Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, recensione
Ebbene, andiamo a ripescare una straordinaria pellicola, a molti oggi purtroppo misconosciuta, diretta da Ron Underwood, ovvero Scappo dalla città (City Slickers, in originale), a cui la distribuzione italiana della Penta Film affibbiò il curioso e spassoso sottotitolo La vita, l’amore e le vacche. Underwood, regista di genere e di robusto mestiere, come si suol dire, sapido artigiano però assai altalenante che, soprattutto negli anni novanta, comunque sia imbeccò due film meravigliosi. Cioè, il suddetto film qui, nelle prossime righe, da noi preso in questione e disaminato in forma stringatamente recensoria, Scappo dalla città, e quella perla di b movie esaltante che è Tremors.
Scappo dalla città, prodotto dalla Castle Rock Entertainment, è una strepitosa e geniale commedia brillante con venature addirittura di matrice vagamente western, uscita sui grandi schermi nel ‘91. In Italia non incassò tanto e fu, all’epoca della nostrana release, alquanto disdegnato dalla Critica, mentre negli Stati Uniti ricevette un’accoglienza di pubblico mastodontica e grandiosa, inaspettatamente superando di gran lunga ogni più rosea aspettativa, ricevendo lodi entusiastiche, piazzandosi addirittura al secondo posto del box office d’oltreoceano, subito dopo gli inarrivabili e stratosferici incassi di Terminator 2. Non male assolutamente per un film per cui, con ogni probabilità, secondo le intenzioni originarie, fu concepito per essere solamente una commedia, per l’appunto, scanzonata e leggerissima a base di puro entertainment senza troppe ambizioni artistiche e ideata a prescindere da qualsivoglia pretenziosità “seriosa”. Scritto dal duo formato da Lowell Ganz & Babaloo Mandel, Scappo dalla città dura un’ora e cinquantatré minuti e a tutt’oggi, come facilmente presumibile, per via del fatto che il suo valore s’è perfino accresciuto negli anni, su Metascore, può vantare l’assai lodevole e lusinghiera media recensoria del 70% di opinioni largamente positive. Scappo dalla città, malgrado qualche inopportuna caduta nel pecoreccio e nella comicità di grana grossa in alcuni punti, soprattutto nella parte centrale, è un film garbato e girato da Underwood con brio arguto, con piglio registico sobriamente pregiato, con ferma mano illuminata da grazia e delicatissima levità profumata d’intelligenza divertente delle più mirabili e gustose. Non pensiate che lo stiamo oltremodo sopravvalutando o eccessivamente magnificando, Scappo dalla città è veramente un ottimo film che, evidenziamolo, molti critici italiani dovrebbero quanto prima rivalutare alla grande. Questa la sua scorrevolissima trama scoppiettante e ricolma di colpi di scena farsescamente eccellenti: tre scalcagnati e un po’ sfigati amici depressi cronici, trovandosi nel bel mezzo, potremmo dire, d’una irrisolvibile e triste crisi di mezz’età inesorabile e sempre più incalzantemente incipiente, i quali rispondono ai nomi di Mitch (Billy Crystal), Phil (Daniel Stern) e Ed (il compianto Bruno Kirby), straziati e afflitti, angosciati e martoriati dalle loro rispettive mogli rompiballe, le stanno utopisticamente tentando tutte pur di ritrovare la felicità perduta d’una oramai lontana e rimpianta loro giovinezza inevitabilmente tramontata e inattingibile. Al che, dopo essersi avventurati spericolatamente lungo le frenetiche e pericolosissime strade di Pamplona, cimentandosi assai rischiosamente nella corsa del celeberrimo avvenimento della rutilante festa di San Firmino, e sperimentando dunque il brivido di poter essere scornati da dei tori scatenati, optano per una vacanza distensiva e scacciapensieri. Scegliendo come meta incarnante la ricerca del loro tempo perduto, non più come una volta spensierato, il nuovo Messico. Improvvisandosi capi mandria di mucche in transumanza. Guidati dal burbero, vecchiaccio e irascibile, ambiguo e pittoresco, intransigente e severissimo, temibile Curly (Jack Palance) i nostri tre amigos riusciranno nell’ardua impresa di compiere la loro mission?
Inoltre, Mitch stringe un’amicizia molto romantica con una donna incontrata lungo il picaresco tragitto, ovvero la sensuale e affascinante, dolcissima Bonnie Rayburn (Helen Slater, qui sexy al massimo).
Billy Crystal ricevette la nomination ai Golden Globe mentre Jack Palance vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista. Fotografia di Dean Semler (Balla coi lupi, Apocalypto), musiche di Marc Shaiman (Insonnia d’amore). Nel film, è presente anche un Jake Gyllenhaal giovanissimo alla sua prima apparizione.
Dunque, a proposito del titolo appena messovi fra parentesi. Come si suol dire, appunto, fra parentesi diciamo…
Ah, insonnia d’amore. Poveri cazzoni e finti stalloni… se, durante le vostre notti in bianco in cui contate le pecorine, no, il vostro essere dei pecoroni, no, le smarrite pecorelle, non prendeste sonno, ci sono io ad allettarvi con le mie micidiali puttanate godibilissime. Come la sottostante a seguire, seguitemi, cavalchiamo!
Film da rivedere sempre, con un Crystal eccezionale, un Jack Palance autoironico oltre ogni dire e una Helen Slater, qui, quasi più figa di Priscilla Ricart. Priscilla è castana ed è a mio avviso la donna più bella del mondo. Se non la conoscete, non rompetemi i coglioni. Amerei che mi cavalcasse a briglia sciolta. Ho detto tutto.
di Stefano Falotico
Il ritorno di Clint Eastwood con CRY MACHO & il comeback grandioso di Brendan Fraser
Era nell’aria, da un po’ di tempo, il gradito ritorno (comeback, direbbero gli americani) del mitico e, a nostro avviso, anche bravissimo Brendan Fraser, alla settima arte più rinomata e di qualità. Perlomeno, sperammo che avvenisse e così, a quanto pare, è stato.
Dopo i molti problemi di salute, infatti, accusati da Fraser negli ultimi anni, dopo molte sue scelte professionali maldestre, indegne e poco allineate a quelle che furono le forti e indubbiamente convincenti interpretazioni vigorose e possenti da lui forniteci a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inoltrarsi, diciamo pur avvento del nuovo millennio, Fraser pareva oramai amaramente destinato a un futuro hollywoodiano decisamente poco luminoso. Anzi, del tutto oscurato, completamente obnubilato e ridicolizzato nel meme vivente che stava tristemente diventando inesorabilmente. Sembravano, difatti, lontani e irrimediabilmente sbiaditi, per sempre tramontati e persi, quei suoi indimenticabili (soprattutto per noi, cinefili di razza purissima e di ottima memoria dotati) giorni gloriosi e indimenticati, per l’appunto, in cui Brendan, a tamburo battente, inanellava notevoli performance in pellicole di tutto rispetto, a volte anche pregiatissime in film altrettanto emeriti di plausi quali Demoni e dei di Bill Condon con Ian McKellen o The Quiet American di Philip Noyce con Michael Caine. Pellicole in cui Fraser svettò a livello recitativo, reggendo alla grandissima il già maturo confronto con due titanici veterani della recitazione come i succitati Caine e McKellen.
Furono, in entrambi i casi però, questi ultimi a essere candidati all’Oscar.
Mentre Fraser, malgrado le sperticali lodi e i robusti apprezzamenti della Critica, fu ingiustamente snobbato e, a tutt’oggi, è forse uno dei pochissimi attori del jet set a non essere stato mai nominato non solo agli Academy Awards, bensì perfino ai Golden Globe.
Questo ragazzone canadese naturalizzato statunitense, il quale si fece notare in commediole adolescenziali, raggiunse, come sappiamo, il successo planetario con George re della giungla…?, film per cui, da Tarzan ante litteram e Johnny Weissmuller moderno, si esibì in piroette e movenze acrobatiche da clap clap a scena aperta, dimostrandosi altresì molto autoironico e al contempo sfoderando un fisico pazzesco e assai muscoloso.
Cosicché, il nostro Fraser, celebre attore del franchise campione d’incassi al botteghino, ovvero La mummia, pian piano si perse in sciocchezze indicibili come Puzzole alla riscossa, ingrassando notevolmente e ricevendo i maggiori sfottò possibili e immaginabili. Brenda però, come sopra dettovi, non si è dato affatto per vinto.
Innanzitutto, lo vedremo nel nuovo film attesissimo di Darren Aronosfky, la cui trama è per Fraser parzialmente autobiografica.
Il film s’intitola The Whale e verterà su un insegnante reclusosi a vita privata e affetto da obesità che tenterà di riconciliarsi con la figlia per trovare la sua redenzione esistenziale.
Inoltre, lo vedremo affiancare Leonardo DiCaprio e Robert De Niro nella nuova fatica faraonica di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon.
Bentornato, dunque, Brendan! Brindiamo!
Cry Macho!
di Stefano Falotico
ACCORDI & DISACCORDI, recensione
Ebbene, oggi andiamo a ripescare il magico e magnifico Accordi & disaccordi (Sweet and Lowdown), scritto e diretto da Woody Allen. Accordi e disaccordi (1999), a nostro avviso, rappresenta una delle opere migliori di Allen delle ultime decadi. Similmente a ogni pellicola di Allen, è un esilarante film dalla sobria vigoria incantevolmente melanconica, squisitamente ironica e parodica e si gusta in modo piacevole e pienamente, in modo assolutamente veloce, vista la stringatezza del suo minutaggio, vale a dire novantanove minuti netti di ritmo scoppiettante, dialoghi sapidamente taglienti ed estremamente divertenti, al contempo pregni d’esistenziale amarezza dolcissima. Ovvero gli arguti e irresistibili elementi tipici e cardine della poetica alleniana, la portante caratteristica principale su cui si basa il suo strepitoso modo di fare Cinema in maniera intelligente, parimenti leggera. Anzi, se vogliamo davvero essere sinceri, Accordi e disaccordi, per via dei suoi ineludibili stilemi à la Allen qui sapientemente dosati e shakerati, altrove invece nel suo excursus cineastico talvolta un po’ mal calibrati e riempiti di eccessiva pretenziosità stucchevole, ribadiamo, è una perla imperdibile non solo per gli aficionado incalliti del genio di Manhattan. Luogo, peraltro, ove è ambientata l’intera vicenda della rocambolesca sua trama funambolica e piena di colpi di scena e freddure d’annichilire chiunque in maniera sofficemente amabile. Accordi e disaccordi, se fossimo proprio costretti ad ascriverlo a un genere cinematografico preciso (compito quanto mai ardito e arduo quando si ha a che vedere, per l’appunto con un film di Allen, essendo i suoi film sfaccettati e stratificati), potremmo definirlo una lieta commedia dal retrogusto amarognolo, narrata a mo’ di mockumentary assai sui generis e volutamente anomalo. Nel quale si raccontano e vengono visivamente ricordati i folli e ridicoli, perfino tragicomici, stralunati accadimenti “falsamente” vissuti e successi a un immaginario, straordinario personaggio da Allen inventato di sana pianta, generato dalla corrosiva penna mordace di quest’ultimo e spacciato invece, genialmente, per realmente esistito, cioè il fittizio, patetico e allo stesso tempo carismatico e fascinoso Emmet Ray (un inedito Sean Penn ispirato come non mai, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista ma sconfitto, a nostro avviso ingiustamente, dal sopravvalutato Kevin Spacey di American Beauty). Ray, un chitarrista mattoide, affetto insanabilmente da un atavico complesso di Edipo e sofferente tanto di disistima impressionante quanto di vitalismo contagiosamente sfrenato e inarrendevole (altri tòpos caratteristici di quasi tutti i personaggi incarnati dallo stesso Allen o personificati dai suoi infiniti alter ego recitativi), adoratore feticista dei topi, sciupafemmine irredimibile e incorreggibile, musicista sopraffino e bravissimo, però sempre secondo rispetto al ben più consolidato, celebrato, da lui invidiato, ammirato e allo stesso tempo odiato, Django Reinhardt. Da lui così venerato che, alla sola vista, sviene. Emmet Ray, ladies and gentlemen, un mammone mai visto sempre perennemente in bolletta, cioè al verde, e un pasticcione dei più goffi che però piace follemente alle donne, anche alle più altolocate e fisicamente avvenenti fra cui la sensuale Blanche (una bellissima Uma Thurman), che sposerà. Un uomo però stranamente, inizialmente legato a una ragazza molto più piccola di lui, non propriamente molto sveglia, soprattutto muta, la timida Hattie (Samantha Morton, chiaramente ricalcata, per stessa ammissione di Allen, sulla Giulietta Masina de La strada).
Signore e signori, Accordi e disaccordi, vale a dire un Allen nient’affatto minore, bensì senza dubbio alcuno fra i suoi migliori. Fra gli altri attori del cast, Anthony La Paglia, il regista John Waters, la sexy Gretchen Mol, Allen stesso nei panni di sé stesso, così come Douglas McGrath. Scenografie di Santo Loquasto, musica di Dick Hyman, fotografia di Fei Zhao. Nelle scene della guitar solista, Penn è doppiato da Howard Alden. Accordi e disaccordi è una metafora sulla voce profonda e più visceralmente senziente dei nostri cuori. Che parla con gli occhi nel caso del personaggio della Morton, che renderà Ray quasi pari al suo idolatrato Django solamente quando riuscirà a non reprimere ogni sua dolenza, frustrazione, vivo e non rinnegato sentimento autentico e struggente che nella sua anima innatamente pulsava ma di cui si vergognava, celandosi dietro una scorza da finto duro. Solo quando la sua anima parlerà davvero senza più remore, Ray forse diverrà un genio. Un genio umano.
di Stefano Falotico
HOUSE OF GUCCI, il trailer ufficiale
Ebbene, dopo averci allietato con The Last Duel, perlomeno col suo primo filmato assai suggestivo, ecco già pronta la nuova boiata di Ridley Scott.House of Gucci is inspired by the shocking true story of the family empire behind the Italian fashion house of Gucci. Spanning three decades of love, betrayal, decadence, revenge, and ultimately murder, we see what a name means, what it’s worth, and how far a family will go for control. Base on the book by: Sara Gay Forden Directed by: Ridley Scott Story by: Becky Johnston Screenplay by: Becky Johnston and Roberto Bentivegna Cast: Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Jared Leto, Salma Hayek, Camille Cottin, Jack Huston, Jeremy Irons, Mãdãlina Ghenea, Reeve Carney, and Youssef Kerkour.
The Card Counter, il trailer del nuovo film di Paul Schader con Oscar Isaac, Willem Dafoe e una magnetica, sexy Tiffany Haddish
Ebbene, la rinomata Focus Features, poche ore fa ha finalmente rilasciato, sul suo canale ufficiale YouTube, il trailer nuovo di zecca della nuova, attesissima opus di Paul Schrader, ovvero The Card Counter.
The Card Counter, com’evidenziato dallo stupendo, ammaliante e suggestivo filmato mostratoci e che qui vi mostriamo, gareggerà in Concorso alla prossima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Le aspettative attorno a questa pellicola di Schrader, patrocinata da nientepopodimeno che dal regista di Taxi Driver (di cui Schrader, come sapete benissimo, fu l’autore del magnifico script), cioè il grande Martin Scorsese, vanta nel cast la presenza del sempre più carismatico Oscar Isaac (al lido veneziano, presente anche con Dune di Denis Villeneuve), della qui conturbante e sensualissima Tiffany Haddish e dell’immancabile attore feticcio schraderiano per eccellenza, ovvero Willem Dafoe.
Secondo l’ufficiale sinossi diramata, in descrizione, dalla Focus Features, questa sarà sinteticamente la trama di The Card Counter. La redenzione è il “lungo gioco” in THE CARD COUNTER di Paul Schrader. Raccontato con l’intensità cinematografica tipica di Schrader, il thriller di vendetta racconta la storia di un ex interrogatore militare diventato giocatore d’azzardo perseguitato dai fantasmi delle sue decisioni passate e presenta le avvincenti esibizioni delle star Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan e Willem Dafoe.
C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA, recensione
Ebbene, prima o poi dovevamo imbatterci nella recensione di uno dei film più amati, venerati e al contempo più odiati, apertamente contestati di tutti i tempi, ovvero l’ultima opus di Sergio Leone, cioè C’era una volta in America (Once Upon a Time in America). Pellicola dalla durata spropositata della quale, nel corso degli anni, in seguito a numerosi restauri, aggiunta di scene eliminate e poi recuperate nella postuma director’s cut, furono approntate varie versioni. Ed è dunque pressoché, oramai impossibile stabilire con certezza quale sia la versione definitiva col minutaggio, potremmo dire, giusto e precisamente allineato al volere di Leone. Il quale, all’epoca dell’uscita nelle sale statunitensi di C’era una volta in America, peraltro scese a un grave compromesso col produttore Arnon Milchan. Quest’ultimo, difatti, per il mercato nordamericano, erroneamente convinto che, nella sua versione di circa quattro ore di durata, C’era una volta in America si sarebbe gigantescamente rivelata una pellicola improponibile per le esigenze del grande pubblico, ne ridusse il minutaggio drasticamente, dimezzandolo. La sua scelta, sbagliata in modo titanico, poco avveduta, decisamente avventata e campata per aria, sortì nocivamente e paradossalmente l’effetto contrario e, a dispetto dei suoi calcoli e delle sue insane aspettative poco previdenti e scarsamente lungimiranti, basatesi per l’appunto sulle sue frettolose deduzioni fallimentari, fece sì che C’era una volta in America incorresse in un flop devastante. Poiché, malgrado a tutt’oggi sia reputata una pellicola eccelsa, adorata da una moltitudine di cinefili dei più pregiati, ai tempi della sua ufficiale release, C’era una volta in America fu largamente snobbato al botteghino e non piacque molto alla Critica. Tanto da venir ignorato completamente agli Oscar. Però, a essere più precisi e come sopra da noi già leggermente accennatovi, non molti sono tuttora concordi unanimemente sull’intoccabile valore effettivo, da noi invece ritenuto altissimo, di C’era una volta in America. In primis, il critico Paolo Mereghetti, irriducibilmente sicuro che tale opera di Leone non sia assolutamente il capolavoro epico, magnificente e artisticamente mastodontico che molti credono. Mereghetti discosta in maniera diametralmente opposta rispetto invece allo scomparso Morando Morandini che, nel suo dizionario dei film, or ereditato dalle figlie, assegnò a C’era una volta in America la valutazione, in stellette, massima. Cioè 5. Valutazione lasciata inalterata. Attenendoci fedelmente alla sua sintetica eppur estremamente centrata ed esaustiva disamina recensoria, perfettamente sintetizzatrice della sua ingarbugliata e, sinceramente, indescrivibile trama pluristratificata ed enormemente complessa, ve la estrarremo qui sotto. Poiché ci pare del tutto pertinente e totalmente aderente al nostro giudizio che reputiamo identico al suo. Di cui sottoscriviamo pienamente, senza il minimo dubbio in merito, ogni sua singola parola elogiativa, giustamente: «Dal romanzo Mano armata (1983) di Harry Grey. L’ultimo film di Leone ha la struttura narrativa di un labirinto alla Borges, un giardino dai sentieri incrociati, una nuova confutazione del tempo. La sua vicenda abbraccia un arco di quasi mezzo secolo, diviso in 3 momenti: 1922-23, i protagonisti sono ragazzini, angeli dalla faccia sporca alla dura scuola della strada nel Lower East Side di New York; 1932-33, sono diventati una banda di giovani gangster; 1968, Noodles (De Niro), come emergendo dalla nebbia del passato, ritorna a New York alla ricerca del tempo perduto. Se il 1922 e il 1932 sono flashback rispetto al 1968, il 1968 è un flashforward rispetto al 1933: il Noodles anziano è una proiezione di quel che Noodles, allucinato dall’oppio, ha sognato nella fumeria. Il presente non esiste: è una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria. Alle sconnessioni temporali, corrispondono le dilatazioni dello spazio: con sapienti incastri tra esterni autentici ed esterni ricostruiti in teatro, Leone accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso l’America metropolitana (e la storia del cinema su quell’America) che è reale e favoloso, archeologico e rituale. Sono spazi dilatati e trasfigurati dalla cinepresa; spazi anche sonori e musicali, riempiti dalla musica di E. Morricone e da motivi famosi: “Amapola”, “Summertime”, “Night and Day”, “Yesterday”. È un film di morte, iniquità, violenza, piombo, sangue, paura, amicizia virile, tradimenti. E di sesso. In questa fiaba di maschi violenti, le donne sono maltrattate; la pulsione sessuale è legata all’analità, alla golosità, alla morte, soprattutto alla violenza. È l’America vista come un mondo di bambini.
Piccolo gangster senza gloria, Noodles diventa vero protagonista nell’epilogo quando si rifiuta di uccidere l’ex amico Max. Soltanto allora, ormai vecchio, è diventato uomo».
Recensione bellissima e, come detto, a nostro avviso straordinaria e inappuntabile, da contrapporre a quella parallelamente antitetica del suo ostinato detrattore Mereghetti: «Leone, che da tredici anni pensava a questo film, l’ultimo che poté dirigere, intendeva celebrare da europeo l’immaginario del cinema classico americano, approdando a un finale cupio dissolvi carico di malinconia per i sogni perduti. Ma lo sforzo di sei sceneggiatori non ha prodotto un solo personaggio coerente e la durata spropositata non basta ad evitare buchi nel racconto. Come sempre a Leone riesce bene la trasfigurazione lirica del triviale: rende epica una mano che mescola lo zucchero in una tazzina e struggente il ricordo di uno stupro tanto gratuito quanto repellente. Ma lo stile non basta: per quanto le singole scene siano dirette magistralmente, c’è troppo autocompiacimento, oltre ad un’aridità di sentimento che lascia perplessi in un film che vorrebbe essere anche una grande elegia romantica».
Ora, premettiamo col dire che Mereghetti non ha mai simpatizzato troppo per il grandissimo Leone, e non ne capiamo il perché, ribadendo dunque fermamente quanto avrete già intuito sia il nostro pensiero a riguardo. Vale a dire, Mereghetti profondamente equivocò la natura favolistica, al contempo terribilmente e volutamente maschilista che sottende la strepitosa operazione di Leone. C’era una volta in America non è un film per niente, marcatamente misogino, rappresenta invero semplicemente l’epifania mnemonica, proustiana di un malavitoso forse tardivamente redentosi, la cui visione del mondo altri non fu che accorpata e simbioticamente strutturata secondo la distorta educazione inconsciamente ricevuta e in lui infusasi per via della frequentazione del suo originario ambiente di provenienza, trucido e squallidamente virile, e per via dei suoi similari sgherri luridamente sessisti, violenti e puerilmente narcisisti che, per quasi tutta la sua esistenza, criminosamente bazzicò impunemente e impudicamente. Non è difficile da capire, no? C’era una volta in America è un capolavoro immortale ed è essenzialmente racchiudibile personalmente in queste poche ma indelebili, lapidariamente sacrosante frasi nostre che ne sanciscono, sanamente sacramentano la sua enormità infinita e apoteotica: adattato, dal romanzo sopra menzionatovi, dalle penne Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini, Sergio Leone e del non accreditato Ernesto Gastaldi (di cui Mereghetti s’era dimenticato) con dialoghi aggiunti di Stuart Kaminsky, il film, raccontato inizialmente in analessi, parte con due ragazzini teppistelli, Noodles e Max (Robert De Niro & James Woods da adulti) che, dopo tanti furtarelli e marachelle più o meno gravi, dopo svariati crimini, dopo l’arresto di Noodles, nuovamente e amicalmente in maniera fraterna incroceranno per lunghissimi anni la loro vita spericolata, collaborando di nuovo in maniera delinquenziale e brutale, dandosi da duri a efferate rapine a mano armata e a feroci assassinii a sangue freddo. Entrambi innamorati, sin dall’infanzia, di Deborah (Jennifer Connelly da giovane, Elizabeth McGovern da grande), se la contenderanno per sempre appassionatamente, vivendo nel frattempo anche un’inestirpabile e indomabile competitività allucinante, litigheranno e si perderanno per strada forse eternamente o, chissà, immaginariamente? In quanto il finale corrisponde alla verità oggettiva dei fatti così come realmente accaddero o è soltanto il confuso sogno e il delirio fantasioso di un Noodles frastornato dall’oppio? Forse uno dei due tradì gli accordi, forse è stato sol un amaro e stupendo, inafferrabile rimpianto, il visualizzato, fantasmagorico e allegorico disincanto di un uomo stanco e drogato. Il film va inteso in questo senso e così inquadrato. È vero, molte scene sono scollate e a volte incompatte, la pellicola è dispersiva in molti punti e, a un certo punto, oltre a essere poco coesa, risulta slabbrata, alcuni siparietti, di natura volutamente goliardica e machista, possono apparire, a prima vista, fuori luogo, cioè inutili digressioni per allungare il brodo e C’era una volta in America risente, qua e là, d’un montaggio non sempre intonato e bilanciato con l’andatura del racconto. Ma è una sapiente amalgama da ascrivere all’ottica d’un film delirante e creato appositamente come un mosaico e uno scatenato, ininterrotto, emozionale stream of conscioussness filmico-visivo. Come tale va percepito e visceralmente goduto.
Cast portentoso in cui, oltre ai succitati De Niro e Woods (i quali, in maniera però diversa, gareggeranno e rivaleggeranno ancora, in Casinò, per un’altra donna al centro dei loro antagonistici desideri impossibili, Ginger/Sharon Stone), McGovern e Connelly, sfilano una galleria di facce caratteristiche, anche in vesti d’impagabili caratteristi, fra cui William Forsythe (Colpevole d’omicidio), Treat Williams, Joe Pesci in un cammeo d.o.c. così come quello di Burt Young, il compianto Danny Aiello, fanno capolino le apparizioni fulminee dello stesso produttore Milchan e di Mario Brega, e svettano le due damigelle d’onore nelle vesti ingrate di due donne dai facili costumi, Tuesday Weld e la defunta, ahinoi, bellissima e indimenticabile Darlanne Fluegel (accreditata qui come Fleugel, poi interprete di Sorvegliato speciale con Sylvester Stallone).
Fotografia funzionale di Tonino Delli Colli. Musiche, evidenziamolo ancora, di Ennio Morricone.
Insomma, chi non ritiene questo film un capolavoro, è meglio che cambi mestiere e vada a coltivare le cicorie.
di Stefano Falotico
PIG, il grande ritorno del grande Nic Cage!
Il film, attualmente, più acclamato dalla Critica mondiale. Uno schiaffo in faccia a chi vuole male a NIC! Pig!
NON APRITE QUELLA PORTA, recensione
Un capolavoro o una chiavica sopravvalutata in modo spaventoso? Un film fighissimo o era più figa Teri McMinn/Pam, antesignana di ogni donna moderna con gli shorts striminziti da urlo?! Sì, ne realizzerò un altro rifacimento, intitolato Non aprite quella. E basta. Terribile! Ah ah!
Ebbene, prima o poi dovevamo recensire Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre), opera magna e capitale, centrale nella filmografia dell’anfitrione cineastico, ahinoi scomparso, Tobe Hooper (Poltergeist). Opera entrata di diritto nell’immaginario collettivo, soprattutto degli amanti dei fortissimi, sconvolgenti thriller ad altissime e vertiginose, raccapriccianti e truculente tinte a loro volta intinte di sangue spaventoso e suggestività paurose delle più tremende e scioccanti, quasi traumaticamente morbose delle più perverse e maligne.
Ma questa sarà subito la nostra primaria questione: Non aprite quella porta, venerato oltre ogni dire e inimmaginabilmente in modo incommensurabile dai suoi sempre irriducibili fan, via via peraltro crescenti di generazione in generazione, è veramente quel mirabile capolavoro emozionalmente terrificante e repellente, bellissimamente mostruoso di cui si narra epicamente e del quale ogni ammiratore dell’horror purissimo si riempie continuamente la bocca, parlandocene sin allo sfinimento, perfino noiosamente e ripetitivamente in modo oramai indigesto?
Forse, non ce ne vogliano i suoi sterminati fanatici, Non aprite quella porta è vagamente datato, addirittura forse eccessivamente lodato. Poiché, alla fin fine, non è un granché? No, ci mancherebbe. Altresì però, probabilmente, non è niente di così eccezionale, orrifico ed epocale irripetibilmente. Stiamo bestemmiando in senso lato, cinematograficamente parlando, siamo blasfemi e ne disconosciamo parzialmente l’immane valore artistico e “seminale?”. No, non crediamo… che Non aprite quella porta sia quell’intoccabile pietra miliare di cui, come appena sopra dettovi, chiunque non osa proferire parole dubbiose in merito alla sua qualità e importanza da lui reputate inviolabili. È un film decisamente, sotto molti aspetti, rilevante e principale all’interno del suo genere e, inutile ribadirlo, rappresenta un passaggio chiave imprescindibile per il futuro e odierno modo di concepire la stessa parola paura e il genere stesso a esso appartenente, ovviamente.
Però è oltremodo sopravvalutato? Chissà…
Trama, ridotta all’osso: cinque ragazzi, a bordo di un furgoncino, decidono spensieratamente e ingenuamente di trascorrere una felice vacanza in Texas. Inoltrandosi nell’arido e afoso suo entroterra turistico apparentemente allettante e verdeggiante. Dell’allegra, giovanissima combriccola fanno parte anche l’invalido e cicciottello Franklin (Paul A. Partain, texano nato ad Austin nel giorno del 22 novembre del ‘46 e morto, all’età di cinquantotto anni, sempre nella sua città natia) e l’avvenente, sexy Pam (Teri McMinn). Il ragazzo di Pam, di nome Kirk (William Vail), senza sprezzo del pericolo, s’avventura all’interno d’una bianchissima villa abbandonata, attorniata da una foltissima vegetazione e contornata da rampicanti erbe rupestri. Chi si cela in tale mansueta abitazione silenziosa? Forse Leatherface (il compianto Gunnar Hansen), un uomo mascherato in maniera raccapricciante che indossa una tutina da macellaio e a cui piace azionare una motosega infermabile? I cinque boys, inoltre, durante il loro tragitto, diedero il passaggio a un autostoppista picchiatello e autolesionista (Edwin Neal). Chi è costui, in verità? È, per caso, apparentato con Leatherface? Invece qual è la vera identità che si cela dietro le fattezze, all’apparenza rispettabilissime e innocue, perfino tonte, del gestore di una stazione di servizio situata a poche centinaia di metri dalla casa succitata e a sua volta ubicata ai piedi del tetro boschetto?
Sceneggiato dallo stesso Tobe Hooper e Kim Henkel, i quali subito dichiararono all’inizio del film di essersi ispirati a un macabro e pazzescamente fatto efferato realmente accaduto, Non aprite quella porta costò pochissimo e dura solamente ottantaquattro minuti nella sua edizione integrale, mentre addirittura, in quella per lungo tempo circolata, ancora meno. Cioè un’ora e tredici.
Lungamente boicottato per via della sua perturbante violenza mostrataci senza molti filtri, censurato più e più volte non solo ai tempi della sua release, Non aprite quella porta, col passare degli anni, è divenuto un fenomeno di culto non solo presso i cinefili e gli aficionado delle pellicole, per l’appunto, di matrice slasher delle più emotivamente devastanti.
Ispirando seguiti e imitazioni a non finire, il remake di Marcus Nispel del 2003, videogiochi, serie televisive e quant’altro. Insomma, chi più ne ha, più ne metta, come si suol dire.
Magnifica, spettrale e atmosferica fotografia spazialmente bellissima, abrasiva e aderente perfettamente al clima stratosfericamente inquietante emanatoci da Hooper, a firma di Daniel Pearl.
Il film mette veramente i brividi, alcune scene, specialmente quella del pre-finale della famigerata e celeberrima cena cannibalistica della famiglia di psicopatici riuniti attorno a uno sgangherato, consunto tavolo imbandito per celebrare uno dei più schifosi orrori mai visti durante un’interminabile nottata che aspetta la sua timida e fievole alba speranzosa, eh già, accappona la pelle ed eternamente, visceralmente ci segnerà profondamente.
Ma Non aprite quella porta, al di là di tutto, col senno di poi, non pensate che sia onestamente prevedibile e banale dal suo primo minuto all’ultimo? Non credete che Leatherface, con la sua ridicola corsa quasi da paraplegico e da goffo, sesquipedale imbranato ritardato, sì, tanto agghiacciante e temibile quanto involontariamente, incoscientemente imbecille, più che la pura incarnazione del male per eccellenza, sinistro e orrendamente innocente, sia sostanzialmente sol un povero deficiente tragicomico dei più insostenibili e incredibili?
Se pensate di no, allora Non aprite quella porta è inconfutabilmente un capolavoro insindacabile.
Se invece pensate di sì, se pensate cioè che Leatherface, tutto sommato, non sia questo storico villain formidabile e indimenticabile, bensì solamente un biasimevole poveraccio e un penoso, maledetto disgraziato, Non aprite quella porta, soprattutto verso la sua metà, potrebbe ai vostri occhi palesarsi come un film dell’orrore fantozziano e demenziale.
Leatherface, nella sua assoluta inconsapevolezza di psichica malattia straziante, è gigantesco esattamente per questa ragione assurda?
Anche se l’ombra del Bruce Campbell a venire, de La casa e de L’armata delle tenebre, pare concretizzarsi, nella nostra memoria, da un momento all’altro. Porgendo a Leatherface un sorrisino beffardo di compassione infinita, elargendogli pietisticamente un’atroce smorfia irridente delle più invincibilmente e grandiosamente, giustamente strafottenti.
E ho detto tutto…
di Stefano Falotico