NONNO, QUESTA VOLTA è GUERRA – Recensione
Prefazione del cazzo, eh sì, del cazzo.
Un De Niro in ritardo, invecchiato o solo girato prima di The Irishman, adesso tardivamente arrivato e distribuito in Italia, Paese di vecchietti anche ventenni? Uma Thurman è una milfona come Jane Seymour? A proposito, Stephanie Seymour è oggi ancora bona?
Ebbene, oggi recensiamo Nonno, questa volta è guerra (War with Grandpa) per la regia di Tim Hill.
Regista, potremmo dire, orientato verso il cartoonish. Cioè specializzato soprattutto nell’animazione e la tecnica stop–motion. Avendo firmato e filmato Alvin Superstar, Garfield 2, I Muppets venuti dallo spazio, SpongeBob – Amici in fuga e Hop. Pellicole certamente non eccelse ed esenti da difetti ma, senza dubbio, divertenti e in particolar modo indirizzate a un pubblico di fascia d’età assai giovane.
In tal caso, Tim Hill si avvale, in sede di sceneggiatura, curata dal duo formato da Tom J. Astle e Matt Ember, dell’adattamento del famoso romanzo statunitense per l’infanzia, ovvero l’omonima novella di Robert Kimmel Smith, traendone una versione leggermente modificata e modernizzata.
Nonno, questa volta è guerra è stato girato in Canada addirittura prima di The Irishman, avente per protagonista, per l’appunto, Robert De Niro. Qui in veste di produttore (non accreditato) assieme alla sua lavorativa partner Jane Rosenthal e co-fondatrice della TriBeca.
Nonno, questa volta è guerra perché mai dunque, dopo essere stato distribuito già tardivamente, però con buon successo negli States alla fine dello scorso anno, viene mostrato solamente adesso a noi spettatori italiani? Cioè, a cosa è adducibile questo macroscopico ritardo apparentemente ingiustificato?
Semplicemente all’increscioso pasticciaccio per cui a finanziare il film vi fu la Dimension Films, succursale della Weinstein Company, gestita e patrocinata naturalmente dal celeberrimo tycoon, ex proprietario della Miramax, tristemente arrestato in seguito al suo riprovevole scandalo sessuale assai scabroso.
Sorvolando su tale triste accadimento, dopo mille e più rimandi, finalmente possiamo gustarci Nonno, questa volta è guerra comodamente in streaming. Originariamente, il film doveva essere distribuito sotto l’egida, diciamo, della Notorious Pictures. Ma è ragionevole pensare che si sia optato, appunto, per l’interattivo, internettiano VOD in quanto ancora imperano le limitanti, frustranti quarantene interminabili e, non solo per il Cinema, spossanti.
Trama:
Peter (Oakes Fegley), bambino di dieci anni, controvoglia ma per volontà inderogabile dei suoi genitori Arthur (Rob Riggle) e Sally (Uma Thurman), è costretto a lasciare la sua cameretta per ospitare suo nonno, il claudicante e burbero Ed (De Niro). Peter è parecchio insoddisfatto di questa dura scelta impostagli e, smaniosamente desideroso di riappropriarsi quanto prima della sua stanza, coi suoi amichetti architetta scherzetti e dispetti di discutibile gusto ai danni dell’arzillo Ed. Il quale, contrariato e di contraltare, provocato ripetutamente dal nipote, non gli sarà da meno, spalleggiato nella sua difesa e poi contrattacco dai suoi fidi compagni Danny (Cheech Marin) e l’altrettanto attempato ma non rintronato, furbissimo Jerry (Christopher Walken).
Perché guardare Nonno, questa volta è guerra
Commedia per famiglie ovviamente disprezzata da gran parte dell’intellighenzia critica d’oltreoceano, avendo totalizzato a malapena il poco lusinghiero e onorevole 34% risicato di medie recensorie su metacritic.com, Nonno, questa volta è guerra naturalmente non entrerà nella storia della Settima Arte ed è semplicemente un film scanzonato e leggerissimo dalle basse pretese che, come detto, si rivolge quasi esclusivamente a un target impubere, potremmo dire. Ora, acclarato e palesato ciò, accettando quest’indubbia e necessaria premessa, Nonno, questa volta è guerra, a dispetto delle sue scarsissime ambizioni e della sua “piccolezza” qualitativa, può vantare un cast altisonante nel quale si fanno notare, oltre ai già citati nomi rinomati di De Niro, dell’enfant prodige Fegley, della sempre conturbante e avvenente Uma Thurman e del grande Walken intramontabile, la sempreverde, anche se lei âgée, Jane Seymour e l’ambiziosa peperina Laura Marano, avvalendosi peraltro della morbida fotografia dai colori pastello di Greg Gardiner.
Il film si lascia vedere volentieri pur non essendo assolutamente un granché. Anzi, rasentando in molti punti il buonismo più dolciastro e melensamente retorico. Inanellando tutta una serie di sketch risaputi, stracchi e datati. Ma è comunque godibile, tralasciando quest’aspetto per alcuni, invece, imprescindibile e di primaria importanza.
D’altronde per stesse dichiarazioni, sotto a seguire testualmente, dei suoi produttori, Nonno, questa volta è guerra non ambisce né ambiva a essere un film impegnato, bensì vuol essere solo un film pieno di buoni sentimenti e ricolmo di leggiadria:
Nonno, questa volta è guerra è dedicato a tutta la famiglia e presenta una storia universale con un forte messaggio di fondo; dobbiamo rispettare le persone anziane e capire che il tempo che trascorriamo con loro è limitato. Dobbiamo imparare a goderci i momenti condivisi e imparare che gli affetti famigliari non sono mai superflui. La guerra tra Ed e Peter non è da esempio: i conflitti non portano mai a niente di buono, anche quando si tratta di difendere il proprio territorio. Non vale la pena combattere: si rischia di perdere qualcuno a cui vogliamo veramente bene.
Perché non guardare Nonno, questa volta è guerra
Ecco, se siete fra quegli intransigenti, poco elastici aficionado di De Niro che non tollerano per niente, anzi detestano completamente il Bob versione “comedy”, autoironico e parodico in zona Ti presento i miei, smorfioso e da voi giudicato patetico, se mal digerite che l’attore protagonista d’innumerevoli capolavori cinematografici, per l’ennesima volta, si sia buttato via vergognosamente e inspiegabilmente per ragioni prettamente commerciali e/o alimentari, come si suol dire, partecipando ancora una volta a un film non degno della statura recitativa e della sua prestigiosa nomea, lasciate subito perdere. Anzi, non avvicinatevene nemmeno e dimenticate immantinente che De Niro v’abbia preso parte poiché questa sua partecipazione per voi non rappresenta affatto un arricchimento all’interno della sua mirabolante, irripetibile e inimitabile galleria camaleontica di maschere e personaggi dei più disparati, bensì per voi ritrae solamente il lento ma inesorabile tramonto d’un mito che vi suscita immane tristezza quando s’asservisce al dio danaro, persino auto-finanziandosi, vendendosi in progetti microscopicamente rimarchevoli ed eufemisticamente poco ricordevoli.
di Stefano Falotico
NOMADLAND, recensione
Ebbene, oggi recensiamo l’acclamato Nomadland.
Film della durata di un’ora e quarantotto minuti circa, vincitore del Leone d’oro alla 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, cioè la scorsa. Purtroppo funestata, ahinoi, dal tremendo Covid-19 che afflisse anche tale celebre, rinomata kermesse, impedendone appieno il suo normale svolgimento. Malgrado ciò, Nomadland, firmato dalla sensibile regista Chloé Zhao, nella suddetta manifestazione svettò e giustamente trionfò.
Nomadland sarà indubbiamente uno dei più agguerriti concorrenti della prossima edizione degli Oscar. Tant’è che gli esperti di previsioni, i cosiddetti allibratori in merito alle predictions inerenti le pellicole più papabili per aggiudicarsi il premio più ambito e importantissimo messo in palio, per l’appunto, dagli Academy Awards, ovvero la statuetta come Best Motion Picture dell’anno, non hanno alcun dubbio. Nomadland è attualmente, infatti, il film favorito per la vittoria finale. E anche la sua protagonista, la già due volte premio Oscar per Fargo e Tre manifesti a Ebbing, Missouri, cioè la sempre strepitosa e trascinante Frances McDormand, pare davvero in dirittura d’arrivo per aggiudicarsi addirittura, ancora una volta, l’agognata e prestigiosa nomination nella categoria best actress.
Sempre stando a ciò che fortemente si sostiene nell’ambiente di chi è specializzato ad azzardare ipotesi riguardo i probabili vincitori degli Oscar, sembra inoltre che soltanto l’altrettanto bravissima Vanessa Kirby di Pieces of a Woman, la quale s’aggiudicò la Coppa Volpi nella stessa edizione del festival di Venezia in cui sconfisse la “rivale” McDormand, sia l’unica al momento in grado poterne contendere lo scettro di miglior attrice.
Normadland, trama: tratto dall’omonimo libro inchiesta della giornalista Jessica Bruder, sceneggiato, co-prodotto e montato dalla stessa Zhao, Nomadland è la cronistoria, drammatica ed emozionalmente avvincente, della sessantenne Fern (McDormand). Che, dopo aver perso il suo lavoro, decide di tutto punto di viaggiare attraverso la parte occidentale degli States, venendo straordinariamente in contatto con una stravagante galleria di uomini e donne che, vivendo da nomadi, optando volontariamente e non per la scelta radicale di vivere al di fuori delle convenzionali regole sociali, hanno sviluppato una loro visione della vita remota dagli annichilenti, oppressivi ingranaggi del mondo capitalistico. Un film amaro e al contempo solare. Pieno di pathos e pregno di tenera sofferenza malinconicamente soave superbamente raffigurata dall’eccellente McDormand, espressiva come non mai a trasmetterci, anzi, ad emanarci sentitamente viscerali, pulsanti emozioni struggenti. Musicato bellissimamente da Ludovico Einaudi e illuminato dalla crepuscolare e assai suggestiva fotografia ipnotica di Joshua James Richards, Nomadland, all’interno dell’arido, odierno panorama asfaltato dal Covid, risplende come un miracolistico, illuminante fulmine a ciel sereno, non solo in ambito prettamente cinematografico, capace di donarci, con sobrie levità armoniche, vive speranze di vita e d’amore fulgide e quasi celestiali. Accarezzandoci l’anima con delicati cieli notturni e crepuscolari, addolcendoci nella sconfinata beltà di rosati tramonti ardenti che ci straziano piacevolmente con incanto magico e squisitamente sognante.
Un grande film con una McDormand grandissima.
Nel cast, David Strathairn (Good Night, and Good Luck).
di Stefano Falotico
Il supercast del nuovo film di David O. Russell – Margot Robbie, Christian Bale, John David Washington, Robert De Niro, Rami Malek e tanti altri
Ebbene, stando all’eminente Deadline, infallibile in fatto di news hollywodiane attendibili, il nuovo film di David O. Russell (The Fighter, Il lato positivo), ancora sprovvisto di titolo, sebbene a livello provvisorio dovrebbe chiamarsi Housefold Names, si avvarrà d’un cast impressionante.
Ovvero, d’una sfilza di nomi importanti da far impallidire chiunque. Cioè Margot Robbie, Christian Bale, John David Washington (subentrato all’ultimo momento a Michael B. Jordan), Robert De Niro, Michael Shannon, Anya Taylor-Joy (The Witch), Chris Rock, Mike Myers, Rami Malek (Bohemian Rhapsody), Zoe Saldana, Matthias Schoenaerts, Alessandro Nivola (Wizard of Lies, Face/Off), Timothy Olyphant, Andrea Riseborough e chi più ne ha più ne metta, come si suol dire.
Le riprese di questa nuova opus di David O. Russell, assente alla regia da Joy del 2015, sarebbero dovute iniziare la scorsa primavera ma il Covid-19 costrinse la produzione a slittare.
A quanto pare, dopo tale mondiale, disdicevole inconveniente alquanto riprovevole e nefasto non solo per il Cinema, ne sono stati dati finalmente i sospirati, primissimi ciak a Los Angeles.
Naturalmente, rispettando tutti protocolli pandemici del caso.
Il progetto, top secret, non ha ancora un titolo definitivo come dettovi e non se ne conosce neppure la trama. Cioè, così come dicono gli americani, il suo plot è unknown.
I ben informati però sostengono che potrebbe trattarsi di una commedia sofisticata con picchi notevolmente fantasiosi e drammatici tipicamente aderente allo stile eccentricamente affascinante di O. Russell.
Un regista capace di passare dalle commedie brillanti più intelligenti e argutamente balzane, per l’appunto, a contorti mélo dalle avvincenti vicende congegnate con cineastica finezza sempre più stupefacente.
di Stefano Falotico
Lo stato della mente – Three Christs, recensione
Un ottimo Richard Gere in un film che aveva le carte per risultare vincente e intellettualmente stimolante ma rimane in superficie. Soprattutto non trova la scintilla. Insomma, a proposito di psicologia, noi spettatori non siamo riusciti a viverlo intensamente di sentito transfert emozionante.
Ebbene oggi recensiamo Lo stato della mente (Three Christs), film del 2017 finalmente arrivato in Italia, in streaming su Infinity, a distanza di quattro anni dalla sua distribuzione, peraltro limitata, nelle sale statunitensi.
Firmato da Jon Avnet (Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, 88 minuti, Sfida senza regole), scritto dallo stesso succitato regista assieme a Milton Rokeach, autore peraltro del libro da cui Lo stato della mente è stato tratto, ovvero I tre Cristi. Storia dell’esperimento più folle del mondo.
La trama è semplicissima, qui sintetizzata:
il dottor Alan Stone (al solito, interpretato da un eccellente, carismatico Richard Gere) è un esimio psichiatra perfino professore di legge all’università di Harvard ove occupa, per l’appunto, un importante posto cattedratico di estremo prestigio e rilievo, collaborando inoltre, in veste di presidente indiscusso, all’American Psychiatric. Nel nosocomio di Ypsilanti, ove sono internati pazienti con problemi mentali più o meno gravi, alla fine degli anni cinquanta, Stone si dà con lodabile parsimonia a una sorta di scientifico esperimento peculiarmente rivoluzionario, vale a dire sottopone tre uomini affetti da schizofrenia paranoide, in cura presso la suddetta struttura, al suo personalissimo, avanguardistico trattamento che si rivelerà, in gran parte, miracolosamente prodigioso e illuminante.
Clyde (Bradley Whitford) è un alcolizzato, Joseph (Peter Dinklage) è uno scrittore che giammai riscontrò il successo agognato e sperato, ospedalizzato, per meglio dire istituzionalizzato, a causa di sue furibonde, continue e irreprimibili violenze domestiche, mentre l’ultimo dell’anomalo, affascinante e “pazzoide” terzetto è rappresentato da Leon (Walton Goggins), reduce della Seconda Guerra Mondiale e fallito seminarista. Tutti e tre, sebbene possiedano vissuti apparentemente diversi, perlomeno assai dissimili, in verità sono accomunati, tralasciando l’interiorità complicata e intimissima dei conflitti emotivi delle ramificate e problematiche, stratificate patologie psichiche da loro rispettivamente sviluppate, da un basilare elemento in comune piuttosto evidente a chiunque, anche agli occhi e alla mente di chi non necessita certamente di un’eminente laurea in materia psichiatrica, cioè credono di essere Gesù Cristo, indistintamente.
Attraverso psicanalitiche sedute lontane dai banali, inutili, superflui e soprattutto controproducenti colloqui, anzi, violenti elettroshock vetustamente aderenti a ortodosse metodologie psicologiche ampiamente superate, oltre che per l’appunto sconvenienti, il dottor Stone riuscirà, come detto, a ottenere la sommaria guarigione dei suoi tre pupilli, diciamo. In effetti, forse non riuscirà a sanarli del tutto, perlomeno tenterà di comprenderli profondamente e, di straordinario transfert umanissimo, parzialmente li riabiliterà forse alla normalità?
Ma la normalità qual è? Esiste davvero ed è questa che Stone desidera dai suoi “malati?”.
È questa la domanda potente, enigmatica e decisamente, positivamente ambigua che racchiude il senso de Lo stato della mente.
Un buon film, sebbene non eccelso, purtroppo sottovalutato dalla Critica d’oltreoceano. Infatti, negli Stati Uniti fu stroncato sonoramente e fu visto da pochissimi.
Il film vale, più che altro, per un inedito Richard Gere. Ancora una volta in un ruolo impegnato dopo essere stato protagonista del meraviglioso Gli invisibili. Lo stato della mente però, dopo un inizio dagli sviluppi interessanti, dopo una prima mezz’ora abbastanza incalzante, si perde lentamente per strada, non trova mai davvero una scintilla ispiratrice e procede lungo binari alquanto ripetitivi e leggermente soporiferi. E la fotografia di Denis Lenoir, in altri frangenti efficace e d’atmosfera, risulta qui troppo virata al monocorde, visivamente parlando, colore seppia. Piatta come un film affascinante ma privo di snodi narrativi appassionanti.
di Stefano Falotico
ROCKETMAN, recensione
Non un grande film ma Elton è un grande cantante. Non sono omosessuale ma mi piace davvero tanto.
Ebbene, finalmente ho visto Rocketman. Disponibile, su Netflix, in questi giorni di protrattosi lutto mondiale, altresì definito Covid-19, vale a dire un complotto che, con la scusante delle terapie intensive, intensifica gli stati, anzi, stadi dittatoriali ineludibili nel reiterare invincibili decreti arbitrariamente improntati al solito schiavismo schiacciante l’apparente umanità debole e impotente. Ovvero, appena l’uomo s’appropria di maggiori libertà mondiali, viene messo, psicologicamente e non, in quarantena al fine di demotivarlo e indurlo a credere che le sue fantomatiche, inalienabili espressioni dell’anima siano state per l’appunto solamente una fottuta chimera destinata a sbriciolarsi, decisamente ad infrangersi contro il moloch di chi sempre impererà, soffocando ogni puro, slancio vitale.
Ecco, questo film ne calza a pennello. Sì, in merito… Non è affatto perfetto, anzi, in molti punti difetta narrativamente, è spesso insopportabilmente agiografico e oltremodo retorico, segue e persegue, scopiazza il canovaccio del musical–biopic à la Bohemian Rhapsody. Film di Bryan Singer mai completato da Singer stesso, soppiantato, anzi rimpiazzato dal valente, coreograficamente più fantasioso e immaginativamente fantasmagorico Dexter Fletcher, per volontà della produzione.
Fletcher, regista di Rocketman con uno strepitoso, funambolico Taron Egerton al top del suo attoriale eclettismo formidabile.
Ecco, se Rami Malek dissomigliò parecchio dal compianto Freddie Mercury, parimenti Egerton non possiede propriamente, diciamo, gli stessi tratti fisionomici e corporei di Elton John.
Alla pari di Malek, Egerton è bravissimo. Dunque, lasciamo stare per piacere certi discorsi…
Se un attore fosse uguale, in tal caso, a un cantante e/o a dei cantanti, ne sarebbe un sosia. Un ridicolo clone.
Qui si parla d’identificazione, di specularità simbiotica perfino pregna di osmosi metaforica e meta-cinematografica. Vale a dire, l’attore deve immedesimarsi nelle gestualità, nei tic del mito prescelto, in tal caso John, vivendolo da dentro e tentando di rivivificarlo al massimo delle sue ammirabili possibilità, cercando possibilmente di riprodurne le movenze, d’imitarne addirittura non solo il cantare, bensì anche il suo respirarlo nell’anima e con pieno ardore introiettarlo nella sua espressiva mimica, tuffandosi nella sua dinamica, anzi, nel suo incarnarlo e al contempo trasfigurarlo d’ansimi emotivamente dinamitardi. Il dinamismo del performer, in formato Actor’s Studio aggiornato ai tempi degli odierni musicarelli furbetti, un po’ leziosi ma comunque a loro modo godibilmente spasmodici e coinvolgenti.
Musical, genere particolarissimo. In cui, dal nulla, i protagonisti interagiscono in modo ammiccante con noi, spettatori, a mo’ di Larry David di Basta che funzioni. Creando un effetto straniante spesso mirabolante.
Trascinandoci, si spera, nel vortice di blues–brothersiane emozioni ipnotizzanti, incantevoli e briose. Vorticose e brillanti.
Egerton c’occhieggia, ci lancia anzi occhiate da Gene Kelly di Cantando sotto la pioggia in versione rutilante da musical scoppiettante, però non sempre esaltante. A tratti notevolmente, perfino, mielosamente disturbante.
Qui abbiamo anche il redivivo, cresciuto Jamie Bell di Billy Elliot. E lo sceneggiatore, Lee Hall, è lo stesso di Billy Elliot e di War Horse di Spielberg.
Il film dura 2h e un minuto, arrotondiamo a due ore e la chiudiamo qui prima dei titoli di coda infiniti, ah ah. Quindi, dura circa un’ora e cinquanta minuti, compresi i titoli di testa che durano pressapoco cinque minuti abbondanti, eh eh.
Il film inizia con Egerton/Elton John, all’anagrafe Reginald Kenneth Dwight, il quale, vestito di palandrana da “ignobile” joke(r) vivente con tanto di corna diaboliche, disperatamente si reca a un ritrovo per anonimi depressi cronici.
Confessandoci spudoratamente ogni suo trauma, dichiarando fra il vanaglorioso e il patetico più mieloso e imbarazzante che, invero, malgrado l’immane successo avuto nella vita, eh sì, non è per nulla soddisfatto della sua persona. In quanto, spudoratamente e con enorme coraggio, ammette di essere un cocainomane alcolizzato, un irredimibile sessuomane e un semi-psicotico necessitante di psicofarmaci assai pesanti e debilitanti.
No, Elton non è felice. È in purissima zona da Simone Cristicchi e troppo s’impasticca. Suo padre è un arido bastardo, affettivamente sempre assente. Che, dopo aver divorziato da sua moglie, madre di Elton, ebbe dei nuovi figli fan di Elton, il suo primo figlio.
L’unico ripudiato in quanto considerato diverso e “invertito”, cioè malato di mente. Un pagliaccio incapace di fare l’uomo. Si capisce… eh sì, non è sistemato…
Sì, è per questo che oggi i settantenni/ottantenni si bevono la cazzata del Covid. Perché sono così tanto uomini che non hanno mai visto L’attimo fuggente. Ah ah. Soprattutto, si preoccupano se, nella loro macchina, qualcuno fuma e potrebbe bucare, per colpa della cenere svolazzante sulla tappezzeria dei sedili posteriori, un automobile che sicuramente non è d’epoca e non è una Rolls-Royce da esporre a mo’ di limousine di qualche film porno ospitante milfone che dicono di disprezzare ma su cui, fra una tribuna elettorale vista per noia o per fare gli intellettuali di pseudo-sinistra con la panza piena, si accaniscono onanisticamente in formato privatissimo.
Eh, si sa, la vita degli uomini “veri” è dura, loro sì che si sono fatti il culo. Semmai, chiedendo ai loro tempi la casa popolare allo Stato che dicono di odiare.
Ecco, Elton John era povero, era timido. Anzi, affetto da atimia.
Incapace di normali relazioni sociali, preso per il popò a morte dai suoi coetanei forse non belli, certamente stronzissimi e bulli. E fu umiliato perfino da suo papà. Oppure, come direbbero in Toscana, da su’ babbo morto… dentro.
Insomma, Elton è a tutt’oggi uno sfigato mai visto, un genio imbattibile.
Il film è banalissimo, spessissimo. Lee Hall non possiede la finezza di Anthony McCarten ed Egerton, a differenza di Rami Malek, pur avendo vinto il Golden Globe, non fu candidato all’Oscar.
Semplicemente perché Freddie Mercury fu un “frocio” che piaceva anche probabilmente a Manuel Ferrara, celeberrimo attore per film destinati a un pubblico “adulto”. Mentre Elton assomiglia a Carlo Verdone di Acqua e sapone con cinquemila chili di rimmel troppo glamour, insopportabile anche al compianto David Bowie o a Michael Jackson, ma, a differenza di Verdone di Viaggi di nozze, eh già, non è ancora andato a letto con Natasha Hovey né con Claudia Gerini, donna talmente figa che stette con Zampaglione, regista da Academy Award, capite.
Federico, capace di partorire roba come Tulpa. Film più brutto di un maschione come Jim Morrison nell’interpretazione oscena di Val Kilmer fuori parte, assolutamente.
Elton non può vantarsi inoltre di aver avuto, nel suo carnet, “attrici” come Natasha Nice, Natalia Starr, Natasha Kiss, Brandi Love oppure una chiamata Diamond, la donna che ovula anche quando prepara le uova.
Insomma, rispetto a Mercury, agli uomini con le palle sta più sul c… zo.
Rocketman è un buon film e il finale, nonostante tutto, emoziona. I’m Still Standing… Di mio, ascolto tutta la musica. Passando da Bob Marley a Fedez. Non ho però i soldi per vivere in una villa a Londra e per “amare” Chiara Ferragni. Non ho la Ferrari ma, di notte, mangio sempre i cioccolatini Ferrero.
Se non vi sta bene, credete al Covid e non ascoltate, mi raccomando, Elvis Presley. Ho detto tutto.
Sì, la società cosiddetta progressista è migliorata, certo.
Oggi spopolano in radio personaggini come Silvia Notargiacomo e Katia Follesa.
So che ai miei tempi, amici, mi attizzava la speaker de I guerrieri della notte.
Buongiorno a voi, supermuscoli. La caccia ai guerrieri è finita. Quei ragazzi non avevano commesso il fattaccio su nel Bronx. Hanno dovuto combattere e difendersi tutta la notte solo per salvare la pelle. Be’, ci dispiace davvero. Non ci resta altro da fare che metter su una bella canzone.
di Stefano Falotico
DELITTO PERFETTO, recensione
Oggi recensiamo la sottovalutata pellicola di Andrew Davis, uscita nel ‘98, ovvero Delitto perfetto.
Remake del celeberrimo film omonimo Il delitto perfetto di Alfred Hitchcock con Grace Kelly.
Anzi, ci correggiamo, perlomeno siamo più precisi. Omonimo nel titolo originale, A Perfect Murder. In tal caso assente, ovvero nella “traduzione” italiana, dell’articolo determinativo il… per differenziarlo leggermente e renderlo appena riconoscibile, per l’appunto, rispetto al classico intramontabile firmato nientepopodimeno che dal regista de La finestra sul cortile, con protagonista Grace Kelly.
Andrew Davis è, come sopra dettovi, l’autore di questo rifacimento dei nineties che, a ben vedere, malgrado si confronti con un insuperato maestro qual fu Hitchcock, irraggiungibile e per l’appunto inimitabile, non ne sfigura troppo e, dall’eventuale paragone, a conti fatti non ne esce affatto con le ossa rotte. Ammesso che lo prendiamo semplicemente come un’operazione un po’ innocuamente commerciale, inevitabilmente ruffiana e patinata. Del tutto in linea con l’estemporanea estetica leccata ed hollywoodiana, come poc’anzi accennatovi, degli anni novanta.
Peraltro, Andrew Davis (Uccidete la colomba bianca) è un regista che abbiamo perso di vista in quanto oramai quasi del tutto inattivo in maniera ingiustificata, fattosi notare soprattutto nell’appena succitata decade. Decade nella quale si affermò come mestierante (espressione usata in forma spesso spregiativa e comunque da noi poco amata in quanto chi sa fare Cinema, anche in modo artigianale, è pur sempre un valido cineasta che non merita generaliste categorizzazioni superficiali), sfornando tutta una serie di pellicole di genere assolutamente non trascurabili. Pensiamo, per esempio, a Trappola in alto mare e soprattutto a quello che rimane, a tutt’oggi, il suo film più apprezzato e famoso, vale a dire Il fuggitivo.
Trama:
Steven Taylor (Michael Douglas) è un magnate della più esponente finanza, gestore di un importante fondo speculativo, sposato a un’affascinante e avvenente donna giovanissima di nome Emily Bradford (Gwyneth Paltrow).
Presto scopre che quest’ultima, cioè la sua consorte, perfino più ricca di lui, se la fa col sedicente pittore bohémien David Shaw (Viggo Mortensen). Anzi, Winston Lagrange. Sì, David Shaw non è altri che il nome fittizio, diciamo artistico, che Winston utilizza per mascherare la sua reale identità. Lagrange ha imparato a dipingere non a Berkeley, a differenza di ciò da lui sostenuto, bensì durante le sue lunghe detenzioni in carcere. Poiché è un truffatore simile a Monsieur Verdoux che, in passato, seduceva facoltosissime signore al fine d’intascarne le loro cospicue eredità. Insomma, è un impostore, un ignobile malfattore.
Taylor finge tristemente di sorvolare, seppur mal volentieri, riguardo il tradimento subito ed è al momento l’unico uomo entrato in possesso del passato assai compromettente di Lagrange. Taylor lo perdona, apparentemente. In verità lo ricatta subdolamente. In cambio del suo silenzio, Taylor infatti fa una proposta indecente a Lagrange. Più che altro a quest’ultimo, non solo economicamente, conveniente.
Gli donerà una grossissima cifra monetaria, con tanto di lauto anticipo già elargitogli, purché Lagrange ammazzi Emily. Da tempo infatti non corre più buon sangue fra Taylor ed Emily. Per di più, avendo appurato che Emily l’ha vilmente cornificato, Taylor vuole disfarsi di lei, rimanendo pulito. Affidando al sicario prescelto, in tal caso Lagrange, lo sporco onere di assassinarla in modo nefando e glacialmente meschino.
Dunque, Taylor propone laidamente a Lagrange un equo, al contempo infimo, criminoso quid pro quo di natura viscidamente omicida.
Come andrà a finire?
I quadri esibiti da Lagrange nel film sono ad opera dello stesso Mortensen.
Delitto perfetto si apre con dei languidi titoli di testa suggestivamente intonati alle belle musiche di James Newton Howard ed è fotografato, al solito in maniera egregia, dal grande Dariusz Wolski (La maledizione della prima luna, Dark City, Tutti i soldi del mondo).
Delitto perfetto è uno di quei classici film di cassetta ottimamente confezionato, targato Warner Bros, che andavano di moda ai tempi della sua release.
Non molto lungo, difatti è soltanto di 103 minuti la sua durata, Delitto perfetto è un buon film che, sorretto dalla classe attoriale di un Michael Douglas splendido, avvince e intrattiene malgrado la storia raccontataci, soprattutto per chi ha visto l’originale hitchcockiano, sia risaputa e a dispetto del suo impianto quasi televisivo da gialletto di prima serata su Rai 3.
Poiché, non avendo l’assurda pretesa di volersi porre a un livello superiore rispetto al suo celebre capostipite, il navigato e scaltro Davis sceglie la strada maestra del puro intrattenimento non di certo eccellente eppur allo stesso tempo efficace, a suo modo elegante e decisamente coinvolgente, inanellando pezzi di bravura nella sua pellicola e inserendovi giusti tocchi adrenalinici non malvagi, creando la necessaria, crescente suspense nell’imprimervi un gustoso e inquietante clima malsano. Inoltre, con significativi, distillati, non disprezzabili, dovuti, piccoli eppur sensibili accorgimenti narrativi rispetto al film di Hitchcock, aggiornando il suo Delitto perfetto alla contemporanea era moderna frenetica di una New York alto-borghesemente corrotta moralmente, sicuramente non crea, ovviamente, un’opera memorabile, però senza dubbio l’ammanta d’un perverso suo fascino indiscutibile e torbido.
Ma forse il merito della parziale riuscita del film è invece, ripetiamolo, adducibile al mitico, impeccabile, eterno Michael Douglas (doppiato magistralmente da Pino Colizzi), qui esibitosi magnificamente in una prova recitativa coi fiocchi che è una variazione tematica del suo sempiterno, bastardissimo Gordon Gekko?
Forse sì…
di Stefano Falotico
THE GAME – Nessuna regola di DAVID FINCHER, recensione
Ebbene, oggi recensiamo il film forse più contestato, incompreso, altamente snobbato dall’intellighenzia critica ai tempi della sua uscita, ovvero The Game – Nessuna regola di David Fincher.
Ça va sans dire, uno dei nostri registi contemporanei preferiti in assoluto. Uno di quei cineasti personalissimi, rari al giorno d’oggi ove impera l’omologazione perfino d’ogni poetica, non soltanto cinematografica.
Fincher, un regista tornato alla ribalta, quest’anno, col meraviglioso Mank già in odore di numerosissime nomination ai prossimi Oscar.
Ecco, come dicevamo, The Game – Nessuna regola fu piuttosto disdegnato nel ‘97, anno in cui uscì, attirandosi infatti addosso le ire dei critici più superficiali e malevoli, precocemente sentenziosi negativamente, i quali lo reputarono, in maniera del tutto erronea e sbrigativa, semplicemente un divertissement tirato per lunghe, scollato e ricolmo d’incongruenze, d’illogici e imbarazzanti, eccessivi colpi di scena. Insomma, una stravaganza ludica cinematograficamente inconsistente, paragonabile a un videogame senz’anima.
Sceneggiato dall’inseparabile duo formato da John Brancato e Michael Ferris, finanziato in parte da Jonathan Mostow in veste di produttore esecutivo, The Game – Nessuna regola dura centoventinove minuti. Una durata notevole per un thriller al cardiopalma e adrenalinico che, dopo un mellifluo, quasi soporifero suo torbido incipit da angusto e tetro kammerspiel, divampa, sempre più carburando narrativamente di diegetica meticolosamente sottile, in una sorta di action movie rocambolesco e funambolico, filmato egregiamente e fotografato splendidamente da Harris Savides, cinematographer quasi sempre immancabile di molte pellicole di Gus Van Sant (Elephant) habitué, potremmo dire, delle sue ricreate, atmosferiche suggestioni visive ammantate di liquida impalpabilità mortifera.
Sì, il suo modo di fotografare è secco, limpido, profondamente evocante sensazioni inquietanti, la sua è una fotografia nitidissima, cioè assai pulita, capace però al contempo di trasmettere emozioni paurosamente graffianti, allineate al clima soventemente funereo e plumbeo che si respira dai film per cui s’è prodigato come certosino e attentissimo maestro delle luci più immortalanti storie perversamente “sporche” e intricate, storie potenti dalle vicende perlopiù contorte, enigmatiche, forse persino irrisolte… come in tal caso.
Trama:
per il suo 48° compleanno, il ricchissimo nababbo miliardario e consulente finanziario Nicholas Van Orton (un Michael Douglas in gran spolvero), ossessionato dalla morte tragica di suo padre, avvenuta per suicidio, riceve da suo fratello Conrad (Sean Penn), scapestrato, ragazzo disturbato o semplicemente dalla sua famiglia rinnegato e dal suo stesso fratello snobbato, un particolarissimo regalo, cioè la tessera d’iscrizione a un esclusivo, costosissimo club che, in seguito a una specie di test attitudinale atto a profilare il prescelto, sottoscritto giocatore che ha accettato la sfida di esser immerso in un’avventura che possa scuoterlo dal grigiore e dal ripetitivo torpore d’una vita monotona, organizzerà per lui qualcosa che potrebbe sconvolgergli il concetto stesso d’esistenza, catapultandolo in ignote situazioni surreali al limite del pericolo più vitalmente stimolante e irresistibilmente morboso. Al che, Van Orton, spaesato e spiazzato da eventi imprevisti, strabilianti e al contempo scioccanti che lo trascineranno, via via, sempre più in una sorta di orchestratagli realtà grottesca e inimmaginabile, pianificatagli ad hoc, prima trascorrerà una notte à la Fuori Orario di Scorsese con l’avvenente Christine (Deborah Kara Unger, la splendida Alex Johnson / Sarah di Highlander 3 e l’indimenticabile Catherine Ballard di Crash), barcamenandosi goffamente per la sua sopravvivenza, quindi scivolerà crescentemente in uno stupefacente e terribile, probabilmente illuminante incubo a occhi aperti.
Apparentemente incoerente nel suo intreccio ingarbugliato e nelle sue innumerevoli scene a prima vista paradossali, The Game forse non va preso affatto seriamente, in quanto rispecchia soltanto fedelmente l’etimologia del suo stesso titolo. È infatti sol un gioco, un intrattenimento immaginifico, concepito dettagliatamente da Fincher a scopo puramente ricreativo. Allo stesso tempo però, malgrado il suo impianto all’apparenza insostenibile, logicamente e filmicamente, è un film enormemente stratificato e metaforico, ovvero interpretabile secondo molteplici chiavi e logiche interpretative.
Rivelandosi, a ogni visione, sempre più affascinante e seducentemente ipnotico.
San Francisco, inoltre, sottolineiamolo ancora, poche volte è stata fotografata in modo così lividamente, magneticamente avvolgente.
Musiche del cronenberghiano Howard Shore.
di Stefano Falotico
THE GOOD SHEPHERD, recensione
Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato e, ahinoi, da molti sconosciuto The Good Shepherd- L’ombra del potere. Seconda, elegante opus seducente, enigmatica, complessa e ambiziosa di Robert De Niro dietro e davanti la macchina da presa dopo l’ottimo Bronx.
The Good Shepherd- L’ombra del potere dura due ore e quarantasei minuti ed è sceneggiato dal premio Oscar Eric Roth (Munich, Forrest Gump e, prossimamente, Killers of the Flower Moon).
The Good Shepherd- L’ombra del potere (distribuito in Italia nell’Aprile del 2007 ma presentato negli Stati Uniti alla fine dell’anno precedente rispetto a quello poc’anzi suddetto per poter concorrere agli Oscar) ha rappresentato, per molto tempo, il dream project di De Niro. Che lo ereditò, fra gli altri, dal compianto John Frankenheimer (conosciuto sul set di Ronin).
Cioè, The Good Shepherd- L’ombra del potere è stato un progetto registico lungamente covato da De Niro, un progetto duramente e al contempo vividamente sospirato. Non sappiamo però se veramente ispirato in forma vivifica e del tutto compiuta. Poiché, una volta concretizzatosi dopo un casting durato un tempo interminabile (fra i papabili per il ruolo del protagonista, andato a Matt Damon, De Niro pensò inizialmente a Jude Law e a Leonardo DiCaprio), dopo svariati anni in cui fu da De Niro sempre rimandato, ripreso in mano e nuovamente procrastinato a causa dei concomitanti impegni attoriali da lui già sottoscritti, finalmente vide l’anelata luce ma, al di là dei suoi forti ed indiscutibili pregi, a dispetto della fastosità fotografica al solito eccellente di Robert Richardson (Casinò, Al di là della vita) e della maestosa scenografia di Jeannine Oppewall (Prova a prendermi, L.A. Confidential), peraltro giustamente nominata agli Academy Award, nonostante i buoni incassi ottenuti a livello mondiale, The Good Shepherd si rivelò un film soltanto parzialmente riuscito. Sebbene, ripetiamo, sia stato superbamente confezionato, meticolosamente allestito, diretto con mano ferma e assai solida e la storia, in esso presentataci e descritta, indubbiamente, si palesi come estremamente allettante. Questa infatti la trama: ci vengono raccontate le origini della CIA attraverso il punto di vista del suo agente Edward Wilson (Matt Damon). Ex ragazzo universitario timidissimo ed impacciato di Poesia a Yale, viene pian piano avviato, anzi persuaso, a diventare un serio, diligente esponente di rilievo del movimento Skull and Bones, celeberrima e allo stesso tempo misteriosa, segreta massoneria di matrice “studentesca”. Una sorta di banco di prova per il quale, da apprendista, Wilson esperisce giudiziosamente un’incorruttibile, formativa etica atta a modellarlo accuratamente in una fermezza caratteriale indispensabile affinché poi affini e sviluppi, in maturo crescendo(si) rinomato, quelle necessarie ed ineludibili caratteristiche morali e disciplinatrici per poter un giorno ascendere a provetto ed integerrimo quadro dell’Intelligence. Nel frattempo, Wilson sposa la bellissima e sensuale Margaret (Angelina Jolie) ed assiste, spesso impotentemente e con disarmata, malinconica aria attonita, allo squagliarsi sempre più angosciante e lampante degli apparenti, illusoriamente saldi ideali a cui, da giovane, aveva risolutamente creduto e per cui aveva strenuamente combattuto stoicamente in nome di nobilissime virtù che invece sono state spesso perfidamente, in maniera omertosamente maligna e fraudolenta, perfino assassina a livello fratricida, tradite e addirittura vilmente rinnegate dagli stessi membri dello spionistico apparato, a prima vista per l’appunto, più importante e moralmente efficiente del mondo. Al che Wilson, in un vertiginoso flusso di coscienza allineato a un’incombente, nerissima spirale di paura a sua volta avvinghiante le sempre più scricchiolanti certezze progressivamente in lui tranciatesi in modo tormentosamente strozzante e straziante, visceralmente vivrà interiormente, soventemente tacendo persino alla sua soffocata coscienza afflitta perennemente da sofferti dubbi lacrimosi, un profondissimo e chiaroscurale quarto di secolo americano, personalmente prendendo visione, potremmo dire, da spettatore più che altro impassibile, riguardo ad eventi nefasti, a macabri complotti assurdi ed aberranti, a gelidi omicidi infausti e tragici, al dipanarsi di molteplici episodi oscuri su cui aleggiano gli spettri di crimini ingiustamente impuniti, su cui si spande un clima mortifero di glaciale silenzio ipocritamente tombale.
Arrivando sino a un suo, diciamo, emotivo e peranco narrativo-psicologico climax struggente, antieroico, disilluso e romanticamente lapidario…
Ma è proprio così oppure lui, essendo stato all’apparenza solamente un anonimo dirigente della CIA, grazie al suo innocuo, panoramico sguardo da falco, in verità altri non è, anzi, fu paradossalmente il principesco detentore delle verità che chi stava e tuttora sta sopra di lui non poteva e non potrà dire mai?
È dunque il retto custode silente di riservatissime informazioni occultate dalla rigida, bugiarda gerarchia a lui stesso funzionale ma, solamente di facciata, para-istituzionale?
È lui forse il mentore per antonomasia del suo essere contemporaneamente servo menzognero, vigliacco scudiero od invero un valido, confidenziale condottiero della strada maestra della sua stessa ambigua esistenza, della sua pericolosa, vulnerabile conoscenza, della sua intransigenza ferrea?
Da qui il titolo originale, difatti, della pellicola. Traducibile letteralmente nel buon pastore…
Musiche di James Horner, assiduo collaboratore di Ron Howard (Apollo 13) e una compagine di attori strepitosa, vale a dire una sfilza di nomi da riuscire a impallidire qualsiasi altro film. Che consta, fra gli altri, di William Hurt, John Turturro, Billy Crudup, Alec Baldwin, Michael Gambon, Timothy Hutton, Eddie Redmayne. Fregiandosi del cammeo di Joe Pesci.
Eppure, malgrado il notevole sforzo produttivo, la passione profusa da De Niro in veste di cineasta e, similmente al succitato Bronx, ritagliatosi qui una piccola parte chiave, The Good Shepherd pecca probabilmente di un impianto, detto altresì canovaccio, leggermente anacronistico, si perde in eccessive dilatazioni temporali, divenendo confusionario e frammentario in mezzo a ripetuti flashback superflui e a digressioni onestamente evitabili, è troppo retorico in molti punti ed esageratamente studiato, come si suol dire, a tavolino. Forse la gestazione è stata, come detto, lunga oltremisura e ciò ha influito sul risultato finale. Per l’appunto, non perfettamente omogeneo.
Comunque sia, è una prova registica quella di De Niro che, sebbene si riveli fallace e suoni vecchia stilisticamente, può avvincere e va premiata per l’impegno. The Good Shepherd, inoltre, potrebbe piacere molto a chi ama i biopic particolari, intrattenendo con la sua narrazione fluida a mo’ di romanzo, trasposto in immagini, che sembra essere figlio di una nobiliare epoca lontana, forse cavalleresca, forse semplicemente andata perduta tristemente.
di Stefano Falotico
GONE GIRL, recensione
Torniamo un po’ indietro con la memoria sino a qualche anno fa e andiamo a ripescare nuovamente L’amore bugiardo (Gone Girl) firmato David Fincher, uno dei nostri registi preferiti in assoluto, giustamente.
Ebbene, su Netflix sta spopolando Mank, subissato di lodi sperticate. Film che, certamente, concorrerà ai prossimi Oscar in numerose, prestigiose categorie rinomate. E che s’è già ritagliato un posto d’onore davvero importante nel Cinema odierno.
Come sappiamo ma è doveroso comunque rimarcarlo, a costo di apparire pleonastici, la regia di Mank è ovviamente del nostro beniamino, appena succitato, David Fincher. Un cineasta, a sua volta, che oramai non abbisogna di presentazioni, essendosi completamente emancipato dai suoi esordi altalenanti, essendosi crescentemente affinato, sempre più notevolmente, durante l’ultima decade soprattutto, inanellando perle filmiche di raro pregio e fattura. Film via via più sofisticati, complessi, intelaiati con accuratezza sottile attraverso la sua poetica sempre più adamantina e millimetricamente certosina, film dall’indiscutibile estetica collaudata e inebriati di feroce bellezza visiva, ammantati di suadente allure elettrizzante. Film sempre più, al contempo, indirizzati verso un’ottica cinematografica complessamente affascinante. Atta a definire lo stile di Fincher, compatto, ancora qualche volta furbo e forse leccato. Parimenti però meno artefatto e lezioso rispetto ad alcune opere sue passate.
L’amore bugiardo (2014) si colloca in quello spazio, già rimarchevole, post Zodiac e altri film molto apprezzati dalla Critica ma forse non appieno soddisfacenti, che a nostro avviso già inquadra la grandiosa cifra stilistica messa a punto da Fincher in modo nettissimo. Gone Girl è il suo penultimo lungometraggio, per l’appunto, uscito prima dello strepitoso Mank e delle regie di Fincher per alcuni episodi del magnifico Mindhunter.
Da Gone Girl a Mank, strano ma vero, sono intercorsi però ben sei, lunghi anni.
Curiosa questa notevole distanza da un film all’altro poiché Fincher è sempre stato assai prolifico e, dopo l’appena menzionato Mank, uscì sul grande schermo, in meno d’un quinquennio, con Il curioso caso di Benjamin Button, The Social Network e Millennium – Uomini che odiano le donne. Accolto favorevolmente dall’intellighenzia critica statunitense, L’amore bugiardo a molti critici nostrani invece non piacque moltissimo. Perlomeno, li lasciò perplessi e indecisi se decretarlo un’opus ragguardevole oppure una prolissa furbata dispersiva e ricolma d’ingiustificate incongruenze narrative alla pari di The Game. Noi attestiamo, convintissimi, che Gone Girl forse non sia un capolavoro ma gli vada vicino insindacabilmente. Aggiungendo inoltre che soltanto gente miope poteva già non scorgere, come dettovi, la demarcante, rimarchevole linea, qui delineatasi perfettamente, che separa il primo Fincher più “pubblicitario” ed esteticamente, scaltramente ruffiano, al Fincher contemporaneo, osiamo dire quasi sobriamente kubrickiano e, rifacendoci al Citizen Kane da lui omaggiato meravigliosamente in Mank, veramente cronometrico, qualitativamente, in ogni suo impeccabile frame distillatoci con geometrica e chirurgica aurea figurativa, con esemplare, ammaliante finitezza divina, egregiamente limata e impreziosita da vertiginosi tocchi geniali di soave diegetica sopraffina. Persistono alcune riprese di natura televisiva da spot Lancôme, sì, ma non è una fiction come Beautiful. Nonostante gli interni delle case lussuosissime che vediamo sfilare, eh già, sembra che siano arredati dallo stesso architetto di Jodie Foster in Panic Room.
È dunque lapalissiano che Fincher nutra un’attrazione morbosa ed irresistibile verso i ricchi, essendo lui ricchissimo. Forse più monetariamente abbiente di Michael Douglas di The Game. Perciò vuole esplorare probabilmente la parte oscura del suo sé da lui stesso taciuta, nell’intima coscienza, freudianamente. Mediante la Settima Arte del suo vivisezionare il fascino (in)discreto dell’alta borghesia eticamente non interamente proba.
Giochiamo di parole, quindi, cioè introiettandosi nella parte indefinita da mettere alla prova con dubbi improbabili al di là di ogni sospetto probatorio da duro auto-interrogatorio perverso filmato clinicamente in sé stesso posto dinanzi allo specchio, piangendo silente nella propria scandagliata anima intrisa d’allucinatoria suspense vividamente tagliente.
Trama che sintetizziamo all’osso semplicemente per non sciuparvene i suoi mille, intricati risvolti stupefacenti e, anticipiamo, violenti:
nel giorno del quinto anniversario di nozze fra i bei Nick Dunne (Ben Affleck) ed Amy, tornando a casa dopo aver bevuto al bar di cui è proprietario assieme alla sorella gemella barista di nome Margo (Carrie Coon), Nick non trova più sua moglie, misteriosamente scomparsa.
Al che, com’è ovvio che sia, essendo passate molte ore dalla sua irrisolta sparizione, Nick chiama la polizia. Iniziano dunque le indagini di tale missing e, attraverso tutta una serie di numerosi, incalzanti, appassionanti e allo stesso tempo inquietanti flashback “a matriosca”, veniamo a conoscenza dei molti scheletri nell’armadio, dapprima mai svelati, della nostra coppia all’apparenza invidiata da chiunque e, a prima vista, intoccabile…
Dopo un soporifero incipit in palpabile, liquido salendo di tensione, dopo la prima ora un po’ farraginosa ma intrigante, il film vira totalmente dai propri toni, confondendo le carte con ripetuti, martellanti colpi di scena infilati a ripetizione.
Anzi, infilzanti… ogni soluzione banale o prevista dallo spettatore cinematografico, anche il più intelligente, dotato di sottile, sorprendente acume.
Ed è forse qui, paradossalmente, che il film non più sorprende. Perlomeno meno. Prendendo lentamente ma angosciosamente la strada del thriller da giornalismo investigativo e da rotocalco della NBC. Spettrale l’apparizione di Sela Ward nei panni sexy ma antipatici della divoratrice di casi umani, la severa intervistatrice Sharon Scheiber.
O forse è proprio questo che voleva, sin dapprincipio, Fincher. Trasformare il romanzo best seller a macabre tinte non troppo rosse, bensì ambiguamente rosa, di Gillian Flynn, da quest’ultimo sceneggiato, trasformandolo in un nero viaggio all’interno del balzano, squinternato, colorato e cupissimo rapporto di coppia insondabile e pericoloso. Ché è fatto di repentine gelosie esplosive, rabbie smodate, ripicche stupide, sceneggiate patetiche, tira e molla estenuanti e interminabili incomprensioni, di corna, di tradimenti non solo carnali, d’instancabili ego superbi in perenne lotta per il raggiungimento della supremazia da imporre, anche solo psicologicamente, all’altro. Per un carnage polanskiano devastante similmente paragonabile ad Eyes Wide Shut.
Film femminista, film iper maschilista, film intimista, Gone Girl. Questo e altro… Film stupendo, follemente nitido nella sua gratuita violenza mostrataci alla fine per puro, fincheriano diletto fine a sé stesso. Cammeo di Boyd Holbrook, per meglio dire, in un ruolo piccolissimo prima che diventasse relativamente famoso, e un bravissimo Neil Patrick Harris.
Fincher è un giocherellone che investe tutto sul twist finale in modo parossistico, un sensibile narcisista amante delle sue esagerazioni al limite della ridicolaggine più studiatamente eccitante, un fanatico dei suoi stolti, terribili protagonisti e delle sue spesso volute, involutissime, articolate, arzigogolate, inverosimili storie non immediatamente decrittabili ed astruse. L’Agatha Christie cineastico del nuovo millennio.
Dovreste averlo capito. Dovreste dunque aver finalmente compreso, a distanza di più di vent’anni, che il sopra citatovi The Game fu solo la pellicola, incompiuta, ancora non messa a punto, eppur già sfavillante che fu da apripista al suo percorso registico compiaciutamente amante non solo di questi odiosi amanti inseparabili, in tal caso, appartenenti alla famiglia Dunne, bensì anche dei pazzi fratelli Van Orton.
Allora capirete che tutto torna e che Fincher è un genio. Poiché in Gone Girl, alla fine, non torna quasi nulla. Giustissimo.
Il grande Cinema deve infatti alludere, giostrare di retroscena suggeritici e non integralmente mostratici, deve vivere di enigmi illogici, il grande Cinema è il rebus immaginifico delle nostre paure più profonde, impossibili da spiegare razionalmente e compiutamente.
Così com’è la vita, prevedibile, noiosa come un matrimonio destinato a sfaldarsi, a perdere in brillantezza, come la routine per cui si muore dentro e si scompare opacamente nel nulla. Ma poi, in un lampo, un’altra scintilla focosa, forse soltanto rabbiosa, riaccende la speranza, in un battibaleno imponderabile forse si riaprono sol altre ferite lancinanti, forse nei nostri cuori sanguiniamo e ci scarnifichiamo finché morte non ci separi, indissolubilmente.
Eternamente vivendo da ambigui complici del e nel mondo e nelle viscere nostre interiori, soffrendo e gioendo delle nostre scelte imperscrutabili e malate del nostro essere noi stessi la terrificante e bellissima incarnazione d’un neo–noir palpitante, sanguinoso ed emotivamente sussultante, noi, anime spettrali del nostro voler essere misteriosi, amorevoli e romantici, ombrosi e torbidi… mostruosi.
Amazing Amy, la mitica Amy, ammazzando Amy, Amy da sé stessa ammazzata per rinascere e per far sì che suo marito la possa ancora amare. Come la prima volta, accettando la vita, accogliendo e compenetrando il suo uomo nella sua donna, nella sua speculare ansietà, nella sua detection personale e simbiotica.
Immensamente abissale.
Ce la vogliamo dire? Togliamo il quasi… capolavoro e basta.
Unico difetto, se proprio vogliamo trovarne uno, la durata.
Ma si lascia amare… che è una bellezza.
di Stefano Falotico
MANK, speciale David Fincher
Mank
Ebbene, oggi recensiamo lo stupendo Mank di David Fincher.
Regista già estremamente affermato che, ovviamente, non necessita di presentazioni. Autore, comunque ribadiamolo, di opere che, nel bene o nel male, a prescindere che possiate apprezzarle o no, hanno quasi sempre segnato e contraddistinto rimarchevolmente un’epoca, rimodellando o perlomeno circoscrivendo eventi o fenomenologie socio-culturali, istanze e/o mode appartenenti al momento in cui impazzarono. Pensiamo per esempio a Fight Club. Film forse sopravvalutato ma che, per l’appunto, nell’anno in cui uscì, assurse a totemico modello peranco esistenziale e paradigmatico di uno stile di vita avvertito necessario da una generazione dei nineties che, alla pari di quella odierna, dopo anni di asservimento a valori probabilmente erronei e distorsivi, fintamente formativi, e a demagogiche direttive ipocrite redatte dai loro padri fake, si riconobbe nelle rabbie enunciate, espresse, esternate con furore, più o meno efficace o velleitariamente chimerico, da Tuler Durden/Brad Pitt & company.
Oppure, torniamo indietro nella memoria e riflettiamo sull’importanza dell’imprescindibile, per l’appunto epocale, anche questo generazionale, The Social Network.
“Instant movie” già classic, prendendo in prestito espressioni americane assolutamente calzanti. Ora, Fincher è approdato su Netflix con questo strepitoso Mank. Scritto da suo padre defunto, inerente le vicissitudini, vere o presunte oppure grottescamente romanzate, fantasiosamente e forse allegoricamente filtrate dal clinico occhio del regista di Gone Girl e Seven.
Che, per l’occasione, adatta per l’appunto a suo modo la “visione” e la versione scritta da suo padre concernente la lavorazione, per meglio dire l’allestimento della sceneggiatura di Quarto potere di Orson Welles, (re)inventandosi la storia secondo cui il vero creatore, anzi, l’unico padre indivisibile dello script di Citizen Kane sia e fosse stato solamente Herman J. Mankiewicz (un Gary Oldman in profumo, giustamente, di Oscar).
Mankiewicz, detto Mank. Ubriaco a letto, ingessato a una gamba, inflaccidito da troppe delusioni patite su cui, sorseggiandole metaforicamente con levità effervescente e satirica, deglutendone ogni conseguente ed assorbita amarezza inestinguibile, sdrammatizza con ironia, burlandosi sapidamente della triste, inevitabile condizione umana tragica e al contempo comica. Anzi, cosmica…
Mank viene incaricato da Orson Welles in persona (Tom Burke) di scrivere, in sessanta giorni, la sceneggiatura di quello che è stato più e più volte ribattezzato il più bel film del mondo.
Scalzato ultimamente, nelle classifiche sui best movies di tutti i tempi, soltanto da La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock.
Dunque Mank, pensereste voi, è una sorta di behind the scenes personalissimo di un capolavoro intoccabile della storia del Cinema?
No, quasi niente di tutto questo. È il ritratto di un uomo auto-esiliatosi da Hollywood malgrado continuasse assiduamente a bazzicarla, è il character study di un perdente che non scese mai a compromessi con nessuno e alla fine, a causa della sua integrità morale, per via del suo carattere ostico e quasi masochisticamente persuasosi di voler rimanere un uomo normale, vinse paradossalmente l’Oscar in modo inaspettato e stupefacente.
Entrando nel mito involontariamente e prendendosi gioco del falso mondo dorato della grande Mecca e di sé stesso, “giullare di corte” in una società di pagliacci, di donne romantiche come Marion Davies (Amanda Seyfried), incapaci però di non sposarsi a un uomo sbagliato, stupido ma ricco e potente come William Randolph Hearst (Charles Dance), una società di manichini nella cui dolce vita felliniana pare sacrosanto viaggiare melanconicamente come in un film di Woody Allen.
Musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, fotografia meravigliosa in bianco e nero suadente di Erik Messerschmidt.