IL MOSTRO DELLA CRIPTA, recensione
P.S., anzi ante scriptum: chi ha scritto questa recensione, eh già, ha appena pubblicato un libro, intitolato Bologna POLAR, in cui cita chiaramente Rupert Everett di Dellamorte Dellamore, soprattutto Anna Falchi. Amanda Campana è carina ma Anna stimolava di più l’ocarina…
Ebbene, oggi recensiamo Il mostro della cripta (The Crypt Monster), film della consistente, un po’ sfilacciata e forse prolissa durata di un’ora e cinquantasei minuti ad opera di Daniele Misischia.
Regista romano, classe ‘85, con all’attivo oramai un carnet filmografico di tutto rispetto e, soprattutto, una lunga serie di cortometraggi e lungometraggi, specialmente improntati in direzione orrifica, notevole per vastità produttiva, al di là delle nostre possibili considerazioni, positive o meno, in merito. Solamente per citare qualche suo titolo, End Roll e, ovviamente, la pellicola antecedente a tale sua nuova opus, ovvero The End? L’inferno fuori. Quest’ultimo, film non esente da molti e vistosi difetti, perfino grossolani, però non privo al contempo d’un suo particolare fascino naïf nient’affatto disprezzabile o irrilevante che dir si voglia. Opere, le sue, spesso intrise di sapido, macabro umorismo nero mixato a una buona conoscenza dei meccanismi narrativi tipici dei più famosi film dell’orrore e “di paura” contemporanei e non, internazionali o nostrani. Misischia, spesso, allestisce difatti grotteschi pot–pourri granguignoleschi forse non magniloquenti o precisamente compiuti magistralmente, eppur assai interessanti e, ribadiamo, affascinanti per gli amanti dell’underground cinefilo più esuberante di vividezza ricercatamente artigianale…
Il mostro della cripta è uno strambo, cosiddetto guilty pleasure piacevolmente, studiatamente rozzo e allo stesso tempo lontano, paradossalmente, da certe pellicole invece solamente dozzinali e ridicole involontariamente, che mescola arditamente, forse però non sempre perfettamente, commedia, action e horror in salsa, potremmo dire, citazionistica d’impianto nostalgicamente adolescenziale.
Quindi, Il mostro della cripta è perlopiù destinato a un pubblico di teenager amanti dei fumetti bonelliani à la Dylan Dog e affini similari. Dunque, conseguentemente, è un film dedicato non solo alle nuove generazioni, bensì anche, per l’appunto, ai ragazzi degli anni ottanta e novanta oramai cresciuti, perlomeno all’anagrafe, eppur irrimediabilmente legati alla loro adolescenza oggi finita da un pezzo ma giammai nell’animo loro davvero estintasi. Scritto a varie mani, cioè dai Manetti Bros. (Diabolik), alias Antonio & Marco, peraltro fra i produttori principali, assieme ad Alessandro Pondi e Paolo Logli con le collaborazioni dello stesso Misischia e di Cristiano Ciccotti, Il mostro della cripta è un film sperimentale molto coraggioso, va detto onestamente e riconosciuto, questo sì, lodatamente e obiettivamente senz’alcun ruffiano infingimento di sorta, che s’arrischia ad esplorare e tentare di rivivificare non soltanto l’horror, bensì molto Cinema del presente e del passato, centrifugandolo in molteplici generi a loro volta non solo cinematografici. Infatti, le citazioni contenute al suo interno non si limitano solamente agli ammiccamenti, per l’appunto, cinefili. Ma riguardano il pop tutto e guardano indietro in modo tout–court, sebbene molto alla buona…
Ma ora passiamo alla trama e non perdiamoci in sofistiche chiacchiere superflue. Per semplice comodità, ve la trascriveremo direttamente da IMDb, al fine di risparmiarci l’’impellenza e l’onere, in tal caso, di utilizzare parole nostre, in quanto la sinossi riportatavi, ci pare già efficace e precisamente concisa, assai pertinente e sufficiente a sintetizzare e centrare, a racchiudere, in pochissime righe, il fulcro focale della vicenda narrataci e da Misischia, in forma divertita e scanzonata, dinamicamente mostrataci.
Un adolescente secchione che sfoglia un fumetto vede paralleli tra la storia e gli orrori della vita reale nel villaggio in cui vive. Lui e alcuni amici cercano di indagare.
Ecco qui ora la nostra disamina. Ah, prima però approntiamo subito una piccolissima correzione alla lapidaria trama espressa da IMDb. Il protagonista non è affatto un secchione, bensì un nerd, vivaddio, sanamente ingenuone ma forse un credulone sognatore… Il mostro della cripta ovvia, e ci pare ovvio, al budget limitato, escogitando un paio di stratagemmi diegetici per niente malvagi, aggirando perciò tale suddetto ostacolo in virtù delle sue idee godibilmente strampalate che si rifanno, per l’appunto, a tutt’un immaginario d’apparato nostalgico e al sincretismo culturale che andava per la maggiore in quei convulsi, confusionari eighties rutilanti e casinari.
E, in questo, Il mostro della cripta è a sua volta emulativo di Stranger Things, diciamo, effettuato, anzi rielaborato però all’amatriciana con tanto d’ambientazione nell’assai italiana Bobbio, durante l’anno 1988.
Conseguentemente, è marcatamente, diciamo, maccheronicamente virato al provinciale con accenni e accenti relativi della Padania…
Bobbio, ameno e ridente, anche annoiato borgo emiliano-romagnolo di poco meno di quattromila abitanti in provincia di Piacenza, situato nel bel mezzo della Val Trebbia. Ove Marco Bellocchio ambientò il suo primo e considerevole film, I pugni in tasca. Bobbio è anche la città natia di Bellocchio.
Bravino il suo protagonista, più che altro simpatico, cioè Tobia De Angelis nei panni di Giò Spada, piacente la presenza dirompente e sgallettante, perfino pepata e piccante, della pimpante Amanda Campana nel ruolo di Vanessa.
A un certo punto, il nostro Giò, convintosi che il fumetto da lui letto e amatissimo, vale a dire l’albo fittizio, intitolato Squadra 666, scritto e disegnato dal suo idolo, Diego Busirivici (Pasquale Petrolo, più comunemente noto come Lillo), racconti una storia vera e non sia frutto di pura, spaventevole finzione mera, essendo disperato, fra l’altro dopo aver assistito al macabro omicidio, forse di natura rituale, della sua amica Sara (Alice Bortolani), violentemente squartata e morta dissanguata, decide di rivolgersi nientepopodimeno che a Diego stesso. Andando a trovarlo in corriera.
Curiosità: il fumetto Squadra 666 è stato creato ad hoc per Il mostro della cripta ma non è stato, naturalmente, disegnato da Busirivici/Lillo, bensì è stato ideato, congegnato e appositamente allestito da lekos Reize e Alfredo Castelli, quest’ultimo inventore del celeberrimo Martin Mystère.
Fra i produttori esecutivi, Pier Giorgio Bellocchio (da non confondere col Piergiorgio dall’identico cognome, costui letterato, scrittore e critico letterario), figlio del celebre regista Marco. E non per niente, difatti, in apertura di film, viene omaggiato Marco Bellocchio stesso. Il quale, come sappiamo e come ci viene puntualmente riferito, nell’incipit per l’appunto de Il mostro della cripta che lo omaggia, come sopra riportatovi, realizzò il suo primo film, assai importante e imprescindibile, cioè I pugni in tasca, esattamente a Bobbio. La cittadina ove, così come sempre sopra dettovi, se ne svolge gran parte dell’ambientazione.
Musiche di Isac Roitn, fotografia di Angelo Sorrentino.
I cinefili impazziranno di gioia e non solo nel districarsi nella miriade di citazioni che riempiono Il mostro della cripta. Che vanno dai poster di Non aprite quella porta, La casa e Moonwalker con Michael Jackson che campeggiano nella cameretta di Giò, alla locandina di Nightmare 4 – Il non risveglio, col terribile, eterno babau Freddy Krueger, arrivando, nettamente ammiccanti, a Ritorno al futuro – Parte II e al cult movie L’implacabile con Arnold Schwarzenegger. Senza dimenticare, ci pare ovvio e ci viene mostrato anche nel trailer, l’epocale Che cavolo stai dicendo, Willis?, tratto da Il mio amico Arnold.
Forse però il sapiente gioco “cinefiliaco” (usiamo lo stesso linguaggio giovanilistico e un po’ forzatamente gergale del film) di Misischia & company, sebbene arguto e ricercato, non basta pienamente a reggere il peso d’un film che parte in quinta, viaggia speditamente per la prima ora, carbura immantinente pur con molte ingenuità e alcune scene scontate ma, in tutta franchezza, poi si perde farraginosamente per strada, rivelandosi troppo lungo e spesso mal recitato dai comprimari. I quali si limitano a scandire i pezzi del copione, a loro rispettivamente assegnati, semplicemente preoccupati di non sbagliarne le battute più che sentirle e farle proprie veramente. Insomma, a nostro avviso, una recitazione decisamente parrocchiale, specialmente scolastica e non opportunamente diretta, degli attori di contorno, sciupa non poco Il mostro della cripta. Misischia, in tale circostanza, avrebbe dovuto avere più polso nell’imporre la sua direzione attoriale, altresì comprendiamo che, probabilmente, era più interessato ad organizzare, vagliare, ponderare e architettare l’intricata e complicata messa in scena e al doversi giostrare nell’uso difficile degli spazi e delle diverse location.
Dunque, questa sua discutibile distrazione registica, a riguardo esclusivamente, sia ben inteso, del lavoro sugli attori, gliela possiamo perdonare anche se col beneficio del dubbio…
Nel cast, Chiara Caselli as la “matta” Fabienne.
Gli echi e i riferimenti di cui è pregno Il mostro della cripta, ribadiamolo, sono svariati e innumerevoli.
Inoltre, è abbastanza palese che Misischia s’ispiri a maestri come Dario Argento e, notevolmente, Michele Soavi (Dellamorte Dellamore, La chiesa) deve averlo parecchio influenzato di ottimo ascendente.
Infatti, i trucchi e gli effetti speciali sono a cura del grande Sergio Stivaletti.
E abbiamo detto tutto, sinceramente.
Anzi no. Misischia sbertuccia, platealmente, due icone totemiche oramai dei nostri padri, cioè Nanni Moretti e il compianto (da chi?) Guccini.
Sostanzialmente, vuole implicitamente lanciare un messaggio inequivocabile: basta con la falsa cultura, tristemente sinistroide, dei boomer.
Personalmente, dei tristoni come Moretti e di Guccini, io non so che farmene, forse anche Misischia si è rotto le scatole. Ha ragione da vendere.
E ricordate: mai risvegliare dal sonno o dal letargo, una creatura “mostruosa”.
Sì, prima di augurarvi buonanotte, vi racconto un aneddoto riguardante il sottoscritto.
Il mio ex parroco, Don Giuliano, a sedici anni, durante la benedizione pasquale, entrò in casa mia e, per curarmi dalla “schizofrenia” di sua sorella e delle sue suore, mi consigliò di regredire e darmi a Topolino.
Qualche anno fa, Don Giuliano morì. Sono l’unico al mondo che, osservandolo dritto negli occhi, all’epoca, seppe che, dopo le prediche e le sue messe, la sera tardi andava con le topone.
Lo so, uno così mette i brividi. Ed è per questo che mi dicevano di soffrire di “danni neuronali”. La suggestione catechistica è un modo orrendo che hanno gli “adulti” di fermare ciò che non è umano.
Sì, non sono normale, ringrazio dio. I coglioni credono in Gesù.
Ah ah.
Di contraltare, se nella mia vita da peccatore, sbagliai, vi chiedo scusa e vi supplico di mettermi nuovamente in croce.
Ah ah. Volete bruciarmi come le streghe che vi siete sposati?
Ah ah.
di Stefano Falotico
THE LAST DUEL & HOUSE OF GUCCI, una doppietta immediata: panoramica su Ridley Scott
Ebbene, siamo ancora piacevolissimamente storditi e immensamente estasiati nel rimembrare, con forte ammirazione, l’ultima e recentissima opera di Ridley Scott, cioè l’epico e mastodontico The Last Duel, da noi opportunamente recensito e, giustamente, incensato di sacrosante lodi.
A breve, inoltre, lo stacanovista Ridley Scott non solo compirà la veneranda e, aggiungiamo noi, venerabile età di ottantaquattro primavere, bensì uscirà prestissimo nei cinema mondiali, per Natale, esattamente, con un altro film da lui firmato e parimenti molto atteso, vale a dire House of Gucci con Lady Gaga e mr. Jacques LeGris/Adam Driver del succitato, straordinario The Last Duel. E un cast altisonante da far impallidire chiunque. In quanto, può annoverare, oltre alle presenze appena dettevi della Gaga e di Driver, nomi come quello del mitico Al Pacino, del grande Jeremy Irons e, fra gli altri, di Salma Hayek e Jared Leto.
Qual occasione migliore dunque per celebrare e brevemente illustrarvi, a grandi linee, la carriera pazzesca, per l’appunto dell’immarcescibile e sempre brillante Ridley Scott l’infermabile?
Nato a South Shields, contea rinomata della florida Inghilterra, nel giorno del 30 Novembre dell’anno 1937, fratello del compianto Tony Scott, regista di The Fan, ahinoi suicidatosi nel 2017, dopo il diploma, Ridley lavorerà come scenografo, approdando presto alla direzione di telefilm per la BBC. Dopo alcuni spot, ecco che nel 1977, dunque all’età di quarant’anni, riuscirà a dirigere il suo primo film ed è subito capolavoro, I duellanti.
Un esordio fantasmagorico e magnifico a cui seguiranno altri due lungometraggi, possibilmente, ancora più belli, importanti e leggendari, Alien (1979) e l’irraggiungibile Blade Runner (1982).
Una tripletta impressionante, interrotta purtroppo da quello che viene considerato un suo grosso passo falso, forse però a torto, Legend. Film, quest’ultimo, del 1985, interpretato da un giovanissimo, quasi irriconoscibile Tom Cruise, da Tim Curry e dalla bellissima Mia Sara (l’avvenente e sexy Melissa del sottovalutato Timecop – Indagine dal futuro).
A cui seguirà un altro flop abbastanza clamoroso, Chi protegge il testimone. Con protagonista, neanche a farlo apposta, la storica ex di nientepopodimeno che Tom Cruise, la milf Mimi Rogers.
Cosicché, a metà anni ottanta, la carriera di Ridley Scott, partita alla grandissima, subì un’improvvisa marcio d’arresto, perlomeno apparentemente.
Sono pochissimi i registi che, nella storia della settima arte, possono vantarsi degli esordi cineastici di tale livello e, quindi, soltanto dopo un paio di pellicole che lasciarono perplessi, la stella luminosa di Ridley parve inaspettatamente appannarsi.
Poco male, però, poiché Ridley avrebbe saputo riprendersi alla grande, sfoderando tutta la sua classe con lo splendido Black Rain con Michael Douglas & Andy Garcia. Seguito istantaneamente da un altro bel successo commerciale di Critica e pubblico, Thelma & Louise con Susan Sarandon, Geena Davis e un praticamente esordiente Brad Pitt.
Detto ciò, ecco che Ridley Scott, di nuovo, sbaglia i film successivi, almeno parzialmente. In quanto l’ambizioso 1492 – La conquista del paradiso, Soldato Jane e soprattutto L’Albatross – Oltre la tempesta saranno mal accolti ai tempi della loro release in sala.
Poco male, per l’ennesima volta. Difatti, alla faccia dei suoi ostinati detrattori ingrati, Ridley Scott, sul finire dei nineties, azzecca un film sbanca-botteghino iper-oscarizzato, Il gladiatore. Altresì resuscitando a sorpresa un genere passato di moda alquanto, cioè il peplum.
Sostanzialmente, da allora in poi, a eccezion fatta di qualche scivolone, definiamolo pure film incompreso oppure onestamente sbagliato, come per esempio Un’ottima annata, Ridley Scott non sbaglia quasi nulla. Regalandoci perle quali Black Hawk Down, lo stupefacente e geniale, è il caso di dirlo, Il genio della truffa, American Gangster e The Martian. Perciò, gli perdoniamo tranquillamente suoi film indubbiamente poco efficaci come Nessuna verità. Se a questo, per di più, aggiungiamo che Ridley Scott è finanche un produttore instancabile dei più prolifici, ci paiono maggiormente irriguardose, anzi, veramente esecrande le critiche che alcuni, a tutt’oggi, ottusi e ignoranti più delle più stolte capre, continuano scriteriatamente a muovergli contro. Per finire, Ridley Scott, immantinente girerà un altro colossal dal budget faraonico, Kitbag. Biopic su Napoleone con Joaquin Phoenix e la protagonista di The Last Duel, Jodie Comer. Avete ancora dei dubbi in merito alla sua grandezza non solamente registica? Qualcosa da dire…? Ci pare giunta l’ora che i suoi stupidi haters, per l’appunto come si suol dire, prestamente s’ammutoliscano. Sì, per piacere, stiano subito zitti.
Altrimenti, chiameremo Il gladiatore 2… attualmente in fase di preparazione, eh eh.
di Stefano Falotico
PIG, recensione
Ebbene, oggi recensiamo il sorprendente e struggente Pig, film della durata di un’ora e trentadue minuti decisamente trascinanti che ci hanno fortemente emozionato, intenerito, ripetiamo, vivamente commosso e oltremodo stupito, in quanto Pig, opera prima del finora quasi sconosciuto Michael Sarnoski, è difatti firmato da un regista apparentemente proveniente dal nulla, sebbene avesse diretto alcuni interessanti cortometraggi ed episodi della serie tv Olympia. Che con tale sua opus ed esordio alla regia (ovviamente, intendiamo per un lungometraggio cinematografico), in modo clamoroso, ha lasciato positivamente senza parola la Critica mondiale. La quale, infatti, ha incensato Pig di commenti entusiastici, sperticandolo di lodi senza pari.
Addirittura, non pochi opinionisti, statunitensi e non, hanno gridato al capolavoro. Ecco, forse la parola capolavoro ci pare, sinceramente, un po’ esagerata, va detto altresì certamente che Pig è un film molto bello e, ribadiamo, altamente emozionante. Ed è interpretato, da protagonista assoluto, onnipresente dalla prima all’ultimissima scena, da un Nicolas Cage che, nuovamente, dopo tante prove cosiddette alimentari in film oggettivamente inguardabili e/o addirittura impresentabili, azzecca un’altra prova attoriale veramente gigantesca e notevole.
Andando, così facendo, ad alimentare puntualmente la sua fama oramai d’attore qualitativamente inclassificabile. Poiché alterna, con facilità incredibile, performance eccellenti, anzi eccezionali e memorabili, ad altre oltremodo scadenti, anzi eufemisticamente imbarazzanti. Sì, imbarazzanti è un eufemismo se accostiamo tale aggettivo alla sua penosa, fiacca recitazione in robaccia mostruosa come, per esempio, Jiu Jitsu o 2030 – Fuga per il futuro, film, quest’ultimo, forse visto da tre persone sul Pianeta Terra, eh eh.
Insomma, che razza di attore è, in ogni senso, il grande Nic Cage? Per l’appunto, un oggetto non ben identificato e più indecifrabile d’una allucinante, aliena navicella spaziale.
Ma la pazzia interpretativa di Cage ci garba un sacco e ne andiamo, a nostra volta, matti.
Tornando a Pig, scritto dallo stesso Sarnoski assieme alla sceneggiatrice Vanessa Block, eccone stringatamente la trama: Rob (Cage) è un barbuto eremita cacciatore di tartufi che vive, in una capanna fatiscente, solitariamente nell’Oregon più selvaggio e boschivo. Standosene, solo soletto, nella sua decrepita e scricchiolante abitazione ai piedi di secolari querce forestali. All’improvviso, torna nella sua natia Portland, mettendosi alla ricerca del suo amatissimo maiale scomparso, anzi, più precisamente rapito.
Straordinaria fotografia magistrale di forte impatto e di suggestiva atmosfera a cura di Patrick Scola (accreditato soltanto come Pat) e incantevoli musiche firmate da Alexis Grapsas & Philip Klein.
Pig ha una trama all’apparenza risibile e molto scarna a livello di risvolti narrativi praticamente inesistenti. Eppur travolge dall’inizio alla fine in modo meravigliosamente toccante.
In quanto, sorretto da un magnetico Cage datosi anima e corpo al personaggio da lui qui egregiamente incarnato, diretto da un Sarnoski ispirato e illuminato, com’appena sopra dettovi, da toni fotografici ipnotici, basa molto del suo fascino sull’impianto visivo, oniricamente trascendente.
Come se Pig fosse, più che un film vero e proprio, una strepitosa ode melanconica visualizzata in immagini risuonanti, nei nostri cuori, di vivido e corposo, grandioso impatto emotivo dei più soavemente inconsci. Un’opera delicata, stupenda con un Cage che, per l’ennesima volta, spiazza chiunque, smentendo soprattutto i suoi ostinati detrattori. I quali, volenti o nolenti, dinanzi a questa sua prova, non potranno oramai più negare l’evidenza. Cioè semplicemente questa: Nicolas Cage è una leggenda vivente.
Così è, non si discute. Il resto sono futili, stolte chiacchiere da bar e sciocchezze dette ingenerosamente da gente che di Cinema non capisce niente.
Pig non è per tutti, anzi, è per pochissimi. Echeggiante atmosferiche suggestioni à la Terrence Malick, malickiane se preferite, in alcuni tratti assomiglia a un’altra pellicola con Nicolas Cage stesso, ovvero Joe. Quindi, incede in lunghe zoomate e panoramiche assai lente che ai più potranno apparire soporifere e indigeste.
Ma va ammesso incontrovertibilmente che, malgrado la prima mezz’ora abbastanza ostica per via, appunto, del suo ritmo fin troppo blando, verso gli ultimi quarantacinque minuti prende il volo sensibilmente e s’impenna ancor più liricamente, toccando alte vette di poesia di gran quota.
Spiazzandoci con una serie di twist inaspettati.
Se non sopportate un Cage con la recitazione in sordina ma amate il Nic scatenato in overacting, ovviamente Pig non fa per voi. Soprattutto, se adorate i film d’azione dinamici e scoppiettanti e non guardate di buon occhio i film dalla trama praticamente ridotta all’osso, basati quasi esclusivamente sulle suggestioni, lasciate perdere.
Nel cast, co-protagonista Alex Wolff e Adam Arkin (A Serious Man), quest’ultimo nei panni del padre del personaggio di Wolff.
di Stefano Falotico
THE LAST DUEL, recensione
Ebbene, oggi recensiamo l’attesissima nuova opus di Ridley Scott, vale a dire The Last Duel.
The Last Duel è un film dalla corposa, incalzante e avvincente durata considerevole di due ore e trentadue minuti netti che scorrono assai piacevolmente ove Ridley Scott, regista ovviamente da noi molto amato e che non necessita d’ulteriori presentazioni superflue, avendo infatti lui firmato, durante la sua brillantissima carriera mirabile, a prescindere dal suo stesso excursus cineastico qualitativamente altalenante e non poche volte difettoso e zoppicante, opere dal valore ineguagliabile e altamente addirittura seminali, cinematograficamente parlando, quali I duellanti, Alien e Blade Runner. Oltre a, ça va sans dire, inutile e quasi pleonastico rimarcarlo, un profluvio infinito e densissimo di opere più o meno riuscite ma, comunque sia, assai importanti e senza dubbio perfino epocali come Il gladiatore, Black Rain, Black Hawk Down, solo per citarne alcune. Ridley Scott l’infermabile, stacanovista nato, immarcescibile director inarrestabile e creativamente ipertrofico a livelli spaziali. Il quale, alla veneranda e ottimamente stagionata età di 83 primavere (ottantaquattro, il prossimo e imminente 30 Novembre), egregiamente indossate con stile e inoppugnabile eleganza non soltanto registica, continua imperterritamente a sfornare film a tutt’andare e senza soluzione di continuità. Ciò ha dell’impressionante. Difatti, prestissimo, quasi in contemporanea con The Last Duel, uscirà nei cinema mondiali anche il suo affascinante, sebbene a prima vista forse troppo commerciale e marchettaro, biopic House of Gucci con Lady Gaga.
The Last Duel, presentato in pompa magna e buona accoglienza dalla Critica (sul sito aggregatore recensorio metacritic.com ha ottenuto la lusinghiera, sebbene forse non eccelsa, media valutativa equivalente al 65% di giudizi positivi), nella sezione Fuori Concorso alla recentissima 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un colossal (un tempo, soprattutto e più precisamente nei nineties, l’avremmo definito un dispendioso blockbuster) dal budget faraonico, ambientato nel Medioevo.
La cui potente trama, nelle seguenti righe, sintetizzata in maniera molto stringata per non sciuparvi le molte inaudite sorprese del suo sapido intreccio diegeticamente distillateci attraverso un ritmo di robusto piglio narrativo appassionante, v’enunceremo in forma saliente: nella rutilante e oscurantistica Francia del XIV secolo, una misteriosa, conturbante e fascinosa donna chiamata Marguerite de Thibouville (la brava e bellissima, fotogenica Jodie Comer), denuncia pubblicamente di essere stata violentata dal miglior amico di suo marito. Suo marito è lo sfregiato in viso Jean de Carrouges (Matt Damon) mentre l’amico, imputato dalla donna dello stupro avvenuto a suo danno, è lo scudiero Jacques Le Gris (un mellifluo, ambiguo e qui molto convincente Adam Driver). La donna, per tale sua accusa infamante, potrebbe essere bruciata sul rogo. Al che, in questa torbida storia di vendetta, ricerca della giustizia e disfide all’ultimo sangue, specialmente per combattere i demoni metaforici d’anime perennemente combattute e combattive, entra in ballo anche l’arcigno conte Pierre d’Alençon (un Ben Affleck inedito e platinato).
Film grintoso, violentissimo, sanguigno e sanguinario, passionale oltre ogni dire e dall’afflato epico d’altri tempi, fotografato vertiginosamente da un ispirato Dariusz Wolski (oramai il cinematographer designato, potremmo dire, vita natural durante, da Ridley Scott, perlomeno da Prometheus in poi, dopo aver lavorato, fra gli altri e fra l’altro, dapprima col compianto fratello di Ridley, Tony, per Allarme rosso e The Fan), The Last Duel, oltre che essere interpretato da Matt Damon e Ben Affleck, è stato da loro stessi sceneggiato assieme a Nicole Holofcener, che hanno per l’occasione adattato The Last Duel: A True Story of Trial by Combat in Medieval France, da noi edito col titolo L’ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale, firmato da Eric Jager.
Dunque, a differenza dell’Oscar, ottenuto da Affleck & Damon per la loro sceneggiatura originale di Will Hunting – Genio ribelle, stavolta i nostri colleghi amiconi inseparabili dai tempi del liceo, hanno, sì, scritto sempre di loro pugno lo script di The Last Duel ma, in tal caso preciso, si sono “limitati” a romanzare una storia già scritta. Liberamente, come si suol dire, adattandola a loro gusto.
The Last Duel, così come avvenuto per altri film storici di Scott, vedasi Il gladiatore, anche gli anacronismi e le molte licenze più o meno opinabili, persino ridicole, di Tutti i soldi del mondo, è stato già accusato da più fronti e fonti, diciamo, di essere, sì, alquanto verosimigliante nella ricostruzione della vicenda letteraria narrataci da Jager, però al contempo inattendibile, per l’appunto, sul versante della realistica veridicità di molti elementi storicamente ritenuti improponibili.
Malgrado la sua lunghezza un po’ spropositata e qualche scena dispersiva, girata probabilmente con troppa enfatica retorica secondo gli stilemi consueti, soventemente eccessivi ed estetizzanti di Scott, a dispetto di alcuni dialoghi tirati per le lunghe e non sempre centranti il bersaglio, The Last Duel ammalia e possiede un fascino e un respiro notevoli.
Se, a prescindere da tutto, ripudiate però a priori un Ben Affleck nei panni d’un nobile imbarazzante, esteticamente, con la chioma bionda, eppur, ammettiamolo, anche qui bravo e capace da un punto di vista invece prettamente attoriale e interpretativo, soprattutto assai perfetto per il ruolo da lui stesso cucitosi addosso genialmente, se odiate i film in costume con castelli, imbroglioni, doppi giochi, complotti, tradimenti e annessi, inevitabili inganni, se mal digerite le vicende incentrate su fate damigelle bellissime donne spacciate per bugiarde, ripiene di estenuanti lotte all’ultimo sangue a fiotti, The Last Duel non fa di certo per voi, e statene dunque naturalmente lontani e alla larga.
Curiosità: nel 2006, l’adattamento di The Last Duel, da trasporre registicamente per il grande schermo, suscitò un fortissimo interessamento da parte di Martin Scorsese. Che, allora, sembrò assai prossimo a dirigerlo per la major Paramount.
Poi, tale progetto cadde nel dimenticatoio e Scorsese, come sappiamo, si diede ad altro. The Last Duel, quindi, ora è un film di Ridley Scott, a tutti gli effetti. Anzi, più esattamente un film di Scott con Matt Damon ed Affleck, non solamente protagonisti e, come detto, principali artefici e sceneggiatori. Bensì, insieme allo stesso Scott, in prima linea produttori.
Inoltre, la montatrice di The Last Duel, vale a dire Claire Simpson, che lo è anche del succitato House of Gucci, professionalmente affiliatasi, diciamo, a Scott molti anni addietro per Chi protegge il testimone (1987), poi abbandonata da Scott medesimo e ritrovata, anzi richiamata soltanto da quest’ultimo recentemente per Tutti i soldi del mondo, lavorò anche con suo fratello Tony per il sopra menzionato The Fan – il mito.
The Last Duel incede, da più prospettive, troppo insistentemente sulla scena dello stupro, disgustosa e brutale. Mostrandocela completamente più volte e avremmo preferito non guardarla. Non per moralismo, bensì perché Scott dovrebbe sapere benissimo che è molto più perturbante il suggerito dallo spiattellatoci in faccia ripetutamente e volgarmente.
Detto questo, The Last Duel, dopo una parte centrale tediosa e forse non necessaria, spicca il volo negli ultimi trenta minuti, diventando grandioso nel finale palpitante e struggente. Da pelle d’oca.
Morale: Ridley Scott firma il suo miglior film da tempo immemorabile a questa parte. Forse dura troppo e il film perde molti colpi per via della brutalità della scena, diciamo, incriminata e chiave. Eh eh. Ma questo è un film che emoziona, da leccarsi i baffi, non quelli di Driver, si spera, eh eh.
di Stefano Falotico
IL GIOCO DI GERALD, recensione
Ebbene, oggi recensiamo un film piuttosto recente, cioè Il gioco di Gerald.
Firmato dal regista di Doctor Sleep, ovvero Mike Flanagan.
Il gioco di Gerald (Gerald’s Game) è un film targato Netflix. Distribuito, da tale appena dettavi piattaforma, nell’anno 2017. Ed è il libero adattamento, vale a dire la trasposizione cinematografica, con alcune licenze e inevitabili modifiche in sede di sceneggiatura, realizzata dallo stesso Flanagan e dal writer Jeff Howard, dell’omonimo e celeberrimo capolavoro letterario di Stephen King. Un thriller psicologico con venature orrifiche di natura puramente ancestrale delle più macabre e inquietanti.
La trama è molto semplice e scarnificata, eh eh, no, scarna:
Gerald Burlingame (Bruce Greenwood, Rambo, Indian – La grande sfida, Thirteen Days e lo stesso su citato e successivo Doctor Sleep) e l’avvenente, seducente moglie, Jessie (Carla Gugino, Sfida senza regole, Omicidio in diretta, Watchmen) sono, per l’appunto, una coppia di coniugi già in crisi matrimoniale. Gerald e Jessie decidono di trascorrere un weekend diverso dal solito. Il loro diversivo, se così possiamo definirlo, sarà recarsi nella loro casa vicina a un lago per godersi spensieratamente e “ludicamente” il fine settimana. Al che Gerald ha la balzana, un po’ perversa idea di sperimentare dei torbidi, irruenti e leggermente sadici e trasgressivi giochi d’adulti con la sua consorte. Ammanettandola al letto per gustare irruentemente con lei, lascivamente e inizialmente giocosa e consenziente, passionalmente e probabilmente in modo troppo arditamente sessuale, una giornata a base di sano divertimento piccante dei più stuzzicanti e morbosi. Osiamo dire, in maniera spinta e osé, al limite della fantasia proibita d’uno stupro inscenato per piacere sensualmente ludico. Dunque, all’improvviso, Gerald subisce un infarto, sì, un letale arresto cardiaco fulmineo e fulminante. Accasciandosi sul colpo e stramazzando al suolo, inerme.
Jessie, all’inizio, crede che lui stia scherzando. Poi, dopo pochi istanti, s’accorge invece che suo marito è morto sul serio. Poiché avvista immantinente il suo sangue fuoriuscirgli dal cranio.
Jessie si trova dunque legata agli stipiti del letto, mezz’ignuda, infreddolita nel calare impietoso della notte più spettrale delle sue solitarie angosce destinate, purtroppo per lei, a materializzarsi in un incubo a occhi aperti da cui pare non esservi via di scampo e da cui sembra non possa uscirne incolume mentre perfino un cane lupo solitario e affamato di carne fresca, spaventevolmente, le fa inaspettata visita.
Jessie, in preda al terrore e all’incalzante panico, non riesce più a distinguere la realtà oggettiva e umanamente sensoriale dall’immaginazione più allucinatoria, crollando lentamente eppur in modo crescentemente allarmante dentro la tetra, soffocante e ansiosa spirale d’una spasmodica angustia emotiva e doglianza percettiva via via più devastante.
Il gioco di Gerald, parimenti al romanzo di King, di cui tutto sommato è una fedele elaborazione efficace che smentisce quindi coloro che non pensavano fosse possibile trasferire visivamente l’opus suddetta di King, in quanto quest’ultima era allestita quasi esclusivamente sulle dinamiche, potremmo dire metaforicamente, atmosferiche dell’animo umano perturbato da infernali frangenti imponderabili e, in forma raccapricciante, in tal caso, dell’impaurita e incolpevole, povera Jessie, le cui emozioni, nel corso della sua tremenda avventura scioccante, cangiavano in modo precipitevolmente preoccupante, è un film più che meritevole della nostra attenzione e sostanzialmente più che decoroso, perciò abbastanza encomiabile.
Innanzitutto, com’appena scrittovi, non era facile rendere in immagini un libro che, a eccezion fatta del suo incipit, è pressoché privo di dialoghi, inoltre Flanagan (Il terrore del silenzio) dimostra di saper maneggiare con ottimo ritmo la narrazione onirica e al contempo sfuggente d’un materiale così, ripetiamo, a prima vista intraducibile e difficilissimamente intelligibile in chiave filmica.
Giostrandosi fra intelligenti trovate registiche di valente efficacia, perfino suggestivamente rilevanti. Infatti, Flanagan ricevette addirittura il plauso di nientepopodimeno che lo stesso Stephen King in carne e ossa, eh eh, il quale infatti spese molte parole d’elogio per tale da lui ammirato Il gioco di Gerald, in quanto lo definì perfettamente riuscito e ipnotico.
Molto del merito, comunque, della sua effettiva riuscita va alla performance d’una Carla Gugino a sua volta magnetica, bravissima e consuetamente, fisicamente stupenda e sensualissima, oltre che morbidamente, fascinosamente brillante, in senso attoriale parlando.
Il gioco di Gerald non è un grande film ma è un film figlio d’un regista ben conscio di non essere Stanley Kubrick (l’allusione comparativa, ovviamente, non è casuale). Il quale, ribadiamo, non ambendo per l’appunto a pretenziosità autoriali da incorniciare nei cinematografici annali della settima arte più memorabile, si limita distintamente a confezionare un buon prodotto d’entertainment con alcuni picchi immaginifici per niente malvagi…
Un buon film checché ne dicano molti incompetenti. Il film talvolta spaventa e rabbrividiamo dinanzi non tanto al lupo cattivo, bensì dirimpetto alla solita procace e arrapante Carla Gugino, una donna talmente bona da stimolare appetiti succulenti veramente piccanti. Eh eh. Non amo i lupi, sono una volpe. Ricordate: la volpe ottiene l’uva.
di Stefano Falotico
L’età dell’innocenza (The Age of Innocence), recensione
Uno dei film più emozionanti di sempre, uno dei finali più tristi e al contempo più romantici di sempre. Un capolavoro senza tempo. Scorsese, un genio immenso, Daniel Day-Lewis, impareggiabile, Michelle Pfeiffer oltre il concetto umano di bellezza paradisiaca. Siamo di fronte a un film gigantesco. Titanico!
Ebbene, oggi recensiamo uno dei grandi capolavori di Martin Scorsese, ahinoi, ancora oggi da più parti sottovalutato, ovvero il magnifico, romanticissimo, struggente e perfino avvincente L’età dell’innocenza (The Age of Innocence).
L’età dell’innocenza è un melodramma dalla beltà insuperabile della consistente, giammai annoiante durata, in crescendo emotivo incalzante e per l’appunto toccante, di due ore e venti minuti circa, uscito nelle sale nei primi anni novanta, con più esattezza nel ‘93. Aggiudicandosi giustamente molte nominations alle ambite statuette, cosiddette Oscar, ma vincendo soltanto un Academy Award, cioè Migliori Costumi (Gabriella Pescucci).
L’età dell’innocenza, film all’epoca, ribadiamo, al di là delle candidature agli Oscar, peraltro andate, come detto, praticamente tutte a vuoto, perdonateci il voluto e divertito gioco sapido di parole similari eppur pregne di sottili significanti intrinsechi, è una pellicola inoltre d’epoca accuratissima in ogni pregiatissimo suo superlativo dettaglio mirabile, cioè è insindacabilmente magistrale nella forma e nei colori mirabolanti, a partire dai soavi, turgidi, cangianti e iper-cromatici titoli di testa di Elaine & Saul Bass, impeccabile per l’appunto nell’uso finissimo del decor e altamente pregiato nel suo intarsio molto più che decoroso, in quanto è un capolavoro grandioso inestimabile. Fra l’altro, emozionalmente intriso di pathos strappalacrime mai ricattatorio e furbescamente sdolcinato, bensì passionalmente viscerale in modo apoteotico e trascinante.
Scritto da Jay Cocks (Strange Days), abituale collaboratore per Scorsese, suoi infatti gli script di Silence e Gangs of New York, che per l’occasione traspose in sceneggiatura-adattamento l’omonimo, celebre romanzo di Edith Wharton, con la supervisione e collaborazione di Scorsese stesso, da quest’ultimo addirittura sofisticamente reinventato attraverso volutamente anacronistiche licenze poetiche originali e visivamente prodigiose, L’età dell’innocenza, sotto la scorza e la fatua, perfino implicitamente capziosa, in senso buono del termine, parvenza di pellicola in costume ambientata nella New York ottocentesca a prima vista demodé in senso metaforico, cioè di primo acchito lontana dal nostro stile di vita sol illusoriamente, modernamente contemporaneo e dunque falsamente emancipato, così come perfettamente osservato dal critico Paolo Mereghetti nel suo famoso Dizionario dei film, il quale gli assegna la votazione massima, cioè quattro stellette, di cui vi estrapoleremo la sua disamina nelle righe seguenti, altri non è che l’ennesima, superba riflessione scorsesiana sulla società e i relativi, alterati, anzi adulterati rapporti interpersonali che, a seconda delle convenzioni da essa estemporaneamente adottate e anche subdolamente imposte in base alle usanze del tempo suo contingente, ne scaturiscono perfino in modo violentemente subliminale, psicologicamente parlando.
Prima però della recensione mereghettiana, spenderemo qui noi due parole, sintetiche ma argute ed esaustive, sulla trama. Delineandovela nei suoi tratti più salienti. Sebbene infatti segua un andamento piuttosto lineare, è comunque ramificata e complessa, non tanto nell’intreccio quanto nel suo substrato non soltanto filmico/diegetico: siamo, come poc’anzi accennatovi, nella New York della seconda metà dell’Ottocento. Più precisamente, la vicenda, egregiamente da Scorsese narrataci e da lui espostaci in immagini estasianti da mozzare il fiato, inizia nel 1870. Newland Archer (Daniel Day-Lewis), affascinante uomo di grandi speranze e gentleman avvocato di risma della buona società aristocratica però molto ipocrita e superficiale, è fidanzato e promesso sposo dell’avvenente, civettuola e forse un po’ sempliciotta eppur pura e di buon cuore, May Welland (Winona Ryder). Al che, presto arriva in città la ricca cugina di quest’ultima, la conturbante e misteriosa contessa Ellen Olenska. La quale, dopo un matrimonio fallimentare, è tornata nella Grande Mela per tentare di placare la forte inquietudine angosciante derivatale dalla separazione dal suo ex marito polacco. Che, vergognandosi dello scandalo del divorzio, l’ha seppellita viva nella solitudine più terrificante, rovinandole da infame vile la reputazione e mortificandola tristissimamente. Archer incontra Olenska a teatro, assistendo a un’opera lirica. Fra Archer e Olenska scoccherà immediatamente il classico colpo di fulmine improvviso e fatale.
Ora, ecco la bella opinione del Mereghetti a cui seguiranno le nostre precise considerazioni…
«… La prima opera in costume di Scorsese è solo in apparenza spuria rispetto alla sua filmografia: anche il bel mondo newyorchese del secolo scorso si regge su un’organizzazione tribale spietata come quello dei Goodfellas, anche qui c’è un individuo animato da un impulso libertario che cerca di sottrarsi all’oppressione sociale e, se questa volta non deflagra la violenza metropolitana, esplode però – più sottile e perfida -. Con uno stile più impressionista che viscontiano, il regista scompone la luce ingannevole di un mondo che ha perduto la sua innocenza nell’accumulo di status symbol, e naturalmente dichiara a ogni inquadratura la sua simpatia senza riserve per la contessa Olenska, vittima di un American Dream che sembra non essere mai nemmeno cominciato…».
L’età dell’innocenza non è solamente eccelso tecnicamente, sontuoso nel suo apparato prettamente formale (scenografie di Dante Ferretti, musiche di Elmer Bernstein, fotografia inarrivabile di Michael Ballhaus) ed eccezionalmente interpretato da un terzetto d’attori in forma smagliante, tutti e tre peraltro fotogenicamente impressionanti, soprattutto una Michelle Pfeiffer allo zenit della sua venustà magneticamente accecante, bensì è una spettacolare opus imbattibile e incredibilmente commovente che sa coniugare all’aspetto e al suo scenario, per l’appunto, elegantemente maestosi, una maestria cineastica davvero encomiabile nella sua concezione più assoluta.
Scorsese, qui, incanta e ammalia, ci stordisce a livello figurativo ma, al contempo, filma e firma un inaspettato, forse sorprendente, film intimista e umanista dei più bellamente strazianti.
Regalandoci uno dei finali più devastanti di tutti i tempi. Mastodontico e malinconicamente immane.
Nello strabiliante cast, fra gli altri, Geraldine Chaplin, Jonathan Pryce, Mary Beth Hurt, Robert Sean Leonard, Norman Lloyd, Michael Gough, Miriam Margoyles, Alec McCowen, Stuart Wilson e Richard E. Grant.
L’età dell’innocenza non è sol un capolavoro inoppugnabile e uno dei migliori film di Scorsese di sempre.
Non esageriamo se lo definiamo, rivisto col senno di poi, uno dei film più belli della storia del Cinema?
Sì, lo è. Perlomeno, per chi ha scritto quanto avete letto.
Dialoghi meravigliosi, scritti e recitati divinamente.
Quanto alla follia con madame Olenska, Archer s’abituò a pensarvi come all’ultimo dei suoi esperimenti. Ella rimaneva nei suoi ricordi semplicemente come il più malinconico e intenso d’una schiera di fantasmi.
– Deve essere bella, lo era?
– Bella? Non lo so, era diversa.
di Stefano Falotico
THE GUILTY, recensione
Antoine Fuqua, bravo. Ma il film è di Gyllenhaal al 100% di origine controllata anche se il suo personaggio rischia di andare out of control. Quasi seduta stante. Eh eh.
Ebbene, oggi recensiamo un film nuovo e freschissimo di zecca, cioè appena distribuito mondialmente sulla piattaforma di streaming Netflix, ovvero The Guilty. Film “remake” dell’omonima pellicola danese, perlomeno nella nostra traduzione, con annesso Il colpevole, (in originale Den skyldige), per la regia di Gustav Möller, in tal caso diretto dal valente, anzi polivalente Antoine Fuqua. Regista, per l’appunto, versatile e capace di cimentarsi, con risultati lusinghieri, perlomeno nient’affatto disprezzabili, in molteplici generi cinematografici, autore di film di estremo interesse e rilievo meritevole quali Training Day, il non poco sottovalutato Brooklyn’s Finest con Ethan Hawke e un meraviglioso Richard Gere e, fra gli altri, il dittico The Equalizer con Denzel Washington, uno dei suoi attori feticcio per antonomasia (vedasi, a tal proposito, anche un altro rifacimento, cioè I magnifici 7.
Assieme a Denzel Washington ed Ethan Hawke, un altro degli attori preferiti da Fuqua è ovviamente Jake Gyllenhaal, per l’appunto, protagonista di tale The Guilty, dramma poliziesco molto sui generis della breve ma adrenalinica, furente durata di un’ora e quaranta minuti circa, scritto da Nic Pizzolatto (True Detective).
Gyllenhaal, in forma recitativa davvero strepitosa, d’altronde come quasi sempre, torna dunque a lavorare con Fuqua dopo Southpaw – L’ultima sfida.
Semplicemente copia-incollandovi la secchissima, iper-concisa sinossi da IMDb, questa è essenzialmente la trama di The Guilty: Un agente di polizia (Joe Baylor/Gyllenhaal), retrocesso assegnato a un ufficio di smistamento chiamate, è (per meglio dire, entra) in conflitto quando riceve una telefonata di emergenza da una donna rapita (Emily, di cui non vediamo mai il volto ma la cui voce è dell’attrice Riley Keough).
The Guilty è praticamente un kammerspiel assai particolare che, illuminato dalla potente e al contempo cupa fotografia traslucida di Maz Makhani, sorretto nella palpabile ed emozionante tensione crescente dall’incalzante musica di Marcelo Zarvos (Barriere), montato perfettamente da un precisissimo, inappuntabile e certosino Jason Ballantine (Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, It di Andy Muschietti), per poco meno di due ore, come sopra dettovi, si concentra pressoché esclusivamente sul volto di Gyllenhaal, onnipresente dalla primissima all’ultima, finale e ambigua inquadratura. Recitando da dio solamente con la forza magnetica del suo sguardo e delle sue cangianti espressioni che, parossisticamente, mutano a velocità rapidissima a seconda del frenetico, repentino precipitare emozionale furibondo degli eventi terribilmente spaventevoli a cui “assiste”, diciamo, sol ascoltandoli e a cui tenta disperatamente, comunque sia energicamente, di porre rimedio. Ovviando, con la sua forza di volontà impressionante, alla grave e allarmante situazione incresciosa occorsagli e soprattutto riguardante la donna da soccorrere…
The Guilty è un thriller di alta scuola forse non eccezionale ma girato con maestria impeccabile, compatto, gustosissimo e che scorre tutto d’un fiato in un ascendere maestoso di suspense al cardiopalma veramente da pelle d’oca. Verso la parte centrale, The Guilty perde però qualche colpo e, come si suol dire, gira leggermente a vuoto, aggrovigliandosi su sé stesso. Nell’accavallarsi di voci “sincopate” che udiamo nel rimbombare metaforico dei fatti virulentemente narratici, quelle di Paul Dano, Peter Sarsgaard e, naturalmente, eh eh, di Ethan Hawke.
Joe riuscirà a salvare la donna e suo figlio…? Perché Joe è stato declassato? Lo scoprirete solo alla fine.
Riuscirà, insomma, a redimersi? Basta, nella vita, la catarsi per perdonarsi da madornali colpe scurissime che t’avvinghiano nell’inferno d’un luttuoso complesso di colpa inestirpabile?
Il film s’apre con una citazione speranzosa di Giovanni 8:32, E la verità vi farà liberi (And the truth shall make you free), concludendosi con un’altra frase lapidaria ma salvifica e ottimistica, cioè Chi soffre salva chi soffre.
di Stefano Falotico