OSCAR 2022 – Predictions sui futuri candidati e forse vincitori
Ebbene, il prossimo 8 Febbraio, dunque fra pochissimi giorni, saranno annunciate le sospirate nomination agli Academy Awards, vale a dire i premi Oscar del 2022.
In attesa della lista dei candidati che ci sarà comunicata in data suddetta e prossimamente ventura, noi azzardiamo già precocemente, speriamo in modo lungimirante, a profetizzare i nomi dei registi e degli attori che, secondo i nostri personalissimi pronostici ben meditati, c’auguriamo, rispecchieranno la verità dei nominati che ci sarà presto rivelata.
L’anno scorso, profetizzammo in merito assai bene, azzeccando quasi tutte le previsioni a riguardo e centrando, appieno, quelli che furono i vincitori esatti. Di ciò, cioè di tale nostro dono irrazionalmente spiegabile eppur, orgogliosamente rimarchiamolo, quasi perfettamente divinatorio nell’aver giocato a improvvisarci veritieri, prodigiosi veggenti e per l’appunto indovini, ne andiamo giustamente, oltremodo fieri. Ci prendemmo pressoché, difatti e dati alla mano incontestabili, totalmente in maniera genialmente profetica.
Dunque, in memoria delle previsioni per l’appunto quasi completamente azzeccate dello scorso anno, in tale sede, ivi allestiremo similmente una lista di predictions, per dirla all’americana, concernente i più attendibili, giustappunto, secondo i nostri ponderati e meditati calcoli, candidati quasi certi degli Academy Awards.
Noi, ragionando per deduzioni facilmente intuibili, basandoci inoltre sulle previsioni maggiormente affidabili e tenute altamente in considerazione dai cosiddetti esperti e d’oltreoceano allibratori, compileremo una breve, concisa ma al contempo esaustiva precisa lista, per l’appunto, riguardante i nomi degli attori, registi e non solo che quasi certamente otterranno le candidature nelle quattro più importanti categorie di Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attore Protagonista & Migliore Attrice.
Partiamo innanzitutto, ovviamente, dalla categoria più rilevante e di primaria importanza imprescindibile, ovvero quella di Miglior Film. Categoria che, ricordiamo, a differenza di tutte le altre maggiori, oramai da anni s’è espansa per quanto riguarda il numero di candidati includibili. Ovvero, l’Academy può a sua discrezione candidare un numero di pellicole che a loro volta possono variare da cinque a dieci. Anche se, va detto, è rarissimo che si possa arrivare a dieci film candidati.
Specificato opportunamente ciò, osserviamo più da vicino i singoli film fra i più papabili. Forti delle vittorie ai Golden Globe, avvenute rispettivamente nella categoria di Miglior Film Comedy/Musical e Drammatico, primeggeranno i nomi di West Side Story di Steven Spielberg e de Il potere del cane di Jane Campion. Pare, inoltre, abbastanza scontato che sia Spielberg che la Campion saranno nominati come migliori registi. Quasi assodata la candidatura di Belfast di Kenneth Branagh e del Dune di Denis Villeneuve. Film, codesto, che agli americani è piaciuto enormemente, a differenza invece della Critica europea che gli è stata molto più freddina.
Buone possibilità paiono averle anche La figlia oscura, esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal e Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, film che però, va detto, è piaciuto ma, vista la firma di Anderson, per l’appunto, non ha entusiasmato così come invece ci s’aspettava. Lasciando, infatti, perplessi tanti critici che ne sono rimasti parzialmente delusi.
Dunque, pressappoco i registi, di conseguenza, che otterranno la candidatura, saranno gli stessi appena menzionativi per le pellicole suddette e nominatevi. Perdonate il gioco di parole ricercato, eh eh. Con la considerazione, sopra dettavi, che solo cinque registi dovranno essere scelti, quindi qualcuno rimarrà fuori, giocoforza.
Peraltro, nella cinquina selezionata, potrebbe invece entrare Ryusuke Hamaguchi per Drive My Car.
Ora, passiamo agli attori.
Sarà una dura lotta fra Will Smith di Una famiglia vincente – King Richard, Andrew Garfield di tick, tick… Boom! e Benedict Cumberbatch de Il potere del cane. Questi tre, infatti, diamo giustamente per scontato che riceveranno la nomination come miglior attore protagonista.
Sicuro candidato, stando sempre ai pronostici che vanno oramai per la maggiore, sarà anche Denzel Washington per Macbeth. Sul quinto nome, molti dubbi…
Cioè, la spunterà Peter Dinklage per Cyrano di Joe Wright oppure Javier Bardem di Being the Ricardos?
Staremo a vedere. Ora, passiamo alle migliori attrici…
Abbiamo appena citato Being the Ricardos e naturalmente all’appello non mancherà la sua co-interprete, assieme a Bardem, cioè Nicole Kidman. Olivia Colman de La figlia oscura, dopo la sua recentissima vittoria agli Oscar per La favorita, è di nuovo tra le favorite, eh eh, primissime pretendenti per la vittoria finale e definitiva. Dunque, inutile dire che la sua candidatura è già assicurata, indiscutibilmente. Potrebbero farcela anche Lady Gaga per House of Gucci, Kristen Stewart per Spencer e Penélope Cruz per Madres Paralelas.
Per finire, la domanda che ci stiamo ponendo, in maniera un po’ patriottica, è la seguente:
È stata la mano di dio del nostro Paolo Sorrentino, con molta probabilità, sarà candidato come Miglior Film Straniero.
Sì, ma quante possibilità, realisticamente parlando, ha di vincere?
Onestamente, pochissime.
In quanto, Drive My Car appare davvero invincibile.
Per di più, come sappiamo bene, gli Oscar tendono a privilegiare i film e i registi ancora non insigniti della statuetta dorata.
Perciò, Sorrentino, avendo già vinto con La grande bellezza non tantissimi anni fa, è veramente difficilissimo che possa ancora trionfare e risultare vincitore.
Ce ne dispiacciamo ma, salvo un inaspettato miracolo, così come quello metaforicamente presente e nel suo film visto, purtroppo, È stata la mano di dio stavolta perderà al 90%.
di Stefano Falotico
MACBETH di Joel Coen, recensione
Ebbene, oggi recensiamo l’acclamatissimo Macbeth (The Tragedy of Macbeth) con Denzel Washington. Osannato dalla Critica mondiale, soprattutto statunitense, non da noi, però. Usiamo il plurale maiestatico come se chi scrivesse questo pezzo fosse intonato a un pensiero discorde, per l’appunto, rispetto alle uniformi critiche lusinghiere di molti recensori, diciamo, ufficiali, in quanto il suo pensiero spero non sia esclusivamente personale. E possa riscontrare opinioni che la pensino come lui, cioè il sottoscritto.
Stavolta, per tale sopravvalutato, arido e imbalsamato Macbeth, Joel decide di fare tutto da sé e infatti questo suo Macbeth rappresenta il suo primo lavoro in assoluto scritto e diretto senza suo fratello Joel.
Forse, già in questo consiste a mio avviso la sua amalgama manieristica che, per quanto superba a livello prettamente formale, è priva di qualsivoglia sottotraccia corrosiva e pungente. Caratteristiche che la penna dello sceneggiatore Ethan invece possiede ampiamente e sono state sempre di validissimo apporto al fratello Joel, spesso accreditato come l’unico regista dei film realizzati, non soltanto in fase di sceneggiatura assieme ad Ethan, il quale infatti, pur dirigendole assieme a Joel, veniva per sua strana volontà non accreditato come co–director quando in verità lo era, eccome. Stramberia e curiosità che ci hanno resi ancora più simpatici gli strepitosi, creativi brothers creatori di capolavori eccezionali come Il grande Lebowski & Fargo.
In tal caso, invece, Joel ha personalmente e interamente compiuto l’adattamento della celeberrima tragedia omonima di William Shakespeare, già numerosamente, altre volte, portata sul grande schermo e “ridotta” per il Cinema, scrivendola e dirigendola dall’inizio alla fine senza l’aiuto di Ethan. Rimanendo fedelissimo nei dialoghi.
È vero, il Macbeth è per l’appunto materiale tragico per eccellenza, anzi, a essere ancora più precisi, è forse l’opera di Shakespeare per antonomasia che ha mitizzato e reso a sua volta celebre, potremmo dire, la proverbiale espressione tragedia scespiriana o shakespeariana che dir si voglia. Dunque, non necessitava di certo d’ironia o di vena caustica, altresì non abbisognava d’un approccio così eccessivamente, falsamente magniloquente e tragicamente serioso, perdonate il voluto gioco di parole assai eloquente e graffiante. La trama di Macbeth è piuttosto nota ai più ma, stringandola, è codesta: tre raccapriccianti streghe (potremmo dire del malaugurio, rimanendo in sintonia di frasi fatte perfino di matrice ancestrale delle più superstiziose), appaiono, fra le penombre cineree d’una plumbea nebbia spettrale, agli occhi dello scozzese lord Macbeth (Washington). Si trattò d’una delle sue consuete, incurabili allucinazioni? Profetizzandogli il reame, cioè intimandolo a persuadersi che dovrà divenire il futuro re, assassinando l’attuale King Duncan (Brendan Gleeson) attualmente in carica. Tale glaciale, omicida disegno oscuro e macabro, infiltratosi malignamente nella volontà del circuito, nell’animo avvelenato, capziosamente stregato, nel senso letterale e non solo della parola, Macbeth, non verrà osteggiato dalla moglie (Frances McDormand), bensì addirittura largamente sostenuto e caldeggiato in quanto la sua Lady è mossa interiormente da disumane bramosie di potere, d’avida ingordigia e malsana perfidia.
Sì, il Macbeth di Joel Coen è fotografato magnificamente da Bruno Delbonnel (validissimo sostituito di Roger Deakins, habitué dei Coen, erroneamente al momento ancora riportato da Wikipedia come cinematographer ma presto ravviseranno il refuso, si ravvedranno e correttamente correggeranno), messo in scena in modo sontuosamente ipnotico, si fregia e avvale di scenografie magnificenti, curate perfettamente da Stefan Dechant, esibisce un Denzel Washington fulgido ma al contempo legnoso, ieratico e possente, sovente incerto quando declama non sempre convincentemente i roboanti monologhi di Skakespeare, fra momenti in cui c’appare strepitoso e altri invece fuori posto e goffo, mette in luce la recitazione sfumata e metaforicamente, cristallinamente chiaroscurale d’una McDormand impeccabile, ma alla fin fine risulta un’operazione accademica assai pedante e noiosa, soporifera oltremisura. Artefatta, anzi, arty in modo irritante.
Inoltre, l’A24, ovvero la sua compagnia di produzione e distribuzione, dopo l’altrettanto pastrocchio incensato ingiustamente di The Lighthouse, la dovrebbe finire di convincere i registi a girare in inappropriato formato 4:3 al fine patetico di ammantare per l’appunto di finta artisticità intellettualoide, richiamante i grandi film in bianco e nero del passato, le pellicole finanziate sotto la sua egida.
Macbeth, a dispetto d’ogni sua sofisticata, finanche magnetica pregevolezza mirabile, risulta sostanzialmente e solamente un affascinante, figurativamente abbacinante quadro metafisico à la Giorgio de Chirico trasferito in immagini bellissime ma amorfe, esangui e senza pathos emotivo.
E senza pathos, per di più se abbiamo a che fare col Macbeth, mi spiace per Joel Coen, ogni impalcatura all’apparenza emanante fulgore e fascino sfarzoso, crolla ineluttabilmente e in modo rovinoso, perdendo cuore e passionale, sincero vigore e furore sentito.
Un Macbeth, infatti, raffiguratoci in modo fotograficamente abbagliante ma mancante di vera passione e sangue espressivo emozionalmente raggiante, non può essere altro che un vuoto esercizio di stile dimenticabile e inutile.
Dunque, se per la Critica americana il Macbeth di Joel Coen è un capolavoro che non si discute, per noi è totalmente il contrario.
È, rimarchiamolo, un nitido gioiello luminoso per gli occhi ma più triste e funereo, cinematograficamente ed emozionalmente, d’un luccicante dipinto favoloso alla vista ma non comunicante alcun sentimento vivo, cristallino e vivido.
Questo Macbeth è a livello figurativo un luccichio magnetico e seduttivo per le nostre iridi ma è veramente bruttino, un obbrobrio, un film sbagliato e ripugnante a livello puramente sanguigno, in senso figurato.
Forse abbiamo un po’ esagerato ma, sinceramente, non c’è piaciuto affatto.
In un cast eterogeneo e multietnico, oltre ovviamente alle presenze di Washington e della McDormand, fra gli gli attori Corey Hawkins, il redivivo Brian Thompson (sì, è lui, “belva della notte” di Cobra), Miles Anderson, Sean Patrick Thomas, Moses Ingram, Kathryn Hunter nei panni delle tre streghe “gemelle”, gli unici forse veramente di nota risultano il mefistofelico Alex Hassell e il sempre più inquietante ma eccezionale Harry Melling. Il quale, dopo essere stato già per i Coen lo sfortunato monco e fenomeno da baraccone ne La ballata di Buster Scruggs, dopo il suo ruolo da predicatore invasato ne Le strade del male, dimostra ancora una volta il suo talento e soprattutto nuovamente cattura il nostro sguardo in virtù del suo viso triangolare molto particolare e del suo strabismo di Venere oramai imprescindibile.
di Stefano Falotico
tick, tick… Boom!, recensione
Ebbene, oggi recensiamo il film tick, tick… Boom! (attenzione, non ci siamo sbagliati a scrivere il titolo, la dicitura infatti esatta è questa così come da noi riportatavi, cioè con l’iniziale, in forma desueta, in minuscolo), film Netflix, visionabile mondialmente perciò su tale rilevante, oramai imprescindibile e planetaria piattaforma di streaming, a partire da metà novembre dello scorso anno.
tick, tick… Boom! dura la bellezza (e che bellezza, data la notevole qualità abbacinante del film, appassionante e giammai annoiante) di un’ora e cinquantacinque minuti ed è un’opus firmata egregiamente e con ottimo stile, retorico e melodrammatico, sì, ma emozionante a mille, da un assai ispirato Lin-Manuel Miranda (Il ritorno di Mary Poppins) e interpretata, in un tour de force recitativo straordinario, in un one man show coinvolgente e magnetico, da un Andrew Garfield (Silence, The Amazing Spider-Man, La battaglia di Jacksaw Ridge) in forma strepitosa. Tant’è che, per la sua interpretazione, assai acclamata, parimenti alle sperticate lodi ricevute al film stesso dall’intellighenzia critica d’oltreoceano che a tick, tick… Boom! ha assegnato, infatti, voti in pagella veramente lusinghieri, subissandolo entusiasticamente di plausi ed elogi a non finire, Garfield ha da poco vinto un meritatissimo Golden Globe e, senz’ombra di dubbio alcuno, entrerà nella cinquina dei contendenti all’ambitissima statuetta dorata degli Oscar. Noi azzardiamo perfino a scommettere che, con tale sua performance eccellente, vivacissima, superlativa, grintosamente potente e sorprendente magicamente, Garfield potrebbe addirittura vincere l’Academy Award, scalzando da grande outsider, per l’appunto, inaspettatamente vincente all’ultimo momento, quelli che fino a qualche settimana fa parsero a tutti i pretendenti più inattaccabili, ovvero Benedict Cumberbatch de Il potere del cane e soprattutto il favoritissimo Will Smith di Una famiglia vincente – King Richard. Quest’ultimo dato dagli allibratori e dai cosiddetti esperti di previsioni sui vincitori, per l’appunto riguardanti gli Oscar, come incontestabile vincitore difficilissimamente battibile. Invece, ripetiamo, pare proprio che le certezze inizialmente date per assodate e i sicuri pronostici inappellabili siano stati ultimamente messi in discussione, totalmente. Innanzitutto, le quotazioni di Cumberbatch per il trionfo finale sono decisamente in ascesa, inoltre, Garfield, a detta giustappunto di coloro che amano le predictions concernenti gli Academy Awards, sembra che nel rush finale potrebbe avere non poche possibilità di farcela davvero, smentendo chiunque e compiendo l’apparentemente incredibile. Ora, stando alla generalista e in tal caso molto approssimativa e sbrigativa Wikipedia, la trama di tick, tick… Boom! è solamente e sostanzialmente questa, cioè la seguente: Un aspirante compositore di musical entra in crisi quando sulla soglia dei trent’anni si accorge di non essere prossimo a realizzare i propri sogni.
Be’, detta così, appare come una vicenda abbastanza anomala e alquanto, per di più, già vista e risaputa, addirittura banale. Non fosse che il compositore altri non fu che Jonathan Larson (impersonato da Garfield), vale a dire il creatore del celeberrimo musical Rent e di quello omonimo che dà il titolo al film. E non solo…
Tick, tick… Boom! n’è infatti una sorta di adattamento, anzi, reportage sulla genesi, largamente sui generis, diciamo un biopic romanzato e particolare, sceneggiato da Steven Levenson, molto bello, creativamente spigliato e rinomato, funambolicamente colorato e del tutto azzeccato, da non confondere invece assolutamente col Rent, inteso in forma di lungometraggio, piuttosto fallimentare, realizzato da Chris Columbus alcuni anni addietro.
Con le musiche a opera, chiaramente, dello stesso defunto e compianto Jonathan Larson, perfettamente montato da Andrew Weisblum, habitué, anzi, collaboratore fisso di Darren Aronofsky da The Wrestler in poi, tick, tick… Boom! è un film magnifico che, malgrado in alcuni punti paia furbescamente studiato per piacere in modo ruffiano, a dispetto di qualche eccesso e cedimento nella parte centrale, commuove parecchio e può fregiarsi, evidenziamolo nuovamente, d’un Andrew Garfiled che dimostra al mondo intero di essere uno dei più grandi giovani attori viventi. È lui che vincerà, a mio avviso, l’Oscar 2022 come Best Actor e se lo merita ampiamente.
La sua è una prova recitativa impressionante, gigantesca. Immane e monumentale. Titanica e colossale, ogni altro aggettivo, per inquadrarla e omaggiarla, sarebbe imbarazzante.
Anche gli altri attori del cast non gli sono però da meno. Bravissima e sempre bellissima, infatti, Vanessa Hudgens, simpatica Alexandra Shipp, superbo e toccante Robin de Jesus.
In conclusione: la magica e sognante, romantica storia di un uomo che non ha mai rinunciato ai propri sogni, andando giustamente contro tutto e tutti. Citando un altro genio della musica morto troppo presto, cioè Jim Morrison, a volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato.
E ha vinto, senza se e senza ma. Così come vincerà Garfield!
di Stefano Falotico
IL PONTE DI SAN LUIS REY, recensione
Ebbene, oggi vogliamo parlarvi de Il ponte di San Luis Rey (The Bridge of San Luis Rey), pellicola del 2004 della robusta durata di centoventi minuti, sì, dal minutaggio di due ore nette, diretta dalla regista irlandese Mary McGuckian. Fattasi notare qualche anno addietro con l’interessante biopic Best, pellicola incentrata, in forma romanzata e non poco agiografica, sulle leggendarie gesta del folle, inteso ovviamente in senso positivo e innocuo, affettuoso del termine, calciatore George Best. Celeberrimo attaccante, perlomeno famoso per gli amanti dello sport del Calcio, militante nel Manchester United e connazionale della McGuckian. La quale, con tutta probabilità, affascinata dalla pittoresca figura dello spericolato Best, gli dedicò per l‘appunto una sorta di mockumentary assai particolare e a sua volta bizzarro come Best stesso.
Best, il film, ottenne un buon successo e permise alla McGuckian di farsi notare, assoldando per il film da noi qui preso in analisi, cioè da noi recensito, ovvero Il ponte di San Luis Rey, un notevolissimo cast di prima scelta e, potremmo dire, delle cosiddette grandi occasioni. Avendo inoltre a disposizione un budget, come si suol dire, niente male. Il ponte di San Luis Rey, sceneggiato interamente dalla stessa McGuckian, oltre che naturalmente, come appena sopra scrittovi, da lei messo in scena in senso filmico, è tratto da un importante romanzo omonimo dello scrittore Thornton Wilder. E, in termini cronologici di trasposizione-realizzazione, ne è la terza versione cinematografica dopo quelle avvenute nel 1929 e nel ‘44. Sebbene forse sia risultato l’adattamento, così come poi v’esplicheremo meglio, meno riuscito e, senza dubbio, più fallimentare in termini di Critica e d’incasso. Un colossal, insomma, che non ripagò affatto le aspettative e si rivelò invece, così come peraltro testualmente riportato duramente ma sinceramente da Wikipedia, un tremendo flop colossale. Cioè il classico buco nell’acqua clamoroso.
Trama…
Siamo in Perù, esattamente nell’anno 1714. Il ponte di San Luis Rey, giustappunto, crolla. Provocando tragicamente la morte di cinque persone. Fratello Ginepro (Gabriel Byrne), scosso dall’avvenimento, indaga scrupolosamente, turbato da dilemmi morali profondi, in merito alla tragedia successa in modo sciagurato e inaspettato. Tentando di ricostruire la vita delle suddette persone rimaste uccise. Il fatto, pian piano, inoltre e nel frattempo, diviene di pubblico dominio, di rilevante importanza etico-giudiziaria per la comunità del luogo e successivamente perfino dell’intero Paese tutto. Arrivando a coinvolgere addirittura la Chiesa stessa, le sfere più influenti e i suoi alti prelati, più o meno integerrimi, irreprensibili o corrotti. I quali cominciano a interrogarsi, ognuno a modo proprio, a tal riguardo, citando in causa addirittura la divina Provvidenza. In quanto, in loro sorgerà lo scioccante dubbio se la caduta del ponte di San Luis Rey che, come scrittovi, causò la morte di cinque persone, sia stata casuale oppure rappresenti una sacrosanta e terribile punizione emessa dal Creatore che, per ragioni imperscrutabilmente oscure, da lassù volle punire, diciamo volontariamente, per l’appunto con la morte più atroce, cinque persone macchiatesi forse segretamente di qualche diabolica colpa madornale e imperdonabile.
I costumi sontuosi, la fotografia maestosa di Javier Aguirresarobe (Mare dentro, Blue Jasmine), la presenza di attori altisonanti del calibro di Kathy Bates (Misery non deve morire, Richard Jewell), del su citato Byrne (Excalibur), di F. Murray Abraham (Amadeus, Il nome della rosa, Scarface), di Geraldine Chaplin, Pilar López de Ayala, Émilie Dequenne, John Lynch, i gemelli Mark e Michael Polish, Jim Sheridan e specialmente d’un carismatico Robert De Niro (The Irishman) nei panni del temibile e impietoso arcivescovo di Lima, non salvano la riuscita de Il ponte di San Luis Rey, purtroppo. In quanto la regia della McGuckian è televisiva e, in molti punti, il film sembra una fiction.
Altresì, riteniamo però che Il ponte di San Luis Rey sia un film pregevole in altri suoi aspetti, peraltro come sottolineatovi e da noi evidenziato nelle scorse righe per le motivazioni accennativi, perciò non meritava dunque assolutamente le critiche sin troppo spietate, poco lusinghiere e ingrate, forse affrettate e prevenute.
di Stefano Falotico
EYES WIDE SHUT, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento con la rubrica dei racconti di Cinema, vi parleremo dell’ultima opus, postuma, in quanto distribuita dopo la sua morte, di Stanley Kubrick (Arancia meccanica, Shining).
Opera controversa, assai discussa, mai passata di moda e inviolabilmente universale per tematiche affrontate, per la vastità d’interpretazioni variegate non solo di matrice cinematografica, bensì delle più assortite e perfino, ovviamente, psicanalitiche, Eyes Wide Shut è rimasto invariato nel suo titolo originale in inglese. Il cui significato è allusivo e sostanzialmente intraducibile, trattandosi infatti d’un titolo ossimorico (occhi aperti/sbarrati/spalancati chiusi) che gioca volutamente ed enigmaticamente con un nettissimo, forte contrasto di parole per creare disambiguazione/ambiguità melliflua e ricercata. Gergalmente, tale espressione viene adottata per definire colui o colei che s’ostina a non voler vedere, per l’appunto, la verità dei fatti e tende perciò inconsciamente a respingerli e oscurarli alla vista, anche intesa metaforicamente, della sua anima, sulla base del suo substrato mentale, dei suoi retaggi, della sua educazione, impartitagli o meno, della sua forma mentis, più generalmente e semplicisticamente a causa di tabù e condizionamenti, duri pregiudizi, immutabili e perpetui, difficili da scardinare, entro cui s’è barricato e trincerato, strutturato e, in un certo senso, protetto psicologicamente di conseguenza nel fortilizio d’automatismi e comportamenti riflessi a mo’ di meccanismo di difesa spesso involontario.
Potremmo dire, sintetizzando, una persona quindi refrattaria all’evidenza oggettiva di ciò che gli è stato raccontato o una persona che nega ciò che, giustappunto, ha visto coi propri occhi in quanto gli è più conveniente forse non credervi o darvi immediata, onesta fedeltà, altrimenti ne soffrirebbe immensamente e ne sarebbe emozionalmente scioccato. Anche in tal caso, probabilmente e paradossalmente non tanto in quanto gli accadimenti occorsigli son invero e realmente, semmai, gravi o deleteri, bensì perché lui li percepisce come minacciosi e lesivi delle certezze in lui create, delle istanze in lui ingeneratesi e introiettate, entro le quali ha fondato la sua stessa ragione o visione di esistere e vedere l’altro e il mondo attorno a sé.
Premesso e specificato ciò, perfettamente aderente con ciò che succederà in effetti alla psiche del protagonista di Eyes Wide Shut, il quale agirà inconsciamente d’istinto per via d’un retro pensiero tutto suo e probabilmente distorsivo, la pellicola dura 159’ e, così come sempre avvenuto per Kubrick, si basa puntualmente su una novella da lui stesso liberamente adattata con l’apporto, stavolta, di Frederic Raphael. Traendo ispirazione da Doppio sogno (Traumnovelle) di Arthur Schnitzler. Nel suo adattamento, fedelmente, ricalcando il suddetto romanzo. Che però era ambientato nella Vienna d’inizio Novecento.
Kubrick sposta invece l’ambientazione a New York ma girò Eyes Wide Shut interamente a Londra. Cioè, il principale luogo della vicenda, svoltasi in Eyes Wide Shut, ovvero il Greenwich Village di Manhattan, fu ricostruito interamente a Borehamwood. D’altronde, il newyorchese Kubrick, sapete benissimo, che oramai trasferitosi da tantissimi anni in una villa nelle campagne londinesi, viveva da misantropo, isolato dal resto del mondo e, anche per quanto concerne i ciak di Eyes Wide Shut, non intese dunque assolutamente trasferirsi negli Stati Uniti e più precisamente nella Big Apple. Preferendo dunque girare nei suoi dintorni e dalle sue parti per pura convenienza, potremmo dire e supponiamo noi in modo facilmente deduttivo, emotiva e organizzativa.
Trama:
L’apparentemente felice coppia agiata, quasi altolocata, formata dai coniugi Bill Harford (un Tom Cruise in grande spolvero, accusato ingiustamente d’inespressività, invece adattissimo per il ruolo e magnetico) e la sua sensuale e bella consorte Alice (Nicole Kidman), si reca a un party mondano prenatalizio ricolmo di gente economicamente abbiente, ripieno e debordante di persone ricche e uomini e donne nababbi, appartenenti all’alta società, sì, alla cosiddetta crème de la crème…
Di ritorno dalla festa, dopo aver fumato marijuana, Alice intimamente confida a Bill una sua sfrontata fantasia erotica. Al che, all’improvviso, Bill se ne turba profondamente e, progressivamente, la sua mente scricchiolerà, vacillando in modo a sua volta perturbante soprattutto per noi spettatori che assisteremo al suo lungo, notturno peregrinaggio delirante all’interno dei meandri d’una periferia di Londra agghiacciante ove misteriosi personaggi equivoci gli e c’appariranno nelle vesti, anche interiori, più strampalate e inquietanti. Bill, in gran segreto e sotto mentite spoglie, in titubante camuffa riuscirà con l’inganno ad entrare a un’altra festa stavolta però molto particolare, anzi, presenzierà a un festino orgiastico ove gli scambisti commensali sui generis consumeranno, dirimpetto ai suoi occhi allucinati ed eccitati, al contempo esterrefatti e increduli, pietanze e amplessi di natura carnale assai provocante…
Bill, celatosi dietro falsa identità, in questo affascinante e perverso suo onirico, sconvolgente viaggio all’inferno incarnato soprattutto da un ballo in maschera che assomiglia parecchio a una messa nera per pochi diabolici, morbosi eletti fortunati, sarà per l’appunto smascherato o semplicemente, davanti alla sua confusa morale borghese denudata d’ogni orpello sovrastrutturale, vedrà frantumarsi la sua coscienza, giocoforza obbligata a interrogarsi su dilemmi etici da lui, fin a questo momento, mai obiettata e davvero introspettivamente indagata?
Al che, il clima mite dell’anima dapprima equilibrata e intonata alla morigeratezza anche emotiva di Bill, pian piano, declinerà nel congelarsi instabilmente psichico più rabbrividente…
Film amatissimo, idolatrato dagli aficionado di Kubrick, di contraltare guardato invece con sospetto dai suoi detrattori, presentato in anteprima mondiale al Festival di Venezia, ufficialmente uscito in Italia nel giorno del primo ottobre del 1999, ostracizzato dai più retrivi e bigotti benpensanti anacronistici, Eyes Wide Shut rimane, rivista con obiettività sincera e col senno di poi, un’opera magnificente piena di visive, abbacinanti magniloquenze, una pellicola straordinariamente importante, rilucente di molte scene d’antologia filmate magistralmente, girata in modo formalmente eccellente e sovente addirittura ipnoticamente trascendente.
Eppur forse è vero che la stanchezza e la senilità d’un Kubrick oramai ai suoi ultimi giorni di vita, inevitabilmente s’avverte, poiché Eyes Wide Shut, malgrado i suoi irraggiungibili pregi, trasuda, a distanza di oltre due decadi dalla sua release nelle sale, di decadentistica tristezza leggermente irritante.
Kubrick è inconfutabile che, in tale suo film, abbia adottato filmicamente e ideologicamente uno sguardo “antiquato” nel filtrare il libro di Schnitzler, ascrivendolo un po’ troppo moralisticamente alla sua visione fin troppo disincantata e marcatamente distaccata dalla realtà e forse persino dall’esistenza reale.
Pedantemente, divenendo nel finale troppo esplicitamente didascalico e addirittura consolatorio.
E da lui non ce lo saremmo aspettato, onestamente.
Nell’eterogeneo cast impeccabile, fra gli altri e oltre ovviamente ai succitati Cruise & Kidman, il compianto Sydney Pollack, subentrato ad Harvey Keitel, in quanto quest’ultimo diede forfait dopo alcuni giorni di riprese per scontri avvenuti con Kubrick, Todd Field, la sexy e fulva Julienne Davis, Marie Richardson, la magnifica Vinessa Shaw, Leelee Sobieski, Rade Šerbedžija e Alan Cumming.
In conclusione: opera capitale, capolavoro intoccabile o guardabile per i nudi eccezionali e basta che creano estrema, ormonale confusione non solo mentale? Film geniale o genitale? Al posteriore della Kidman, no, ai posteri, la durissima sentenza assai tosta. Ah ah.
di Stefano Falotico
SHINING (The Shining), recensione
Ebbene, prima o poi, nel nostro excursus temporale dei racconti di Cinema, dovevamo approdare o, per meglio dire, ritornare a Shining. Firmato, ça va sans dire, da nientepopodimeno che Stanley Kubrick. Inutile rimarcarlo, di nuovo e pleonasticamente, uno dei più grandi e importanti, rivoluzionari cineasti di tutti i tempi, autore di opere oramai ascritte e incorniciate indelebilmente alla settima arte più splendida e intattamente, bellamente inscalfibile.
Opere che definire superbe e rinomate ci pare addirittura riduttivo e sminuente il loro valore eternamente incastonato nel tempo più immutabile e non logorabile, assolutamente. Solo per elencarvene qualcuna, per dovere di cronaca, diciamo… anzi, potremmo semplicemente citarvi Arancia meccanica, Barry Lindon e Full Metal Jacket. Ma, ripetiamo, ci pare doveroso enunciarvele sol a scopo, per l’appunto, decorativamente citazionistico e puramente dizionaristico.
D’altronde, chi non ha visionato almeno una volta in vita sua le pellicole straordinarie di Kubrick e chi, specialmente in riferimento alla recensione del film da noi preso, nelle seguenti righe, in questione, ovvero Shining, non l’ha visto e, quasi certamente, amato tantissimo? Poiché, checché se ne dica, al di là delle più o meno scherzose frasi provocatorie di David Cronenberg in merito alla sua importanza artistica, a dispetto dei gusti, più o meno opinabili, Shining rimane una pietra miliare indistruttibile e sempiterna, un’opera magna e un caposaldo inamovibile non soltanto all’interno della registica filmografia di Kubrick, bensì del Cinema tutto.
Affermato retoricamente l’ovvio (a meno che non siate amanti della bruttezza anziché della più sopraffina pregevolezza), Shining uscì nelle sale nel 1980 in due versioni differenti per quanto concerne il minutaggio. Da noi in Italia, infatti, la pellicola fu distribuita nella sua versione ridotta di centodiciannove minuti mentre, per il mercato statunitense, nella sua durata integrale e non sforbiciata di centoquarantaquattro.
Sceneggiato dallo stesso Kubrick assieme a Diane Johnson, Shining è la trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Stephen King, uscito nelle librerie solamente tre anni prima, cioè nel ‘77.
Trama:
Un ex docente, attualmente disoccupato, di nome Jack Torrance (Jack Nicholson) si trasferisce in quel delle Montagne Rocciose in Colorado. Più precisamente, assieme alla consorte Wendy (Shelley Duvall) e al figlioletto Danny (Danny Lloyd), stazionerà per cinque mesi, in totale isolamento dal resto del mondo, all’Overlook Hotel. In quanto, è stato assunto come guardiano di tale appena menzionatovi albergo dopo aver sostenuto, per pura formalità, un colloquio di lavoro da lui superato facilissimamente…
Cosicché, la famiglia Torrance svernerà in tale spettrale e al contempo lussuosa e sterminata magione in completa solitudine. Torrance, inoltre, lontano dalla frenesia giornaliera del caos cittadino, appartatosi nella riservatezza più remota da pensieri fuorvianti a tutti noi provocati dalla quotidianità ingombrante la mente, distante da ogni preoccupazione superflua, qui potrà dedicarsi a tempo pieno alla stesura del suo nuovo romanzo poiché ha deciso finalmente di dare vita alle sue velleitarie (?) ambizioni da scrittore mai appagato non solo professionalmente. A poco a poco però, all’Overlook Hotel accadono eventi inquietanti sempre più spaventevolmente macabri e sanguinari. Perlomeno, a livello prettamente allucinatorio e visivo-percettivo. Danny, forse, possiede poteri paranormali e assiste al lento ma insistente, raccapricciante materializzarsi, dinanzi ai suoi occhi terrificati e rabbrividiti a morte, d’accadimenti e visioni mostruose non poco preoccupanti. È innatamente provvisto, per l’appunto, del gift dello shining, ovvero la luccicanza. Cioè la veggente, illuminante e al contempo disturbante, facoltà di vedere e prevedere ciò che le persone normali non riescono a captare. Un dono misterico e mesmerico…
Suo padre, nel frattempo, progressivamente sta impazzendo? Circa una decade prima, all’Overlook Hotel avvenne un orripilante fatto tragico e aberrante. Cioè, l’ex suo guardiano Delbert Grady (Philip Stone), in preda alla follia più implacabile, sterminò la sua famiglia, trucidando moglie e figlio con impietosa furia paurosa. E chi è il barman di nome Lloyd (Joe Turkel, Blade Runner), avente lo stesso nome del figlio di Torrance, che appare dirimpetto allo sguardo attonito e allo stesso tempo complice ed amichevole del farneticante e ubriaco Torrance durante i suoi solitari “itinerari” nell’enorme sala da ballo luccicante…?
Shining, nell’anno della sua release, si piazzò al terzo posto degli incassi al box–office e rimane, a tutt’oggi, il maggior successo commerciale di Kubrick.
Quasi unanimemente, odiernamente considerato un capolavoro, non soltanto del genere horror psicologico, ispiratore di tanti imitativi epigoni e pellicole derivative, quali Il sesto senso e via dicendo o chi più ne ha più ne metta, Shining all’epoca, invero, non subì un’uniformità di giudizi concordemente positivi e omogeneamente lusinghieri. Anzi…
Il primo a contestarlo e parzialmente disconoscerlo fu lo stesso King, il quale rimase assai deluso dell’adattamento di Kubrick, asserendo soprattutto che se, nel suo romanzo, l’evoluzione dello stato di minacciosa, allarmante pazzia crescente che investì Jack Torrance avveniva man mano che la raccontataci sua storia procedeva nell’incalzare della tensione emozionale da lui descrittaci con meticolosità diegetico-narrativa perfettamente coerente all’evoluzione della trama, nel film di Kubrick, il Torrance di Nicholson gli sembrò già pazzo fin dalle prime scene. E ciò, a suo dire, rendeva il film dunque già prevedibile e privo di sorprendente mordente. Spogliandolo, fin dapprincipio, d’ogni interesse. Shining, inoltre, per coloro che sono fanatici delle medie statistiche dei siti aggregatori di recensioni internazionali succedutesi nel corso degli anni, quali metacritic.com, è il film che riscontra tuttora la più bassa percentuale di opinioni per ciò che riguarda la carriera registica di Kubrick, cioè il 66% di voti sopra la sufficienza. Percentuale, comunque, alta eppur non di certo eccelsa. Come sopra accennatovi, qualche anno fa, il regista David Cronenberg (Scanners) fu parimenti aspro nei confronti del lavoro compiuto dal compianto Kubrick in merito a Shining, testualmente affermando, con non poca protervia e sprezzante alterigia irrispettosa, che a suo avviso, il suo ex collega Kubrick fraintese, a suo solipsistico e inefficace piacimento, l’opera originaria di Stephen King, adattandola in modo imperdonabilmente infedele e scarsamente vincente ed avvincente. Poiché secondo lui, Kubrick, una volta trovatosi di fronte, filmicamente parlando, con la sua personalissima riduzione dell’accattivante, suggestiva, complessa e ben più stratificata opus di King, non seppe offrircene una visione cinematografica altrettanto valida e seducente, altresì non essendo capace di comprenderne la sua ipnotica forza orrifica e ammaliante di matrice sofisticatamente inconscia. Trasformando pertanto il suo libro in uno Shining maestoso, sì, a livello formale, impeccabilmente messo in scena con maestria egregia delle più inattaccabili, tanto stupendamente onirico e affascinante dal punto di vista visionario quanto debole, esangue, poco coraggioso e mordace sul piano emotivo. Diciamo che apertamente lo contestò in quanto, a suo dire, ripetiamo, Kubrick essenzialmente non capì il romanzo d’origine di King, quindi non seppe trasferirlo e traslarlo, visivamente parlando, in maniera evocativa, né fu in grado di conferirne potenza magnetizzante, attrattivamente allettante.
Secondo voi, King & Cronenberg hanno ragione a riguardo o sono forse loro ad aver invece, paradossalmente, in modo scioccante, tremendamente superficiale, equivocato e ingiustissimamente sminuito il lavoro di Kubrick? Secondo voi, Shining è quindi un film eccezionale, immortale e indiscutibile oppure potrebbe esser vero che, per l’appunto, è ben lungi dall’essere invece quel capolavoro monumentale che, comunque sia, a prescindere dai suoi detrattori, inclusi ovviamente gli appena succitati King e Cronenberg, la maggioranza dei cinefili reputa tale e, giocando con le parole, sul suo immenso valore non vuole sentire ragioni nella maniera più apodittica e insindacabile?
Ai posteri, no, a voi l’ardua sentenza.
di Stefano Falotico
DOCTOR SLEEP, recensione
Chapter One: spiritato, spiritico, da bollenti spiriti…
Ebbene, brevissimo salto indietro nel tempo, non tanto siderale in quanto salteremo semplicemente di pochissimo a ritroso. Uomini, malati di ritrosia verso gli horror, non siate arretrati. Guardate avanti, cioè espandete i vostri orizzonti, mentali e non, limitati, e non circostanziatevi nel passato. Ah ah. Anchilosandovi in pareti anguste e stagne paratie soffocanti il libero pensiero volante e sognante, eh eh.
Non esiste solo Luchino Visconti, bensì anche il sig. Mike Flanagan. Oramai specializzatosi in esclusive trasposizioni cinematografiche assai ardite, oserei dire, di sinonimo paritetico e di significato identico, spericolate nei riguardi di alcune opere magistrali del maestro del brivido per eccellenza, ovvero Stephen King. Realizzando pellicole forse non eccellenti eppur, comunque sia, se non sopraffine, decisamente interessanti, intrise di morbosità peculiare già ascritta alla sua poetica autoriale. Eh già, in quanto Flanagan non è affatto, credetemi, un cosiddetto mestierante o un anonimo principiante, bensì, se non un principe della settima arte, perlomeno un grande adattatore per l’appunto del King. Dunque, non è reo di aver adattato male alcune novelle dell’autore di It, quest’ultima invece trasposta, per il grande schermo, forse in maniera pedestre, dal sopravvalutato Andy Muschietti. Uno che, anziché far il regista, dovrebbe stare, anzi stazionare e “stagionare”, seduta stante e vita natural durante, nel presepio delle belle statuine assieme a dell’arido muschio ammuffito e maleodorante.
Vedo invece della luccicanza in Flanagan. Non sempre lui però vede giusto e azzecca perfettamente ciò che, dalla pagina scritta di natura kinghiana, visualizza nelle sue immagini filmiche. Ma non è un poco di buono e tale Doctor Sleep è invece molto buono. Così sia scritto, così sia fatto, è un film di siffatta eleganza e sa spaventare nella maniera giusta, senz’eccedere in truculenze non necessarie e ripugnanti. Un film che forse non entrerà nella storia del Cinema e non sarà tramandato ai posteri ma possiede persino, anzi, può vantare ed esibire un ottimo poster, evocativo, oserei dire sibillino e cripticamente sinistro.
Scusate, ho appena delle stronzate scrittovi. Perdonatemi. Procediamo… e non perdiamoci in incubi e mostruosità di giochi lessicali che, per quanto, ottimamente espostivi e qui vergativi forse in modo goliardico o sanamente prosaico, lasciano il tempo che trovano.
Basta dunque coi calembour, questo film presenta poche scene gore e Al Gore, molti anni fa, appena dopo la caduta delle Torri Gemelle, perse le statunitensi elezioni presidenziali, sconfitto ai punti dal figlio di George H. W. Bush, cioè George W. Bush. Mentre, voi sapete come si chiami il figlio di Barbara Bouchet?
Forse Barbaro Buscetta? Ragazzo barbarico un po’ cretinetti?
Dai, suvvia, sto cazzeggiando.
Infatti, ultimamente debbo avere espanso così tanto la mia percezione della realtà, tutte le regole esistenziali vincendo e gigantescamente soverchiando, da aver oltrepassato ampiamente la soglia della normalità lecita…
Vivaddio, la normalità è aberrante e a volte è sano isolarsi a mo’ di Jack Torrance di Shining. Anche perché, se innatamente s’è dotati del dono della luccicanza, è impossibile impazzire malgrado le sfavorevoli (circo)stanze d’una vita che può indubbiamente, lungo il suo cammino, non solo col triciclo di Danny Lloyd, per i suoi neri e sanguinolenti corridoi e i suoi spaventevoli, lugubri anfratti raccapriccianti, dicevo… ah, vedete? Mi son perso lungo i ricordi dedalici del mio labirintico rimembrare l’appena citatovi film di Kubrick.
Kubrick fu anche viscontiano e visionario ma non realizzò Ludwig, per quanto il suo Alex di Arancia meccanica amasse alla follia, e che follia, ah ah, Ludwig… van Beethoven.
Domani sarà l’Epifania che tutte le feste porta via. Mentre la Befana porta la calza e le preferisco le calze a rete di una bella fi… a, forse come Ferguson Rebecca. Ammazza quanta roba!
In tale film, una sorta di strega dagli occhi ipnotici o una sorca che ti strega con occhi spiritati? Mah…
Un tempo, persi la testa per la bionda speaker radiofonica Rosaria Renna. Parlo di tempi oramai perduti della mia pubertà. Sì, ciò avvenne subito dopo il periodo “natalizio”, oserei dire infantile in cui ancora credi e credetti, come tutti i bambini, a Babbo Natale che ti porta i regali con le renne, mie (p)o(r)chette.
Io drizzai, no, rizzai subito… cosa? Le antenne, no? Infatti, nonostante il gelo invernale e le fortissime precipitazioni di neve, similmente comparabili a quelle che rivestirono di bianco l’Overlook Hotel, il mio televisore funzionò benissimo, anche qualcos’altro, e altresì capii immediatamente, guardando, per la prima volta in vita mia, Shining su Italia 1, che Shelley Duvall era molto racchia quasi quanto la Befana.
Detto ciò, il 6 gennaio, si smantella l’alberello di Natale e anche il presepe ove forse c’è il Muschietti.
Dicevo… Alex/McDowell idolatrò Beethoven, mentre la figlia della mia ex vicina di casa amava passare le settimane bianche all’Abetone. L’abete, la gente che va in chiesa e presenzia a una messa tenuta semmai da un abate. Gente ebete. Dicevo… All’epoca, oltre alle renne, no, a Rosaria Renna, mi piacque molto anche un’altra bionda, cioè Ramona Dell’Abate, ex presentatrice di Giochi senza frontiere.
Ecco, so che quanto da me appena scritto, eh eh, vi posson sembrare aneddoti di poco conto. Fatevi i cavoli vostri.
Ebbene, dopo essersi cimentato con una mission: impossible assieme a Tom Cruise e la Ferguson, no, a un’impossibile missione, cioè trasferire sul grande schermo Il gioco di Gerald, escogitando stratagemmi e dilatando a piacimento la storia originaria e letteraria del King nostro amato, il Flanagan si diede, nel 2019, a qualcosa, se possibile, d’ancor più incredibile. Ovvero, realizzare il sequel d’un film intoccabile.
Scegliendo me come protagonista. Sì, è vero. Recatevi su Facebook, cercate fra i miei album migliori una mia foto, guardatemi negli occhi e scoprirete che sono uguale a Ewan McGregor, specialmente quello di Big Fish. Ah ah. Non abboccherete, pescioloni, mica a una cosa del genere, nevvero? Comunque, è inverno e invero è così. Per quanto mi riguarda, attualmente sono ateo. Poco prima di morire, diverrò cristiano… non si sa mai, difatti… Meglio pararsi il sedere prima della dipartita. Non credo nell’aldilà ma, ripeto, se veramente dovesse esistere, mi presenterò a dio con la stessa faccia di bronzo di Woody Allen di Harry a pezzi e di Larry David di Basta che funzioni.
Targato dalla stessa major finanziatrice d’ogni opera del Kubrick, Doctor Sleep non è forse bello ed eccitante alla pari d’una donna sexy come Rebecca che, togliendosi dinanzi a te gli slip, non ti fa venir sonno ma ti fa venire subito, eppur spinge…
Un film duro, cazzuto, ca… o. Un film che dura anche due ore e mezza. Cioè quasi quanto il cantante Sting, a letto di amplesso interminabile, con la moglie Trudie Styler, la protagonista di Mamba. Sciocchezza immane firmata dal nostrano Mario Orfini. Eh Mambo, mambo italiano, eh Mambo!
Sì, a detta dello sticc… io, no, di Sting, lui durerebbe circa dieci orge, no, ore, prima di avere un orgasmo con la moglie. Sai che palle. Le possibilità sono dunque due: o la moglie s’è imbruttita, dai tempi di Mamba, come la Befana, oppure Sting passa sette ore e mezza di preliminari, cantandole tutte le sue canzoni d’amore. Roba che ammoscerebbe chiunque, fidatevi.
A me Sting ha sempre rotto i co… ni. Sdolcinato e cascamorto come pochi. Roba per femminucce in cerca della loro versione maschile di Marie Fredriksson dei Roxette. Di mio, so che amo il rossetto delle donne e loro amano il mio bianchetto… sono molto dotato a livello orale-canarino assai carino, no, canoro, sì, le donne con me cantano meglio di Maria Callas. Ed è tutto un (di)letto.
Chapter Two: facciamo i seri e rifacciamo gli occhi su Rebecca anche perché, parimenti alla Ferguson, McGregor ha due occhi magnetici, oserei dire à la Falotico…
Sì, non fa l’ottico, lei? O, così come dicono i bifolchi che fanno battute terribili, nel 2022… la Ferguson farebbe la fortuna degli oculisti!
Basta, davvero! Finiamola con queste battone, no, battute scontatissime più del mio odiatore su YouTube che mi vorrebbe provocare con frasi penose, lui crede “cattive”, che nemmeno i boomer di 70 anni scrivono oramai più.
Ah, le mie iridi, roba che Chris Walken de La zona morta, altra trasposizione kinghiana non kubrickiana né flanaghiana, c’appare come un fenomeno da baraccone. Infatti lo è, eh eh.
Sì, un Falò con gli occhi in stato catatonico su effetto Valium è qualcosa che ipnotizza lo sguardo di chi lo guarda. Il quale, nel frattempo, sta pensando: questo è pazzo come Jack Nicholson di Shining, sta recitando la parte del matto meglio di Alda Merini, cioè la nemesi, tranne nel fisico, di Kathy Bates di Misery non deve morire o è figlio di Dolores Claiborne, alias Norman Bates/Anthony Perkins di Psyc(h)o, no, sempre della Bates de L’ultima eclissi di Taylor Hackford?
A parte gli scherzi, sono un grande scrittore come James Caan del film di Reiner poc’anzi dettovi.
E posseggo degli occhi belli. Sì, neri. Praticamente le mie iridi non si vedono. Ah ah.
Dunque, come si può vedere se ho gli occhi? Sembrano quelli di un cieco. No, gli occhi dei ciechi hanno le iridi glauche. Le mie tendono al castano più scuro di Denzel Washington.
Ho molti haters che vorrebbero spezzarmi le gambe e amputarmi le mani, soprattutto quando, fra un mio scritto e l’altro, do di matto, no, smanetto, sì, vi do di mano birichina sulla Ferguson in bikini di una scena oramai cult in cui esce tutta bagnata dalla piscina. Poi, stringe la mano a Tom Cruise e si bagna ancora di più. Ah ah.
A proposito di Visconti Luchino, uno dei suoi attori feticcio fu Alain Delon. Protagonista assieme per l’appunto alla sua ex, vale a dire Romy Schneider, del film La Piscine. Film nel quale vi fu anche Jane Birkin… e ho detto tutto.
Sì, la Ferguson, la Schneider che fu con l’aggiunta della madre di Charlotte Gainsbourg sono donne che resusciterebbero pure i mezzi zombi presenti in questo Doctor Sleep.
In questo film, vi è infatti anche Cliff Curtis, colui che, in Bringing Out the Dead, ospitò Nic Cage nella sua oasi felice. Sì, a base di cocaina.
Qui, trova una casina al personaggio incarnato da Ewan. Poi si lascia tranquillamente fottere. Anzi, si suicida prima di essere fottuto.
Dalla Ferguson/Rose Cilindro? No, da una congrega di stronzi e debosciati assai zombeschi che credono di essere dotati… di poteri paranormali.
Doctor Sleep invece è stato distrutto e segato… dalla cosiddetta Critica.
Invece, tolta la parte centrale, in linea col titolo del film, sì, soporifera più d’un sonnifero Trittico, psicofarmaco consigliato anche per i disturbi d’ansia delle persone normali, affette da troppo stress quotidiano cagionato loro dall’essere degli ilici, cioè persone malate di invidia, gelosia e competitività malsana, Doctor Sleep è un ottimo seguito. Non un dittico, attenzione.
Dopo l’inizio, in cui Flanagan dimostra che Kubrick non era un genio, bensì possedette una rivoluzionaria steadicam e un direttore della fotografia di nome John Alcott, cioè mica colui che mi scattò le foto della Prima Comunione in cui sembrai, più che Danny Lloyd, Christopher Lloyd di un altro film con Nicholson, cioè Qualcuno volò sul nido del cuculo, il film perde un po’ la bussola dopo la prima ora ma, grazie a un colpo di genio da Lloyd/Doc (da non confondere col d.o.c., acronimo di disturbo ossessivo-compulsivo) di Ritorno al futuro, riesce a ricreare le atmosfere suggestive di Shining grazie a una ricostruzione scenografica che fa paura.
Dovete sapere che, in condizioni di terribile isolamento, si può perdere la testa come Jack Nicholson di Shining.
Liberi invece da persone orche come Jack Torrance, infatti Shining è una metafora di Sbirulino, no, della favola nera di Pollicino, frequentando quelle piene di vita e non le vecchie befane della camera 237 di Doctor Sleep, cioè le professoresse dei licei classici e del DAMS, donne veramente brutte, anche nell’anima, ecco che Stefano Falotico divenne uguale a Jack Nicholson.
Sì, è stempiato come lui, ha quasi la sua stessa età ai tempi di Shining ed è talmente gigantesco che riesce a interpretare la parte del matto così bene, così come anche in Qualcosa è cambiato, da far credere alle persone di esserlo davvero.
Così, facendo pena alla gente, tutti per compassione gli offrono da bere.
E non deve mai pagare al bar.
Voglio comunque continuare a donarvi sane risate.
Circa dieci anni fa, mi ricoverarono in ospedale psichiatrico.
Gli infermieri, per l’appunto, pensandomi matto, trovandomi io peraltro fra i matti, a mo’ di presa pel culo mi chiedevano sempre al mio risveglio:
– Sig. Falotico, ha dormito bene nella suite di tale hotel a 5 stelle? Ah ah ah.
La mia risposta li devastò. Loro sempre son in manicomio. Così come allora, d’altronde. Peccato che adesso siano diventati i pazienti. Sì, certo.
Questa fu la mia risposta:
– Fra un mese mi dimettono mentre voi, non trovando un lavoro migliore, non essendo dei geni come Kubrick, passerete tutte le giornate fra i matti.
Alla fine, non capirete più se i matti sono i matti veri o lo siete voi. Anche perché, nella vostra vita da dementi, non vi siete mai posti una domanda importantissima, cioè la seguente: come mai ci troviamo a fare gli infermieri d’un manicomio quando potevamo starcene stravaccati sul divano, non dell’Overlook Hotel e a mo’ di Scatman Crothers/Dick Hallorann, bensì a mo(n)do di uno come il Falò che può guardare, quando vuole, Shining e anche Doctor Sleep, uscendo quando gli pare e piace?
I due infermieri si guardarono negli occhi e si dissero:
– Perché onestamente non abbiamo mai studiato molto. Per fare gli infermieri, bastava una specializzazione ridicola.
Ecco, nel 2022, direi e chiederei inoltre loro: – Per questo motivo, il Covid non è stato ancora sconfitto?
Chapter Three: c’è una ragione se due registi apparentemente agli antipodi, quali Kubrick & Steven Spielberg, erano in realtà due grandi amici
Da molto tempo, circola una voce, non so se sia una leggenda metropolitana oppure no.
Pare, stando a queste dicerie, vere o false che siano, che Kubrick, dopo aver visto Schindler’s List, telefonò molto arrabbiato a Steven:
– Che razza di Shoah è mai questa? Una shoah con un bianco e nero patinato ove non si vedono le camere a gas? È un film edulcorato.
In verità, Kubrick era molto invidioso di Spielbeg e pianse a dirotto per tutta la visione di Schindler’s List.
Perché è un capolavoro.
Altrimenti, Kubrick non avrebbe mai permesso a Spielberg di leggere in anteprima la sua sceneggiatura di A.I.
E Ready Player One omaggia Shining, infatti.
Dunque, ragazzi, se durante il vostro percorso, non riabilitativo e neppure all’Overlook Hotel, dovreste incontrare degli orchi cattivi, se qualche lupo malvagio vorrà sbranarvi, chiamate me. Un Falotico in piena forma mette veramente i brividi anche a uno alto due metri e dieci e con tre lauree ad Oxford, a Cambridge e alla Bocconi di vostra sorella. Mi basta osservarlo negli occhi e annientarlo, in quanto vedo la sua anima e dinanzi a me è psicologicamente nudo se è altresì, in cuor suo, un bastardo figlio di puttana.
Sapete, per molto tempo pensai davvero di essere pazzo. Da un po’ di tempo invece a questa parte, troppe cose (non) mi tornano, purtroppo o per fortuna. Predissi, tre giorni prima della sua morte, che Ayrton Senna sarebbe morto al circuito di Imola. La sera prima della morte di un mio amico, mi svegliai a tarda notte con un orribile presentimento. E, soprattutto, voi conoscete un’altra persona al mondo che sentì scoccare la scintilla del suo cuore a miglia di distanza soltanto dopo un messaggio WhatsApp all’apparenza insignificante e comprese che era la sua donna ideale? Infatti, così è stato. Di solito, non è così preveggente… la cosa.
Ecco, domani, cioè oramai oggi (ah, scusate, è già la Befana), intendo farmi un giro per l’appunto in quel dell’imolese. Può darsi che, nel viaggio, un camion possa travolgermi e io cadrò in coma, se mi andrà fatta bene, come Walken de La zona morta. Oppure potrei addirittura morire. Ma non avrei rimpianti. Gli ultimi miei due anni di vita sono stati entusiasmanti. Come mai? Allora, se siete arrivati sino a questo punto della lettura, non avete però letto tanto bene, eh? Ho finalmente capito che devo frequentare la gente che mi vuole bene, con cui ridere e scherzare, non gente che ti rimprovera perché ti vorrebbe “genio” come Kubrick. Io sono io, tu sei tu. E poi diciamocela, Kubrick era un misantropo. Anche un po’ handicappato, secondo me.
Si dedicò solo all’arte perché non sapeva guidare come Ayrton Senna. A mio avviso, non sapeva neanche andare sul triciclo. Dunque, era pessimista sull’umanità perché era un incapace.
Be’, forse qui ho un po’ esagerato. Ma il finale di Doctor Sleep la dice lunga… così come quando Danny/McGregor dice alla bambina, a mo’ forse di Kubrick con Spielberg: – Quando io e te ci siamo conosciuti, ti ho detto che dovevi nasconderti, che dovevi tenere la testa bassa, non mostrare la luccicanza. Ma mi sbagliavo. Luccica… continua a luccicare.
di Stefano Falotico
UNA VOCE AMICHEVOLE (A Friendly Voice) by Daniel Latteo, recensione
Oggi, voglio presentarvi sinteticamente, spero però esaustivamente l’affascinante, bel cortometraggio firmato dal filmmaker Daniel Latteo. Disponibile alla visione su YouTube e su Vimeo, anche in versione english sub.
Drama–horror–mystery del 2009, Una voce amichevole si presenta così nella sua breve ma evocativa sinossi già richiamante torbide atmosfere fascinose di forte impatto emozionale e palpitanti di visionarietà misterica:
Nicholas è un ex yuppie di successo di trent’anni che da qualche tempo sta attraversando una profonda e straziante crisi esistenziale. Da questa sua situazione, Nicholas sembra non avere alcuna via d’uscita. Ma quando tutto sembra oramai senza speranza, egli inizia a sentire una strana voce che gli parla in tono sia amichevole che sprezzante, senza riuscire a capire da dove provenga.
Bella fotografia suggestiva e ricercata, d’atmosphere, a cura di Angelo Strano.
All’istante, nell’attimo stesso in cui è comparso, già nella penombra, il viso del protagonista (Fabio Aiuto), coi suoi lunghi capelli fluenti e sottilissimi, mi ha ricordato immantinente Nicolas Cage. Infatti, la mia associazione mentale non è stata erronea. Scopriamo presto che il suo character si chiama, neanche a farlo apposta, Nicholas. Il ragazzo lascia il lavoro, anzi, lo confida alla sua partner durante una cena in cui con lei si sfoga rabbiosamente. Dichiarando, con ira allucinata e forse in preda alla paura riguardo il suo incerto futuro, di essere stanco della solite routine che lo sta via via prosciugando nell’anima, inaridendolo a mo’ di zombi. Non sa cosa stia cercando dalla sua esistenza ma, con le valigie in mano, cammina con aria disperata, spaesata e perplessa lungo il corridoio di un albergo che potrebbe farci venir in mente il famoso e inquietante Overlook Hotel. Al che, una voce stridula di donna, probabilmente anziana, (la madre, una strega, una sua immaginaria demoralizzatrice, una proiezione uditiva del suo inconscio?), mellifluamente proveniente dalla misteriosa stanza n.33, lo redarguisce, ammonisce e soprattutto umilia nell’animo, scaricandogli addosso cattive etichette e maligni epiteti atti a distruggerlo psicologicamente, ad annientarlo e demotivarlo col potere della suggestione più perfida e subdola. Un pezzente intanto, alloggia, per modo di dire, nel corridoio, accasciato a terra e con sguardo perso e spento, altresì glaciale, che perturba e angoscia noi e il protagonista. Chi è Nicholas? Dove sta andando? A chi appartiene la terribile voce femminile senza identità precisa, lasciata fuori campo? Parte centrale meravigliosa, girata egregiamente. Con un gioco di dissolvenze incrociate veramente riuscite e tecnicamente magistrali, zoomate d’impatto e primi piani studiati con estrema accuratezza e sofisticata oculatezza per instillarci senso alto di tensione palpabile, impreziosiscono questo corto perlaceo dai molti e non trascurabili pregi importanti.