QUEL POMERIGGIO DI UN GIORNO DA CANI, recensione
Ebbene, oggi voliamo all’indietro nel lontano anno 1975, anno d’uscita di uno dei capisaldi per antonomasia della New Hollywood, ovvero l’imbattibile ed epocale, a tutt’oggi insuperato nel suo genere, Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon), firmato con egregia maestria dal compianto Sidney Lumet e interpretato da un Al Pacino allo zenit del suo espressivo e carismatico, talentuoso istrionismo d’antologia portentoso.
Film della corposa, potentissima e appassionante durata di due ore e cinque minuti, vietato ai minori di 14 anni, Quel pomeriggio di un giorno da cani fu sceneggiato da Frank Pierson (Cat Ballou, Nick mano fredda) che, tornando a lavorare per Lumet dopo il precedente Rapina record a New York del ‘72, per l’occasione si basò su una storia vera, da lui romanzata e genialmente adattata in forma particolare, inventiva e avvincente, molto spettacolarizzata ma non in forma troppo irritantemente sensazionalistica a sfondo puramente retorico, bensì semplicemente sensazionale ed emozionalmente trascinante, traendo ispirazione nel soggetto da un articolo di P.F. Kluge e Thomas Moore, intitolato, The Boys in the Bank, comparso su Life. La trama, seccamente qui riassunta in pochissime righe però pertinentissime e chirurgicamente precise: nella calda giornata del 22 Agosto del 1972, tre uomini disperati assaltano una banca immediatamente dopo il suo orario di chiusura, nella speranza di derubarne il bottino conservato nella cassaforte. Niente, forse, andrà secondo i loro piani. Innanzitutto, il membro più giovane del terzetto, arrivato al dunque, non se la sentirà di proseguire nel ladrocinio e, intimorito, fuggirà vigliaccamente. Mentre gli altri due, Sonny Wortzik (Al Pacino) e il suo fido compare imbranato, anch’egli terrorizzato a morte dal precipitare degli eventi che subitaneamente incorreranno loro imprevedibilmente, cioè Salvatore Naturale (John Cazale), si troveranno presto, per l’appunto, in un mare di guai. Poiché, con loro sommo e sgradito stupore scioccante, in cassaforte sono rimasti pochissimi soldi. Sonny e Salvatore, malgrado la scarsissima somma depositata nel caveau, equivalente solamente a un migliaio di dollari (cifra certamente non esigua però assolutamente insufficiente rispetto alle loro erronee ed ardite, clamorosamente fallimentari previsioni), decideranno ugualmente di sottrarla. Ma, quando staranno per svignarsela col malloppo, si accorgeranno che, all’esterno dell’edificio bancario, vi è già la polizia, schierata agguerritamente in battaglia. Cosicché, per extrema ratio, Sonny e Salvatore prenderanno in ostaggio i clienti della banca. Questo stratagemma funzionerà oppure il mastino inamovibilmente ferreo, Eugene Moretti (Charles Durning), darà ai due gaglioffi, improvvisatisi criminali, forse da strapazzo, durissimo filo da torcere?
Premio Oscar meritatissimo alla sceneggiatura, ritmo elevatissimo che non lascia un sol attimo di respiro e di tregua, un Cazale ottimo e un Pacino titanico che si carica di tutto il peso di questo psicodramma magistrale e maestoso, con tanto di sotto-plot commovente, vivificando tale immane pellicola gigantesca, diretta da Lumet con mirabile destrezza imprendibile.
In quanto, Quel pomeriggio di un giorno da cani è diventato un film, oltre che qualitativamente ineccepibile (montaggio asciutto e allo stesso tempo frenetico di Dede Allen, fotografia eccelsamente funzionale di un ispirato Victor Kemper), assurto in modo totemico a modello ispiratore di tantissime altre pellicole similari nella tematica.
Citato perfino nel primo episodio di Mindhunter, nel quale diviene addirittura oggetto di studio per “profilazioni” di matrice criminologa-lombrosiana, praticamente copiato da cima a fondo in John Q.
Se un film, a distanza di quarantasei anni dalla sua release, è stato capace di compiere prodigiosamente tutto ciò e di risultare ancora così attualmente fascinoso e irresistibile, significa che Quel pomeriggio di un giorno da cani è un capolavoro impari dei più alti e lungimiranti. Nonostante tutto, raramente imitabile. Al massimo, seminale per film semmai molto belli, comunque sia non a esso equiparabili.
Insomma, Pacino, insomma, Falotico quando vuole, eh già, scrive da dio.
Voglio approfittare di questa mia recensione per dedicare questo film alla memoria del cugino di mia madre, cioè mio cugino di secondo grado. Unico medico del suo paese e di quello di mia madre, omaggiato dal sindaco della sua città natia. Morto purtroppo ieri per un cancro mal curato e scoperto in maniera tardiva. Ricordo ancora quando ero un ragazzino e Michele, vedendomi giocare a Calcio nel campetto sotto casa di mia nonna, diceva a tutti: sì, De Niro e Pacino sono grandi attori ma questo mio nipote è un fenomeno. Avete visto che roba? Sembra Jean-Claude Van Damme nel finale di Lionheart. Erano altri tempi, era un altro mondo, era un grande uomo.
di Stefano Falotico
SCARFACE, recensione
Ebbene, oggi recensiamo un film entrato oramai di diritto nell’empireo della Settima Arte più indiscutibile, una pellicola imprescindibile e vertiginosa, titanica e apoteotica, facente parte indissolubilmente del nostro collettivo immaginario più glorioso, ovvero Scarface, firmato dal geniaccio Brian De Palma.
Scarface, come sappiamo noi cinefili assidui e irriducibili, dura la mastodontica eppur mai annoiante bellezza di due ore e cinquanta minuti netti, assolutamente meravigliosa, irresistibile, magnifica e inconfutabilmente epocale e storica, iconica e mitica. Osiamo dire, leggendaria.
Scarface è dichiaratamente il rifacimento sui generis, personalissimo e fenomenale, del classico omonimo di Howard Hawks con Paul Muni. Stavolta, come sopra appena dettovi, diretto con magistrale personalità da un Brian De Palma che lo reinventò in maniera sensazionale.
Scritto da Oliver Stone (regista ovviamente conclamato che certamente non abbisogna di ulteriori e pleonastiche, superflue presentazioni, però forse non poco sopravvalutato e, con ogni probabilità, oltremisura pluripremiato e oscarizzato, director peraltro successivamente di Ogni maledetta domenica, precedentemente già notevole writer del superbo, sebbene imperfetto, Fuga di Mezzanotte girato da un ispirato Alan Parker, di Conan il barbaro di John Milus e dell’irraggiungibile, epico L’anno del dragone del compianto, immenso Michael Cimino), Scarface, ai tempi della sua uscita nelle sale, stranamente e, in tutta franchezza, inconcepibilmente, fu accolto dall’intellighenzia critica mondiale piuttosto freddamente.
Tant’è vero che, identicamente a tutte le opere di De Palma, scandalosamente mai candidato agli Academy Awards, il che ha dello scabrosamente vergognoso, essendo De Palma uno dei massimi cineasti non solo viventi, bensì di tutti i tempi, Scarface non fu per l’appunto nominato a nessuna statuetta dorata, rimanendo in ogni categoria assurdamente ignorato e snobbato. Davvero scioccante. Oltre che, come poc’anzi scrittovi, dalla svergognata e, oserei dire, impreparata Critica dell’epoca, quasi unanimemente stroncato in maniera tremenda e micidiale.
Ciò, col senno di poi, è infatti e in effetti pazzesco e, nei riguardi del magistrale De Palma, rappresenta a tutt’oggi un affronto dei più scellerati e screanzati.
In quanto, checché se ne dica, malgrado pur odiernamente anche molta Critica “moderna” avanzi ancora nei suoi confronti qualche ridicola e pretestuosa riserva, Scarface è, parimenti all’originale, un capolavoro monumentale e abissale. Sì, lo è e non ha nulla da invidiare al suo capostipite.
Sintetizziamone la trama in pochi ma essenziali, assai salienti tratti: due profughi cubani, scappati dal regime dittatoriale di Fidel Castro, vale a dire rispettivamente Tony Montana (Al Pacino) e il suo inseparabile compare amicone Manny Ribera (Steven Bauer), espatriano clandestinamente a Miami. Ove, dopo aver svolto lavoretti dei più umili ma soprattutto umilianti, pian piano ascenderanno nell’olimpo dei signori della droga. Grazie specialmente all’intraprendenza infermabile dell’inenarrabilmente ambizioso Tony. Il quale, a sua volta, in virtù dei suoi modi trasgressivi, invero poco virtuosi, da menefreghista e megalomane, di sapervi scaltramente fare, riesce a scalzare e ad assassinare dapprima il suo capo da lui mal sopportato, Frank Lopez (Robert Loggia), rubandogli la sua splendida moglie, Elvira (una bellissima, indimenticabile e bravissima Michelle Pfeiffer, qui al suo passo di qualità davvero rilevante, magneticamente folgorante e, per la sua futura, stellare carriera, irrinunciabile).
Tony forse esagererà, il suo impero si sgretolerà e lui, prima o poi, alla stessa velocità con cui salì nella scala gerarchica dei gangster ricchissimi, nababbi e potenti intoccabili, crollerà con una repentinità e un’agghiacciante tragicità altrettanto spaventosa e mostruosa? Chissà…
Ipnotiche musiche di Giorgio Moroder, fotografia di John A. Alonzo.
Quando un film come Scarface non stanca mai a ogni ennesima visione, anzi, continua in modo impressionante ad affascinare a distanza di circa un quarantennio dalla sua release ufficiale, significa che è un capolavoro, un film artisticamente miracoloso.
Al Pacino, inutile dircelo, glorioso. Forse, nel suo totale ruolo della vita. E stiamo parlando del sig. Michael Corleone della saga del Padrino, dell’interprete strepitoso di Cruising, di Jimmy Hoffa di The Irishman e, a proposito di Brian De Palma, di mr. Carlito’s Way, solamente per citare un’infinitesimale porzione della sua interminabile galleria di personaggi memorabili.
Insomma, come direbbero gli americani, one of the greatest actors of all time.
Nel cast, anche Mary Elizabeth Mastrantonio e F. Murray Abraham. Dici poco…
Parafrasando il grande, salomonico giudice Sante Licheri del Forum che fu, è eternamente deciso: Scarface è un film quasi più figo ed eccitante di Michelle Pfeiffer in questo film e anche in Ladyhawke.
Se non vi piace Scarface, non significa che siete gay, io non sono omofobo ma voi, di sicuro, avete molti problemi al cervello. Che fa rima con quello.
Ah ah, ahuau, motto pacinesco par excellence.
Sì, sono un gigione come Al. Dunque, vi arreco dei problemi? Di mio, ho solo un problema nella vita, diciamocela senza peli sulla lingua.
Non ho una sorella, quindi non sono geloso come Tiberio Murgia/Michele Nicosia detto Ferribotte verso la sorella Claudia Cardinale/Carmelina Nicosia ne I soliti ignoti (però, andava compreso, stiamo parlando di una delle più ex grandi fighe della storia, per la Madonna!), non sono neanche geloso come Tony verso la Mastrantonio/Gina, quasi montata nel cesso dal buzzurro John Travolta dei poveri con tanto di gel da Tutti pazzi per Mary (ah ah), però mi fa sesso, no, mi sale spesso il sangue alla testa quando la mia lei balla con un altro. Poiché non voglio che il sangue di questo qua, un quaquaraquà, ah ah, riscaldi i suoi testicoli e la scaldi, non avendo costui nessuna qualità. Secondo me, neppure la quaglia…
Su questa freddura alla Falotico, ricordate, sono lo sfigato per antonomasia, no, lo sfregiato invincibile, in passato un fregato/fottuto, spacciato ma non spacciatore dei più ottusamente imbattibili, adesso me ne fotto in modo impagabile. Voi invece le pagate, eh, lo so, figli di una malafemmina!
Io non sono Sante Licheri, scambiato da Salvo de Il grande fratello per Dante Alighieri, ah ah, non sono Dante Cruciani/Totò del film succitato di Monicelli ma, obiettivamente, so Il Falò delle vanità, ah ah.
Sì, vi ho dato due freddure al posto di una. Che volete da me? Non sparatemi alle (s)palle a mo’ di Geno Silva.
Purtroppo, anche lui è morto così come il fantasma di Bob di Twin Peaks, alias Frank Silva.
Di mio, sono come il mago Silvan.
Appaio e poi di nuovo sparisco. Alla mia lei dico, ecco, ora sta qua e, fra trenta secondi, sarà là. Ah ah.
Terza freddura, d’altronde non c’è due senza tre e, come dico io, non c’è freddura senza poi, per dirla da Totò de Un turco napoletano, la “stiratura”. Cos’è la stiratura? Provate a indovinare. Qualcosa che si sposa con fregatura o sfregatura sempre di qualcosa molto duro che entra con fare sicuro nella selva oscura… eh sì, il mio dritto non è smarrito, è teso e ancora penetrante in modo liscio.
Eh già, mie cazzoni, ah ah! Io arrivo al sodo da uomo che potentemente se la suda, forse dopo una Lemon Soda frizzante o ficcante!
di Stefano Falotico
BASTARDI SENZA GLORIA, recensione
Ebbene oggi, dopo la nostra recentissima recensione di Django Unchained, c’avventureremo spericolatamente nella disamina di un’altra assai acclamata e al contempo contestata opera di Quentin Tarantino. Ovvero Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds). Poiché, come sappiamo, i film di Tarantino dividono gli spettatori, sempre e puntualmente, inevitabilmente.
Bastardi senza gloria è un film della durata di due ore e trentatré minuti, distribuito nei cinema nell’anno 2009. Naturalmente, come sempre avviene d’altronde per lo stesso Tarantino, penna sottilissima che crea e plasma le sue storie in maniera tipicamente originale, fantasiosamente mirabolante. Per i suoi aficionado in modo fantastico, straordinariamente inventivo e creativamente innovativo, per i suoi haters in maniera antiteticamente insopportabile e non poco discutibile. Premesso ciò, Bastardi senza gloria è in effetti la pellicola di Tarantino con una delle medie recensorie, riscontrabile sul sito aggregatore metacritic.com, più relativamente basse della sua carriera. Avendo difatti ottenuto una valutazione complessiva dell’ottima eppur non del tutto eccellente percentuale del 69%.
Media naturalmente alta che però, paradossalmente, sfigura rispetto alle altre, decisamente più vertiginose, riguardanti le recensioni ottenute dai suoi film a livello planetario e soprattutto ricevute dalla Critica nordamericana.
Per la prima volta in vita sua e per il suo excursus da writer-regista, Tarantino si cimenta con un film storico, sebbene sia ascrivibile a questa categorizzazione e a tale definizione sommaria in modo molto approssimativo e poco esatto. In quanto, Bastardi senza gloria è, come tutte le pellicole di Tarantino, un intelligentissimo intruglio a base di molteplici generi e sottogeneri centrifugati e da lui rielaborati in variegate forme diegetico-(re)interpretative figlie d’una purissima contaminazione di matrice pulp e grottesca, un film cioè annettibile, in maniera generalista ed enciclopedica a questa succitata, tipologica classificazione, in verità è un film immensamente stratificato e unicamente, giustamente inclassificabile in qualsivoglia compartimento
Sintetizzeremo la trama, arzigogolata e ricolma, come appena suggeritovi, d’incredibili snodi e risvolti filmico-narrativi impossibili da catalogare, in poche righe. Speriamo esaustive, esemplari e nettamente, lapidariamente chiare: nella Francia occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, un impavido e sanamente folle gruppo di scagnozzi, gaglioffi ribelli spregiudicati e paracadutisti non poco smidollati, capeggiati dallo stoico tenente Aldo Raine (Brad Pitt), nient’affatto intimoriti da Adolf Hitler (Martin Wuttke) e dai suoi terroristici, aberranti esecutori rigidissimi delle sue immonde, antisemitiche malefatte mostruose e agghiaccianti, fra cui spicca mefistofelicamente il terribile colonnello Hans Landa (Christoph Waltz), denominato in modo terrificante come il cacciatore di ebrei, tenteranno di sovvertire l’ordine malefico e glacialmente assassino istituito nefastamente dal più tristemente famoso Führer dell’umanità.
Verranno genialmente ribaltati gli eventi realmente accaduti così come noi stessi li apprendemmo e studiammo nei libri, per l’appunto, di Storia?
Hitler morì davvero in quel celeberrimo bunker? Chissà. Se non avete mai visto Bastardi senza gloria, starete a vedere, forse rimanendovi stupefatti dirimpetto, sarete al cospetto di tante inaspettate sorprese a cui assisterete forse increduli e meravigliati. Poiché dovrete fronteggiare una miriade di trovate pregne di satirico umorismo nero spiazzante e probabilmente vi troverete impreparati. Quale film avrete, insomma, a voi dinanzi?Eli Roth
Chiariamoci, innanzitutto Bastardi senza gloria è un divertissement tarantiniano dei più giocosi e burleschi. Come tale va preso e amato. Dunque, si astengano dalla visione, da ogni forma di purismo filologico severissimo, gli anti-revisionisti di natura dittatoriale delle più bellicosamente ottuse, vale a dire i fanatici dello sterile e insulso, belligerante polemizzare contro le fantasie lontane dalla realtà, dunque scevre d’ogni savia immaginazione visionaria.
Cast altisonante con l’uomo venuto dal nulla, il sorprendente Waltz, in maniera sacrosanta premiato con l’Oscar (poi bisserà con Django…) come miglior attore non protagonista, una spanna sopra tutti, un Pitt bravissimo, Eli Roth, la stupenda e fotogenica Diane Kruger, Mélanie Laurent, Mike Myers, Julie Dreyfus, Til Schweiger, Daniel Brühl e Michael Fassbender.
Fotografia superba di Robert Richardson, specialmente nell’incipit folgorante e nell’inarrivabile scena della taverna…
Perciò, a conti fatti, forse Bastardi senza gloria non è un capolavoro e qua e là pecca di alcune grosse ingenuità. Inoltre, l’utilizzo della colonna sonora, dagli echi da Cinema di Sergio Leone e morriconiani, cioè alla Ennio Morricone pre-The Hateful Eight, risulta stranamente mal sincronizzata con l’epicità che Tarantino avrebbe voluto infondervi, invece fallendo e risuonando (perdonate il gioco di parole) stonata e, rispetto al contesto in cui è stata inserita, velleitaria ed esagerata.
Nonostante questo, Bastardi senza gloria è un bel film, anzi un grande film, un filmone.
Cammei “invisibili” di Harvey Keitel e Samuel L. Jackson.
di Stefano Falotico
IL MOSTRO DELLA CRIPTA, il Trailer
Ebbene, dopo il sorprendente e spiazzante The End? L’inferno fuori, pellicola horror di matrice zombesca, memore dei fasti di George A. Romero e affini epigoni, pellicola certamente non esente da difetti e da forti ingenuità, sebbene coraggiosa e a suo modo autoriale, il giovane regista Daniele Misischia sta per debuttare sui nostri grandi schermi con un’altra opus assai interessante, nient’affatto trascurabile, ovvero Il mostro della cripta.
De Il mostro della cripta, co-scritto dallo stesso Misischia in collaborazione con Cristiano Ciccotti, a loro volta in associazione coi fratelli Antonio & Marco Manetti, più comunemente noti al grande pubblico semplicemente come Manetti Bros. (Diabolik), qui in veste anche di produttori, è stato mostrato, poche ore fa, il primo attesissimo trailer ufficiale tramite la Vision Distribution. Noi ve lo proponiamo seguentemente, copia-incollandovi testualmente la presentazione e la sinossi ufficiale rilasciata:
Un film di Daniele Misischia Soggetto dei Manetti Bros. Con Tobia De Angelis, Lillo Petrolo, Amanda Campana, Nicola Branchini e con Chiara Caselli, Giovanni Calcagno, Eleonora De Luca, Alice Bortolani, Gianluca Zaccaria, Riccardo Livermore e con Ludovico Girardello con la partecipazione straordinaria di Gisella Burinato. È il 1988 e il giovane Giò (Tobia De Angelis), nerd poco più che adolescente, sfogliando l’ultimo numero del suo fumetto preferito, “Squadra 666 – Il Mostro Della Cripta”, scritto e disegnato da uno dei suoi idoli, Diego Busirivici (Lillo Petrolo), si accorge di alcune analogie tra la storia raccontata in quelle pagine e gli atroci avvenimenti che stanno seminando morte e terrore nel paesino in cui vive. Un inquietante mistero condurrà Giò e il suo strampalato gruppo di amici in un’avventura fuori dal comune.
1 minuto e 27 secondi, equivalenti alla durata esatta del filmato in questione, sono troppo pochi affinché possiamo farci un’opinione precisa in merito al valore qualitativo, da appurare o meno, de Il mostro della cripta.
Però, da quel poco che abbiamo potuto vedere e dunque intuire, pare che stavolta Daniele Misischia abbia tentato un’operazione alquanto stimabile.
Poiché Il mostro della cripta si palesa ai nostri occhi come una folcloristica, stravagante, inquietante e al contempo esilarante storia orrifica di natura mystery–thriller mista alla commedia più sapidamente e volutamente demenziale, un po’ all’amatriciana in salsa gore, potremmo azzardare a dire.
Il mostro della cripta uscirà il prossimo il 12 Agosto.
Vi terremo aggiornati.
di Stefano Falotico
LIFE ACHIVEMENT Golden Lion to Jamie Lee Curtis, HALLOWEEN KILLS Trailer and Venice Premiere
Genere: Horror
Cast: Jamie Lee Curtis, Judy Greer, Andi Matichak, Will Patton, Thomas Mann e Anthony Michael Hall
Diretto da: David Gordon Green
Scritto da: Scott Teems & Danny McBride & David Gordon Green, basato sui personaggi creati da John Carpenter e Debra Hill
Produttori: Malek Akkad, Jason Blum, Bill Block
Produttori esecutivi: John Carpenter, Jamie Lee Curtis, Danny McBride, David Gordon Green, Ryan Freimann
Nel 2018, Halloween di David Gordon Green, con Jamie Lee Curtis, ha sbancato il box office, incassando oltre 250 milioni di dollari in tutto il mondo, diventando il capitolo con il più alto risultato nei 40 anni del franchise e fissando un nuovo record come miglior weekend di apertura nella storia degli horror con una donna come protagonista.
E la notte di Halloween in cui ritorna Michal Myers non è ancora finita.
Alcuni minuti dopo che Laurie Strode (Curtis), sua figlia Karen (Judy Greer) e la nonna Allyson (Andi Matichak) hanno lasciato il killer mascherato Michael Myers imprigionato e in preda alle fiamme nello scantinato della casa, Laurie viene portata d’urgenza in ospedale con ferite potenzialmente letali, credendo di aver finalmente ucciso il suo incubo di un’intera vita.
Ma quando Michael riesce a liberarsi dalla trappola di Laurie, riprende il suo bagno di sangue rituale. Mentre Laurie combatte il suo dolore, si prepara a difendersi da lui e prepara tutta Haddonfield a ribellarsi contro il loro mostro inarrestabile.
Le donne Strode si uniscono a un gruppo di altri sopravvissuti alla prima furia di Michael che decidono di prendere in mano la situazione, formando una folla di vigilanti che si propone di dare la caccia a Michael, una volta per tutte.
Il Male muore stanotte.
Universal Pictures, Miramax, Blumhouse Productions e Trancas International Films presentano Halloween Kills, con Will Patton nel ruolo dell’agente Frank Hawkins, Thomas Mann (Kong: Skull Island) e Anthony Michael Hall (Il Cavaliere Oscuro).
Oltre al ritorno del team che ha portato al fenomeno globale del 2018, Halloween Kills è scritto da Scott Teems (SundanceTV’s Rectify), Danny McBride e David Gordon Green, sulla base dei personaggi creati da John Carpenter e Debra Hill. Il film è diretto da David Gordon Green e prodotto da Malek Akkad, Jason Blum e Bill Block. I produttori esecutivi sono John Carpenter, Jamie Lee Curtis, Danny McBride, David Gordon Green e Ryan Freimann.
DJANGO UNCHAINED, recensione
Ebbene oggi, per il nostro consueto e periodico appuntamento coi Racconti di Cinema, vi proponiamo la recensione di un film dalla rilevante, assoluta importanza insindacabile, comunque sia e a prescindere dai vostri gusti, a loro volta opinabili o meno, ovvero Django Unchained. Django Unchained, pur essendo uscito in tempi piuttosto recenti, cioè nell’ultima decade ed esattamente nell’anno 2012, è entrato subitaneamente nell’immaginario collettivo dei fan tarantiniani e non, altresì assurgendo immediatamente a vetta totemica, a ragione per i suoi grandi estimatori, a torto ovviamente per la sua compagine di detrattori accaniti e cinefili eternamente perplessi riguardo le capacità, da loro smentite e confutate, di Quentin Tarantino stesso, della nuova cinematografia mondiale di matrice dichiaratamente citazionistica e postmodernista. Django Unchained, distribuito in Italia dalla Warner Bros. Pictures a partire dal giorno 17 gennaio dell’anno suddetto, fu finanziato, così come regolarmente avvenuto per tutte le opere di Tarantino precedenti la sua ultima opus, cioè C’era una volta… a Hollywood, dall’ex Miramax e a sua volta ex Weinstein Company. Non saremo pleonastici, dunque ci pare superfluo specificare perché tale appena nominatavi casa di produzione non esista più. Accolto assai benevolmente, anzi, lodato entusiasticamente dalla Critica planetaria, raccogliendo infatti l’alta media recensoria lusinghiera, equivalente all’87% di valutazioni positive sul sito aggregatore Rotten Tomatoes, Django Unchained fu un campione d’incassi al botteghino, malgrado la sua notevolissima, per taluni spettatori molto ostica, durata considerevole di due ore e quarantacinque minuti. Parimenti a tutte le pellicole di Tarantino, Django Unchained si avvale d’una sceneggiatura totalmente originale, generata dalla fervida e illimitata penna fantasiosa di Quentin stesso. Con la sola eccezione che conferma la regola, come si suol dire e ça va sans dire, naturalmente di Jackie Brown. Film, quest’ultimo, sempre scritto da Tarantino ma adattato da una famosa novella di Elmore Leonard.
Remake decisamente sui generis, anzi, pot–pourri di sapida, mai insipida, genialmente folle reinvenzione omaggiante il nostro celeberrimo Django di Sergio Corbucci con Franco Nero, il quale compare qui in un delizioso e geniale cameo, Django Unchained rappresenta, a modesto avviso di chi scrive quest’articolo, il film migliore di Tarantino di sempre dopo l’insuperabile trilogia degli esordi, constante del superbo Le iene, del rivoluzionario ed epocale Pulp Fiction e dello stesso poc’anzi accennatovi Jackie Brown. Ho scritto migliore. Però, attenzione. Non ho detto affatto capolavoro. Più avanti ve ne esplicherò brevemente le ragioni secondo le quali Django Unchained, sì, è un film saliente nell’excursus cineastico di Tarantino, primeggiando ai primi posti fra le sue opere più considerevoli e meritevoli, altresì è pieno di grossolanità imperdonabili e macroscopici difetti che analizzeremo nel corso di questa recensione. Ricordo inoltre che il sottoscritto, pur apprezzando (però con le dovute riserve) Bastardi senza gloria, pur ammirando A prova di morte, non è invece mai, anche dopo innumerevoli visioni, rimasto pienamente convinto del suo dittico Kill Bill (da considerarsi comunque come un unicum in tutti i sensi), tantomeno del sopravvalutato C’era una volta… che reputa invece, a esservi assai onesto, la sua opera peggiore senz’ombra di dubbio personalissimo. Essendo Django Unchianed un vero e proprio “joint” tarantiniano al mille per mille, trattasi di film enormemente stratificato, la cui trama contorta e ricolma di risvolti spiazzanti e sorprendenti, arabeschi e labirintici, non è racchiudibile in un’esaustiva descrizione adeguata, dettagliatamente accurata. E non ce ne voglia Wikipedia… Perciò ci limiteremo semplicemente a tracciarvela, diciamo, in un paio di righe. Anche per non rovinarvi le molteplici sorprese… Ricavandovene una testuale traduzione, da IMDb, della sua sintetica sinossi opportunamente da noi tradotta in italiano con l’aggiunta del nome dei suoi personaggi principali e dei rispettivi attori a interpretarne le relative parti: con l’aiuto di un cacciatore di taglie tedesco, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz), uno schiavo liberato ribattezzato Django (Jamie Foxx) si propone di salvare sua moglie (Broomhilda von Shaft/Kerry Washington) da un brutale proprietario di schiavi, residente in una fastosa piantagione nel Mississippi, cioè il terribile, sadico e sanguinario Calvin J. Candie (Leonardo DiCaprio).
Ne succederanno delle belle, delle spericolate e delle cruente fra colpi di scena perfino demenziali, ricordanti la comicità slapstick addirittura di Mel Brooks o Chaplin, mixati e scanditi puntualmente con timing filmico-recitativo da applausi a scena aperta, il tutto condensato di sapiente mistura appassionante, shakerato con grintoso, picaresco mordente avvincente diluito nel proverbiale, caustico black humor tipico del Tarantino style per l’appunto goliardico e corrosivo.
Cosicché, fra le cinefile apparizioni di Tarantino stesso (non vi riveliamo quando), di James Remar (I guerrieri della notte, Cruising), Tom Savini (Dal tramonto all’alba), Robert Carradine, James Russo, Walton Goggins & Bruce Dern pre-The Hateful Eight, fra un redivivo Big Daddy/Don Johnson quasi irriconoscibile in quanto qui bravissimo, un Jonah Hill (non accreditato) in mezzo a esilaranti corsiere del Ku Klux Klan e uno splendido, volutamente patetico Samuel L. Jackson irresistibile, Django Unchained intrattiene con gusto, illuminato dalla morbida e chiaroscurale, perennemente fascinosa fotografia del mago Robert Richardson.
Però nell’ultima ora, dopo un primo tempo scintillante e profumato di Tarantino vividissimo, luccicante e incantevole in virtù delle sue spassose, spiazzanti trovate esuberanti e ipnotiche, Django Unchained perde leggermente e gravemente quota, avvitandosi in un intreccio soporifero e scarsamente interessante. Tale inizio di forte caduta di tono e ritmo, purtroppo, coincide forse casualmente con l’entrata in scena del character incarnato da DiCaprio. Qui per la prima volta villain.
Non è stata colpa di DiCaprio. Perlomeno non del tutto. Il suo personaggio è bidimensionale, poco per l’appunto psicologicamente caratterizzato, tagliato esageratamente con l’accetta. E non gli giova la recitazione d’uno stesso DiCaprio spesso insopportabilmente gigionesco e di maniera a cui Tarantino ha chiesto espressamente di recitare così, sfoderando cioè smorfie e risate granguignolesche di natura compiaciuta, dunque artefatte e impostate registicamente in modo fine a sé stesse. Grazie soltanto al carisma di DiCaprio, il suo insostenibile Candie regge e illumina.
Dunque, Django Unchained, sebbene sia un’opera di classe invidiabile, stenta parecchio verso la fine, anzi sbanda e rischia di sbriciolarsi, smantellato e spogliato della sua iniziale, granitica interezza, adagiandosi diegeticamente in un plot conclusivo abbastanza pacchiano, risaputo, mal calibrato e quindi arricciato. Sanguinolento in maniera immoderata, in tal caso non necessaria, e improntato alla spettacolarizzazione più truculenta e volgarmente splatter. Afflosciandosi e franando in un the end dolciastro e poco verosimigliante. Poco peraltro emozionante e, paradossalmente, a livello di pathos, stilisticamente anodino, ruffiano e anemico.
Peccato davvero. Non ci aspettiamo che Tarantino sia cinico a tutti i costi, nemmeno però così retorico e buonista.
Nonostante ciò, Django Unchained rimane un ottimo film. Ripetiamo, il quarto miglior film di Tarantino su una scala da 1 a 9, fino a questo punto.
Ecco, colui che è l’autore di tale recensione, dicendovi quanto appena dettovi, vi ha paurosamente freddato?
Poiché s’evince che, sebbene qualche volta ami alla follia Tarantino, allo stesso modo non riesce sino in fondo ad amarlo appieno quando lo stesso Tarantino si ama troppo e smarrisce, così facendo, anzi a causa del suo strafare, il suo grandioso talento in giocattoloni puerili, inutili ed esacerbati.
Come si suol dire, in Django… vi è troppa carne al fuoco. Non solo quella delle sue carneficine efferate a cui assistiamo e delle esplosive sparatorie interminabilmente noiose e telefonate.
di Stefano Falotico
SPIRITI NELLE TENEBRE, recensione
Ebbene oggi recensiamo Spiriti nelle tenebre (The Ghost and the Darkness), diretto dal veterano Stephen Hopkins, regista di grandi ambizioni e su cui noi cinefili nutrivamo forti aspettative, purtroppo oramai smarritosi ed oscurato nel limbo del dimenticatoio malgrado avesse sempre lasciato intravedere il suo talento cristallino, sebbene altalenante, prodigandosi con ingegno, impegno e ferrea abnegazione nient’affatto disdicevole eppur non rimarchevole, nel realizzare pellicole forse non straordinarie e annoverabili fra i capolavori della Settima Arte più inestimabile, non pienamente compiute, probabilmente irrisolte e perfino a tratti irrisorie, esageratamente kitsch ma allo stesso tempo assai interessanti e non prive d’una attraente, peculiare, originale e personale inventiva in esse da lui profusa. Il carnet filmografico di Hopkins, infatti, lasciava intendere e presagire, ancora evidenziamolo e fortemente annotiamolo, una carriera, se non strepitosa e perfetta, perlomeno ben più qualitativamente appagante. In quanto diresse film notevolmente difettosi, sì, eppur decisamente a loro modo brillanti come Predator 2, Cuba Libre – La notte del giudizio e Blown Away.
Spiriti nelle tenebre doveva essere, difatti, uno dei film evento dell’annata in cui uscì e da noi fu distribuito sotto Natale del ‘96. Poiché in molti pensarono, per l’appunto, che nonostante l’argomento principale della trama e i suoi sviluppi ben si discostassero dal lieto e dolciastro periodo natalizio, sarebbe stato opportuno rilasciarlo nelle sale in un periodo nel quale la gente, in massa, si riversa nei cinema.
In parole povere, anche da noi in Italia s’optò per una release date da pienone e blockbuster delle grandi occasioni festive.
Ma Spiriti nelle tenebre non solo non divenne un campione d’incassi, bensì fu anche sonoramente stroncato dalla maggior parte della Critica. Comunque, non andò malissimo al botteghino.
Spiriti nelle tenebre, come stavamo accennando, lasciò dubbiosa e assai perplessa molta Critica, però a torto poiché, come cercheremo di specificare e brevemente disaminare nella nostra sintetica ma speriamo esaustiva analisi di tale seguente nostra opinione sottostante, il film da noi preso in questione, vale a dire naturalmente Spiriti nelle tenebre, con tutta probabilità non meritava assolutamente le pesanti stroncature che, all’epoca, ricevette in forma impietosa in quasi tutte le mondiali, micidiali e spietate, ricevute recensioni negativamente implacabili.
Sceneggiato dal compianto William Goldman, imprescindibile writer di molti rilevanti film con Dustin Hoffman degli anni settanta, quali ad esempio Papillon, Tutti gli uomini del presidente e Il maratoneta, anche di Butch Cassidy, Misery non deve morire e Potere assoluto, suadentemente ma non memorabilmente musicato da Jerry Goldsmith (Rambo), soprattutto fotografato dal superbo maestro delle luci Vilmos Zsigmond (Il cacciatore, Black Dahlia, Lo spaventapasseri), Spiriti nelle tenebre dura un’ora e cinquanta minuti che, a dispetto di quel che disse e tuttora dica molta snobistica intellighenzia superficiale e sbrigativa, avvincono e appassionano grazie alla sapiente, congegnata mistura diluitavi nella narrataci vicenda, tratta peraltro da una storia incredibilmente vera. Una vicenda avventurosa robustamente sorretta da un duo d’interpreti ottimamente affiatati e in discreta forma attoriale alquanto ineccepibile, cioè Val Kilmer e Michael Douglas. Il film si basa, in forma decisamente romanzata e adattata per il grande schermo alle hollywoodiane esigenze spettacolari non poco retoriche, insomma all’acqua di rose, sulle memorie del colonnello John Henry Patterson (interpretato da Kilmer). Il quale, a sua volta, romanzò per l’appunto un episodio realmente accaduto, riguardante la caccia efferata a dei maledetti leoni feroci.
Trama, ridotta all’osso per evitarvi disturbanti spoiler: l’ambizioso e valente, infallibile ingegnere Patterson viene assunto da un ricco magnate di nome Robert Beaumont (Tom Wilkinson), spregiudicato e cinico oltre ogni dire, affinché si rechi in Kenya, esattamente su una sponda del fiume Tsavo, per costruire un ponte che unisca due mondi fin a quel momento separati dalle acque…
Patterson parte dunque alla volta della colonia inglese situata nel caldissimo ed equatoriale luogo, sopra citatovi, per portare onorevolmente a termine la sua missione. Abbandonando la moglie Helena (Emily Mortimer) in dolce attesa d’un primogenito nascituro di sesso maschile.
Qui viene presto a conoscenza che la sua impresa, destinata ad entrare comunque nei libri di Storia, sarà però più complicata del previsto. Innanzitutto, la popolazione del posto soffre di malaria, inoltre dei temibili leoni invincibili, forse dai poteri sovrannaturali, stanno massacrando gli indigeni.
Paiono immortali e imprendibili. Riuscirà Patterson, coadiuvato dallo scafato cacciatore Charles Remington (Michael Douglas), a sconfiggere e debellare tale abominio partorito forse dal Maligno?
Opera dai molti pregi visivi, fascinosa e diretta con mano ferma, Spiriti nelle tenebre è però assai carente nei dialoghi, molto fiacchi e decisamente anacronistici, compresa una metafora di Douglas/Remington sul pugilato. Arte nobile che, per quanto sia antichissima, risalente addirittura a millenni infinitamente anteriori all’anno 1898 in cui è ambientato il film, nella maniera in cui modernamente, potremmo dire, viene pronunciata, appunto, la battuta di Douglas rivolta al personaggio di Kilmer, appare incommensurabilmente stonata cronologicamente rispetto alla fine del secolo scorso.
Detto ciò, a dispetto delle sue vistose difettosità, Spiriti nelle tenebre coinvolge appieno e ammalia, risentendo forse solamente d’un finale blando e poco magniloquente.
Se a dirigere questo film fosse stato Werner Herzog, sarebbe stato un capolavoro? La nostra domanda è alquanto retorica…
Effetti speciali animatronici firmati da Stan Winston e Oscar al miglior montaggio sonoro.
di Stefano Falotico
FUORI CONTROLLO (Edge of Darkness) – Recensione
Ebbene, oggi recensiamo uno dei film action–thriller più sottovalutati degli ultimi quindici anni, ovvero Fuori controllo. Da noi tradotto esattamente ma malamente così, cioè in modo abbastanza banale, generico e anonimo che si discosta ampiamente, invece, dal tenebroso e ben più evocativo, splendido titolo originale, ovvero Edge of Darkness. Diretto dallo specialista del genere Martin Campbell, autore di opere pregiate e purtroppo spesso snobbate come l’adrenalinico e magnifico, post-apocalittico Fuga da Absolom, regista de La maschera di Zorro e soprattutto dei due 007 rispettivamente con Pierce Brosnan, GoldenEye, e Daniel Craig, quest’ultimo al suo esordio proprio con Campbell nei panni dell’agente segreto al servizio di sua maestà più famoso del mondo, vale a dire il James Bond di Casino Royale, Fuori controllo è una pellicola del 2010 dalla secca, nettissima, compatta e super avvincente durata di 108 min. circa. Basato, assai alla larga, sull’omonima serie Tv con soggetto di Troy Kennedy-Martin, sceneggiato e a suo modo adattato con finezza, soprattutto nei dialoghi ficcanti e schietti, dal rinomato duo formato da Andrew Bovell (Lantana) e da William Monahan (The Departed, il prossimo Philip Marlowe con Liam Neeson per la regia di Neil Jordan), Fuori controllo si avvale d’un Mel Gibson in strepitosa forma recitativa, qui ritornato in sella alla grandissima dopo alcuni anni d’appannamento attoriale, immersosi nell’incarnazione assai sentita e viscerale, palpitante e vivamente emozionante d’un character che potremmo considerare una sorta di prosecuzione ideale dei suoi fascinosi eppur follemente lucidi personaggi presenti già in alcune sue pellicole da performer quali sono state, per esempio, Ipotesi di complotto di Richard Donner oppure Ransom di Ron Howard. Eh già, i film di spionaggio ad alto tasso di tensioni e terribili, oscuri misteri insoluti, hanno sempre attratto l’interesse dell’interprete di Arma letale, chissà come mai…
All’epoca della sua uscita, Fuori controllo fu mal accolto dalla Critica a livello mondiale. L’unico a parlarne in termini estremamente lusinghieri, secondo noi a ragion veduta, fu il nostro compianto e deceduto Morando Morandini nel suo celebre Dizionario… Dunque, vi copia-incolleremo qui la trama da lui riportata di Fuori controllo, contenuta per l’appunto nel suo tomo dizionaristico adesso ereditato dalle figlie Laura e Luisa, estrapolandovi e ivi trascrivendo altresì le sue quanto mai pertinenti e soprattutto lungimiranti, perfette considerazioni recensorie in merito:
Il vedovo Thomas Craven, detective della Omicidi di Boston, e la 24enne Emma, amatissima figlia, arrivano sotto la casa di lui quando da un’auto in corsa 2 spari uccidono Emma. Alla polizia presumono che il bersaglio fosse lui, ma sbagliano. Craven decide di identificare l’assassino a tutti i costi, e non per arrestarlo. Scopre la doppia vita di Emma; si trova in un intricato complotto di spionaggio industriale, sicurezza nazionale, commercio di armi nucleari, collusioni governative. Con un Craven introverso e dolente, Gibson recita sotto le righe, quando non si scatena con la violenza. Il suo sguardo è quello del regista. 2 ore di suspense, interrotta da rapidi flash di Emma bambina.
È una storia di vendetta in forma di giallo d’azione. Comincia con un omicidio e si chiude con la morte violenta di tutti i personaggi principali: è uno dei migliori thriller hollywoodiani degli anni 2000. In ordine di importanza i meriti sono: 1) sceneggiatura e dialoghi di William Monahan e Andrew Bovell; 2) regia del neozelandese Campbell che aveva già diretto l’omonima e pluripremiata miniserie britannica (1985) da cui deriva; 3) l’australiano Gibson, protagonista assoluto dopo 7 anni di assenza come attore, ma anche la sua spalla inglese Winstone nella parte del “ripulitore”. Sono gli unici personaggi onesti della vicenda.
Nel variegato e inappuntabile cast, Danny Huston (Robin Hood) e Frank Grillo (da poco visto assieme a Gibson in Quello che non ti uccide di Joe Carnahan). Musiche di Howard Shore (Il silenzio degli innocenti, Crash e Il Pasto nudo).
Curiosità: al posto di Ray Winstone (Hugo Cabret) fu inizialmente scelto Robert De Niro. Il quale però, dopo circa una settimana dall’inizio delle riprese, a causa di divergenze artistiche con Campbell, abbandonò il progetto.
di Stefano Falotico
LIAM NEESON is PHILIP MARLOWE
Ebbene, stando alla sempre assai attendibile Deadline, Liam Neeson finalmente sta riuscendo a concretizzare il suo sogno d’incarnare uno dei detective più famosi a livello letterario-cinematografico, ovvero Philip Marlowe. Celeberrimo personaggio fittizio nato dalla penna di Raymond Chandler, entrato da tempo immemorabile nell’immaginario collettivo di noi tutti.
Vestire i panni di Marlowe, ripetiamo, è stata da anni un’idea fissa di Neeson. E, qualche anno fa, fu diffusa difatti la notizia secondo cui William Monahan, sceneggiatore premio Oscar per The Departed, era in procinto di allestire uno script inerente per l’appunto Marlowe, esclusivamente concepito affinché fosse Neeson a impersonarlo.
A quanto pare, Neil Jordan (Intervista col vampiro), regista amico di lunga data di Neeson, da lui peraltro diretto nell’acclamato Michael Collins e in Breakfast on Pluto, si sta accingendo a dirigere il Marlowe in questione, però ancora senza titolo preciso.
Le riprese inizieranno il prossimo autunno a Los Angeles e in Europa.
Secondo la breve, informativa sinossi rilasciataci, la trama di questo moderno Marlowe con Neeson sarà pressappoco questa:
Il film si baserà sul romanzo The Black-Eyed Blonde, verrà ambientato negli anni cinquanta e vedrà il detective privato Marlowe (Neeson) ingaggiato per trovare l’ex amante di un’affascinante ereditiera.
Inizialmente sembra un caso aperto ma ostico e archiviato, eppur Marlowe si ritroverà presto nel ventre dell’industria cinematografica di Hollywood e sarà inconsapevolmente coinvolto nel fuoco incrociato di una leggendaria attrice e della sua sovversiva e ambiziosa figlia.
Cosa ne pensate? Ve lo vedete il grande Neeson, interprete meraviglioso già del crepuscolare investigatore privato nel superbo La preda perfetta (come da foto sopra), diventare Marlowe per il grande schermo?
di Stefano Falotico