Café Society, recensione
Ebbene, finalmente lo scorso 6 maggio è uscita, nei cinema italiani, l’ultima opus di Woody Allen. Ovvero Rifkin’s Festival. Ora, stando a IMDb, l’immarcescibile monsieur Woody Allen (newyorchese ebreo nato all’anagrafe come Allan Stewart Konigsberg, classe ‘35), può vantare, nel suo carnet e nel suo impressionante, perlaceo excursus cineastico, cinquantuno pellicole da regista.
Mentre per Paolo Mereghetti, Rifkin’s Festival segnerebbe la sua quarantottesima prova dietro la macchina da presa, tralasciando forse l’episodio di New York Stories e un paio di regie per la tv…
Ebbene, tornando indietro leggermente con la memoria, andiamo a ripescare il sottovalutato e magnifico Café Society del 2016. Opera invero alquanto apprezzata, ai tempi della sua uscita, dalla Critica cinematografica statunitense, invece piuttosto snobbata da noi. Ed erroneamente reputata minore, forse perfino dallo stesso Mereghetti, il quale l’apprezzò moderatamente, assegnandole due stellette e mezzo lusinghiere ma probabilmente sminuenti il suo pieno valore ben più stimabile. In tal caso, infatti e a nostro parere personalissimo, Mereghetti recensì la bellissima opera di Allen in modo troppo moderato, poco avveduto e dunque anche lui un po’ la sottostimò in maniera sbadata, peranco sbagliata.
Café Society è un film straordinario, privo delle benché minime sbavature.
Sennonché noi invece qui la rivaluteremo ampiamente come giustamente merita. Poiché Café Society è certamente il film più altamente incompreso, seducente e qualitativamente raffinato, ammaliante e addirittura maggiormente commovente e sincero dell’ultima decade alleniana.
Una dolcissima silloge poetica espressa elegantissimamente in celluloide profumata di magici effluvi toccanti, una perfetta e linda materia cinematografica purissima, un gioiello illuminato da una turgida e suggestiva fotografia d’atmosfera firmata da un ritrovato Vittorio Storaro (qui alla sua prima collaborazione storica con Allen) assai ispirato e precisamente intonato a un Allen ipnotico.
Uno Storaro prodigioso che, pur avvalendosi d’una color correction continua, non eccede in pigmentazioni esagerate a mo’ de La ruota delle meraviglie, cioè non sovrabbonda, a dispetto del film appena citatovi con Kate Winslet, di trucchi ed espedienti tecnici in sede post-produttiva, forgiando invece con levità delicatissima le sue pittoriche e pittoresche immagini fantasmagoriche, impregnandole di sobria, liquida beltà fiammeggiante di monumentale scuola magistrale e inondandole con gusto sopraffino senza mai essere ridondante, giocando in maniera sublime con sottili, abbacinanti scale cromatiche davvero inarrivabili ed encomiabili.
Trama: siamo nella rutilante e multietnica New York degli anni trenta. Anche se l’anno esatto non viene specificato ma lo deduciamo facilmente e inquadriamo non approssimativamente poiché, durante il film, i due protagonisti della storia si recano al cinema a vedere, per la prima volta proiettato sui grandi schermi, l’epocale The Woman in Red con la gloriosa e leggendaria Barbara Stanwyck.
Il giovane, ambizioso e intraprendente tuttofare Bobby Dorfman (un bravissimo Jesse Eisenberg, perfetto alter ego in miniatura, come sovente accade nei film di Allen, di Allen stesso) abbandona la sua città natia e s’invola alla volta della Mecca, fabbrica dei sogni, di nome Hollywood in quel di Los Angeles.
Poiché, attanagliato da una famiglia in cui si sente stretto e soffocato, vuole fare carriera nel mondo dello spettacolo e delle grandi star della settima arte più altisonante, chiedendo aiuto al suo potente zio Phil Stern (Steve Carell), stimato produttore sempre indaffarato, affinché quest’ultimo possa in qualche modo istradarlo al succitato mondo dorato. Presto, Bobby s’innamora della segretaria di suo zio, l’incantevole sognatrice Vonnie (Kristen Stewart), ragazza semplice che a sua volta viene folgorata, di classico colpo di fulmine impetuosamente romantico, dal tenero Bobby.
Ma forse Vonnie ha un altro uomo, forse costui è uno di famiglia?
Poi arriverà, nella vita di Bobby, un’altra donna di nome Veronica. Anche lei detta Vonnie, interpretata da Blake Lively.
Cammeo di Laura Palmer/Sheryl Lee, Parker Posey, Ken Stott e Corey Stoll nella parte del fratello di Bobby, di professione gangster. Ah ah. Senza dimenticare la bellissima ed esilarante particina di Anna Camp/Candy.
Ma un nome, oltre a quello di Eisenberg, della Stewart e di Carell, spicca come sempre di classe recitativa immensa, ovvero quello della veterana, esteticamente orrenda ma carismaticamente gigantesca, Jeannie Berlin.
Vale a dire colei che interpretò la tostissima e cattivissima, intransigente avvocatessa penalista Helen Wiess nella serie HBO capolavoro The Night Of.
Peccato che, contro di lei, donna leguleia mostruosamente rapace e capace, stronza come poche, vi fosse il mitico John Stone, alias John Turturro (inizialmente la parte, pensata per James Gandolfini, morto però infartuato, fu accettata da De Niro che poi declinò per sopravvenuti impegni inconciliabili)
Un personaggio inarrendevole questo cazzo di Stone.
Un personaggio alla Falotico.
Uno che vuole vederci sempre chiaro e non si attiene alle cazzate di Anna Camp, no, di Bill camp.
Bill Camp, colui che dà la caccia a Joker, cioè Joaquin Phoenix di Vizio di forma con la Berlin?
Ah ah, ma sono veramente un genius–pop cinefilo, autodidatta in psichiatria e in Legge come Travis Bickle e Rupert Pupkin, rispettivamente di Taxi Driver & Re per una notte?
Macché, Falotico è il Max Cady/De Niro di Cape Fear – Il promontorio della paura?
Colui che non abbisognò di laurearsi a qualche Alma Mater Studiorum ma partì da Le avventure di Max il leprotto per costruirsi, da solo, un curriculum vitae degno di Sutter Cane de Il seme della follia?
Sì, ne sono la versione buona e filantropica, pedagoga e lontana da ogni religione pendente dalle labbra di sinagoghe o affini stronzate varie.
Qui sotto è tutto editorialmente attestato, scrivo peraltro per due riviste di Cinema online, vere giornalistiche testate del mio prendere tutti i testardi, i quali si credono sani adulti sapientoni, in quanto malati di resipiscenza e cronico solipsismo assai limitato, al fine finissimo di educarli intellettualmente e lietamente condurli al teatro Testoni di Bologna e pure all’Arena del Sole.
Fra l’altro, non vorrei imbrodarmi, ma sono più bravo di De Niro.
O no?
Su questa freddura finale alla Falò, vi auguro buona domenica e statem’ bon’.
Ah ah. Comunque, ricordate: la voce narrante nel film di Allen è del grande Leo Gullotta! Ah ah.
E Joe Pesci di The Irishman e di Mio cugino Vincenzo lo sa. Ah ah
https://www.ibs.it/libri/autori/stefano-falotico
di Stefano Falotico
American Traitor: The Trial of Axis Sally – TRAILER with AL PACINO
Based on the true story, AMERICAN TRAITOR: THE TRIAL OF AXIS SALLY follows the life of American woman Mildred Gillars (Meadow Williams) and her lawyer (Al Pacino), who struggles to redeem her reputation. Dubbed “Axis Sally” for broadcasting Nazi propaganda to American troops during World War II, Mildred’s story exposes the dark underbelly of the Third Reich’s hate-filled propaganda machine, her eventual capture in Berlin, and subsequent trial for treason against the United States after the war. Starring: Meadow Williams, Thomas Kretschmann, Al Pacino Directed by: Michael Polish Release Date: In Theaters and VOD 5/28/21
BENEDETTA, il trailer della nuova opus di Paul Verhoeven con la stupenda, irraggiungibile, sensualmente ipnotica VIRGINIE EFIRA
Ebbene, dopo i notevoli disagi cagionatici mondialmente dal pandemico COVID-19, il Cinema sta veramente, finalmente riaprendo i battenti alla pari delle nostre vite più libere e aperte…
Dunque, nelle scorse ore è stato rilasciato ufficialmente il primo trailer originale della nuova, attesissima opus del maestro Paul Verhoeven (Basic Instinct, RoboCop), ovvero Benedetta.
Benedetta è entrato, da quanto apprendiamo tramite Deadline, in Concorso al prossimo Festival di Cannes che si svolgerà però tardivamente rispetto al solito. Difatti, normalmente la kermesse cannense si sarebbe dovuta svolgere a breve, invece quest’anno è stata posticipata dal 6 al 17 Luglio per comprensibili ragioni evidentemente deducibili e comunque sopra spiegatevi.
Già precedentemente annunciato da una locandina, diciamo, pruriginosa nella sua versione non censurata, Benedetta infatti sarà l’ennesima opera provocatoria, virtuosamente scandalosa e al contempo sottilmente enigmatica e sofisticata di Verhoeven.
Scritto dallo stesso Verhoeven assieme allo sceneggiatore David Birke, così come già avvenuto per l’acclamato Elle, tratto da una storia vera a sua volta qui adattata dal romanzo di Judith C. Brown, Benedetta è ambientato nell’Italia del 1700 nel quale l’omonima suora (Virginie Efira) soffre di disturbanti ed erotiche visioni forse allucinatorie. Nel frattempo, sviluppa un rapporto via via più morboso e sensualmente scabroso con una compagna…
Benedetta è incarnata dalla splendida attrice belga, classe ‘77, Virginie Efira. Destinata ad accrescere, con quest’imminente film di Verhoeven, la sua fama d’interprete oltre che bravissima, estremamente magnetica e ipnoticamente meravigliosa.
Una bellezza impressionante e abbacinante quella dell’Efira, qui accompagnata da un cast altrettanto straordinario formato da Charlotte Rampling, Daphné Patakia, Lambert Wilson e Olivier Rabourdin
Gustiamoci dunque le primissime, calde, torbide ed eleganti immagini di questo trailer davvero interessante…di Stefano Falotico
Rifkin’s Festival, recensione
Ebbene, spero di essere libero di scatenarmi sull’ultima opus di Woody Allen, qui alla sua 48° prova dietro la macchina da presa. Ancora una volta purtroppo, così come accaduto nell’ultima decade, ahinoi, semi-fallimentare e deprimente nell’accezione di quest’ultimo termine peggiore.
Ecco, se soffrite semmai di disistima, se siete malati patologici di depressione, bipolare o meno, se siete inclini a vivere in maniera angosciosa la vostra vita, in quanto da tempo immemorabile imprigionati nel vostro solipsismo per l’appunto à la Woody Allen psichiatricamente incurabile, il quale da sempre, avendo preso coscienza assai precocemente di non poterla buttare sul sex appeal irresistibile alla Alain Delon dei tempi d’oro, anziché suicidarsi, è stato ed è enormemente stimabile perché, pur probabilmente abusando di psicofarmaci e/o neurolettici, perlomeno sicuramente di tranquillanti, più o meno blandi o assai pesanti, atti a inibire e sedare le sue rabbie ataviche cagionategli dalla sua immagine non certo esaltante dinanzi allo specchio, ha trasformato l’incarnazione vivente della sfiga fatta persona, da lui esemplificata nel suo sgorbio vivente, sensualmente inaccettabile, traslandola in Arte cinematografica per darsi la spinta vitale forse consolatoria e personalmente ricattatoria, ecco… avete capito.
Woody non sta comunque messo così male. Pensiamo per esempio a molte donne (soprattutto contemporanee) che, per resistere alle frustrazioni quotidiane, ascoltano Gianna Nannini oppure si danno, da dannate, alla meditazione trascendentale, sapendo di non essere molto sexy, diciamocela apertamente. Eh sì, sono le classiche donne che sanno trascendere, eccome, ah ah, che sbavano segretamente per ogni maschio che incontrano per strada, poi s’intrufolano in qualche amena tavola calda, più che altro paninerie dominate da presenze maschili simili alle combriccole virili, anzi vili, di Sotto accusa con Jodie Foster (e ho detto tutto…). E, senza sprezzo del pericolo, represse al massimo, approcciano il primo troglodita che capiti loro a/sotto tiro…, offrendogli una vodka liscia per movimentare un po’ la sporca faccenda delle loro inguaribili, perenni e avvilenti mortificazioni giornaliere da insoddisfatte insopprimibili poiché son deluse da inestinguibili, lacrimose, invincibili e madornali auto-costernazioni veramente degradanti delle più atroci e impagabili da eterne inappagate eppur convinte di farcela, fra le mutande certamente, ah ah, almeno una volta per 15 minuti di celebrità non tanto warholiana, detta altresì sveltina nel bagno puzzolente frequentato da uomini che, in tempi odierni di COVID-19, non solo come loro solito non si lavano le mani dopo la minzione, bensì non usano nemmeno il gel igienizzante per sterilizzare quello esibito da Cameron Diaz in Tutti pazzi per Mary. Uomini da Mery per sempre, veri Ragazzi fuori a cui queste donne senza dignità, per l’appunto, pur di ottenere una promozione (promozione?), pagherebbero addirittura anche Harvey Weinstein in carcere al fine di agguantare almeno un cammeo in uno spot pubblicitario assai buonista del Mulino Bianco o della torta Cameo con protagonista, fra l’altro, l’ex figa o racchia fascinosa, no, ex schermitrice Valentina Vezzali.
La quale, dopo essere stata testimone dello sposo, no, testimonial dei Kinder Cereali, da dura spadaccina tricolore dell’orgoglio femminile MeToo, adesso milita come sottosegretaria di Stato alla Presidenza delle conigliette, no, del Consiglio dei Ministri. Sì, Valentina è in piena zona Mara Carfagna ante litteram, è donna che emana una sensualità da signorina Silvani di Fantozzi. Ah ah. Ma non cazzeggiamo, dai, non siamo in un film di chiappe e spade. No, scusate, in un cappa e spada come I duellanti, Valentina ha molte frecce al suo arco da femminea Errol Flynn di Robin Hood mista alla Ginevra dell’Excalibur di John Boorman, e personifica di certo la versione muliebre di Douglas Fairbanks con tanto di Scaramouche.
Torniamo alla questione Woody Allen. Ebbene, pur essendo sempre stato costui un Allan Stewart Konigsberg ebreo anche in senso, come detto, sfigato… no, figurato, non è mai finito socialmente sfigurato e arso vivo. Poiché, grazie al suo genio da bruttone coglione con un non so che di volpone, è riuscito per anni a portarsi a letto perfino la protagonista de Il dormiglione, ovvero Diane Keaton. Insomma, un donnone.
Sì, riuscì a circuirla e a plagiarla, persuadendola di essere un genio comico oltre che cosmico. Anche se il suo rapporto afasico e altalenante con Diane, privatamente e cinematograficamente, visse d’alti e bassi tipici dell’andamento ciclico non dell’ovulazione, bensì della più nera depressione e chissà… anche soventemente di mancanza d’ere… one.
Io e Annie, Manhattan, Amore e guerra, Interiors…, ah, filmoni, con tanto d’intermezzo di Al Pacino, fiamma giammai spenta nel cuore di Diane, a rompere i marroni e le uova nel paniere, con tanto di Mia Farrow a rovinargli la reputazione, nonostante le ottime recensioni avute per i tanti film da lui scritti e diretti con l’interprete principale di Rosemary’s Baby.
Insomma, va detta la verità, caro Woody. Hai sempre saputo di non essere bono come Henry Cavill di Basta che funzioni, hai preso presto cosce, no, coscienza di non emanare una carnalità mascolina da homo eroticus per eccellenza, ovvero da Jean-Paul Belmondo di Fino all’ultimo respiro, sei sempre stato conscio di non essere nemmeno Richard Gere del non deprecabile remake All’ultimo respiro. Eppure, malgrado tu non sia neppure Louis Garrel di tale tuo Rifkin’s Festival, ecciti… no, citi nella tua ultima pellicola persino Tom Hardy e Ryan Gosling.
Scegliendo stavolta come tuo alter ego un attore bravissimo, vale a dire Wallace Shawn. Il quale però è pressoché identico al compianto Paolo Villaggio e non è ovviamente una sexy beast con la sua lei (Gina Gershon) alla pari di mr. Mi dà gusto mangiare la patata, alias Nicolas Cage/Castor Troy di Face/Off.
Al che, in questo film ove omaggi Luis Buñuel, inserisci attrici belle-non belle da Cinema di Pedro Almodóvar come Elena Anaya e connazionali spagnoleggianti in tutti i sensi. Perlomeno, lo furono ai tempi di Una relazione privata. Sì, Lui (si chiama, per modo di dire, proprio così in questo succitato, eccitante film scandalo di Frédéric Fonteyne, con Nathalie Baye), cioè Sergi López. Piccoli affari sporchi docet…
Qui, Sergi è Paco, pittore dadaista-surrealista alla Wassily Kandinsky, una sorta di Pablo Picasso dell’affrescare ogni amante bella quand’è ignuda come Valérie Kaprisky. Ci mancava soltanto che citassi pure Emmanuelle Beart, ça va sans dire, La bella scontrosa (La Belle Noiseuse) di Jacques Rivette.
Piaciuto l’ammiccamento? No, non l’occhiolino da Javier Bardem di Vicky Cristina Barcelona. Mi rifaccio… al rifacimento di Breathless.
Cosicché, Woody dai libero sfogo qui alle tue manie da cinefilo di razza e d’eccezione…, tirando in ballo Quarto potere, Godard, Truffaut, Federico Fellini e il tuo immancabile, adorato Bergman.
Non siamo però dalle parti di Un’altra donna e Settembre. Inoltre, la fotografia non è di Sven Nykvist. Anche perché Sven è Mort come il nome del character interpretato da Shawn?
No, è morto e ora, Woody, ti sei affidato a Vittorio Storaro. Il quale fotografa il tuo film in maniera smorta.
Rifkin’s Festival, su metacritic.com, ha una scarsa media recensoria, vale a dire un mediocrissimo 43% di critiche positive. Giustamente perché, sebbene qua in Europa i critici continuino ad acclamarti, questa tua ultima operina è davvero poverina. Fa pena come Mort.
Lagnosa, penosa, patetica, una cantilena indigesta di scenette e battutine trite e ritrite in cui fai il verso al Woody che fosti.
L’unico che ancora crede in te, Woody, è Paolo Mereghetti.
Che, nel suo editoriale del Corriere della Sera, afferma che il tuo film non è che sia effettivamente il massimo ma in alcuni momenti tira come se avesse assunto un Viagra in formato celluloide.
Ecco le sue testuali parole lapidarie del Paolino che non ti assegna il suo celeberrimo, vuoto pallino:
«Cos’ha da dirmi dopo tutto quello che le ho raccontato?». È la domanda con cui Mort Rifkin (Wallace Shawn) si rivolge al suo analista, dopo aver raccontato — a lui e allo spettatore — quel che ha vissuto accompagnando Sue (Gina Gershon), la moglie publicist, al festival di San Sebastián. Ma la domanda con cui finisce «Rifkin’s Festival» è come se Woody Allen la rivolgesse al pubblico e a se stesso: cosa abbiamo visto? cosa ne pensiamo?
E allora, tirato direttamente in ballo, arrischio anch’io la mia personale risposta: ho visto l’ennesima dimostrazione dell’intelligenza cinematografica di Woody Allen, della sua idea di cinema come divertimento, come piacere, come gioco ma anche come riflessione e nostalgia. Il rimpianto per un cinema e un mondo diversi, che fanno del regista e del suo alter ego sullo schermo (impossibile anche solo dubitare che non ci sia un’identificazione totale) due sopravvissuti, decisi però — e qui sta forse il vero «messaggio» del film — a non volersi arrendere nel riempire di piaceri una vita cui si fatica sempre a trovare un senso.
Piaceri che poi sono sempre quelli che conosciamo, gli stessi che ha raccontato nei suoi film e che ci ha ricordato in «Una giornata di pioggia a New York» (le passeggiate per Central Park, i caffè dove puoi mangiare un buon hamburger, una pausa sui grandini del Metropolitan a farsi scaldare dal sole primaverile) oppure in «Midnight in Paris» (l’irresistibile fascino di boulevard Saint Michel sotto la pioggia). Piccole madelaine di un personalissimo bagaglio di ricordi, in perfetta sintonia con un uomo metodico e agé come appunto è Woody Allen, a cui si aggiunge in questo film una più esplicita dichiarazione d’amore cinefilo. I nomi sono sempre quelli (Fellini, Bergman, Welles, Truffaut cui si aggiungono un po’ a sorpresa Godard, Lelouch e Buñuel) ma rivisitati in un giochino citazionista che diventa una delle ragioni del divertimento.
Raccontando infatti all’analista il suo soggiorno spagnolo, durante il quale trovano concretezza i dubbi sulla fedeltà della moglie, fin troppo coinvolta dal suo giovane cliente — Philippe (Louis Garrel), un regista post Nouvelle Vague pomposo e vanesio — Mort si concentra soprattutto sui sogni dove il processo onirico sembra divertirsi a mescolare accadimenti della vita con scene celeberrime. Eliminando il colore con cui Vittorio Storaro immortala i caldi pomeriggi baschi per passare a un mimetico bianco e nero, ecco che «Quarto potere» diventa il mezzo per raccontare l’infanzia di Mort e il suo amore perduto, la scena alle terme di «8 ½» ironizza sui suoi tentativi di scrivere un romanzo, «Jules e Jim» di Truffaut e «Fino all’ultimo respiro» di Godard servono per drammatizzare le sue sbandate matrimoniali, «Un uomo e una donna» di Lelouch per dar forma al sogno di una possibile avventura con la bella dottoressa Rojas (Elena Ayana)…
Perché non dobbiamo mai dimenticare che siamo in un film di Woody Allen, dove l’ipocondria e le malattie più o meno immaginarie hanno un ruolo determinante, per esempio per introdurre il personaggio di una dottoressa sentimentalmente infelice ma perfetta per accendere una riflessione sul senso della vita, su quello dell’amore e della fedeltà. E interpretare forse il più divertente dei sogni, dove l’ammirazione per Bergman (e nel caso specifico per «Persona») porta lei e Sue a parlare in svedese.
Certo, dopo un po’ il gioco diventa scoperto e ripetitivo, anche se la sorpresa per i modi in cui vita privata e immaginario cinematografico si intrecciano riservano sempre delle belle sorprese, specie nell’inevitabile incontro con la morte del «Settimo sigillo», qui con la faccia sorniona di Christoph Waltz, meno vendicativo di quello originale. Ma se ne può fare una gran colpa a Woody? Al suo 48° lungometraggio (senza contare film per la tv ed episodi), Allen ricama sulla trama che conosce, quella dell’educato rimpianto per un mondo e quindi per un cinema di cui non vede più equivalenti e di cui si sforza di ricordarci i valori e la bellezza. E su cui risulta francamente difficile dargli torto.
A prescindere dal Mereghetti, il quale è sul moscio forte, che vi piaccia o no, dopo Mediterranea, pure quest’anno Irama spaccherà col tormentone La genesi del tuo colore.
Be’, a essere sinceri, dopo la mia tetrissima adolescenza in cui allentai la noia depressiva, recandomi alla videoteca Balboni di Bologna per noleggiare tutti i film di Woody Allen, compresi naturalmente Radio Days e Alice, nessuno si sarebbe aspettato che fossi un tipo non da Monza, bensì da Autodromo di Imola.
Purtroppo, mi spiace deludere i miei trattori, no, detrattori da Gigi il troione fantozziano.
Non ho una voce da rincoglionito come Maurizio Costanzo e non sono un personaggio modaiolo da Maria De Filippi, cioè Fanti Maria Filippo.
Che io ricordi, il mio sogno non era scrivere capolavori letterari come quelli di Joyce e Dostoevskij, oppure parlare dalla mattina alla sera di Cinema alla maniera di Pasolini con Bertolucci.
Ho sempre sognato di essere Chris Hemsworth di Rush.
Sono più basso di Chris ma non sono un povero Christ.
Diciamo che sono un maledetto come Walken Christopher con carisma da Ayrton Senna.
Sì, voglio morire bruciato anche in viso come Niki Lauda.
Ma è la mia vita e sono troppo giovane per giocare a scacchi con Max von Sydow o Christoph Waltz.
Vero?
Quindi, ci sarà un motivo perché ho guadagnato il tesserino da Critico di Cinema ai maggiori festival ma, a differenza dei soliti critici, cioè i barbogi rottami, impiego soltanto un’ora e mezza in macchina per percorrere il tratto Bologna-Venezia (qua, vi è il trattino, ah ah). I critici normali vanno istradati, alle kermesse si recano in treno e sono lenti a capire tutto.
Contempliamo la bellezza. Il raggio dardeggiante del Sole a primavera che, mesto, si posa sul cammino di noi, uomini da Umberto Saba o da omonimo Eco, esperto di ermeneutica, di esegesi-esegetica e diegetica, però non tanto di dieta, siam agnelli in mezzo ai lupi di tale vita dura ché la vita è dolore, travaglio e sofferenza, quindi amore e passione, sacrificio e resurrezione.
Sì, roba da maestrine frustrate.
O no?
Mi schianterò? E chi se ne frega.
Giudizio finale e sintetico: un Allen al minimo storico, comunque carino. Carino, a livello fisico, Allen non lo è mai stato. La verità della vita è solo una. Cioè, si diventa artisti per sublimare i malesseri esistenziali e la bruttezza estetica. Se si è sexy come Belmondo, è giusto vedere un bel mondo.
di Stefano Falotico
UNO DI NOI (Let Him Go), recensione & Trailer
Ebbene, oggi recensiamo lo strepitoso e sorprendente Uno di noi (Let Him Go), scritto e diretto da Thomas Bezucha. Che, per l’occasione, ha ottimamente adattato l’omonimo romanzo di Larry Watson.
Uno di noi è un crepuscolare, dolente, malinconico e soprattutto bellissimo neo–western che c’ha stupito ed emozionato in modo inaspettato. Dura un’ora e cinquantatré minuti che scorrono piacevolmente e, dopo un inizio forse leggermente farraginoso, s’invola verso lidi mansueti di poesia lievissima e alta poetica cinematografica dallo sguardo cristallino assai bilanciato in una fluida narrazione appassionante, perfino toccante.
Attenzione, dunque, a Bezucha. Presto sceneggiatore di The Good House con Sigourney Weaver e Kevin Kline.
Tornando invece a noi, anzi, perdonateci il gioco volontario di parole, a Uno di noi, ritorna qui professionalmente la splendida coppia de L’uomo d’acciaio, ovvero la sempiterna e affascinante Diane Lane e l’intramontabile Kevin Costner. Sì, abbiamo scritto bene, intramontabile ed è il caso di dirlo, in quanto Kevin è metaforicamente ritornato in sella alla grandissima, qualitativamente parlando, dopo alcuni anni di appannamento.
Insomma, il mitico Kevin, regista dell’indimenticabile Balla coi lupi e del magnifico Open Range – Terra di confine, alla faccia dei suoi invidiosi detrattori che, prematuramente, lo decretarono se non finito, perlomeno sul viale del tramonto, ultimamente ci sta nuovamente entusiasmando con prove attoriali davvero degne di nota.
Pensiamo ad esempio all’acclamata serie tv Yellowstone, per l’appunto, emblematico ritratto evidente d’una carriera tutt’altro che arrugginita, bensì ancora dorata, oppure al sottovalutato Highwaymen – L’ultima imboscata di John Lee Hancock (writer, fra l’altro, di Un mondo perfetto).
Avete notato, citando questi film, inoltre come l’excursus filmografico di Costner, tralasciando alcune sentimentali commedie insulse e, purtroppo, molti film sbagliati, mantenga una compatta coerenza ideologico-stilistica d’impeccabile stile, osiamo dire, analogamente cooperiana?
Costner è in effetti figlio del Cinema di John Ford, è un John Wayne contemporaneo dal fascino à la Gary Cooper, per l’appunto. Un uomo liberal e al contempo nipote artistico del dissimile però, allo stesso tempo, gemellare Clint Eastwood. Detto questo, accenniamo brevemente alla trama di Uno di noi:
La stagionata coppia di coniugi Blacklegde, formata dallo sceriffo ritiratosi a vita privata di nome George (Costner) e da sua moglie Margaret (Lane), abbandona momentaneamente la loro abitazione per avventurarsi alla ricerca del piccolo nipote.
Il bambino è però sotto le spietate grinfie d’una famiglia matriarcale retta dall’arcigna arpia Lesley Maniville (Il filo nascosto). I Blackledge hanno assistito alla tragica morte prematura del figlio, disarcionato da cavallo e morto col collo spezzato in circostanze misteriose e non ben chiare.
Finale struggente e al cardiopalma per uno straziante melodramma dalle tonalità autunnali, recitato egregiamente da tutto il cast che, oltre a Costner, Lane e Manville, comprende Jeffrey Donovan.
L’UOMO DELLA PIOGGIA, recensione
Ebbene, oggi recensiamo uno dei film più sottovalutati, perfino bistrattati dell’immenso e indiscutibile Francis Ford Coppola (Apocalypse Now, Rusty il selvaggio, Dracula di Bram Stoker).
Ecco, molte persone bistrattano tuttora Jack, film invece forse da rivalutare e da rivedere col senno di poi, inquadrandolo nella poetica, soventemente incentrata sul tempo perduto, oramai inattingibile, e la nostalgia dell’irrecuperabilità dei momenti migliori della nostra esistenza da ringiovanire, rispolverare, meravigliosamente rievocare e rinnovare continuamente, rinascendo piacevolmente nella godibile regressione alla puerilità più giocosa e autoironica.
Ora, appurato che Jack è superficialmente ma unanimemente considerata la pellicola più brutta (da chi?) dell’indiscusso maestro Francis, torniamo subito a questo L’uomo della pioggia (The Rainmaker). Da non confondere con Rain Man di Barry Levinson, con Dustin Hoffman e Tom Cruise, il cui sottotitolo italiano è identico, per l’appunto, al titolo coppoliano da noi qui preso in questione e al quale dedicheremo la seguente recensione.
Tratto dal romanzo di John Grisham, omonimo nel titolo originale a quest’opus del regista autore di capolavori immortali come Il padrino, L’uomo della pioggia è apparentemente un legal thriller.
Invero, è molto di più. Cioè è l’ennesima, splendida metafora cinematografica, ad opera di Coppola, sulla purezza esistenziale da non corrompere né sporcamente lordare durante l’adulterabile, facilmente compromettente percorso alla vita lavorativa più “adulta”. La quale, per sua natura, è piena di ostacoli. Specialmente ricolma di conflitti d’interesse, potremmo dire, adottando in prestito un’espressione leguleia, destinati inevitabilmente a scontrarsi duramente con la nostra morale coscienziosa e la teorica ma impraticabile etica di non tradire mai i principi di umana giustezza e solidale giustizia equanime.
Trama:
Rudy Baylor (Matt Damon) è un giovane idealista neo-laureato in Giurisprudenza dotato di una sua precisa, integerrima filosofia professionale. Desideroso di far carriera onestamente, si fa assumere dal potente studio avvocatesco capeggiato dal titanico Bruiser Stone (Mickey Rourke), uno squalo forse non propriamente pulito in quanto sporco intrallazzatore d’imbrogli riprovevoli.
Pur di sbarcare il lunario, Rudy inizialmente accetta di ammorbidire la sua ferrea morale. E, per fare praticantato nel mondo reale e spietato dei cinici avvocati senza scrupoli, si affilia al mentore Cicerone di nome Deck Shifflet (Danny DeVito), scalcagnato praticante mai ammesso all’albo, però sottile conoscitore dei meccanismi e dei biechi sotterfugi del sistema giudiziario. Il quale, narrandogli i retroscena e i dietro le quinte della giurisdizione americana, lo porrà dinanzi a verità tristemente scandalose e rivelatrici della disonestà che sta alla base non solo della magistratura, bensì dell’american way of life piuttosto discutibile ché si regge sulla falsità e l’ipocrisia più affaristica e meschina, in barba ai deboli, soggiogati in forma caudina e destinati tristemente a essere dei perdenti falliti.
Secondo le testuali, argute e pertinenti parole del compianto Morando Morandini, The Rainmaker potremmo inoltre sintetizzarlo entro la descrizione fornitaci nel suo tomo dizionaristico, lasciato ora in eredità alle figlie Laura e Luisa:
«Memphis (Tennessee): un giovane avvocato, affiancato da un simpatico “paralegale”, ingaggia una difficile battaglia contro una compagnia di assicurazioni che non ha corrisposto il premio a un leucemico, morto poi per mancanza di cure. Il lungo romanzo (1995) di John Grisham è stato ampiamente potato dal regista e molti personaggi sono stati eliminati. Staccato dalla staticità del dramma giudiziario, il film ha i suoi momenti più interessanti fuori del tribunale. Opera di confezione, vanta una bella galleria di personaggi…».
Chi è l’uomo della pioggia? Cioè, qual è il significato intrinseco del titolo del film?
L’uomo della pioggia è colui che si carica di responsabilità e azioni onerose al fine d’arricchire le persone per cui è stato assoldato come semplice, anonimo lavoratore alla mercé del più furbo padrone.
The Rain People, il titolo originale di uno dei primi film di Coppola con James Caan, Robert Duvall e Shirley Night, nella traduzione italiana, da noi conosciuto come Non torno a casa stasera, ecco che viene “rifatto” in chiave aggiornata, tematicamente variata e nella trama mutuata dal regista de La conversazione.
Fotografia di John Toll (La sottile linea rossa) e musiche di Elmer Bernstein (Lontano dal paradiso) per un film bellissimo, emozionante e tesissimo per cui Coppola, abituato spesso a privilegiare film dalla grandeur intrisa di epica roboante e visionariamente magniloquente, si prodiga qui invece a illustrarci magistralmente una robusta vicenda dall’intreccio vigoroso e in perenne crescendo ritmico e filmico, inserendovi perfino straordinariamente e delicatamente una storia d’amore intimistica e commovente, col pretesto assai intelligente e soltanto apparente d’intrattenerci con quella che, a prima vista, potrebbe sembrare la solita, vista e rivista, trama processuale poco interessante e prevedibile.
Nel grandioso cast, anche il grande Jon Voight, Johnny Whitworth, Claire Danes, Dean Stockwell, Danny Glover, Virginia Madsen, Roy Scheider, Andrew Shue e Teresa Wright.
Il genio di Coppola, ladies and gentlemen.
Un regista capace sempre di rinnovarsi, di rigenerarsi inaspettatamente in modo magico e immenso.
di Stefano Falotico
THE END? L’INFERNO FUORI, recensione
Un pupillo dei Manetti Bros. gira un film a base di strabuzzate, oculari pupille. Cinema per gustative papille che conoscono il piacere al dente del Cinema zombesco più cannibalistico, succulento, violentemente ripieno di gente putrescente.
Ebbene oggi, liberi da vincoli editoriali, recensiamo The End? L’inferno fuori.
Pellicola da considerarsi opera prima in termini, anzi, nel pertinente significato di lungometraggio, firmata da Daniele Misischia.
In quanto, dopo numerosi cortometraggi e il mediometraggio Anna: The Movie, Misischia (classe ‘85 e natio di Roma con 42 credits all’attivo, stando a IMDb) si cimenta in questo caso con un film dal minutaggio superante l’ora di durata. Per l’esattezza, The End? L’inferno fuori dura 1h e 40 min. netti.
I titoli di coda sono peraltro cortissimi.
Atteso al varco con la sua seconda prova dietro la macchina da presa, ovvero il venturo Il mostro della cripta, Misischia presentò The End? alla Festa del Cinema di Roma nel 2017 e la sua opus, inizialmente intitolata In un giorno la fine, patrocinata dai Manetti Bros. (Antonio & Marco), realizzata in gran parte grazie ai finanziamenti della regione Lazio poiché ritenuta d’interesse culturale, dallo stesso Misischia scritta in collaborazione con Cristiano Ciccotti (soggetto e sceneggiatura quindi di entrambi, così come infatti vengono accreditati nei titoli di testa sovraimpressi al frenetico suo incipit ambientato in un taxi durante Un giorno di ordinaria follia à la Joel Schumacher oppure nel bel mezzo frastornante d’un qualsiasi normale giorno convulso di ordinaria amministrazione, potremmo dire, frenetico della solita capitale italiana assai caotica e nevrotica), si palesa fin da subito come una pellicola sperimentale e dichiaratamente memore dei grandi maestri del thriller, dei film “de paura” (tanto per usare un’espressione per l’appunto capitolina), del brivido e del terrore, dell’horror di ieri, oggi e del domani appartenente, chissà, perfino allo stesso Misischia?
Misischia infatti, senza nascondersi dietro un dito, ben conscio della sua cinefila cultura amante della Settima Arte più prelibata e succulenta di John Carpenter e George Romero, di Dario Argento e tanti affini altri enormi cineasti, diciamo, “seminali” nel loro genere, indiscutibilmente acclamati e oramai storicamente specializzatisi nella loro riconoscibile poetica assolutamente personale ed estremamente rilevante, saccheggia a piene mani atmosfere e situazioni derivat(iv)e dai e dei nomi appena citati.
Plasmando il suo film entro i parametri e le coordinate narrativo-visive d’un kammerspiel sui generis evidentemente ricalcato su capisaldi cinematografici consolidatisi in maniera inossidabile nel tempo e nell’immaginario mnemonico di ogni adoratore delle inquietanti, rabbrividenti, asfissianti suggestioni stilistico-claustrofobiche alla Distretto 13 – Le brigate della morte, La notte dei morti viventi in versione sorprendentemente mutuata e ribaltata (innocuo e leggerissimo spoiler) e il Cinema più perturbante di Lamberto Bava (con tanto di lunga sequenza mostrataci d’esplicitato riferimento voluto e ricercato, anche in senso lato, a Dèmoni 2… l’incubo ritorna).
In bui tempi odierni nei quali stiamo tuttora, ahinoi, vivendo la cataclismatica e strozzante, paralizzante e spossante situazione pandemica del COVID-19, The End compare sempre in streaming su Netflix Italia e, rivisto adesso, involontariamente pare che sia stato profetico di moniti purtroppo attualmente concretizzatisi che, a loro volta, rimandano perfino al capolavoro più sottovalutato di M. Night Shyamalan, ovvero E venne il giorno (The Happening).
Trama, ridotta all’osso, di questo zombie movie verace, sanguigno, violento e sanguinolento a mo’ di splatter e gore reminiscenti perfino fumettistici stilemi alla Dylan Dog bonelliano, cioè la trama scarna di un film pieno di gente scarnificata: un uomo d’affari cinico e bastardo di nome Claudio Verona (Alessandro Roja), una specie di fac-simile in miniatura e nostrano del Gordon Gekko/Michael Douglas di Wall Street stoniano, prende il tassì per recarsi, come ogni dì, alla sua azienda ove fa molti quattrini, fregandosene totalmente del tassista Riccardo (Roberto Scotto Pagliara), neo-laureato in Economia che gradirebbe cortesemente qualche dritta o qualche “spinta” dal suo passeggero cliente maleducato, irriguardoso e screanzato.
Riccardo giunge nel suo lavorativo palazzone di cristallo e s’imbatte nella stagista Silvia (la carina, in ogni senso, ragazzina interpretata da Benedetta Cimatti, una giovanissima donna sulla quale forse, data la sua dolce e sensuale avvenenza leggiadra da provocante Lolita ante litteram, il nostro stronzo affarista nutre delle particolari mire un po’ bavose da scafato marpione irredimibile e incorreggibile. Difatti, dopo aver conversato velocemente con lei, ammiccandole fortemente e furbescamente, non tanto segretamente, in modo poco velato e molto interessato a secondi fini di matrice fottutamente sessuale e marcatamente svergognata, decide di punto in bianco di annetterla al suo entourage per darle una sentita… mano che potrebbe non poco aiutarla, di compromesso alquanto facilmente intuibile, a fare carriera onestamente…
Quindi, scorge la sua sexy ex, la biondona di fuoco in minigonna nera attillata, la longilinea Marta (Euridice Axen). Entra con lei in ascensore e, malgrado Riccardo sia ora fedelmente sposato, per modo di dire, con un’altra donna, vi prova nuovamente e spudoratamente con la sua trascorsa fiamma giammai dimenticata, eternamente e voluttuosamente desiderata. Che lo ferma però subito, castrando ogni azzardata sua avance indelicata, moralmente lercia e schifosamente spudorata.
Dopo essere stato stoppato in modo imbarazzante dall’arrapane Marta durante il suo momentaneo, illusorio momento speranzosamente tendente a qualcosa di piccante, ficcante e godibilmente eccitante, Riccardo rimane bloccato in modo scioccante, sempre più crescentemente preoccupante, in ascensore.
Restando seppellito vivo e impalato come un coglione sesquipedale nell’antro soprattutto di una situazione tragica e grottesca figlia dei peggiori incubi kafkiani. Inizialmente, Riccardo pensa che si tratti di un normale guasto che presto verrà riparato da qualche manutentore… Sì, da qualche addetto della tecnica manutenzione. Poi, sbigottito e sgomento, si accorge di essere in modo allucinante precipitato all’interno dei materializzati suoi più raccapriccianti, inconsci pavori bestiali.
La gente muore, scoppia l’orrore, le persone si stanno trasformando in zombi mostruosi.
Un virus di origine ignota, forse artificialmente creato in laboratorio, è sfuggito di mano ai suoi creatori, ai suoi scellerati inventori. Tale morbo virale è probabilmente la causa principale d’una mefitica, oscura malattia invisibile che sta causando terribili infezioni corporali delle più atroci.
Un inizio teso e incalzante, dalle premesse avvincenti e spiazzanti, quello di The End? L’inferno fuori, lentamente viene un po’ sciupato da un minutaggio esagerato in cui, nel vano tentativo disperato di cercare espedienti interessanti per smorzare la schematica cadenza di ripetitive situazioni soporifere e noiose, Misischia smarrisce non poche volte il baricentro della storia e, a livello prettamente ritmico, fa un po’ cilecca e confusione.
Però, il finale indubbiamente stupisce e colpisce anche per via di una bellissima carrellata dall’alto panoramico di una città deserta popolata solamente da cadaveri e corpi in via di tremenda putrefazione stupefacente e al contempo orrenda.
Come esordio non è male, no, non è per niente malvagio.
Ma, come si suol dire, Daniele Misischia deve ancora mangiarne… di panini.
Il peso… e la stazza, anche la statura non solo registica, di certo non gli mancano.
Diverrà un pezzo grosso? Alla bilancia… del tempo lasceremo decidere.
Sfonderà? Chi lo sa…
Misischia ha coraggio, come si suol dire, vale a dire il pelo sullo stomaco. Forse veramente ce la farà.
Intanto, Misischia esibisce la sua ispida barba da lupo intellettuale, forse un po’ da brava volpe navigata, che sa il mento e la mente sua.
di Stefano Falotico
MYSTIC RIVER, recensione
Ebbene, oggi recensiamo l’acclamato e celeberrimo Mystic River di Clint Eastwood (Il corriere – The Mule).
Robusto, appassionante, incalzante e commovente drammone della durata di due ore e diciotto minuti uscito in sala nel 2003. Mystic River fu osannato dalla Critica mondiale ma forse, rivisto col senno di poi, sebbene premettiamo subito che trattasi indubbiamente di un’opera di estrema, magistrale, qualitativa importanza indiscutibile, soprattutto imprescindibile per ogni amante di uno dei più grandi registi viventi (atteso a fine anno con la sua attesissima, nuova opus, vale a dire Cry Macho), non sia esente da una certa difettosa, ricercata retorica e, a differenza di altre adamantine opere del maestro Eastwood, asciutte e maggiormente viscerali, sia una pellicola che, in molti punti, paia programmaticamente concepita in modo leggermente ricattatorio, cioè allestita con un’indubbia, premeditata studiatezza ruffiana per piacere a chiunque indiscriminatamente, date le tematiche scottanti in essa trattate e narrate già di per sé accattivanti poiché intrinsecamente seduttive ed eticamente stimolanti.
Mystic River è l’adattamento cinematografico, ottimamente sceneggiato da Brian Helgeland (già writer per Eastwood del magnifico e, questo sì, assai sottovalutato Debito di sangue), dell’omonimo romanzo di Dennis Lehane, da noi tradotto col titolo La morte non aspetta.
Per non sciupare la visione a eventuali ignari di Mystic River, pellicola come detto assai famosa e dunque si presuppone oramai vista da tutti, specialmente da ogni vero cinefilo amante della Settima Arte più imperdibile e pura, ci limiteremo in maniera assolutamente concisa a descrivervene, anzi ad accennarvi alla trama sinteticamente, delineandola nella sua secca essenzialità perentoria:
siamo a Boston nel lontano ‘75 ove la vita di tre ragazzi giovanissimi, Dave, Jimmy e Sean, sarà per sempre sconvolta da una brutale efferatezza mostruosa compiuta a madornale danno di uno loro, cioè il rapimento di Dave Boyle (Jason Kelly da bambino, Tim Robbins da grande), indotto ingannevolmente e in modo apparentemente innocuo da un finto sacerdote a entrare nella sua macchina.
Dave subirà segretamente un’immonda violenza pedofila e, a causa di tale aberrante, incancellabile e traumatico crimine perverso perpetrato contro la sua inviolabile purezza immacolata, da lì in poi dovrà perennemente convivere faticosamente contro i terribili demoni interiori della sua eternamente, psicologicamente lesa coscienza oramai irreversibilmente scalfita e ferita in modo atroce. Molti anni dopo, anche la vita di un altro dei tre, cioè Jimmy Marcum (Sean Penn), sarà emotivamente distrutta.
Poiché, in un bosco limitrofo alla città in cui abita, verrà scoperto in maniera scioccante il cadavere di sua figlia minorenne Katie (Emmy Rossum), barbaramente seviziata e uccisa orridamente.
A indagare sulla sua morte, neanche a farlo apposta, sarà Sean Devine (Kevin Bacon), uno degli uomini dell’inseparabile terzetto dei nostri… amici d’infanzia, adesso divenuto poliziotto.
Ma non è tutto…
Film dai molti ed evidenti pregi, Mystic River è un’opera certamente potente, sensibile e ovviamente perturbante, è il lapidario, mortifero ritratto nerissimo e spettrale di un’America che, da tempo immemorabile, ha perso la sua utopistica, trasparentemente innocente, bianca candidezza virtuosamente virginale a livello naturalmente morale.
Candidato a sei premi Oscar (fra cui Miglior Film e Migliore Regia), Mystic River si aggiudicò le statuette come miglior attore protagonista e come non protagonista, andate rispettivamente a Sean Penn e a Tim Robbins.
Grandioso e impeccabile a livello tecnicamente formale (splendida fotografia di Tom Stern, montaggio di Joel Cox, intera colonna sonora composta da Eastwood stesso), Mystic River è un grande film ma, come dettovi, è altresì il classico crime–drama spesso volutamente toccante da portarci inevitabilmente a credere che, in tal caso, Eastwood abbia peccato di calcolata furbizia per giocare abbastanza facile con temi che, per via della loro inattaccabile natura impegnata, giocoforza suscitano istintivamente lacrime e applausi a scena aperta probabilmente intenzionali, per quanto perdonabili, essendo un’opera bellissima ma partorita da un Eastwood, comunque eccellente, che però aveva preventivamente calcolato che, con un film così, avrebbe sbancato e, come si suol dire, sfondato una porta aperta in modo difficilmente criticabile.
Nel cast, Laura Linney, Marcia Gay Harden e Laurence Fishburne.
di Stefano Falotico