MADRES PARALELAS, recensione
Ebbene, dopo un’interminabile attesa e malgrado alcuni forti disagi ravvisati a livello organizzativo, è iniziata finalmente la 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che ha inaugurato con la nuova opus del celebrato settantunenne Pedro Almodóvar, ovvero Madres paralelas.
Madres paralelas del grande Pedro, regista che, di certo, oramai non ha più bisogno di presentazioni, in prossimità del suo vicinissimo compleanno che cadrà in data 25 Settembre del mese per l’appunto corrente, indiscusso e sacrosanto premio Oscar alla miglior sceneggiatura originale per Parla con lei e autore di straordinarie opere altresì altamente controverse ma al contempo perennemente contrassegnate dalla sua poetica inconfondibile e dalla sua distinta cifra stilistica che, forse soltanto alla pari di Woody Allen, ne fanno uno dei pochissimi cineasti al mondo i cui film sono perfettamente riconoscibili anche solo dopo pochissimi fotogrammi. Parimenti ad Allen, Pedro dirige e scrive i suoi film pressoché basandosi esclusivamente su materiale estremamente originale, nel suo caso più che peculiare. Pedro Almodóvar, peraltro recentissimamente onorato, cioè soltanto due anni fa, esattamente alla kermesse del Lido, col Leone d’oro alla carriera.
Con Madres paralelas, ovviamente, non smentisce la sua fama di cineasta fedelissimo alla propria lucidissima visione cinematografica inconfutabilmente personale.
Madres paralelas, in Concorso a tale settantottesima edizione del Festival di Venezia, ha dunque aperto le danze dell’appena succitata manifestazione. Colpendo forte allo stomaco, così come sovente accade con ogni pellicola di Almodóvar, con una strana, contorta, fascinosamente perversa, tipica sua vicenda torbidamente generata dal suo più o meno altalenante talento registico che, fra colpi di scena sorprendenti intervallati ad altri forse leggermente telefonati, eppur sempre efficaci, fra l’esplodere grottesco e improvviso dell’inevitabile dark humor emblematico del suo Cinema a fortissime tinte melodrammatiche a loro volta intarsiate e centrifugate in un vortice di vigorose emozioni veracemente incredibili, a prescindere dai gusti, come di consueto c’ha ipnotizzato e incollato allo schermo per due ore nette di pura follia, perfino sfiziosamente malsana, intrisa di parentesi esilaranti, mixata a struggente eleganza di rara delicatezza visiva e, per l’appunto, emotivamente toccante e spiazzante.
Madres paralelas, se volessimo sintetizzarlo brevemente per quanto concerne la trama (compito sempre comunque arduo nel caso di Pedro Almodóvar poiché, inutile rimarcarlo, ogni suo film contiene, al suo interno, una miriade di micro-storie incastrate a mo’ di matriosche e arzigogolate sotto-tracce a prima vista imprevedibili), narra della rocambolesca, amabile e allo stesso tempo assai dolorosa e forse rivelatrice avventura esistenziale di due donne di Madrid, cioè la fotografa Janis (Penélope Cruz) e della minorenne Ana (Milena Smit). Entrambe rimaste incinte e, per curiosa fatalità del destino loro strambo, all’unisono partorenti, nella stanza d’ospedale, due splendide neonate. Terminato il parto, le strade delle due donne, distanti per età anagrafiche e per background sociale, paiono naturalmente allontanarsi, dato che, al di là dell’estemporanea contingenza per cui condivisero la stessa esperienza del vivere la gioia della maternità nel suo attimo più prodigioso, erano e sono perfette estranee sotto ogni punto di vista. Forse, durante il loro scioccante e perturbante percorso di vita, i loro destini però nuovamente s’incroceranno in modo all’inizio disturbante e poi, via via, sempre più avvicinante i loro senzienti, sussultanti cuori in modo appassionante. Non finisce qui, in questo melò straordinario, un ruolo più che determinante l’avrà Arturo (Israel Elejalde), esperto di scavi archeologici, mentre l’insospettabile, eterna aspirante attrice di Teatro di nome Teresa (l’indimenticabile e qui rediviva Aitana Sánchez-Gijón, Il profumo del mosto selvatico, ancora incantevole e bellissima), forse, nasconde non pochi scheletri nell’armadio. Infine, chi è davvero Ana?
In verità, nessuno di noi è quello che sembra in quanto Pedro Almodóvar, firmando e regalandoci un altro capolavoro di tatto e sensibilità magnifica, pieno di risvolti mirabolanti, cambiando improvvisamente e totalmente rotta negli ultimi dieci minuti di Madres paralelas, nuovamente c’insegna che quello che conta nella vita è la vita stessa.
Il resto è solo morte, la morte vera su cui non bisogna scherzare. Ma la vita stessa, per l’appunto, è pazza di suo, inutile pianificarla, è difatti ricolma di contrattempi, di sorprese dolceamare e non, d’eventi incalcolabili che, addirittura, di primo acchito potrebbero sembrarci tragici, invece possono essere se non salvifici, perlomeno d’amare e d’accogliere, lasciandosi andare piacevolmente senza rimuginarvi e riflettervi con amarezza stagnante, episodi di vita su cui sdrammatizzare, ridere o interminabilmente piangere dirottamente.
Nel bene e nel male, questa è infatti la vita nella sua esemplare nitidezza ineludibile e Madres paralelas è forse l’essenza limpida del grande Cinema che non ha bisogno di riprese troppo sofisticate, di effetti speciali spettacolari, per illuminare di poesia la nostra stessa esistenza. Ché essa stessa è Cinema.
Cos’è, in fondo il Cinema, se non l’incarnazione di ciò che per Pedro Almodóvar è a sua volta la vita?
Cioè un viaggio squinternato e perturbante nell’animo umano, quello vero, detonante di slanci euforici immensi e poi l’itinerario di un terribile salto nei quotidiani dolori strappalacrime più magniloquenti.
Un viaggio anche nella memoria di traumi giammai risolti e della Storia, non soltanto personale, di ognuno di noi. Poiché Madres paralelas diviene, in crescendo, un commovente omaggio a tutte le vittime innocenti del regime franchista, accecandoci di stupore e sterminato dolore infinito in una meravigliosa scena che c’ha ricordato, immantinente, Schindler’s List.
Dunque, se Madres paralelas riesce a essere un drama–comedy angosciante e scoppiettante, un labirintico trip psico-emozionale dei più superlativamente potenti e al contempo un urlo di rabbia spaventosamente bello sull’uomo, sulle sue piccole o grandi tragedie e sulla stranezza imponderabile della vita, inutile dire che la parola capolavoro perfettamente gli si addice.
Penélope Cruz è già da Coppa Volpi. Sicuramente, non stiamo esagerando, possiamo inoltre già tranquillamente considerarla appartenente alla futura cinquina delle attrici che, ai prossimi Oscar, si contenderanno la statuetta.
di Stefano Falotico
IL MISTERO DI SLEEPY HOLLOW, recensione
Ebbene, oggi recensiamo lo stupendo e, purtroppo, a tutt’oggi leggermente sottovalutato, sebbene premettiamo subito che non lo consideriamo affatto un capolavoro, Il mistero di Sleepy Hollow, firmato da quel geniaccio stratosferico e mirabolante, fantasioso, eccentrico regista che risponde al nome di Tim Burton (Big Fish).
Il quale, quasi allo scoccare della mezzanotte della favola di Cenerentola, no, in prossimità del nuovo millennio, cioè a fine anno 1999, uscì nei cinema mondiali, per l’appunto, col suddetto Il mistero di Sleepy Hollow, un mystery thriller assai sui generis con forti tinte e venature orrifiche e, come sovente accade per le pellicole del cupamente onirico Burton, innestato su una magniloquente visionarietà elegantemente dark di matrice favolistica.
Prodotto da Francis Ford Coppola e dalla sua società di produzione, ovvero l’American Zoetrope, partorito dalla valente penna di Andrew Kevin Walker (Seven, Panic Room di David Fincher, prossimamente di nuovo per lui sceneggiatore di The Killer con Michael Fassbender, 8 mm – Delitto a luci rosse di Joel Schumacher) che, per l’occasione, ha adattato e reinterpretato, in forma estremamente fantasiosa e libera, il celeberrimo racconto La leggenda di Sleepy Hollow ad opera di Washington Irving, Il mistero di Sleepy Hollow, a prescindere comunque dalla sua natura letterariamente derivativa, essendo per l’appunto tratto dall’appena suddetta fiaba nera molto arcinota a livello mondiale, è vivificato dall’originalità registica del nostro Tim Burton sempre unico e personalissimo.
Il mistero di Sleepy Hollow dura un’ora e quarantacinque minuti ed è un riuscitissimo mix fantastico di Cinema per l’appunto peculiarmente fantasy a sua volta shakerato all’interno delle prospettive visivo-diegetiche di una storia avventurosa e marcatamente horror che vi terrà col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto, emozionandovi, spaventandovi terribilmente e perfino continuamente divertendovi non poco. Poiché Il mistero di Sleepy Hollow, al di là del suo impianto tenebrosamente ancestrale, pur essendo immerso in atmosfere spesso tetre e dunque scarsamente solari e luminose, è addirittura permeato da situazioni esilaranti quasi da slapstick comedy, è stracolmo di buffi sketch spassosi ed è quasi interamente costruito su dialoghi effervescenti, a tratti intelligentissimamente demenziali.
Insomma, è un film di Tim Burton a tutti gli effetti e, da ogni suo crisma e stilema, si nota immantinente che è una sua riconoscibilissima opus lontano un miglio.
Estrapolandovi la trama de Il mistero di Sleepy Hollow dal dizionario dei film Morandini, con alcune nostre necessarie aggiunte poiché il compianto Morando, in tal caso, si dimenticò di aggiungere, fra le parentesi, gli attori dei rispettivi personaggi del protagonista della vicenda e del suo antagonista “invisibile”, da lui menzionati.
«1799. Ichabod Crane (Johnny Depp), poliziotto di idee progressiste e di metodi razionalisti, è inviato da New York in un paesino nella valle dello Hudson per indagare su una serie di omicidi le cui vittime vengono decapitate. La voce popolare li attribuisce a un fantomatico cavaliere decollato (Christopher Walken). Giunto sul posto, mentre gli omicidi continuano, Ichabod è costretto a fare i conti con l’amore e il soprannaturale, ridimensionando il suo credo illuminista. Liberamente ispirato al racconto La leggenda di Sleepy Hollow (in Il libro degli schizzi 1819-20) di Washington Irving, sceneggiato da A.K. Walker (Seven), l’8° film di Burton è una storia di fantasmi fondata su “l’esitazione tra vero e falso, tra ciò che si offre alla vista e la sua interpretazione percettiva” (A. Di Luzio), sovraccarica di citazioni (i film Hammer, La maschera del demonio di M. Bava, Coppola, Kubrick nei 3 incubi a flashback), autoconsapevole, ma non autocompiaciuto. Ben strutturato nel far coincidere lo sguardo dello spettatore con quello del protagonista e nel suo romantico recupero del fiabesco ottocentesco, ha punti deboli nel sub–plot sentimentale e nell’enfatica colonna musicale di Danny Elfman».
Che dire, dunque?
Superbamente fotografato dal grandissimo , vincitore di tre Oscar consecutivi, ottenuti rispettivamente per Gravity, Birdman e Revenant, paradossalmente, Il mistero di Sleepy Hollow se, dal punto di vista prettamente figurativo, è cristallinamente ineccepibile, per quanto concerne invece l’andamento narrativo, difetta abbastanza. Il film, infatti, ha parecchi punti di cedimento nel ritmo e, verso la metà, può indubbiamente risultare soporifero.
Sebbene dunque l’avvolgente e plumbea fotografia crepuscolare di Lubezki doni a tale pellicola di Burton delle tonalità ammantate perfino di fascinosa morbosità paurosa, permetteteci la seguente licenza poetica, Il mistero di Sleepy Hollow si rivela, nella sua totale compiutezza, un’opera meno magica di altre di Burton, parendo difatti poco spontanea ed eccessivamente studiata e artefatta.
Malgrado ciò, rimane una perla inestimabile in quanto i notevolissimi pregi sopperiscono alle sue perdonabili lacune.
Cast strepitoso ove, oltre ai succitati Depp e Walken, risaltano le presenze dell’ex conturbante Lolita di nome Christina Ricci, Casper Van Dien, Jeffrey Jones, Michael Gambon, Miranda Richardson, la magnifica Lisa Marie (ex di Burton, Mars Attacks! docet), il folgorante cammeo nell’incipit d’un subito decapitato Martin Landau (non accreditato e indimenticato Bela Lugosi di Ed Wood), Christopher Lee.
Inoltre, in questo film, l’ex habitué di Burton e suo attore feticcio per antonomasia, naturalmente Johnny Depp, è quanto mai in parte e il suo carnato pallidissimo, al limite d’una dionisiaca bellezza spettrale e diafana quasi mortifera, grandiosamente s’intona al clima invece, al contrario, molto scuro della storia da noi vista.
di Stefano Falotico
Il CINEMA di Paolo Sorrentino
Ebbene, qualche giorno fa, tutti noi abbiamo assistito all’attesissimo teaser trailer ufficiale della nuova opus di Paolo Sorrentino, intitolata È stata la mano di Dio.
È stata la mano di Dio è un film pronto a sbarcare, assai prossimamente, in Concorso alla 78.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è, soprattutto, ribadiamolo fermamente ancora, il nuovo lungometraggio di uno dei registi più discussi e al contempo più amati degli ultimi anni, per l’appunto Sorrentino.
Paolo Sorrentino, nato a Napoli (città ove peraltro è ambientato interamente il film appena succitato) nel giorno del 31 maggio del 1970, e rimasto purtroppo orfano a sedici anni.
Scrittore, regista e sceneggiatore ineccepibile il quale ha sempre orgogliosamente dichiarato che, per riprendersi dal comprensibile shock della prematura e luttuosa perdita dei suoi genitori, s’affidò nientepopodimeno che a Diego Armando Maradona:
«A me Maradona ha salvato la vita. Dall’età di due anni, chiedevo a mio padre di poter seguire il Napoli in trasferta anziché passare il weekend in montagna, nella casetta di famiglia a Roccaraso; ma mi rispondeva sempre che ero troppo piccolo. Quella volta finalmente mi aveva dato il permesso di partire: Empoli-Napoli.
Citofonò il portiere. Pensavo mi avvisasse che era arrivato il mio amico a prendermi. Invece mi avvertì che era successo un incidente. Papà e mamma erano morti nel sonno. Per colpa di una stufa. Avvelenati dal monossido di carbonio».
Una tragedia incolmabile salvata dal genio balistico dell’idolo della sua città, il sempiterno e immortale Maradona, per l’appunto, una specie di santo salvatore per ogni partenopeo verace giammai arresosi dinanzi alle dure asperità che la vita ostilmente ti pone inevitabilmente davanti.
Infatti, nel suo discorso di commosso e commovente ringraziamento in occasione della vittoria del suo celebrato e oramai celebre La grande bellezza, Sorrentino spese parole assai sentite nei riguardi del suo salvatore Maradona.
Sì, Paolo Sorrentino è l’unico regista italiano delle ultime decadi, dopo Roberto Benigni per La vita è bella (il quale sarà, neanche a farlo apposta, omaggiato col Leone d’oro alla Carriera proprio all’imminente Festival di Venezia), a essere riuscito ad agguantare la statuetta per il Miglior Film Straniero.
Traguardo rarissimo, raggiunto solamente da pochissimi e storici, grandi nomi del Cinema nostrano più pregiato, quali Federico Fellini, Elio Petri, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Bernardo Bertolucci. Quest’ultimo, a essere più precisi, vincitore di Miglior Regista per L’ultimo imperatore.
L’Oscar, a prescindere dalla sua effettiva e/o contestata validità, è comunque una meta ancora, checché se ne dica, grandemente agognata da ogni cineasta del mondo.
E rappresenta ovviamente un punto d’arrivo imprescindibile.
Giacché, se Sorrentino, prima del suo Oscar vinto era considerato “solo” un regista di talento, autore di opere molto belle e assai stimolanti come L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, Il divo, This Must Be the Place, ecco che con La grande bellezza ascese veramente internazionalmente nell’empireo planetario dei premiati più epocali.
E, dopo l’esperienza lavorativa con una star come Sean Penn (invero avvenuta già prima della Grande Bellezza, tanto a dimostrare che Sorrentino, ben prima di ricevere l’Academy Award, era già un nome tenuto sott’occhio da Hollywood e dintorni), ecco che il nostro Paolo poté permettersi, con Youth, di poter dirigere due mostri sacri del calibro di Harvey Keitel e Michael Caine. Lavorando poi con Jude Law, John Malkovich e un cast di nomi famosi del panorama cinematografico mondiale, per il dittico The Young Pope & The New Pope. Riscontrando e ottenendo, anche in un territorio “televisivo”, eccezionali plausi critici.
Subito dopo È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino, mai con le mani in mano come si suol dire, si sta già apprestando a firmare e filmare Mob Girl con Jennifer Lawrence.
Quindi, a prescindere che Sorrentino vi piaccia o meno, a dispetto di ogni possibile vostra considerazione, aleatoria o no, riguardante la sua Settima Arte, al di là delle critiche piovutegli addosso per Loro col suo immancabile Toni Servillo, tralasciando chi odia il suo Cinema, specialmente dai suoi detrattori reputato sterilmente estetizzante, troppo manieristico e furbetto, non c’è comunque niente da dire e obiettare.
Ogni nuova opera di Paolo Sorrentino è un evento e non vediamo l’ora di vedere (perdonateci il voluto gioco di parole) È stata la mano di Dio.
Sinceramente, augurandoci non solo di vedere e amare questo film, bensì di rivedere Paolo Sorrentino stringere nuovamente la statuetta all’edizione degli Oscar del prossimo anno.
In bocca al lupo, Paolo!
di Stefano Falotico
È stata la mano di dio – The Hand of God, il trailer: Paolo Sorrentino è un genio, un cretino, ha firmato un nuovo capolavoro di Grande Bellezza? I
A me piace Paolo. Mi piace la sua napoletanità, sebbene debba ammettere che a me i partenopei non piacciano particolarmente. Odio infatti ogni forma di cannibalismo, no, di campanilismo melodrammatico e i nazionalismi esasperati di gente italiana tutta che, paradossalmente, non sapendo uscire dai propri mentali confini, nella più triste esterofilia modaiola si trincera, confinata com’è nella propria mentalità retriva, retorica, campagnola e meschina, sbandierando ai quattro venti la great beauty soltanto d’una finta e artefatta grandeur retorica del Cinema a stelle e strisce più inutile.
Sono stanco dei miti imposti e dei cosiddetti mostri sacri intoccabili. Però mi piaceva da matti Maradona come calciatore ma l’odiai a morte quando a Napoli, al vecchio stadio San Paolo, oggi ribattezzato col suo nome, in onore della sua morte e del suo immortale mito calcistico da indimenticabile campione, su uscita a vuoto di Walter Zenga, nella semifinale di Coppa del Mondo d’Italia 90, il suo amico (credo anche di Coca…, forse quella di Vasco Rossi, forse no, io no, io no, io non ti dimenticherò, ah ah) Claudio Caniggia pareggiò i conti dopo il goal storico di Totò. No, non il napoletano principe della risata per antonomasia, ovvero Antonio de Curtis, bensì Schillaci. Erano altri tempi, ragazzi, quando si potevano mangiare anche le fragole… quando, ben prima della vittoria di Roberto Mancini ai recentissimi Europei, Mancini stesso col suo inseparabile amico Gianluca Vialli, il quale era all’epoca l’amante segreto di Alba Parietti, appena invece separatasi da Franco Oppini, forse sì, forse no, esultava per i trionfi della Sampdoria ma pianse dinanzi alla bomba di Ronald Reagan? No, di Ronald Koeman. Mi piace Sorrentino, malgrado non abbia mai finito di vedere interamente Il divo. Oggi forse sono L’uomo in più oppure l’idolo… delle folle. Fui, credetemi, vi giuro, non sto mentendovi, una grande ala destra ma mi spaccai la testa e persi ogni brocca e palla per molto tempo. Che brocco! Che tristo, così come dicono a Bologna. Che bidone! Ah ah. Ma io sono come Best, sì, l’ex calciatore incorreggibile, altresì impareggiabile e testardo più di un mulo. Ho sempre vissuto al motto di o tutto o niente. A proposito di Maradona, Diego Armando giocò anche nel Barcelona. E il Barcelona di Romario, allenato dal grande Johan Cruyff, fu distrutto dal Milan di Capello & Berlusconi. Cruyff era un genio del giuoco del pallone, così come lo fu Marco Van Basten. Mentre Berlusconi, anche trent’anni fa, non sapeva nemmeno pronunciare, in inglese corretto, la parola Google…
Capito, è stato il premier. Loro… lo votaste voi. Voi sapete. Abbiamo visto. Eh eh.
Nella mia vita, non calcolai mai Le conseguenze dell’amore e, da quando ricominciai ad innamorarmi delle donne, dopo molti giochi balistici in solitaria, in cui dribblai perfino me stesso e la mia coscienza che si salvò però sempre in corner, dopo molte balle raccontate alla gente per non ammettere di essere solamente un onanista e un amante non della Parietti e dei suoi sgabelli, bensì di Holly e Benji, divenni un fuoriclasse impari sempre più bello. Sì, in passato non ero classificabile, ah ah. Perennemente mi auto-ubicai fuori da ogni categoria a causa della mia impertinenza immoderata, della mia ingovernabile attitudine ai colpi di testa non però da bomber supercannoniere e da centravanti alto di statura, miei filibustieri… Giocai anche una vita da mediano alla Luciano Ligabue, in tutti i sensi. Sono sempre stato timido e poi spericolato come Johnny Utah/Keanu Reeves di Point Break. Spesso, ancora oggi, gli uomini boomer come Gary Busey di Un mercoledì da leoni, eh già, sparlano di me, pensando che io sia un coglione come pochi.
E dicono: – Mi hanno affiancato, al lavoro, un centromediano di merda.
Tanti anni fa, con una tizia andai a vedere L’amico di famiglia. Lei era convinta, già prima che lo acclamassi, che questo film mi sarebbe piaciuto alla grande, anzi, lei diceva di brutto. Difficile, comunque, essere più brutti di Geremia De Geremei, cari fratelli miei. Ah ah. A lei piacevo ma non capii perché quando, sullo schermo, io vidi Laura Chiatti, lei capì che Laura più di lei mi piaceva e mi diede un calcio sapete bene dove. Soventemente, sono un pagliaccio come Sean Penn di This Must Be the Place.
È meglio non provocarmi. L’altra sera, per esempio, quattro scugnizzi di Imola, sì, non dei quartieri spagnoli, bensì della piadina, no, pianura emiliano-romagnola, mi presero in giro, scambiandomi per uno che, dalla vita, vuole solo la pummarola! E mi urlarono: fallito, non sai manco dare un calcio a una palla! Ma ce l’hai… o no?
Al che, io risposi con educazione signorile e gentilmente domandai loro discretamente: – Posso unirmi a voi e scendere in campo?
Ho purtroppo, la scorsa sera, rovinato la vita di questi ragazzi. Erano cresciuti nel mito di Maradona, Pelé e Messi. Ho sconvolto ogni loro certezza. La realtà è scadente. Tutti i napoletani sono “pazzi”, tutti i napoletano sono dei geni, dei grandi fantasisti. Molti sono, in realtà, disoccupati.
Di mio, ammetto di essere un peccatore. Commisi falli di mano plateali, l’arbitro non se n’accorse e convalidò la rete. Non credo nella confessione e quindi, per perdonare me stesso, faccio il due a 1 allo stesso modo di Diego contro la povera Inghilterra. Ché non vince mai. Così come quasi tutti i napoletani.
Gente ruspante e verace, di troppa vita così vorace da venire poi inghiottita da delusioni più abissali del loro immenso mare, del loro sterminato cuore e del loro credere ingenuamente che, nel 2021, ai tempi di Instagram e porcate varie/affini, possa esistere ancora la parola amore.
Qualche volta, a proposito di riscendere in campo, ecco che spunta Bud Spencer de Lo chiamavano Bulldozer. E, dinanzi a tutti i cattivi e ai figli di buona mamma, alla domanda: – Non avevi giurato di non giocare più? – risponde…
MA QUESTA NON è una partita, amico.
Infine, all’ennesima provocazione del villain ostinato, cioè questa:
– Tanto non lo segnerete mai quel punto, Bulldozer.
Bud, Carlo Pedersoli, dice e fa qualcosa di epico:
– E allora preparati perché adesso segno.
Sì, sono infantile, a quarant’anni mi piacciono ancora i film con Bud.
E ho lo stesso fisico, la stessa agilità di una lince, cioè di Terence Hill dei tempi d’oro.
D’altronde, Lo chiamavano Trinità. Ah ah.
Chi pensava di avere capito tutto di me, dandomi per spacciato, rivedendomi così, pensa… non è possibile, non è umanamente concepibile.
E io rispondo: è stata la mano di dio.
Dio però non esiste, esisto io. E questa è la mia vita, nessuno più la sporcherà.
Paolo Sorrentino è il più grande regista italiano. Teniamocelo stretto. E, ai prossimi Oscar, ancora tutti uniti come durante la finale degli Europei: vincere e vinceremo!
di Stefano Falotico
JACKIE BROWN, recensione
Oggi, saltiamo ancora una volta repentinamente e intrepidamente indietro nel tempo e nelle nostre memorie cinefile più dorate e giammai dimenticate, in quanto recensiremo un magnifico film perlaceo uscito nelle nostre sale nell’oramai lontano anno 1997, ovvero Jackie Brown, scritto e diretto da un consuetamente prodigioso Quentin Tarantino, qui allo zenit della sua indiscussa bravura cineastica dalla rinomatissima scuola profumata di classicismo d’annata.
Jackie Brown uscì quasi in concomitanza, anzi, praticamente in contemporanea, con Il grande Lebowski dei fratelli Coen. Non citiamo quest’ultimo film a caso.
Sia Jackie Brown che Il grande Lebowski, difatti, sono due hard–boiled molto sui generis, entrambi sono dei capolavori straordinari ma tutt’e due furono ampiamente sottovalutati ai tempi, per l’appunto, della loro ufficiale release sui grandi schermi. Insomma, furono in gran parte decisamente snobbati e, soltanto col passare degli anni, valutati in maniera più oggettivamente distaccata ed esatta. Crescendo infatti progressivamente presso i favori dell’intellighenzia critica e assurgendo, a tutt’oggi, a vette irraggiungibili del loro genere cinematografico, a sua volta mescolato a molteplici sotto-trame, a coltissimi citazionismi e a variegati generi centrifugati in forma di rispettivi lungometraggi strabilianti.
Se Il grande Lebowski è una geniale rivisitazione farsesca e in chiave irresistibilmente grottesca, corroborata d’humor nero esilarante e al contempo tagliente di molte opere della Hollywood degli anni cinquanta e dei seventies, se è un sapido pot–pourri di matrice visivo-narrativa, ricolmo di chiarissime allusioni a Raymond Chandler, con un folle McGuffin a giustificare la sua trama apparentemente lontana dalle atmosfere tipiche del noir à la Il grande sonno, Jackie Brown gli è parzialmente similare nella sua diegetica speculare ed è un’arguta e sofisticata mistura stratificata di poliziesco, potremmo dire, anacronistico e volutamente, piacevolmente fuori moda, un thriller a combustione lenta, ottimamente congegnato e a orologeria, è perfino un film pulp che omaggia la blaxploitation e la regina di molti suoi b movies, Pam Grier, qui protagonista assoluta, venerata e da Tarantino glorificata, ed è soprattutto una potente storia d’amore che lascia esterrefatti ed emozionalmente tramortiti per l’immensa e struggente malinconia che languidamente emana. Jackie Brown dura due ore e trentaquattro minuti avvincenti e rocamboleschi che scorrono tutti d’un fiato ed è l’unica opus di Tarantino, come sopra dettovi, sì, scritta da Quentin stesso ma tratta da un romanzo, vale a dire Punch al rum di Elmore Leonard.
Il saggio e compianto Morando Morandini fu uno dei pochi critici italiani a vedervi lungo, assegnando in tempi non sospetti tre stellette e mezza assai lungimiranti a Jackie Brown. Captandone immediatamente i pregi che, come poc’anzi accennatovi, passarono in passato alquanto inosservati. Estrapolandovi dunque la sua ammirabile recensione, concisa e assai precisa, quanto mai perfettamente sintetica e del tutto centrata, non magnificheremo affatto Jackie Brown, soltanto pigramente associandoci all’alto giudizio a riguardo da lui espresso ed emessovi, semplicemente ce ne rispecchiamo indiscutibilmente, riconoscendoci in esso pienamente:
A Los Angeles, il mercante d’armi Ordell (Samuel L. Jackson) vuole ritirarsi dagli affari, ma non prima di venire in possesso di un’ingente somma depositata in Messico. Dovrebbero aiutarlo l’amico Louis Gara (Robert De Niro), appena uscito di prigione, l’amante Melanie (Bridget Fonda) e la ex socia (Grier) arrestata per colpa sua. Max Cherry (Robert Forster) la fa uscire di prigione, pagando una grossa cauzione a nome di Ordell, ma s’innamora di lei e la aiuta a impossessarsi del malloppo, ingannando tutti. Al suo 3° traguardo, Tarantino spiazza tutti, gli entusiasti e i detrattori diffidenti, con un film lineare, tradizionale, “prudente e maturo, scaltro nell’evitare lo scoglio del déjà vu, prigioniero della sua cautela nel tenere a distanza l’umorismo cruento, lo stravolgimento dei generi, il sensazionale in una parola” (P. Cherchi Usai), gli ingredienti che avevano creato la folata modaiola del tarantinismo.
Dal romanzo Rum Punch di Elmore Leonard, sceneggiato con poche e significative libertà, ha cavato un film molto riuscito e poco innovativo che sa fare aspettare: puntiglio nel disegno dei personaggi, inquadrature equilibrate, pochi movimenti di macchina e sempre funzionali, nessun effetto speciale, nessun esibizionismo. Tarantino va controcorrente: a modo suo, è già un classico.
Morandini ci trova assolutamente concordi.
Fotografia di Guillermo Navarro, colonna sonora da urlo, messinscena che non sbaglia un colpo e non “stecca” un solo fotogramma, attori uno più bravo dell’altro, per un capolavoro irripetibile difficilmente eguagliabile.
Il film meno sanguinolento di Tarantino, il più inaspettato, forse il più bello, di certo il più commovente.
Nel cast, anche Michael Keaton, Michael Bowen & Chris Tucker.
Ora, la palla e le palle passano a voi. Ah ah, non siete Tarantino e non siete il Falotico, perciò non siete capaci di scrivere e dirigere capolavori.
Al massimo, potete pulire i cessi, anche delle vostre mogli. E coltivare le cicorie, aspettando tiepidamente la morte, credendovi uomini e donne di valore. In verità, siete tragicomici e, per allentare la tensione del quotidiano stress rompiballe, sapete solo fare carnascialesca baldoria senza gusto né piacevole, equilibrato umore e amore. Siete putridi e cinici, avete perduto ogni sano pudore, non sapete nulla di poesia, della grandiosa fantasia e del vivido, pittoresco, bizzarro folclore.
Di mio, bevo un White Russian come Lebowski e so che la vita è fatta di gioie e poi di dolori, di tanto malincuore ma anche di un falò nella notte che sa inebriarvi di lucida follia piena di colore e calore. Ah ah.
A dircela tutta, inutile poetizzare e romanzare, è stato un sabato sera moscio come pochi.
Vado a prepararmi un frappè ma in cucina non incontrerò Melanie con gli shorts. Alla pari di John Travolta di Pulp Fiction, mi darò al fai da te, berrò un tè e poi un caffè.
Forse incontrerò me stesso, cioè il diavolo di Paranormal Activity.
Su questa stronzata, vi lascio con una faccia da Marilyn Mason dei poveri e vi auguro buone mignotte, no, solamente buonanotte.
P.S.: non moti lo sanno ma sono Michael Keaton di Birdman.
Ora, come il Michael di questo film nel finale, mi lancerò giù dal balcone e non morirò.
Sapete perché? Sono anche Batman di Tim Burton, ho le ali da pipistrello. Inoltre, secondo me, Ed Norton de L’incredibile Hulk avrebbe fatto pena sia a Naomi Watts che a Stone di John Curran, no, ad Emma Stone.
Se voi doveste incontrare il vero Joker per strada, ragazzo disturbato dalla doppia personalità da Edward Norton di Fight Club, ditegli che ci sono anche i film 4 pazzi in libertà e Mi sdoppio in 4.
Dunque, deve ancora mangiare molti panini e guardare tanti altri film prima di fare la fine di Michael Keaton di Fuori dal tunnel.
Se invece io incontrassi Tarantino, Quentin mi direbbe: non farti più vedere, testa di cazzo. La gente non deve sapere che c’è uno più bravo di me.
di Stefano Falotico
GLI ULTIMI FUOCHI, recensione
Ebbene, oggi sinteticamente, speriamo esaustivamente, vi parleremo de Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon), ultima e, ahinoi, ancora sottovalutata, quasi del tutto dimenticata e quasi mai da nessuno menzionata, opera del compianto Elia Kazan. Regista apripista d’una Hollywood dorata, autore di film indimenticabili e oramai ascritti indissolubilmente alla storia del Cinema più leggendario, quali Fronte del porto, Un tram che si chiama desiderio, La valle dell’Eden. Regista però, al contempo, assai controverso e, per molti anni, non poco osteggiato dalla grande Mecca che non lo perdonò mai per quella brutta e spiacevolissima vicenda torbida e oscurantistica del maccartismo, della caccia alle streghe e delle liste nere comuniste per cui e in cui Kazan rivestì un ruolo gravemente molto influente. Denunciando infatti molta gente per salvarsi la pelle e garantirsi la professione. Ma questo, per l’appunto, è un oscuro e scabroso, assai delicato e particolare episodio nefando e non del tutto chiaro che, in occasione della nostra recensione de Gli ultimi fuochi, dimenticheremo e per un po’ accantoneremo. Lasciando a voi e ai posteri ogni giudizio, positivo o negativo, a riguardo. Non siamo dio e non ci permettiamo perciò, specialmente in questa sede, di emettere contro Kazan qualsivoglia morale giudizio recensorio (potremmo dire, lasciateci passare la metafora quanto mai pertinente) non la sua intoccabile carriera cineastica assai pregiata, bensì le sue più o meno integerrime qualità di uomo impeccabile o forse imperdonabilmente colpevole. Concordiamo invece, inappellabilmente e in forma del tutto irreversibile, con la valutazione riguardante Gli ultimi fuochi, espressa da Morando Morandini. Che, a tale superba, compatta, sebbene imperfetta e forse leggermente datata opus di Kazan, assegnò tre stellette e mezza assai lusinghiere e sacrosante. Morandini scrisse quanto segue in merito: Negli anni ‘30, Monroe Stahr (De Niro), carismatico e dispotico capo della produzione di una grande società hollywoodiana, entra in crisi quando incontra una ragazza che gli ricorda la moglie defunta. Dal romanzo incompiuto The Last Tycoon (1941) di Francis Scott Fitzgerald. Con Harold Pinter sceneggiatore e Kazan regista, è un bel tris che diventa un poker con De Niro protagonista, ottimo in un personaggio modellato su Irving Thalberg (1899-1936), genius della M-G-M. I momenti belli non mancano (l’apparizione di Kathleen Moore dopo il terremoto), ma c’è attrito tra la cronaca hollywoodiana e i tempi allentati della storia d’amore, tra la scrittura di Pinter e il linguaggio di Kazan.
In effetti, Gli ultimi fuochi, nelle sue due ore e tre minuti precise di durata, si lascia seguire volentieri, sa in più punti notevolmente incantarci, ci meraviglia per la strepitosa scena del nichelino in cui Stahr/De Niro, dinanzi a un perplesso eppur meravigliato e attonito Boxley/Donald Pleasence, spiega a lui e a noi, spettatori increduli e ipnotizzati al contempo, la sottile, impalpabile e onirica magia del grande schermo, sa avvolgerci in atmosfere d’antan amabili e sognanti, gustosamente demodé e altamente prelibate. Ammaliandoci con la stupenda fotografia chiaroscurale, molto virante a toni cupi e a colori saturi, d’un ispirato Victor Kemper. Regalandoci una grande prova d’un De Niro che, nello stesso anno degli Ultimi fuochi, usciva nei cinema anche con Taxi Driver, essendo entrambe queste rispettive pellicole del 1976.
A differenza però del dizionario dei film Morandini, il suo rivale Mereghetti, pur riconoscendo le qualità del film di Kazan, lo accusa di eccessiva lentezza e ne critica puntigliosamente la troppa verbosità.
Quello che possiamo dire noi è che Gli ultimi fuochi, nonostante indubbiamente risenta della corrosione del tempo, rivelandosi a tratti datato e d’impianto teatrale, sebbene è vero che sovrabbondi di dialoghi spesso estenuanti e i personaggi sembrino malati di logorrea alquanto poco plausibile, è comunque un film assai considerevole e sa restituirci intattamente il fascino maliardo del Cinema purissimo.
Cast immane: oltre a De Niro e il succitato Pleasence, Jack Nicholson (De Niro e il grande Jack non s’incontreranno mai più, cinematograficamente parlando, che peccato), Ingrid Boulting, Jeanne Moreau, Robert Mitchum, Theresa Russell, Seymour Cassel, Anjelica Huston, Ray Milland, Tony Curtis e chi più ne ha più ne metta.
In sintesi! Un ottimo film e un ottimo Kazan, non vi è due senza tre, quindi perfino un ottimo De Niro anche se immaturo. Gli è preferibile, in quanto meno ingessato e forse anche più bravo, Jack Nicholson.
di Stefano Falotico
Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, recensione
Ebbene, andiamo a ripescare una straordinaria pellicola, a molti oggi purtroppo misconosciuta, diretta da Ron Underwood, ovvero Scappo dalla città (City Slickers, in originale), a cui la distribuzione italiana della Penta Film affibbiò il curioso e spassoso sottotitolo La vita, l’amore e le vacche. Underwood, regista di genere e di robusto mestiere, come si suol dire, sapido artigiano però assai altalenante che, soprattutto negli anni novanta, comunque sia imbeccò due film meravigliosi. Cioè, il suddetto film qui, nelle prossime righe, da noi preso in questione e disaminato in forma stringatamente recensoria, Scappo dalla città, e quella perla di b movie esaltante che è Tremors.
Scappo dalla città, prodotto dalla Castle Rock Entertainment, è una strepitosa e geniale commedia brillante con venature addirittura di matrice vagamente western, uscita sui grandi schermi nel ‘91. In Italia non incassò tanto e fu, all’epoca della nostrana release, alquanto disdegnato dalla Critica, mentre negli Stati Uniti ricevette un’accoglienza di pubblico mastodontica e grandiosa, inaspettatamente superando di gran lunga ogni più rosea aspettativa, ricevendo lodi entusiastiche, piazzandosi addirittura al secondo posto del box office d’oltreoceano, subito dopo gli inarrivabili e stratosferici incassi di Terminator 2. Non male assolutamente per un film per cui, con ogni probabilità, secondo le intenzioni originarie, fu concepito per essere solamente una commedia, per l’appunto, scanzonata e leggerissima a base di puro entertainment senza troppe ambizioni artistiche e ideata a prescindere da qualsivoglia pretenziosità “seriosa”. Scritto dal duo formato da Lowell Ganz & Babaloo Mandel, Scappo dalla città dura un’ora e cinquantatré minuti e a tutt’oggi, come facilmente presumibile, per via del fatto che il suo valore s’è perfino accresciuto negli anni, su Metascore, può vantare l’assai lodevole e lusinghiera media recensoria del 70% di opinioni largamente positive. Scappo dalla città, malgrado qualche inopportuna caduta nel pecoreccio e nella comicità di grana grossa in alcuni punti, soprattutto nella parte centrale, è un film garbato e girato da Underwood con brio arguto, con piglio registico sobriamente pregiato, con ferma mano illuminata da grazia e delicatissima levità profumata d’intelligenza divertente delle più mirabili e gustose. Non pensiate che lo stiamo oltremodo sopravvalutando o eccessivamente magnificando, Scappo dalla città è veramente un ottimo film che, evidenziamolo, molti critici italiani dovrebbero quanto prima rivalutare alla grande. Questa la sua scorrevolissima trama scoppiettante e ricolma di colpi di scena farsescamente eccellenti: tre scalcagnati e un po’ sfigati amici depressi cronici, trovandosi nel bel mezzo, potremmo dire, d’una irrisolvibile e triste crisi di mezz’età inesorabile e sempre più incalzantemente incipiente, i quali rispondono ai nomi di Mitch (Billy Crystal), Phil (Daniel Stern) e Ed (il compianto Bruno Kirby), straziati e afflitti, angosciati e martoriati dalle loro rispettive mogli rompiballe, le stanno utopisticamente tentando tutte pur di ritrovare la felicità perduta d’una oramai lontana e rimpianta loro giovinezza inevitabilmente tramontata e inattingibile. Al che, dopo essersi avventurati spericolatamente lungo le frenetiche e pericolosissime strade di Pamplona, cimentandosi assai rischiosamente nella corsa del celeberrimo avvenimento della rutilante festa di San Firmino, e sperimentando dunque il brivido di poter essere scornati da dei tori scatenati, optano per una vacanza distensiva e scacciapensieri. Scegliendo come meta incarnante la ricerca del loro tempo perduto, non più come una volta spensierato, il nuovo Messico. Improvvisandosi capi mandria di mucche in transumanza. Guidati dal burbero, vecchiaccio e irascibile, ambiguo e pittoresco, intransigente e severissimo, temibile Curly (Jack Palance) i nostri tre amigos riusciranno nell’ardua impresa di compiere la loro mission?
Inoltre, Mitch stringe un’amicizia molto romantica con una donna incontrata lungo il picaresco tragitto, ovvero la sensuale e affascinante, dolcissima Bonnie Rayburn (Helen Slater, qui sexy al massimo).
Billy Crystal ricevette la nomination ai Golden Globe mentre Jack Palance vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista. Fotografia di Dean Semler (Balla coi lupi, Apocalypto), musiche di Marc Shaiman (Insonnia d’amore). Nel film, è presente anche un Jake Gyllenhaal giovanissimo alla sua prima apparizione.
Dunque, a proposito del titolo appena messovi fra parentesi. Come si suol dire, appunto, fra parentesi diciamo…
Ah, insonnia d’amore. Poveri cazzoni e finti stalloni… se, durante le vostre notti in bianco in cui contate le pecorine, no, il vostro essere dei pecoroni, no, le smarrite pecorelle, non prendeste sonno, ci sono io ad allettarvi con le mie micidiali puttanate godibilissime. Come la sottostante a seguire, seguitemi, cavalchiamo!
Film da rivedere sempre, con un Crystal eccezionale, un Jack Palance autoironico oltre ogni dire e una Helen Slater, qui, quasi più figa di Priscilla Ricart. Priscilla è castana ed è a mio avviso la donna più bella del mondo. Se non la conoscete, non rompetemi i coglioni. Amerei che mi cavalcasse a briglia sciolta. Ho detto tutto.
di Stefano Falotico