Traslando la stronzata di Eraclito da scoperta dell’acqua calda, Eureka!, evviva peraltro Archimede, se c’è un Batman depresso cronico da pastiglie Chrono, anche strafatto di artificiale droga, c’è per forza un’impasticcata che vorrà imboccarselo ogni giorno, ogni notte e a ogni orgia, no, scusate, ora.
Per una compenetrazione psico-fi(si)ca/carnale di rapporto non solo sessuale, bensì che ficcata/figata, no, sfogante ogni frustrazione della nostra triste e inesorabile condizione umana imbattibile assai grave e inguaribile.
Altro esempio: un uomo brutto va da una donna brutta e le chiede di uscire con lui. Lei esce subito con lui. Un uomo Pattinson va da una donna brutta e le chiede di uscire con lui. Lei lo prende per pazzo. Anzi, pensa sia Colin Farrell di Miami Vice impazzito e imbruttitosi come Il Pinguino e preferisce leccare… un gelato Mottarello conservato nel freezer della De Longhi.
Pattinson l’amava e non capisce. Perché, effettivamente, non ha una gran testa questo Pattinson qua, eh.
Su Facebook, lessi che Pattinson è il nuovo Daniel Day-Lewis. Certo, di tua sorella. Che sarà, appunto, una in cura a un centro di salute mentale poiché, senza star a sottilizzare di diagnosi psichiatriche, reputa Paul Dano un bel ragazzo e il suo ragazzo, invece, uguale a Oscar Isaac, ovvero il pornoattore Ryan Driller. Sì, Ryan è spiccicato a Oscar. Però non capisco perché James Deen girò The Canyons di Paul Schrader mentre Driller non viene accreditato, su IMDb, come il protagonista de Il collezionista di carte. Adesso, se pensate che ho scritto cazzate, è vero. Era per farvi ridere perché The Batman fa piangere. Ah, dimenticavo… molti di voi impazziscono per Zoë Kravitz. È mille volte meglio Gina Gershon dello storico videoclip epocale della canzone Again…
Per finire, Pattinson è un attore mediocre ma Lenny Kravitz è un grande cantante. Se siete invidiosi, sparatevi in testa come Kurt Cobain. Se pensate che vale la pena vivere per il Cinema e la Musica, datevi all’agricoltura. Riceverete meno delusioni. E non sarete potati da ragazzi in fiore da orto botanico.
Questo mondo è andato a bottane. Perciò, giù botte e chi se ne fotte!
Ah sì, tu te ne fotti? Bravo, fottiti. Comunque, voto al film, 7 e mezzo. Ecco il contradditorio.
- Stavolta c’è il due senza tre, smentisco il detto e quanto da me, nel capitolo precedente detto, appunto, in quanto sono l’esemplificazione del participio passato contraddetto, forse sono sol interdetto, ah, ma che dico? Fermatemi!
The Batman di Matt Reeves è un bel film, sì, è bello come Pattinson.
Pattinson è bello ma non è bellissimo. Parimenti, The Batman rimane bello e basta. Niente di trascendentale. Voi invece praticate meditazione orientale?
In passato, fui brutto, poi bruttissimo, poi fui carino, per molto tempo non usai l’ocarina e ora sono belloccio. Monica Bellucci era molto bella, adesso è invecchiata e leggermente imbruttita.
Molti di voi vogliono farsi belli agli occhi altrui. Ma è inutile che andiate in palestra a fare… le belle fighe.
Non sapete recitare, non sapete scrivere e non sapete neanche ironizzare sulle vostre quotidiane sfighe.
Vi prendete sempre maledettamente sul serio anche quando uno vi guarda per 3 secondi netti e giustamente pensa che siete degli inetti.
Io sono vendetta?
Macché. Mica sono De Niro di Cape Fear con tanto di tatuaggio che recitò la scritta Vengeance is Mine.
Sono quello di Taxi Driver.
E, su questa freddura finale, v’ho freddato.
Fra pochissimi giorni sarà Pasqua, tutti dicono che in ogni zona d’Italia fa caldo ma io ho il raffreddore.
Sì, quando la gente ha caldo, soprattutto le donne in calore, io ho freddo perché mi piace pensare che la cantante Giorgia ha una bella voce ma è racchia forte.
E poi che dice e urla, da cornacchia frustrata, in quella canzone… Oronero? Stronzo senza fine?
Ma la smettesse questa stronza. Coi soldi che ha, qualche nuovo Pino Daniele da Vento di passioni con Brad Pitt, no, Vento di passione, lo troverà.
Che voglio dire? Che Pino non era un ottimo chitarrista?
No, dico che Giorgia vedrà Pitt col binocolo e che a Laura Pausini preferirò sempre Nic Cage di City of Angels con tanto di Pino Silvestre e bosco coi pini.
Ora, scusate, devo andare alla gelateria Pino in Piazza Maggiore a Bologna. Mi aspetta un gelato alla stracciatella di ottima fattura.
E ricordate: io ululo, latro, come tutte le persone, pis… io e cago nella latrina e bevo tante lattine.
Bevo il latte, mangio il fegato amaro come i gatti e sgattaiolo, facendo pure le fusa. Sono fuso? Macché. Sono fatto così. Se non vi sta bene, identificatevi con Batman, indossate il suo mantello e, fra meno di un mese, essendovi “smantellati” nel cervello, verrò a trovarmi in manicomio e vi offrirò delle caramelle. Fidatevi. Il futuro sarà orrendo come Colin Farrell col trucco da bruttarello. Se fate gli stronzi, contro di me non potete farcela. Fate cagare! Poiché, quando meno ve l’aspetterete, divento Birdman. Ah ah! Finisco con la mia “imprevedibile virtù dell’ignoranza”: Nel Batman di Tim Burton, v’ Michael Keaton e ovviamente anche in Birdman. Nel Batman di Tim Burton, c’è Jack Nicholson, protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo. In cui furono presenti anche Danny DeVito, il Pinguino, e Christopher Lloyd. Lloyd recitò con Keaton in 4 pazzi in libertà.
Dunque, se mi reputate pazzo, prima datevi una calmata, assumete un tranquillante o, in casi gravi, un neurolettico, fatevi una cultura, non solo cinematografica perché, altrimenti, vi dimostrerò di esserlo sul serio, ah ah. Why so serious?
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – The Score di Frank Oz con Robert De Niro, Edward Norton e Marlon Brando
È oggi il turno di The Score, film considerato da molti un filmetto. No, vi sbagliate. Non l’avete visto attentamente e siete stati assai precipitosi, affrettatissimi nel giudizio vostro perentorio e sbadato.
The Score è un gran bel film. Credetemi.
Film del 2001 della durata, abbastanza consistente, di due ore e quattro minuti, diretto dal veterano Frank Oz. Sì, un uomo diventato famoso nell’ambiente per essere stato uno dei padri, diciamo così, di quelle sublimi creature chiamate Muppets, assieme al loro creatore Jim Henson.
Regista talentuoso e sofisticato di commedie nient’affatto trascurabili, divertentissime e molto intelligenti come La piccola bottega degli orrori, Tutte le manie di Bob con Richard Dreyfuss e Bill Murray, In & Out con uno strepitoso Kevin Kline e il bellissimo Bowfinger con Steve Martin e Eddie Murphy.
Che, con questo formidabile The Score, cambia totalmente genere, spiazzandoci davvero e girando magistralmente un ottimo caper movie, sì, il classico film di rapina da “colpo grosso”, assoldando nel suo cast tre attori di razza pregiatissima, tre campioni imbattili del miglior Metodo, modelli recitativi altissimi appartenenti a differenti generazioni, accomunati però dall’identica forza espressiva, dalla stessa poderosa versatilità, dalla pari poliedrica classe mimetica e dall’eguale, ipnotico carisma, ovvero Robert De Niro, Edward Norton e Marlon Brando, qui purtroppo alla sua ultimissima apparizione cinematografica.
E già basterebbe ciò per reputare The Score un film importante.
Trama…
Siamo a Montréal. Nick Wells (Robert De Niro) è un attempato ladro, una vecchia volpe ritiratasi dalla scena che gestisce un elegante bistrot. Trascorre le sue giornate a leggere il giornale, a scrutare nell’enigmatico turbinio della sua vita or acchetatasi nella mesta, paciosa calma borghese e a incontrare la sua fiamma, l’hostess Diane (la stupenda Angela Bassett).
Durante una bella mattinata plumbea, Nick viene avvicinato loscamente da uno strano figuro che, a prima vista, pare disabile e minorato mentale, Jack Teller (Edward Norton).
Costui gli sussurra mellifluo che qualcuno l’ha richiamato in servizio per un affare lucroso e miliardario, e lo sta aspettando per un appuntamento speciale.
Così, Nick e Jack incontrano Max (un debordante Brando), vecchio socio in affari di Nick, e i tre arditamente, nonostante le mille, iniziali titubanze di Nick, restio a farsi coinvolgere in altri piani criminosi, progettano il furto di un inestimabile scettro prezioso, custodito gelosamente e in momentanea giacenza presso la cantina della dogana cittadina.
Jack si fa assumere, sotto mentite spoglie da persona handicappata, come umile, apparentemente innocuo uomo delle pulizie, al fine di poter carpire meglio e da vicino la situazione all’interno della dogana e imparare a studiare il metodo di sorveglianza dei poliziotti addetti al controllo dello scettro. Al fine di poter eluderli al momento del colpo che sarà effettuato per mano di Nick.
Qualcuno tradirà però spericolatamente gli accordi, romperà rovinosamente i patti e vorrà incoscientemente agire di testa propria. Rischiando di mandar a monte l’intera operazione soltanto per appropriarsi della refurtiva e poi darsela a gambe levate, fuggendo col malloppo.
Ma forse non ha fatto i conti con la scafata esperienza di chi è più saggio e temporeggiatore di lui.
Che film, ragazzi. Chi l’ha detto che i film heist debbano essere per forza dei capolavori assoluti come Heat?
Esistono le raffinate sfumature e The Score n’è un brillante, riuscitissimo esempio.
Certo, vedere i troneggianti nomi in locandina di De Niro, Norton e Brando e poi trovarsi dinanzi a una semplice, lineare pellicola di puro intrattenimento, ha scontentato parecchie persone. E fatto infuriare i critici più esigenti.
Come dire… la montagna ha partorito solo un topolino?
Macché. The Score è un film considerevole, ottimamente orchestrato, godibilissimo. E, per avallare la mia decisa affermazione orgogliosa, cito a tal proposito la recensione, dal suo Dizionario, di Paolo Mereghetti, un critico non sempre simpaticissimo a causa delle sue fin troppo severe vedute ma che spesso c’azzecca…
Fedele al tema della menzogna che attraversa tutta la sua filmografia, Oz confeziona la sua pellicola più matura e incompresa: una variazione sorridente sui cliché del poliziesco crepuscolare e un thriller sui generis a combustione lenta, che divampa in un finale frenetico. La gara di bravura dei protagonisti (tre generazioni dell’Actor’s Studio a confronto, e non a caso il grisbi è rappresentato da un prezioso scettro) sembra quasi uno studio sull’evoluzione dell’arte della recitazione. E il ritmo impresso dalla partitura jazz di Howard Shore avvicina il film a una jam session che sovente si spezza in assoli e duetti…
Superba fotografia funzionale di Rob Hahn.
The Score è il solo film in cui De Niro e Brando hanno recitato assieme. Proprio loro che son stati gli unici due attori diversi a vincere l’Oscar per aver interpretato lo stesso personaggio, Vito Corleone, nella saga coppoliana de Il padrino.
E Norton, sin dai suoi primissimi esordi, è stato subito visto come il loro erede.
Ho detto tutto…
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema: Jimmy Bobo – Bullet to the Head di Walter Hill con Sylvester Stallone
Oggi recensiamo il film Jimmy Bobo – Bullet to the Head del grande Walter Hill, il regista del capolavoro assoluto I guerrieri della notte e di perle come 48 ore, Danko, Johnny il bello, Strade di fuoco, eccetera eccetera.
Jimmy Bobo – Bullet to the Head, il cui titolo originale è semplicemente Bullet to the Head, da non confondere assolutamente con lo strepitoso Bullet in the Head di John Woo con Tony Chiu-Wai Leung e nemmeno col recentissimo Bullet Head di Paul Solet con Adrien Brody, Antonio Banderas e John Malkovich.
Allora, da dove è spuntato questo Jimmy Bobo? Jimmy Bobo è il nomignolo col quale viene appellato il protagonista della pellicola, James Bonomo, interpretato da Sylvester Stallone.
La Buena Vista International, l’italiana casa distributrice della pellicola, prima della sua uscita nelle sale, indisse un sondaggio, chiedendo ai futuri spettatori quale titolo avrebbero voluto veder affibbiato al film. E la gente scelse il bizzarro Jimmy Bobo. Ecco spiegato l’arcano.
Jimmy Bobo – Bullet to the Head è stato in Italia distribuito il 4 Aprile del 2013 dopo aver avuto la sua prima mondiale al Festival di Roma il 14 Novembre 2012.
Ecco, è il classico esempio di film abbastanza mediocre, dobbiamo essere obiettivi e molto sinceri, il tipico film che i recidivi, irriducibili, nostalgici fan del regista tengono, così come tutte le sue opere, anche quelle meno riuscite ed efficaci, in altissima auge, e che invece vien fin troppo screditato dalla Critica eccessivamente sussiegosa, che lo reputa brutto. Diciamo che, non sempre, Metacritic certifica con la sua media recensoria la giusta validità e il valore di una pellicola ma, in questo caso, il suo 48% di score è perfetto, calza vellutatamente, come i guanti indossati da Stallone nell’incipit, in maniera aderentissima rispetto all’esatta, media levatura di tale pellicola.
Un film che dunque non è un capolavoro e nemmeno si può liquidare in modo altezzosamente snob come invece il pubblico, qui da noi, ha erroneamente fatto. E che non meritava, in home video, lo squallido trattamento che gli è stato riservato poiché Jimmy Bobo – Bullet to the Head nel nostro Paese non ha mai avuto la sua edizione in dvd e neppure quella in Blu-ray. Ed è solo attualmente visibile, prima che scompaia e lo rimpiazzeranno presto con un altro film di Stallone, statene pur certi, sul catalogo Netflix.
Film della durata di un’ora e trentadue minuti, sceneggiato da Alessandro Camon e tratto dalla graphic novel scritta da Alexis Nolent e illustrata da Colin Wilson.
La genesi di questo film è stata davvero peculiare. Inizialmente il film doveva intitolarsi Headshot e a dirigerlo era stato designato Wayne Kramer (Crossing Over) ma, in seguito a scontri con la produzione e con Sly soprattutto, Kramer fu fatto fuori, Sylvester Stallone incontrò dunque privatamente Walter Hill e lo convinse ad assumerne la regia. Hill accettò di buon grado la proposta offertagli da Sly e tornò dunque dietro la macchina da presa dopo nove anni dalla sua ultima, bellissima fatica, Undisputed del 2002. Sì, Jimmy Bobo – Bullet to the, come detto, ha avuto la sua premiere nel 2012 ma le riprese si sono svolte l’anno precedente, da fine Giugno ad Agosto 2011.
Inoltre, l’antagonista di Sly nel film doveva essere Thomas Jane ma poi si optò per un partner asiatico, Sung Kang, per creare una strana coppia multietnica. Un po’ come avvenuto, appunto, per 48 ore con l’unica differenza che Eddie Murphy, ovviamente, era nero, afroamericano.
Dopo questa lunga, necessaria parentesi introduttiva, passiamo alla trama.
Di una semplicità linearissima e al contempo dagli sviluppi piuttosto ingarbugliati e non poco affrettati e confusi. Perché i protagonisti e i personaggi di contorno della vicenda sono pochi ma lo script, onestamente, è parecchio incomprensibile.
Jimmy Bobo (Stallone) è un sicario professionista, un criminale arrestato ventisei volte e con varie condanne all’attivo che, assieme al suo collega, Louis Blanchard (Jon Seda, sì l’attore di Verso il sole di Cimino), in piena notte ammazza Hank Greely (Holt McCallany, Mindhunter), uno sbirro corrotto che si stava apprestando a far baldoria e sesso bollente con una prostituta. Jimmy risparmia la vita della prostituta.
Poco dopo, in un pub, Blanchard viene a sua volta sgozzato e ucciso da un corpulento macho di nome Keegan (Jason Momoa).
Nei giorni seguenti, il poliziotto coreano Taylor Kwon (Kang) giunge sul posto per far chiarezza sull’omicidio di Greely. Ed entra immediatamente in contatto con Jimmy Bobo.
Kwon dovrebbe arrestare Bobo per il suo mestiere criminoso e per il fatto che ha ammazzato il suo amico Greely ma scopre che ciò non gli conviene. Perché c’è del marcio in città e Bobo è l’unico che, nonostante i suoi modi assassini e bruschi, può sgominare i corrotti.
Bobo ha una figlia, Lisa (Sarah Shahi) che, dopo aver mollato la facoltà di Medicina, ora svolge la professione di tatuatrice. E Kwon se ne innamora. Così Jimmy e Kwon si alleano, smascherando un avvocato truffaldino (Christian Slater) e arrivando alla resa dei conti finale.
Che dire? Walter Hill sa di girare un film su commissione e non s’impegna più del dovuto, a parte filmando riprese aeree dei grattacieli, concedendosi qualche sollazzo visivo e alcuni affascinanti, sbrilluccicanti effetti ottici che giocano, di saturazioni fotografiche, con le luci dei fari e delle insegne notturne. E realizza un compitino decoroso, ma non glorioso, memore del Cinema naïf a base di cazzotti e action anni ottanta, costruito sull’icona Stallone, un buzzurro tutto muscoli dalle maniere rudi, sbrigative ma eccezionalmente risolutive. Permettendogli di spogliarsi ed esibire alla sua avanzata età il torso perfettamente muscoloso, con tanto di tartaruga.
Il film è tutto qua. Se provate, appunto, nostalgia per il Cinema degli eighties e volete trascorrere una serata in compagnia di un film muscolare e virile non troppo impegnativo, Jimmy Bobo – Bullet to the Head è il film adatto a questo genere di vostri gusti. La visione migliore che potete avere.
Basta che teniate a mente che i capolavori di Hill sono altri.
di Stefano Falotico
Alì, recensione
Oggi, recensiamo lo splendido Alì firmato dal geniale Michael Mann (Heat – La sfida, Miami Vice, L’ultimo dei Mohicani). Una delle sue inarrivabili perle cinematograficamente più potenti e indimenticabili.
Ebbene, mentre impazza oramai da due settimane il “caso” Will Smith, in seguito al suo istintivo, discutibile gesto clamoroso ai recenti Oscar, ovvero l’oramai tristemente celebre pugno da lui sferrato allo stand–up comedian à la Don Rickles, cioè Chris Rock, gesto per il quale è stato severamente, non sappiamo però se giustamente, sanzionato fortemente, per l’appunto, dal cilindro magico delle cinefile memorie più incantate e cristalline, ripeschiamo tale capolavoro, sì, lo è indiscutibilmente, ovvero, inutile ridirlo, Alì. Checché se ne dica e, a prescindere da quanto, potremmo dire, recentissimamente, scabrosamente successo a Will in seguito al suo incontenibile, punibile e punito, chissà se sbagliato o solamente smodato, raptus di “follia” irosa, un film contenente una delle sue più sentite, strepitose, incredibili performance d’attore. Insomma, uno dei migliori Will Smith di sempre, incarnatosi straordinariamente e camaleonticamente in una prova recitativa, parimenti e al contempo, in forma antitetica rispetto al suo gesto, eclatante da applauso e stupore a scena aperta.
Alì, film della robusta e corposa durata di due adrenaliniche, romantiche, appassionanti e ardimentosamente entusiasmanti ore e trentasette minuti veramente eccezionali con uno Smith corpulento e allo stesso tempo sorprendente nei panni del mitico e leggendario Muhammad Ali, ovviamente. Alì, sceneggiato mirabilmente dal premio Oscar Eric Roth (Forrest Gump, Dune) e dal duo composto da Christopher Wilkinson & Stephen J. Rivele, già writer unitisi, professionalmente, per Gli intrighi del potere – Nixon, a partire da un soggetto e una storia ad opera di Gregory Allen Howard (Il sapore della vittoria – Uniti si vince), è naturalmente un biopic, d’alta scuola cineastica e finissima regia di classe veramente ragguardevole, incentrato su colui che viene quasi unanimemente considerato il più grande pugile di tutti i tempi, ça va sans dire, il già appena menzionato Muhammad Ali, nato però all’anagrafe come Cassius Marcellus Clay Jr. E ribattezzato Alì (accentiamo come nel titolo italiano, in originale non lo è) per ragioni ai più note e palesateci, narrate nella suddetta pellicola di Mann da noi qui disaminata, speriamo con esemplare acutezza e chiara asciuttezza esaustiva e precisa.
Trama, sintetizzata al massimo per non rovinarvi le sorprese e soprattutto le emozioni che certamente vivrete intensamente se, prima d’ora, non avete mai visto questo film mastodontico e maestoso…
Semplicemente, ci viene raccontata, col solito stile mirabolante di Mann, cioè fiammeggiante, romantico e sontuoso, assai classico eppur veloce, intriso di flashback spiazzanti come un jet–lag scagliatoci furentemente nel momento più inaspettato, stavolta inteso in senso lato e in senso, giustappunto, emotivamente sorprendente, la cronistoria di Cassius Clay (un titanico Will Smith). Più esattamente, ribadiamo, mediante salti temporali pazzeschi e bellissimi, si salta, come il ballerino del ring Ali, dal 1964 a ‘74. Anno storico del celeberrimo e monumentale trionfo del redivivo Clay, detronizzato dello scettro di re del pugilato e ingiustamente scippato della sua cintura di campione dei pesi massimi, contro il suo antagonista più ostico e forse cattivo, George Foreman (Charles Shufford), avvenuto a Kinshasa, nello Zaire, qui scandito dall’incalzante Tomorrow di Salif Keita.
Cosicché, in quest’arco temporale constante d’un periodo apparentemente breve, cioè consistente soltanto di una decade, assistiamo a una sarabanda stupefacente d’eventi, dall’ascesa del futuro Ali/Clay che vince il titolo contro Sonny Liston, ribaltando ogni pronostico, fino alle sue controverse amicizie con Malcolm X (Mario Van Peebles) e altri personaggi di rango, fra cui il cronista sportivo Howard Cosell (un magnifico Jon Voight), il quale diverrà il suo primo fan sfegatato oltre che amico inseparabile, dal suo altalenante rapporto col suo personal trainer Angelo Dundee (Ron Silver) e col suo cornerman (Jamie Foxx), dal suo primo amore con Sonji Roi (Jada Pinkett, la vera moglie di Smith nella vita reale) alla sua scabrosa relazione con Veronica Porché (Michael Michele), col nel mezzo la sua conversione all’Islam e, da ciò, la sua decisione di cambiarsi nome da Clay ad Ali e, conseguentemente, la sua drastica scelta di non partire per il Vietnam che gli costò il ritiro del titolo di campione mondiale, da Ali riagguantato proprio sconfiggendo Foreman nel match sopra dettovi.
Incandescente ed elegante fotografia di Emmanuel Lubezki e serrato montaggio mozzafiato di William Goldenberg per un capolavoro manniano trasudante passione sfrenata non solo per la settima arte più pregiata.
Un grintoso tour de force superbo per un Smith in forma smagliante, fisica e attoriale delle più mirabili.
Un film dall’andatura crescente, inframmezzato dall’ottima partitura jazzistica di Lisa Gerrad e Pieter Bourke.
Nel variegato cast stratosferico, anche Jeffrey Wright e Mykelti Williamson nei panni di Don King.
di Stefano Falotico
DIABOLIK, recensione
Ebbene, finalmente ho visto il cinecomic italiano dell’anno par excellence, iper-annunciato, pubblicizzato di battage promozionale impari, nelle sale rimandato a casa, no, posticipato causa Covid, forse perfino rimontato, da molti esaltato e da altrettanti snobbato, in fretta e furia liquidato, impietosamente stroncato, mal guardato o, di contraltare, straordinariamente e inspiegabilmente osannato e, a spada tratto, appoggiato.
Diabolik che cos’è? Un gran bel film? No, nella maniera più assoluta. È pessimo? No, di certo, di ciò ne sono estremamente sicuro e ne ho ragione da vendere. E, nelle prossime righe, forse interminabilmente prolisse, in merito a tale pellicola, forse non emerita, certamente non brutta, altresì nemmeno bella, molte parole a riguardo, da me scritte ovviamente, se vorrete leggerete, riserberò e spero vogliate leggerle con attenzione… se tempo da perdere av(r)ete, cioè da sperperare o spendere? Ah ah. Ora, se tutto andrà bene, come si suol dire proverbialmente, mi si vedrà nel secondo capitolo di tale suddetto film, sì, avete letto bene, in Diabolik 2 comparirò da comparsa e spero che non sia stata futile la mia giornata spesa al Teatro Duse, qui a Bulåggna. M’auguro infatti vivamente che qualche ottima inquadratura al mio viso, semmai di primo piano carismaticamente ammiccante, mi sarà onorevolmente riservata in modo omaggiante la mia partecipazione straordinaria davvero entusiasmante, eh eh, oserei dire veramente eccezionale, non so però se eccellente o, a livello recitativo, pertinente e/o (s)misurata, ah ah. Detto ciò, dopo essermi avventurato nottetempo, di prima mattina invernale e assai rigida climaticamente, all’interno del dedalo sotterraneo dell’autostazione della mia natia città felsinea, cioè negli studi Mompracem, ubicati in uno pseudo-terrone, no, terrapieno, no, specie di seminterrato rialzato a sua volta, giustappunto, situato a mo’ di Bat-caverna, in uno spettrale e cupo meandro del bolognese più occultato, oserei dire celato, sostanzialmente in un luogo apposito per la prova costumi non svergognata ma giustamente da mantenere segreta e non pubblicamente denudata, eh eh, m’inoltrai, con stoica volontà infermabile e assai ammirabile, in quel del sopra citato Duse per una scena girata di molteplici scene, successivamente da montare e accordare digitalmente, similarmente filmate a mo’ dell’Opera argentiano/a.
Dopo questo strampalato e bislacco periodo sintattico, no, temporale (eppur non piovve) episodio personale, cioè falotico di superflua aneddotica per voi irrilevante, in quanto, tranne a me stesso, credo che delle mie disavventure e /o peripezie, professionali e non, non freghi un ca… zo a nessuno, detta sinceramente con onestà disarmante, passiamo alla Critica-recensione del capostipite originario, ovvero all’origine della mia disfatta, no, della saga a venire, dai Manetti Bros. pian piano concepita, ideata, trasfigurata e in immagini, da lor rielaborate dal celeberrimo, omonimo fumetto delle sorelle Angela & Luciana Giussani, allestita, non so se studiata meticolosamente in ogni versione a puntate, no, inappuntabile dettaglio incriticabile.
Quindi, dopo la mia ennesima “faloticata”, quest’ultima celebre, come no, espressione oramai entrata di diritto nel collettivo immaginario cine-fumettistico, no, in ogni vocabolario Treccani-Zingarelli-Devoto-Oli che si rispetti, poiché denotatrice d’un modus vivendi irreversibilmente proteso alla stronzata geniale e più sorprendentemente inaspettata, occupiamoci di me stes(s)o, semi-disoccupato e disperato che, in un mo(n)do o nell’altro, nella maniera più disparata anche senza buone maniere e manierismi di finto bon ton poltically correct, deve pur sbarcare il lunario, arrabattandosi alla bell’è meglio per raggranellare du’ spiccioli al fine di poter, un giorno, avere le possibilità economiche per scopare Miriam Leone (sì, donna esigente, annoiata come Eva Kant, la quale necessita non tanto di detersivi, no, diversivi à la Diabolik per spassarsela lontana dalla sua apatia esistenziale veramente da depressa deprimente, bensì abbisogna di un re-g-ale riccone che non sia ricchione) o soltanto per non finire barbone e, di conseguenza, salvarsi/mi grazie a scopate in Via Indipendenza da operatore ecologico che preserva quel minimo di habitat umano ancora decorosamente collegato a una dignità fantozziana, no, finanziaria-sociale non miserevole e degradante delle più umilianti e agghiaccianti.
Ah, si finisce sulla lastra, no, sul lastrico e si dà lustro a uomini poco illustri, qui io ciò v’illustro in modo socialmente pedagogico e moralmente assai nobile, in quanto son uomo che, essendo amante contemplativo, metafisico inaudito e, giocoforza, poco volentieri maudit, divenuto tale a causa di sopra dettevi (s)fighe inenarrabili da morir dal ridere, perciò uomo autoironico, diciamocela tutta, tragicomico in senso tout–court, che sdrammatizza da “volpone” gli eventi tristi occorsigli in maniera grottescamente meritevole d’un applauso a cerniera, no, cena, no, a scena aperta grandiosa delle più inconcepibili, sì, da uomo “scemo” riapertosi alla vita (quale vita?) in modo suicidario con “onore”, scrive or ivi un diario di riflessioni e memorie, no, a mo’ di sussidiario ripieno di dolore, no, vergherà qualcosa di seriamente, meravigliosamente recensorio che possa essere tramandato alle lapidi della Certosa (famoso cimitero bolognese che, in questo film e nel suo sequel, si vede sovente) o ai poster(i) più (im)mortali e pen(s)osi.
Mah, di mio, so di avere pene d’amore e poco pane, ripeto, per non finire trombato dalla Leone?
No, dalla vita troia. E ho detto tutto in modo gratis et amore.
Andiamo avanti, suvvia, tiriamo a campare, non m’importa una sega se mi segherete. Sì, peraltro piaccio pure ai gay. Eh già, costoro, chissà quante segretamente se ne tirano su di me. Io non me la tiro e per gli omosessuali non mi tira, sebbene, ribadisca, attualmente son messo a pecora. Sì, a novanta, esistenzialmente parlando, sì, parliamoci chiaro come un mar lindo dei più adamantini e puliti.
Uomini e donne sporchini, ricordate che, come la giri la giri, chi più chi meno, lo prendiamo tutti in culo. È così, c’est la vie. Fottetevi. Me ne fotto!
Pensiamo, orsù, alla salute e non rattristiamoci giammai, non chiudiamoci da orsi nelle melanconie da La Mer. Peraltro, che (r)esistenza-resilienza più precaria di un uomo precario in Stato… italiano, cioè esiziale, moralista, catto-borghese dei più retrivi e pericolosi, farisei e ipocriti.
Ma finché c’è vita c’è speranza, dobbiamo aprire gli orizzonti, non essere limitati, circoscrivendo le nostre visioni al passato orribile, dobbiamo vedere oltre con armonia, ammirando forsanche il balcone per un salto giù dalla terrazza di enorme fragore atroce. Fidatevi. Ah, che visione panoramica, com’è bella quella baldracca a lato b scoperto sulla copertina di Panorama, nevvero? Ah, Vittoria! Vittoria Belvedere, che sedere! Da qui si vede la basilica di San Luca e anche una più ricca viziata, non so se viziosa, della Leone che si sta facendo bombare, a tapparelle alzate e in bellavista ignuda, da un puttanone che ereditò una fortuna senza fare un cazzo dalla nascita. Lui, sì, che mai si fece il culo ma se le fa tutte, sbattendosene alla grande… dell’etica o sbattendosi qualsiasi “donna” di ogni razza, sesso e religione. Una vera “pulizia” etnica, ah ah!
La vita è bellissima, perché vi lamentate? Non vi manca nulla. Guardate Diabolik e non rompete i coglioni.
Sì, la sua storia acchiappa, dobbiamo tifare per un ladro che ammazza le persone senz’alcuna ragione e, alla fine, fotte chiunque, sbattendolo fra le chiappe, nei titoli di coda, anche alla Kant. Donna incantevole, sì, t’incanta anche se codesta non sa neppure chi sia Immanuel Kant. Ma ha lo yacht questa splendida mignott’.
C’è poco da filosofeggiare. Eva afferma che gli uomini sono tutti delle merde, pensano solamente a fare soldi per farsi una come lei. Lei odia i maschi(listi) porci e bugiardi, fetidi e bastardi. Ma chi è? Una casaling(u)a che, dopo essersi goduta allo specchio per l’appunto desnuda, prendendolo fra le cosce, no, assumendo contentezza e contezza, sì, coscienza di essere sexy to die for e hot like hell, ha al contempo compreso che non deve più assumere farmacologiche compresse antidepressive ma può riciclarsi come modella fuori tempo massimo da Milf âgée per cinquantenni frust(r)ati che le urlano virtualmente un… ammazza quanto sei bona, che spettacolo, tanta robbbaaa!
Lei è una donna di classe, intendiamoci bene. Non ha mai subito un TSO, ha il quoziente intellettivo di chi guarda le telenovele, ama le veline, legge Novella 2000 e venera Dallas, lei, sì, che ha capacità d’intendere e volere, spende e spande, non guida una Panda, spedendo in rehab tutti i “machi” cazzuti, soprattutto cazzoni, i quali, impazziti per lei, soffrono immantinente d’infermità non solo mentale, bensì anche di mano sulla lor quaglia masturbat(ori)a in un nano… secondo da schizzati di questa società della nostra beneamata minch… ia!
La Kant non può innamorarsi di Stefano Pesce, il prosecutore. Altrimenti, la sua vita non avrebbe prosecuzione. È capace che questo qua, un baccalà, subirà presto un processo per concussione. Che tristone!
Questo bambagione si comporta con lei quasi da stalker, sì, è un maniaco sessuale persecutore. Mille volte meglio, allora, Diabolik, un uomo “vero” che sa distrarla e farla divertire grazie al gusto per l’adrenalina più fina e figa. È un uomo giammai in casina, non è un ratto del serraglio e agonadico, è incasinato ma frenetico e sensualmente selvatico, svaligia ogni casinò, è figo come Vasco Rossi quando canta… voglio una vita spericolata, la voglio piena di guai.
E poi c’incontreremo al Roxy Bar… a proposito di Bologna, miei uomini da Ugo Fantozzi, no, Ugo Bassi! Bassissimi! Ma, in Topolino, c’è perfino la banda Bassotti! E il commissario Basettoni!
Sì, Diabolik canta spesso alla Kant… sono l’uomo più semplice che c’è… son un uomo solo, sono l’uomo giusto per te.
Ti posso offrire sempre un buon tè, un superbo caffè, cene di lusso e ville lussuose con camere in cui giocheremo d’amplessi ricolmi di lussuria molto godibile, soprattutto voglio regalarti un diamante inestimabile in quanto son un grande amante veramente imbattibile e inafferrabile. Non son inchiappettabile.
Ho anche, oltre alla porca, no, alla Porsche, tre Ferrari. Inoltre, sulla mia auto di scorta, una Maserati, è installata un’autoradio da diecimila Euro. Così che potrai, mia cara con gioielli da mille carati, quando vuoi e vorrai, a tutto volume perfettamente calibrato, ascoltare la tua cantante preferita, Elettra Lamborghini! Ma quanto è (o)carina! Ma che vamp svampita! Tutti vampirizza! Che bella sbarbina-bambina-bambolina!
Mica, come dicono a Bologna, bruscolini! Socmel e dio porz’! FUCK THE WORLD! Dio Cristo!
Lo vedi quello sfigato lì? Lo vedi lui là? Alziamogli subito il dito medio e prendiamolo in giro, dai, su! Lo vedi quello scopatore, lì, sì, quello spazzino di merda? Mettiamolo sotto, asfaltiamolo e dal Pianeta Terra spazziamolo, sì, ‘sto strunz’.
Siamo Bonnie & Clyde ante litteram, siamo gli (anti)eroi del nuovo millennio, siamo i Millennial che non sanno chi fu Orson Welles ma venderebbero la madre per un autografo di Robert Pattinson. T’al dec me, soccia, visto che cartola? Dio bonin’, se l’è fig’, è un grande attore! Ma quant’è bonazzo! … Azz!
Allora arriva un uomo della Basilicata che non conosce Andrea Pazienza e, spazientito da un nerd che legge giornaletti dù caz’, urla, imprecando Gesù e tutti i santi: tu sì Paz! a leggere cussù dù! Uh uh!
Sì, Pattinson sembra Ronn Moss di Beautiful ma, a differenza di Ridge Forrester, recitò con registi come Cronenberg e Robert Eggers. Quindi, dev’essere bravo “a bestia”, per furzzzz! Oh, a casa mia, due più 2 fa 4. Dunque, non ci si può sbagliare. È un attore con le palle, deve avere du’ marron’ com’un toro, dà la paga a tutti, forse tranne al suo maggiordom’…
A parte gli scherzi, Diabolik parte in quinta, carbura benissimo, l’incipit funziona alla grandissima, di brutt’. Va liscio come l’olio o il burro? Il burrone! Trattasi di inseguimento stradale orchestrato con maestria e decumane con tanto di via Marconi e traverse laterali intrecciate a scorci e squarci dei viali di Milano.
Poi, adocchiamo la comparsa di nome F. Colomb… ti alla Montagnola con tanto di ciuffettino alla Paolo Limiti resuscitato. Ci manca Ornella Pavoni per tal pavone! Abbiamo anche la zona Fiera di via Stalingrado ove i culattoni lo danno via ai pervertiti coi soldoni!
Il film non ha ritmo per un’ora e mezza, ne dura 45 min. di più ma, in virtù di cinquemila split–screen, al caveau che fa molto To Catch a Thier di zio Alfred Hitchcock, si sa, Alle donne piace ladro (Dead Heat on a Merry-Go-Round) e alla fine, giustappunto, ci sta.
Non è male! A te è piaciuto? Sì, dovremmo trovarci nell’immaginaria Clerville ma, tre comprimari su cinque, parlano come se ci trovassimo a Casalecchio di Reno.
Be’, Marinelli fa il piacione ma se lo può permettere. In effetti, ha un naso più lungo del Falotico ma hai visto, però, che sguardo? Che occhi più profondi in cui annegare come se non sapessimo nuotare!
Perché non hanno chiamato Stefano Accorsi, uomo ripieno, oltre che bolognese d.o.c., di donne Maxibon come l’ex Laetitia Casta. Stefanuccio, che è molto credibile come malato di mente in Marilyn ha gli occhi neri. E poi vogliamo mettere il suo “perfetto” Dino Campana da Coppa del Nonno, no, Coppa Volpi!?
Certamente… Fra l’altro, in quella serie televisiva… non sodomizzava Miriam?
Sì, Stefano è un tipo da clinica psichiatrica Ottonello, da Villa Baruzziana, da “ospizio” Oleandri e da “manicomio” Malpighi. No, ma soprattutto Stefano Falotico è uno che, quando meno te l’aspetti, ti caccia fuori questo:
E ora tutti i boomer, dal cervellino piccolo come Sbirulino, se lo prendono nel cul… ino!
Ma sì, se vogliamo piangere e dirci la verità, non so scrivere né leggere, non so argomentare, non so lavorare per 5 Euro all’ora, non so prostituirmi e sono un pirla con una faccia da pirla, sono un co(ni)glione, un “vile malfattore”, un freak, un oligofrenico incurabile.
Ma se vogliamo invece essere “onesti”, in buona (so)stanza, fa bene Diabolik a fare il ladro.
Vi meritate questo e (non) altro, cioè Rai Cinema. Pura fiction in formato “grande schermo”.
Ah, ricordate: Buona Domenica ed evviva le lasagne, abbasso le lagne, vai di besciamella e mortadella, guarda che bellina la conduttrice cosciona, che bonazz’ e che vestitino! Per la madonnazza vacc… zza! Dammi or da bere un caffettino Lavazza. Domani, dobbiamo lavurar’, straccio e ramazza!
Per quanto mi concerne, salutatemi a soreta! So bene, assai bene che quando qualcuno vuol farti la morale-paternale, eh già, ti grida: non vali un ca… o!
Se lo dice lui? Porta a spasso i disabili, cioè molti di voi, perché non sa ammettere a sé stesso di non sapere nulla di Cinema, non sa nulla di Letteratura ma è una bravissima personcina… Capisc’?! Così facendo, si redime dalle sue limitatezze.
E di nuovo ho detto tutto alla Peppino De Filippo! Che cosa? Oh, signur, quello lì sta con una “malafemmina!”. Oddio, che disgrazia! Scandaloooo! Vai col retro-pensiero bigottooo!
In tutta franchezza, ecco a voi l’Italia. Era così ai tempi di Totò ed è rimasta così dopo cinquant’anni. Con l’unica differenza che le nuove generazioni conoscono a menadito ogni cine-fumetto ma non hanno mai visto un film col principe di Gotham? No, della risata. Sono un Joker… ellone. Se vi sto donando un po’ di vita, poveri morti viventi e tontoloni, vi chiedo perdono, mettetemi in manicomio! V’imploro in ginocchio!
P.S.: voglio fare i complimenti a Francesco Gabbani per la sua splendida, nuova canzone, intitolata Volevamo solo essere felici.
In conclusione: Non è malvagio, non è cattivo, sì, il film. Ma forse anche Diabolik non è un criminale. Trattasi, invero, di povero (dis)graziato. Per fortuna, lui si è salvato da un mondo di beceri uomini qualunquisti e di donne che recitano la parte della Madonna ma sono più false di un gioiello falso. Falsari! Diamoci alla Banda degli onesti!
di Stefano Falotico
Trilogia de IL PADRINO (The Godfather), recensione
Ebbene, dopo aver disaminato la Trilogia del Tempo di Sergio Leone, in occasione della sua pregiata uscita deluxe in cofanetto per rari collezionisti in Blu-ray di razza e del suo cinquantesimo anniversario dalla sua release nelle sale, perlomeno del primo episodio, vi parleremo, speriamo esaustivamente, di un’altra trilogia, ovvero quella de Il padrino (The Godfather) di Francis Ford Coppola. In tal caso, un lapalissiano trittico nel vero senso della parola, differentemente e sideralmente remoto da quello di Leone, essendo, quest’ultima, una trilogy composta infatti da tre film differenti e con storie, ambientazioni a sé stanti, denominata dunque in tali termini per pura convenzione dizionaristica.
Un Coppola memorabile e apoteotico, epocale e leggendario che, col primo, immantinente indimenticabile capitolo del Padrino, sarebbe stato, oltre che notevolmente oscarizzato, immediatamente ascritto e asceso all’empireo dei più importanti cineasti viventi. In quanto, Il Padrino, datato anno 1972, perciò appartenente ai primissimi seventies, a distanza di cinque decadi esatte dalla sua presentazione, mantiene intatta la sua intoccabile e sempiterna beltà universalmente inscalfibile. Che tale rimarrà immutabilmente. Poiché Il padrino è un capolavoro assoluto, talmente mastodontico d’aver ingenerato inevitabilmente il suo sequel e, stavolta confermando il proverbiale detto non c’è due senza tre, giocoforza inducendo Coppola, per via del successo riscontrato anche, per l’appunto, con Il padrino – Parte II del ‘74, a girare, però due decenni dopo, la terza parte.
Ma procediamo con calma, con estrema cautela. Partendo dapprincipio, ovvero con Il padrino, per poi arrivare a sviscerare brevemente la creazione ed evoluzione di tale magnifica trilogia imperdibile dalla bellezza adamantina ed eternamente vivissima. Osiamo dire divina.
Tratto dal celebre romanzo omonimo di Mario Puzo, autore anche della sceneggiatura (leggermente modificata rispetto alla sua novella originaria, dunque, come si suol dire, n’è un libero adattamento) assieme allo stesso Coppola, Il padrino, se volessimo attenerci giustappunto a nomenclature archivistiche e inquadrarlo, ascriverlo genericamente in un genere preciso, esula da ogni possibile classificazione, sebbene possiamo considerarlo, se proprio vogliamo, un noir gangsteristico, un’epopea mafiosa di matrice profondamente drammatica con nessuna parentesi umoristica. In quanto è un film, oltre che crudelmente intriso di violenza potentissima, la visualizzazione elegantissima e girata magistralmente, al contempo brutale e tremenda, d’un nerissimo ritratto di famiglia che non lascia alcuno spazio al divertimento più frivolo. Il padrino è un’opus, così come i suoi due capitoli successivi, mortifera eppur vivificante e mostrante senza fronzoli la più immarcescibile e terribile, spettrale discesa nella brace infernale del sogno americano, un’abbacinante perla di celluloide dalla bellezza estatica ed estetica disumana che però, al suo interno contenutistico, nel diramarsi ed evolversi della sua scoppiettante, spiazzante, variegata trama dai mille e più colpi di scena, contenente a sua volta accadimenti notevolmente tragici e glaciali, nel succedersi d’eventi, come dettovi, mortalmente agghiaccianti, risulta magnifica in quanto straordinariamente vera e pura nella sua essenza paradossalmente iperrealistica. Ora, Il padrino ritrae, enuclea e riproduce la genesi della fittizia famiglia Corleone. Famiglia che, per quanto “inventata” dalla fantasia letteraria di Puzo, attinge alle reali storie “famigliari” di boss veramente esistiti, non solo negli Stati Uniti, in cui è ambientata la vicenda narrataci e filmata da Coppola, avendo volutamente, malgrado implicitamente, non poche attinenze con persone e fatti realmente accaduti. Il padrino è uno di quei rarissimi film che, per quanto concerne la sua valutazione sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com, può vantare l’impressionante 100% totale di opinioni positive. Record quasi imbattuto. Adesso però, finalmente, partiamo per l’appunto dall’inizio, anzi dall’incipit in senso metaforico e potremmo dire poeticamente, dell’albero genealogico della famiglia Corleone de Il padrino, iniziando dapprincipio a raccontarvi e sviscerarvi sinteticamente la storia… di tale primissimo, appena citato film, inesorabile padre fondatore degli inevitabili suoi figli di celluloide, cioè i due seguiti sempre partoriti in senso coppoliano, sì, messi al mondo da un imprescindibile pater familias del Cinema contemporaneo, ovvero il rinomato ed egregio sig. Coppola.
Estrapolandovi la lapidaria sinossi da IMDb:
Il patriarca invecchiato di un’organizzazione criminale trasferisce il controllo del suo impero clandestino al suo figlio riluttante.
Il patriarca è Don Vito Corleone, alias Marlon Brando (premiato con l’Oscar), il figlio a cui andrà, inizialmente contro il suo volere e soprattutto ribaltando i preventivati piani, l’eredità dinastica e la tradizione mafiosa da perpetuare e capeggiare, è Michael, un grandioso Al Pacino. Che poi, dal secondo capitolo sino al terzo ultimo, diverrà il protagonista di tale epopea titanica. I suoi fratelli, tutti maggiori, sono Sonny (un ottimo James Caan), originariamente destinato a divenire il capo dei capi ma morto trucidato, un uomo comunque troppo irresponsabile e testa calda per poter assumere il controllo patriarcale dell’organizzazione criminale, il più anziano del gruppo e figlio adottivo Tom (Robert Duvall) e il titubante, caratterialmente troppo debole Fredo (il compianto John Cazale che, nel Padrino – Parte II, riceverà, senza farvi troppi spoiler, un traditore, forse assassino bacio di Giuda mostruoso).
Michael doveva avere una vita normale ma, nel corso della storia, attentano alla vita di suo padre, succedono altri accadimenti non propriamente positivi e accadrà, fatalmente, l’irreparabile irreversibile. Michael sposerà la bella Kay (Diane Keaton), la quale diverrà per sempre la sua compagna fedelissima e, spesso contro il suo volere, complice d’affari da mani pulite…
Nessuno, insomma, si sottrarrà a un fato indirizzato ad elevarli tragicamente ma allo stesso tempo potentemente al rango di padroni e dominatori ombrosi del loro cammino esistenziale purtroppo delinquenziale e lugubre. Fra tradimenti, colpi di scena mozzafiato, litigi furibondi, urla, sangue versato, specialmente degli acerrimi nemici, e innumerevoli persone assassinate appartenenti ai rivali, si giungerà al chapter n.2.
Uscito solo due anni dopo, parimenti al suo predecessore e, diciamo, pellicola iniziatrice della trilogia, premiato con l’Oscar sia per miglior Film che per miglior Regia, eccoci quindi al Padrino – Parte II.
Datato perciò anno 1974 ma nient’affatto datato in senso lato. In quanto, così come il primo, straordinario, se non addirittura leggermente superiore. Sì, Il padrino – Parte II è uno dei pochissimi seguiti nella storia del Cinema che può tranquillamente essere considerato qualitativamente all’altezza del film originario. Se non, com’appena scrittovi, un gradino sopra e possibilmente persino più perfetto. Sempre ammesso che un film come Il padrino, vetta eccezionale difficilissimamente raggiungibile, rimarchiamolo nuovamente, possa paradossalmente esser messo a paragone non con altri film distinti, bensì, col suo stesso sequel. Incredibile, non credete?
Ebbene, per quanto possa sembrare dunque impossibile, Il padrino – Parte II è a nostro avviso migliore, per certi versi, del primo e ciò è peraltro attestato da molti critici assai rilevanti. Diciamo questo perché lo riteniamo più omogeneo, compatto e ancora più finemente girato. Maggiormente coeso a dispetto della sua struttura narrativa ricolma di flashback, assenti nel primo.
Perché nel Padrino – Parte II vi sono tante analessi? Per un motivo molto semplice, famosissimo per chi, ovviamente, conosce bene questa superba pellicola e l’ha già vista, non solo semmai una volta sola.
Qui non ci viene raccontato soltanto ciò che avviene alla vita di Michael Corleone & company dopo la fine del primo film. Infatti, Coppola torna indietro nel tempo e, potremmo dire, senz’utilizzo di computer graphics a mo’ di The Irishman, visualizzandoci le origins di Vito Corleone, nato come Andolini, “ringiovanisce” Marlon Brando naturalmente, consegnandogli il volto d’un giovanissimo e strepitoso Robert De Niro (premiato anch’egli con l’Oscar, stavolta come non protagonista). Ecco che Coppola segue la crescita, in ogni senso, di Michael Corleone/Pacino e di sua moglie Kay/Keaton, coppia che, nel caravanserraglio d’altri loschi fatti e misfatti più o meno orridi, nell’esplodere della tensione e di altri loschi imbrogli e doppi giochi atroci, furiosamente litigherà ma giammai si separerà, soprattutto figlierà.
Così come vediamo che Don Vito figliò e diede pian piano alla luce la sua futura famiglia Corleone. Ora, giustappunto, dominata da Michael, situato al vertice piramidale della corleoniana, gerarchica scala familiare. Don Vito che, dopo gli stenti e la fame a Little Italy a New York, in seguito a un grave sgarbo commesso a suo danno da Don Fanucci (il nostro Gastone Moschin), comincerà a prendere confidenza con la più spicciola violenza efferata. Sporcandosi le mani, affamato di avido potere, sanguinariamente, spesso e volentieri perpetrando ricatti via via più crudeli, ascenderà a piccolo re del suo quartiere e man mano il suo impero s’espanderà scuramente, procedendo di pari passo con la sua sempre più autorevole personalità temibile in fase continuativamente e continuamente crescente e infermabile.
Di salto temporale, non in senso filmico, bensì cronologico, arriviamo all’anno 1990, anno in cui uscì Il padrino – Parte III.
Non siamo però nel 1990 ma la vicenda è collocata nel ‘79. Michael Corleone sta invecchiando come suo padre e forse vuole congedarsi dalla sua vita peccaminosa, recandosi addirittura, in cerca di redenzione, a Roma e presso il Vaticano. Ma è questa la motivazione all’origine del suo viaggio nella capitale?
Cosa si cela, in effetti, dietro tale atteggiamento stranamente sospetto e per lui inusuale? Nel frattempo, Michael si avvale dell’aiuto del nipote Vincent Mancini (la new entry Andy Garcia).
Nel cast, i nuovi arrivati Joe Mantegna, Eli Wallach e Bridget Fonda, stavolta, anche l’esordiente figlia di Coppola, Sofia. Inizialmente, il ruolo doveva andare a Winona Ryder. Ma forse tirava troppa aria di famiglia…
Maggiore spazio inoltre concesso, in termini di minutaggio, alla nipote di Coppola, Adriana di Rocky, vale a dire Talia Shire.
Musiche di Carmine Coppola e non più di Nino Rota. Anche perché Rota morì nel 1979, stesso anno, ripetiamo (vedi le coincidenze?), in cui è ambientato Il padrino – Parte III.
Che è un bel film, di cui recentissimamente Coppola approntò una nuova versione, ma decisamente minore se raffrontato ai due capitoli antecedenti. In quanto risulta sbilanciato, pacchiano in molti punti ed esageratamente barocco e ridondante.
di Stefano Falotico
OCCHIALI NERI, recensione
Dopo aver letto molte critiche devastanti, pensavo di assistere a un film tragicamente comico e imbarazzante. Invece, sapete qual è la verità, triste e da film di paura-orrore? Non è per niente brutto questo film di Argento e molti di voi, anziché scrivere di Cinema, dovrebbero andare a coltivare le cicorie. Per voi, ci vogliono gli accompagnatori!
Ebbene, oggi recensiamo la nuova, attesissima opus di Dario Argento, maestro indiscusso del brivido e rivoluzionario cineasta che, a dispetto forse dei suoi ultimi passi falsi concernenti le sue recenti pellicole non particolarmente apprezzate, dopo il flop e le stroncature impietose riguardanti il suo Dracula 3D, a distanza di dieci anni esatti da quest’ultimo film appena citatovi, riesuma non il cadavere di Nosferatu, bensì una vecchia sceneggiatura dimenticata, riposta nel metaforico cassetto dei suoi progetti irrealizzati e momentaneamente accantonati, firmata dal suo storico collaboratore e spesso inseparabile sceneggiatore, ovvero Franco Ferrini (C’era una volta in America), già giustappunto writer per Argento degli script di Phenomena, Il cartaio e Non ho sonno.
Abbiamo citato, non a caso, queste tre opere della premiata ditta Argento-Ferrini, in quanto la trama del film da noi disaminato, in molte situazioni, nel districarsi della sua terribile, inquietante narrazione dipanatasi e mostrataci, diegeticamente le evoca frequentemente nell’interessante riverberarsi perdurevole d’un continuum, potremmo dire, auto-citazionistico di matrice metacinematografica assai rilevante e coerente con l’excursus registico e la poetica di Argento stesso. Premessa, questa, importantissima per poter apprezzare Occhiali neri, senza perciò adottare, perdonateci il seguente gioco di parole, ottiche recensorie prevenute, metaforicamente usanti i paraocchi. Questa, la sinossi ufficiale di Occhiali neri:
Roma. L’eclissi oscura il Sole – come un presagio – in una torrida giornata d’estate.
Un serial killer che ha preso di mira le prostitute mette gli occhi su Diana, una giovane escort. Durante il furioso inseguimento in auto, la ragazza va a schiantarsi contro un’altra automobile. Come conseguenza lei rimane cieca e l’intera famiglia del decenne Chin muore. Nonostante la cecità, Diana decide di prendere con sé il bambino e, con lui e il suo pastore tedesco Nerea, si dà alla fuga. L’assassino però è ancora a piede libero e non desiste dai suoi propositi.
La prostituta d’alto bordo è interpretata dalla bella Ilenia Pastorelli. La quale recita con disinvolta “ingenuità” attoriale perfettamente intonata allo sguardo argentiano. Argento, infatti, non si è mai troppo preoccupato della direzione recitativa, concentrandosi invece maggiormente sull’amalgama delle sue tenebrose storie ripiene di suggestioni soventemente oniriche ed ermeticamente tetre. Dando più spazio, dunque, alle atmosfere e volutamente tralasciando l’aspetto riguardante la recitazione dei suoi attori protagonisti. Anzi, aggiungiamo, spesso e volentieri preferì (e anche adesso, con questa sua opera, tale suo particolare, più o meno opinabile, stilema registico non smentisce) e preferisce prestare attenzione alle suggestioni da effonderci sottilmente. Diciamo questo perché in molti hanno sadicamente e ingratamente distrutto la performance della Pastorelli, maltrattando quest’ultima in modo estremamente irrispettoso del suo lavoro e di conseguenza ridicolizzando Argento stesso, incapace, a detta loro, di avere polso e colpevole di essersi rimbambito irreversibilmente.
Inevitabilmente criticando pesantemente Occhiali neri, partendo erroneamente e, osiamo dire, perfino arbitrariamente e ignorantemente, da presupposti critici assai equivoci e figli solamente d’un ingiusto accanimento scioccante rivolto, da molti anni a questa parte, a un autore grandioso, qual è comunque Argento, a prescindere dall’abbassamento qualitativo delle sue ultime pellicole. Compresa questa da noi presa in questione.
Chiaritici su ciò, cioè con quanto appena scrittovi, Occhiali neri non è minimamente paragonabile all’Argento degli anni d’oro, non è di certo un capolavoro e non è nemmeno un bel film. Però, altresì, non è affatto brutto e/o da buttare, oppure addirittura imbarazzante e inguardabile, a differenza di quanto invece stupidamente sostenuto da molti sciocchi recensori e capre dell’ultima ora.
Poiché Argento è sempre sostanzialmente stato questo, nel bene o nel male. Seguentemente vi spiegheremo brevemente.
Non vogliamo, intendiamoci bene, spezzare lance in favore di Argento da suoi fan “ciechi”, esteticamente parlando, né desideriamo scagliarci contro molta intellighenzia attuale per puro spirito provocatorio da bastian contrari stolti e miopi.
Il Cinema di Argento è estremamente autoriale, potremmo dire, spesso anche artisticamente “artigianale”. Ricolmo d’incongruenze narrative e di evidenti stonature a livello di coerenza logica nelle sue trame (vedasi Phenomena). Almeno all’apparenza.
Scusate, a un David Lynch abbiamo mai chiesto sensatezza? Allora perché pretendere logicità da Argento? Semplicemente perché, forse rispondereste voi, Lynch realizza pellicole marcatamente nonsense, rendendole dichiaratamente incomprensibili e al contempo, a seconda dell’intelligenza dei vari spettatori, a loro modo intelligibili? No, scusate, quest’atteggiamento si chiama capzioso cinismo e autentico, disgustoso comportamento da furbi sofisti-solipsisti della Settima Arte che piace o non piace in base a personalissimi, dunque a loro volta criticabilissimi, gusti e pareri soggettivi ed egoisticamente personali.
Quindi, il problema che si pone con Occhiali neri è soltanto uno. Il film non è un horror, non è un thriller ed è, per circa un’ora, a parte l’inizio truculento e trash, spaventosamente grottesco, un film intimista. Sì, avete letto bene, non ci siamo sbagliati.
È la storia di una donna autentica e pasoliniana, un’Anna Magnani ante litteram inserita in un contesto cupamente torbido e malsano, Diana/Pastorelli, che continua a fare la prostituta malgrado sia divenuta cieca. Ma s’è sempre vergognata della sua professione, diciamo, ovvero di svolgere il mestiere più vecchio del mondo. Non è una donna istruita, è ingenua oltre ogni limite, è fisicamente bona ma nell’animo troppo caritatevole, apprensiva e buona. Cosicché, prende sotto la sua custodia Chin/Andrea Zhang, premurandosi di un bambino difficile che difficilmente fraternizza con chicchessia. Con lei, invece, stranamente Chin solidarizza di buon grado e in modo naturale, non forzato.
Occhiali neri, parallelamente, è la storia di una timida e sensibile assistente sociale speciale, Rita/Asia Argento, che vuole salvare Diana non soltanto da un invisibile, misterioso omicida seriale che viaggia su un furgoncino bianco e talvolta le appare, visionariamente, nei suoi incubi peggiori. Uno spauracchio esistente realmente o solamente la visualizzazione dell’inconscio di Diana non ancora morta dentro? Donna irrisolta, già profondamente infelice, con tutta probabilità, ancor prima dell’incidente occorsele? Insicura, incerta, sbagliata all’interno d’una Roma caotica in cui non respira, in cui, in un modo o nell’altro, deve celarsi e proteggersi. Salvaguardando la propria esistenza in pericolo, anche in senso lato. Perché fuori c’è sempre un lupo solitario molto cattivo che non sta prendendo di mira solo lei.
Lei è sola, è spaurita, in balia del suo trauma e del crescere palpabile della tensione… sua emotiva. Precipitata nella voragine senza fondo, profondamente lugubre, della sua notte eterna e mortale. Avviluppata dalla morsa attanagliante del suo intimo, metaforico noir in cui non c’è luce ma un bagliore di speranza…
Soprattutto perché le verrà a mancare la sua guida, specialmente morale e spirituale, cioè Rita. Strangolata e stravolta, a sua volta, stavolta in senso fisico, dal mostro che non dà tregua, che recide i sogni di purezza e amputa la bella semplicità del vivere onesto anche se, potrebbe parer ossimorico, eticamente non pulito per colpa d’un destino già segnato e scritto. Forse però non del tutto.
Attenzione, Diana chiama Rita amore… L’amore incarnato della voglia di sperare, di continuare a combattere e non fuggire dinanzi a un brutto sogno. Questo brutto sogno, quando ti svegli, non è reale e non esiste?
Oppure i mostri si possono mordacemente, non utopisticamente uccidere e agguantare, lasciandoli sbranare dal morso della loro cagnesca crudeltà feroce e aggressiva che si ritorce loro contro, inaspettatamente (ed è questa una suspense esistenziale), abbrancandoli e sfiancandoli con letalità impietosa e implacabile?
Dario Argento ha la sua età e non sa quello che fa?
O forse è così lucido da essere perfettamente cosciente di confezionare una discreta e godibile “fiction” in formato fintamente filmico sotto forma di lungometraggio che dura soltanto 80 minuti scarsi, senza pretese, prodotta da Rai Cinema che non può mandarla in onda in prima serata a ragione semplicissima del fatto che, a prescindere da tale “format” lontano dai canoni, per il grande schermo, argentiani, è per l’appunto, pur sempre, una pellicola di Argento?
Violenta soprattutto nel finale tremendo quando Diana non può vedere il mostro massacrato ma il bambino, purtroppo o per fortuna, sì.
Diana già vide l’orrore, il bambino adesso deve vedervi chiaro senza più alcun timore, è obbligato giocoforza a vivere, a risperare, a rivedere la vita e prendere il volo.
Mentre Diana è di nuovo sola, brancolante nuovamente al buio, ancora una volta dentro l’asfissiante, accecante voracità nera del suo imperituro inferno pieno di paure. Dentro il giallo agghiacciante della sua anima malinconica che soffre, piange in silenzio ma non vuole morire…
di Stefano Falotico