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UNA STORIA VERA (The Straight Story), recensione

straight story poster art

Ebbene, oggi recensiamo uno dei massimi capolavori di monsieur David Lynch, Una storia vera. Anche se, ad essere onesti, più che altro incontrovertibilmente obiettivi, è pressoché impossibile non definire quasi ogni opera di Lynch una pellicola che non possa meritarsi la nomea, sacrosanta, di masterpiece assoluto ed intoccabile.

Inoltre, potrà apparire pedante e pleonastico rimarcarlo ma la sua filmografia è costellata esclusivamente da film inarrivabili e qualitativamente, artisticamente emananti venustà cinematografica veramente smagliante, osiamo dire eternamente ammaliante, in una parola magnificente.

Una storia vera fu presentato in Concorso al Festival di Cannes e, a dispetto delle parole lusinghiere appena da noi giustamente emesse nei riguardi dell’insindacabile maestria cineastica del genio Lynch, parole che certamente avrebbero già ampiamente condiviso i giurati della kermesse a cui, per l’appunto, Una storia vera partecipò, ricevendo peraltro una lunga standing ovation dopo la sua prima ufficiale dalla stampa di allora, la Critica mondiale dell’epoca rimase parzialmente interdetta e spiazzata da questa virata lynchiana decisamente poco allineata alle sue spericolate, squisitamente deliranti e grottesche incursioni trascorse da director abituato a film profondamente enigmatici ed ermetici, intrisi di sua folle poetica visionaria soventemente appartenente al proprio inscindibile e imprescindibile, strambo, magmatico, perfino esoterico excursus da regista fuori da ogni canone tipicamente classico e convenzionale.

Infatti, forse assieme ad Elephant Man, Una storia vera è un film dalla trama lineare, semplicissima e lo stile di Lynch, abbandonando i suoi celeberrimi e consueti, potremmo dire, fantasiosi e funambolici, criptici e al contempo stupefacenti voli pindarici personalissimi, trova una pacata compostezza desueta rispetto, come detto, alle storie arzigogolate, anzi, ricolme di ghirigori fantasmagorici, visivamente parlando, delle sue altre passate e future prove.

Il titolo originale, difatti, di Una storia vera ha e contiene in sé un doppio significato… una storia “dritta”, straight, nel senso di chiara, autentica e limpida, diciamo genuina. Straight è anche però il cognome del suo protagonista.

Trama:

un anziano signore dell’Iowa, Alvin Straight (Richard Farnsworth), il quale vive la sua monotona, stanca vecchiaia nella sua modesta abitazione di campagna assieme alla dolce figlia Rose (Sissy Spacek), riceve all’improvviso una perturbante telefonata inaspettata.

Viene avvisato che suo fratello Lyle (Harry Dean Stanton) è stato colpito da un grave infarto ed è ora dunque malato. Rischia cioè, presto, di morire. Essendosi aggravate le sue precarie condizioni già cagionevoli di salute fisica

Al che, Alvin, malgrado non abbia più la patente in quanto gli è stata ritirata per ovvii motivi anagrafici, decide di andare a trovare Lyle col quale, da molti anni, per orgogliosi asti e vecchie, reciproche acredini mai sanate, non parla addirittura più.

Alvin si mette così in viaggio verso il Wisconsin ove abita suo fratello.

Il Wisconsin dista dallo Iowa la bellezza di circa duecentoquaranta miglia e Alvin è provvisto solamente di un trattorino rasa erba, fra l’altro, scassato e arrugginito. Sì, una carrucola più lenta di una lumaca, come si suol dire.

Una pazza impresa, dunque, la sua. Quella di avventurarsi, con un mezzo di trasporto così lento e soprattutto inaffidabile, lungo le pericolose e assai lunghe (perdonateci il voluto gioco di parole) highway sconfinate, forsanche dissestate dell’America più profonda e misteriosa.

Durante il suo interminabile, assai faticoso cammino tortuoso, Alvin fa incontri dei più disparati, incrociando gente di ogni risma ed entrando a contatto con una colorita e non sempre piacevolmente pittoresca umanità pullulata da personaggi assurdi, perfino inquietanti.

Una storia vera, tratto da un soggetto di John Roach e Mary Sweeney, abituale collaboratrice di Lynch, specialmente in veste di produttrice e montatrice (Strade perdute, Inland Empire, I segreti di Twin Peaks), e sceneggiato dagli stessi, musicato come al solito da uno straordinario Angelo Badalamenti, fotografato dall’immenso Freddie Francis, è poesia pura trasposta in immagini fulgidamente ipnotiche.

Un film che tocca molti temi con una dolcezza melanconica vertiginosa, infinitamente toccante in modo prodigioso.

Un’immane riflessione apoteotica sul tempo e sui rimpianti, sullo splendore e al contempo sull’orrore ineludibile della vita nella sua nuda semplicità emozionalmente straziante.

Siamo dinanzi a un capolavoro ineguagliabile.lynchvera

 

di Stefano Falotico

 

 

AL BAR DELLO SPORT, recensione di un ruspante (s)cult movie vero come LINO

lino banfi bar dello sport

S.O.S., solo in caso di necessità, soli in casa pronti alla nuova quarantena. In Francia, attaccata Avignone, avvenuti inoltre nuovi attacchi terroristici a Notre-Dame de Paris. Macron dichiara stato di allerta nazionale alla faccia della Liberté; Egalité, Fraternité. Ci vorrebbe Robespierre e forse una P.R. per baci alla francese di ecumenismo più rivoluzionario dell’inutile 69, no, ‘68.

Donald Trump teme di non vincere alle prossime elezioni presidenziali, sì, statunitensi, e forse contatta Dustin Hoffman di Wag the Dog per allestire, in Studio Ovale, ribattezzato “orale” dopo il fallaccio, no, fattaccio di Bill Clinton con Monica Lewinsky, una White House non tanto immacolata, una guerra contro la Corea del Sud.

Conte, premier nostrano, appartenente a un politico movimento vicino alla DC Comics, no, all’ex Democrazia Cristiana, prega col Pater Noster per scongiurare il peggio. Agli italiani giurando che mentirà loro come Leslie Nielsen de L’aereo più pazzo del mondo. La situazione, secondo Matteo Salvini, fu perfettamente sotto controllo ma sta ora sudando freddo in quanto la pandemia del Covid è in Caduta libera più preoccupante dell’orrendo programma televisivo condotto da Gerry Scotti. Il riso scotta?

C’è poco da ridere, la gente riguarda Riso amaro di Giuseppe De Santis e invoca ogni santo. Presto, sarà Ognissanti. Halloween! Carlo Verdone! Bianco, Rosso e…? Ma quale Altare della Patria e il tricolore.

La gente si strappa i capelli, urgono (r)impianti tricologici. Dopo Ognissanti, oh signur’, vien il giorno dei morti. E non c’è niente da ridere. Avete qualcosa da ridire? Ah ah.

Salvini è aperto al lockdown e la sua donna, chiusasi poiché forse affetta-infettata dal Corona (chi, Fabrizio?), non si apre a lui. Non gli dà il lascia-passere, no, passare. È una donna affettata.

Sì, sono l’unica persona al mondo, perlomeno fra le pochissime, capace di apprezzare parecchio Il processo ai Chicago 7, film nel quale svettano attori prodigiosi e magnific(ent)i e non improvvisatisi tali, cioè degli impresentabili deficienti che, dopo aver riscosso un consenso nazional-popolare, sfoggiando, si fa per dire, la loro nudità, più che altro, nullità esistenziale, esibendosi volgarmente e mercificandosi alla compravendita del carnaio sociale, dal Grande Fratello in poi sono ascesi, sì, di ascesso nostro gengivale a disgustarli, nel cosiddetto empireo dei VIP applauditi, benissimo pagati, forse solo inconsapevolmente plagiati da pecoroni, più idioti o forse solo più furbi di codesti, pronti ad omaggiarli e, come se non bastasse, sfruttando per l’appunto la loro popolarità alla b(u)ona da burini mai visti ma dalla maggioranza guardati, donando loro parti sempre più consistenti in film neanche malvagi.

Adesso, Luca Argentero è diventato un attore bravo? Mah, a Cristina Marino, preferisco il mio canale YouTube, Joker Marino.

Dicevo, mi sono perso. Ma amo perdermi, mi do da solo del disperso, del disperato, del cronico fallito amareggiato ben fiero di esserlo. Non rinnegando la mia innata lucidità, no, unicità, per l’appunto, inviolabile. A mio avviso, invidiabile.

Dicevo… sono fra i pochi, come si suol dire, che si possano contare sulle dita di una mano, a poter amare un ottimo film di Aaron Sorkin e, la sera successiva, rivedere assieme a un amico un film dalla comicità di grana grossissima (così viene definito dal trombonesco Paolo Mereghetti), Al bar dello sport.

Poiché sono come Joe Pesci di Casinò. Non metto mai la testa a posto. Infatti, sono gli altri a spaccarmela, ah ah. Sono forse un casinista o Tom Hanks di Turner e il casinaro.

Uno che ama starsene solo soletto, forse in saletta con le suolette, nella sua casina, spesso e volentieri, rinunziando alla cosiddetta socialità tanto decantata e “benvoluta” da un mondo ove, per essere stimato, devi per forza affermare, fermissimo, che i film di Paul Thomas Anderson sono, anzi siano (eh sì, sai usare il congiuntivo?), tutti dei capolavori. Lo è solo uno, Boogie Nights.

Per il resto, i film di Anderson sono più pretenziosi di uno psichiatra della mutua che vorrebbe praticarti maieutica, inalandoti retorica formale spacciata per arte incontestabile. Oppure per sedazione contenitiva, frenante di danni laterali e coattamente la tua voglia da coatto vero, senza la De Filippi a farti la predica o a rifarti il look imborghesito del tamarro piacione piccolo-borghese “amabile”, di cantare e mandare tutti a cag… e.

Molti, peraltro, forse anche Pearl Harbor… di Michael Bay non è così brutto come si dice/dica in giro, sostengono che Daniel Day-Lewis sia uno dei più grandi attori della storia e tanti suoi fan sono inoltre convinti che sia non solo il miglior attore della sua generazione, bensì il più grande vivente.

Ma per l’amor di dio! Daniel interpretò anche un paio di commedie brillanti al fine di dimostrare la sua versatilità camaleontica alla Bob De Niro. Non fu brilliant e ne uscì uno schifo più brutto di una modella rifatta su Instagram con tanto di bocce, no, di boccacce che vorrebbero fare gola ed essere al contempo goliardiche come nelle migliori novelle del Boccaccio.

Oltre a essere sboccata, strafatta e stupida, non mi eccita e non mi fa ridere. Questa qui è subito da bocciare, vai di banana, no, va bannata, bloccata. Stia castigata! Ah ah. Così come dicono a Bologna, bella mia, adesso stai cagata.

Cioè buona anche se sei bona. Insomma, sei una bona a nulla. Ah ah.

Lino Banfi, invece, è un uomo stoico. Quest’uomo sformato, grasso, rabbioso. Che vuole spezzare a tutti la noce del capocollo, imprecando come un porco, bestemmiando a più non posso. Tirando in ballo la Madonna dell’Incoronata, di Cerignola e pure di Manfredonia.

Un uomo che, con estremo orgoglio, non ha mai letto un libro storico, semmai di Valerio Massimo Manfredi. Credo anche che di Nino Manfredi, a tutt’oggi, altamente se ne freghi.

A differenza di Nino, attore con la sordina, forse migliore di Alberto Sordi perfino, Lino è sempre stato un uomo senza compostezza, che giammai cedette ai compromessi e non andò a messa, un uomo mai composto, scevro d’ogni regola del buon gusto. Eppur strepitosamente Augusto, no, giusto.

Che in questo film, ove interpreta la parte di un emigrato pugliese disastrato, semi-disoccupato a Torino, la città ove impera il culto della Juventus e la sua scarsa mancanza di culo, eh sì, per fortuna ieri sera perse però contro il Barcelona, risiede in una cameretta angusta ubicata a sua volta in un appartamento forse in subaffitto del cognato che probabilmente non pagò il mutuo ma volle castrarlo psicologicamente, appenderlo al muro, oppure renderlo muto. Soprattutto assai più povero del suo idolatrato, forse solo divinizzato, invidiato Gianni Agnelli. Sì, Lino, avvocaticchio alla Lino Capolicchio, no, alla Joe Pesci di Mio cugino Vincenzo, alla De Niro de La notte e la città che, anziché corteggiare Jessica Lange, è Innamorato pazzo à la Celentano non di Ornella Muti, co-protagonista di Povero ma ricco con Renato Pozzetto, bensì della tabaccaia Rossana, una Mara Venier, natia di Venezia, che c’entra come i cavoli a merenda in tale pantomima ed è ficcata… in un baretto frequentato da personaggi partenopei come Gaetano (Pino Ammendola!). Un microcosmo da Totocalcio e da Toto Cutugno, da Monte Rosa, Monte Bianco e montepremi ove compaiono, dalla tv, uomini da Natale a casa Cupiello, in cui Jerry Calà dà spettacolo e si agita come un matto, gesticolando a briglia sciolta forse come un ventriloquo-trasformista Arturo Brachetti ante litteram. Probabilmente, è sofferente non solo di mutismo, anche di rachitismo e precarietà di cultura. Uomo che, essendo stato dalla nascita angariato ed estromesso da ogni sociale contesto, essendo stato sottomesso e sfruttato, malpagato come Mio fratello è figlio unico di Gaetano Rino, venne quindi dal prossimo rifiutato in quanto giudicato razzisticamente, no, cattivamente un handicappato. Non disse/dice una Parola, parola identica al suo nome, poiché, dopo essersela giocata male forse con qualche cretina di Vacanze di Natale o Sapore di mare, desiderò riscattarsi dalle sue origini da indigeno e marocchino, no, da catanese indigente nato all’anagrafe as Calogero Alessandro Augusto…

Un film di Francesco Massaro che assomiglia a una pellicola per massaie, no, di Sergio Martino. Ambientato perlopiù in uno squallido baretto di periferia ricolmo di aperitivi Campari in cui dei poveri disgraziati, semi-orbi e disagiati, immalinconiti a bestia, tirano a campare fra una pizza mangiata a portafogli e pochissimi soldi nel salvadanaio sparito pure dai sogni nel cassetto più impolverati della biblioteca della sorella di Lino. Si legge molto in questa casa… Annabella Schiavone! E Lino, dopo aver fatto tredici, mangia pure il sapone.

Sì, un uomo di un altro pianeta, un puro di buon cuore, un uomo E.T., sì, extra-terrone. Ah ah.

Anche Sergio Vastano, ora devastato, però non scherza, eh eh. È di Roma ma sembra siciliano. Sì, ha sempre i baffetti da siculo.

Massaro, regista venuto prim’ancora del centravanti del Milan omonimo. Vai, Massarooo…

Io giocai, da mezza ala destra alla Pasolini, nel Lame Ancora.

Alla fine, Lino scoppiò oppure Annie Belle scopò. Di nome, nel suo personaggio, Martine. Fottendo tutti, anche Don Raffaele (Leonardo Cassio). Strozzino che vorrebbe recitare come Marlon Brando de Il padrino ma vien affiancato soltanto da colui che interpretò la parte del padre di Bruno Sacchi… mica da Al Pacino.

Sì, grande Lino. Volle recitare pure con De Niro. De Niro che fu Don Vito ma anche, in Shark Tale, Don Lino.

Bene, la seduta è tolta.

Il Falotico è il più grande scrittore del mondo. Col suo prossimo libro, cioè questo, venderà dieci copie. Datemi una cornucopia.

https://www.kimerik.it/SchedaProdotto.asp?Id=4027

Altrimenti, se venderà più di Fedez, diverrà/diventerà ricco come Chiara Ferragni. Al che, tutti vorranno da lui un residence e un cappotto di cashmere. Voglio invece essere un uomo vellutato, verace, da vongole veraci, vendere un mio ex conoscente, Geraci, in seconda classe nel treno al grido di Geraci, no, gelati, patatine e bibite!

Andare con Gaetano da I Gaetano. Famosa pizzeria, appunto, dell’entroterra del capoluogo emiliano-felsineo.

E ho detto tutto.

Cari morti di fame, morirò presto suicida in quanto senza una lira. Le lire non ci sono più. L’arte non paga, il puttanesimo, sì.

Prima però devo andare in bagno. Poi in cucina. Sì, devo controllare non la schedina, infatti non c’è più, bensì dare una sberla a una zia che, nella sua vita, credette di essere Ava Gardner ma non amò mai suo marito, un tipo-topo da SNAI, un asino. Lui non seppe amarla e lei però non rimase vergine come la Madonna. Lui non è San Giuseppe e non sa far di coito, oltre che di conto. Lei non sa fare il cucito ma a tutti la bocca vuole cucire.

Sì, lasciai gli studi istituzionalizzati poiché già all’epoca mi sentii a disagio con un mondo di ritardati.

Non andavo manipolato né strumentalizzato. E che sono Matt Damon di Will Hunting? Quando i cattivi alla George Foreman esagerarono con le offese, divenni troppo veloce come Muhammad Ali. Più che un film di Massaro, un massacro. Ne presi molte, lo presi in quel posto ma non sto ancora a posto. No, non sono costernato, neppure sistemato, non ho vinto la Lotteria di Capodanno ma sono un artista che ama il Cinema tutto. E, come Joe Pesci di Casinò, ho fatto il botto. Ah ah. Giù ancora botte. Sì, sempre borbotterò. Ah ah.

Ha ragione Cristiano Ronaldo, non dovete tamponarlo su Instagram e sulla strada che porta allo stadio. Il tampone è una stro… ta.

Sì, una strombolata. Che avevate capito?

Di mio, sono riesploso come lo Stromboli o come uno stro, uno stro, un nostro/vostro parente. No?bar dello sport locandina bar dello sport jerry calà

di Stefano Falotico

 

LETTER TO YOU by BRUCE SPRINGSTEEN, alias BOSS – REVIEW

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Ebbene, il Boss è tornato con Letter To You. Un’ode alla più dolce, fosca, tenera e al contempo tenebrosa, malinconica sua reminiscenza monumentale di natura mondialmente musicale, un’epica e soffice raccolta delicata, già d’antologia, incastonata e sigillata eternamente nella mirabilissima sua rocciosa eternità perpetua ed eterea. Una carezza lieve donata alle nostre anime. Alle volte spaurite, melanconiche, altre volte grintosamente auto-echeggianti l’evocativa virtù dell’infinità (u)morale delle nostre stesse accorate sensazioni traballanti, in continuo mutamento e rigenerativa freschezza persino euforica dopo tante eclissi dei nostri cuori spezzati, oscuratisi nel buio e poi, di colpo, risorti magnificamente in gloria.

Quest’uomo immarcescibile, oramai appurata ed incontestabile leggenda vivente incarnata nel suo viso oggi smagrito, nella sua ectoplasmatica sagoma avvolta da una nebbiosa atmosfera nevosa, camminando nell’asperità romantica dei suoi perenni, giammai vinti, crepuscolari e al contempo infuocati dubbi esistenziali, pare che riemerga dalle soffuse penombre di sé stesso, incorporandosi nel revenant cantore delle sue incantevoli memorie magiche. Pietrificate nello splendore dell’adamantino rammemorare il suo e nostro cammino poetico, addirittura ambiguamente ermetico. Sobrio e lucente.

Bruce Springsteen, ladies and gentlemen, che nella copertina del suo nuovo, stupendo album imprescindibile non solo per i suoi irriducibili aficionado, ormeggiando in metaforico the river sulfureo della plumbea, “accordata” mareggiata emotiva della sua carriera oceanica, ci regala un’altra perla piena di canzoni dolcemente lievi evocanti forse A Christmas Carol di Charles Dickens, soavi come un’onirica, atmosfera natalizia, per l’appunto, appaiabile a Paul Auster o, forse, alla squisita amabilità commovente del derivatone, cinematograficamente, racconto vividamente sentito di Harvey Keitel in Smoke.

Letter To You profuma di concettuale spiritualità quasi gospel, sì, di mistica ed avvolgente, allo stesso tempo sanguigna vivacità toccante. Pare, a tratti, addirittura un moderno canto gregoriano.

Dopo Western Stars, elegia dedicata alle anime spare parts dell’infinita, folle e visionaria America forse perduta eppur combattivamente resiliente, a settant’uno il Boss si restaura nel ricordarsi, nel contemplare la bellezza sfuggevole e cangevole del tempo rivisto, introiettato e cantato con la forza ancora gagliarda della sua tempestosa leggendarietà inscalfibile ed immutata.

Cosicché, recuperando dal cassetto dei suoi stessi sogni giammai arenatisi ed assopitisi, alcune canzoni incomplete ed inedite degli anni settanta, alternandole a brani del tutto nuovi, levigati nelle sue vocali corde già, puntualmente, indimenticabili, c’allieta e culla con vibrante, senziente beltà marmorea.

Rilluminando sé stesso, estasiandoci nel far sì che, ancora una volta, possiamo immergerci attraverso lui in un altrove luccicante di lucida, fortemente impalpabile voglia di vivere e rivivere. Di amare e ricordare per rinascere nuovamente intrepidi ed agguerriti. Ancorandoci al passato per rielaborarlo, assieme a lui, in forma catarticamente suadente e morbida.

Con Ghosts supera sé stesso, mormorandoci la levità della fantasia immaginativa e della mnemonica frenesia del suo rispolverare il suo e nostro excursus insuperabilmente, strenuamente agganciato alla purezza dei nostri ricordi riscaturiti vulcanicamente in esplosiva potenza vitale, inarrendevole e, nonostante tutto, ancora intatta. Ripetiamo, immutabile.

Anche se a noi è piaciuta da morire soprattutto Song for Orphans.

Sì, Letter To You non tocca certamente le vette di perfezione stilistica di Nebraska, Bruce Springsteen non è più quel ragazzo strepitosamente e meravigliosamente scalmanato di Born to Run, ma è sempre lui.

In Letter to You aleggia anche la presenza, chissà, di un altro rocker immenso, Bob Dylan.

di Stefano Falotico

 

MANK by DAVID FINCHER, new Trailer with Gary Oldman

MANK.gary oldman fincher mank posterIn Select Theaters November and on Netflix on December 4. Starring Academy Award Winner Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Arliss Howard, Tom Pelphrey, Sam Troughton, Ferdinand Kingsley, Tuppence Middleton, Tom Burke, and Charles Dance. Directed by David Fincher.

Ebbene, soltanto pochi giorni fa abbiamo assistito entusiasti al teaser trailer di Mank. Nuova, attesissima pellicola del grande David Fincher (Panic RoomFight Club) con Gary Oldman, in profumo già di Oscar, protagonista assoluto di tale biopic romanzato sulla vita dello screenwriter Herman J. Mankiewicz, cioè nientepopodimeno che lo sceneggiatore di Citizen Kane, ovvero Quarto potere di Orson Welles. Da molti ribattezzato il film più bello del mondo. Affermazione certamente apodittica poiché è oggettivamente impossibile decretare quale possa essere la pellicola cinematografica più bella, per l’appunto, di tutti i tempi.

Senz’ombra di dubbio, è altresì lapalissiano e incontrovertibile che Quarto potere rappresenti un’epocale pietra miliare incommensurabile della più pregiata ed altisonante Settima Arte scintillante.

Fincher, in tale suo elegantissimo Mank, almeno a giudicarlo tale dalle suadenti, perturbanti e al contempo delicatissime immagini del trailer integrale che vi mostriamo, indagherà in forma detection, forse non dissimile dallo stile splendidamente neonoir di molte altre sue precedenti pellicole, in merito alla misteriosa vita privata di Mankiewicz, circumnavigando filmicamente attorno alle fortuite eppur segretamente affascinanti, labirintiche vicissitudini e circostanze più o meno casuali, dunque inaspettatamente forse, potremmo dire, cabalistiche, esoteriche e quasi miracolistiche che, dal nulla, originarono le strepitose, irripetibili intuizioni e magiche ispirazioni che furono alla base di Quarto potere.

Nel cast anche Amanda Seyfried.

Mank sarà nei cinema a novembre e su Netflix dal prossimo 4 dicembre.

 

CLARA, lacrimosa santità: un tenebroso, lugubre lungometraggio à la Rashomon sulla haunted house di Trebbo di Reno… ove aleggia una storia alla Shining…

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Ebbene, amici e (a)nemici, fratelli della congrega. Non d’una setta satanica da ridicoli adepti a mo’ di Frank Langella de La nona porta del grande Roman Polanski, bensì fedelissimi del Falotico.

Il quale, durante queste altere serate tempestose del nuovo nostro crepuscolare inverno tetro, sebbene sia stato come sempre da molti esistenziali dubbi afflitto e tempestato, assieme ad intrepidi, valenti, talentuosi amici vigorosi e valorosi e ad una damigella d’onore dalla beltà marmorea che possiede il suo innamorato cuore, ovvero un’inarrivabile (per voi…) donna la cui dolcissima, incantevole venustà svetta e perennemente primeggerà al di sopra di tutte, girovagando non a zonzo, gironzolando non da perdigiorno, bensì da artistico cineasta dal curriculum vitae improntato alla più fine squisitezza gustosa e alla sofisticatezza encomiabile e calorosa del suo adorare la Settima Arte più eccentrica, encomiastica e grandiosa, cioè meritevole dei suoi/miei sperticati elogi amorosi, in barba agli uomini cinici, irrispettosi e vanagloriosi che elevano la futilità a stile di vita inutile, coraggiosamente realizzò un mediometraggio abbastanza inquietante eppur credo/e assai affascinante. Con tanto di epilogo finale quasi laconico, sospeso nel tempo infinito dell’esoterismo più misterico. E un breve, incisivo suo primo piano iper-espressivo che potrebbe ricordare il carismatico Carlo Lucarelli migliore dei tempi d’oro, cioè quello di Blu notte – Misteri italiani, che risalta lucente, incastonato fra le sobrie luminescenze di due quadri astratti pregiati d’estremo valore. Forse litografie stilizzate e magicamente appaiate al suo viso onestamente bello nella sua madornale rinascita creativamente vitale?

Cosicché, se il magistrale David Fincher presentò in queste decisive ore il superbo trailer integrale del suo Mank, se Netflix ne mostrò la magnifica locandina spettrale ma spettacolare in cui troneggia grandguignolesco un Gary Oldman impressionante, il Falotico pubblicò sul suo canale, Joker Marino, il succitato suo mediumlenght film forse eccezionale. Non so se geniale quanto Citizen Kane, opera insuperabile partorita da un Orson Welles giovanissimo, ispirato come non mai, senza dubbio però possiamo ammetterlo oggettivamente che ci troviamo al cospetto di qualcosa di profondamente perturbante, davvero originale. Con un Falotico factotum che si triplica in tre personaggi, anzi in due uomini che a loro volta vengono inglobati, incarnati, oserei dire spiritati e trasfigurati in forma camaleontica, fantasmatica e amletica nell’onnipotenza, nella curiosa irriverenza e nell’ectoplasmatica, decadentistica onnipresenza d’un invisibile inquisitore dalla voce roca, dura e rocciosa.

Al che, lavorando alle color corrections assieme al mio/suo amico Cristian durante queste sere fredde climaticamente ma non algide emozionalmente, allestendo visive invenzioni caleidoscopiche dall’interno della sua residenza dall’arredamento asettico eppur bellamente atmosferico, il Falotico partorì un’opera di 33 min. circa, così come gli anni di Cristo, dedicata alla purezza per antonomasia, al culto metafisico della trascendenza più onirica. Forsanche lisergica. Riesumando dalle ceneri delle seppellite, obliate od obnubilate memorie felsinee volutamente scordate, l’agghiacciante vicenda di Villa Clara. Casa maledetta che forse cela ancora una vicenda non del tutto chiara. Anzi, orrifica e assai oscura.

Avvalendosi della presenza-cammeo della sua Eloise, girando fra il manicomio abbandonato di Imola, cittadina in cui Ayrton Senna perse la vita, filmando notti tardo estive ammantate di leggiadra fantasia gioconda e al contempo malinconica, il Falotico dona a voi, comuni (im)mortali come lui, un’opera perlacea e raffinata. Non so se da tramandare ai posteri. Certamente intarsiata nell’ottima, rossa e incandescente miniatura de L’Impero del Cinema, da quest’ultimo posterizzata e saturata.

Si partì dalla sceneggiatura. Forse lo script originario, come si suol dire, peccò di presunzione e presentò dei dialoghi troppo teatrali, ridondanti, fastidiosamente solenni e anacronistici da aggiornare al corrente, contemporaneo linguaggio comune.

Ma Falotico non abbisognò di alcuno storyboard per visualizzare il suo Klaus Kinski/Nosferatu su recitazione fra il grottesco esilarante, il Marlon Brando più serio e maestoso e le sue nere, cup(id)e iridi forse magnetiche su corde vocali delicatamente poetiche, eroiche, persino morbosamente erotiche…

Turgide serate illuminanti nelle quali, accompagnato in questo lungo viaggio spirituale e carnale al tempo stesso, dai gatti Penelope e Napoleone di Cristian, Falotico rammemorò illuminatamente chi fu.

E forse ora ce n’è per nessuno.

Un Falotico che rinasce, ricarbura a velocità pazzesca, vi assicuriamo che è un uomo che può fare qualcosa di veramente importante, d’immensamente rilevante per l’Arte tutta.

Falotico, scrittore di saggi monografici e romanzi picareschi, di racconti dell’orrore e di paura, di romance erotici d’impagabile immaginazione, fattura e impaginazione pura mista a principi di realtà suprema e dura. Eh sì, maledette fattucchiere! Basta con la caccia alle streghe!

La vita è piacere e dolore, tragedia e Rinascimento. Tenetelo ben a mente, poveri (dis)illusi.

Lui, il Falò, unisce il vero col falso, mescola i sogni con la vita reale. Persino regale.

Ah, vi ha fatto veramente un immane regalo. Che principe gentile e galante, oserei dire anche raggiante e magniloquente.

Ringrazia la sua donna e garantisce all’umanità intera che se tiferete per lui non riceverete alcuna fregatura.

Per molti anni fu inviso e malvisto. Giudicato erroneamente, anzi in maniera orrida, essendo frettolosamente giudicato una persona ingrata e pure sgradita.

Ma, come dice Jack Burton di Grosso guaio a Chinatown, basta adesso!

Poiché Falò ama da morire Prince of Darkness. Uno dei massimi capolavori di John Carpenter.

Lui non è il diavolo ma ne sa una più di Belzebù, non è un angelo in quanto non è Lucifero, neppure San Michele. Non è un ipocrita in quanto ateo e considera la cristianità piena di falsi tabù.

Ce la vogliamo dire, sinceramente, senza se e senza ma?

In modo papale papale? Sì, è un uomo papale. È il Papa?

Dai, su. Ma no…

Adesso, sapete chi è. Anche no? Chissà. Ah ah.

E ricordate, miscredenti, Dio c’è e Paranormal Activity fa proprio schifo.

Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Chi ha occhi per vedere, ami la vita, il Cinema e le donne. Altrimenti, lo spediremo subito all’inferno.

Così è, così sia scritto, così sia fatto.

Il terzo giorno, Falotico è resuscitato così come dicono le Sacre Scritture. Questi, sì, dei libri fake che meritano solo che feroci stroncature. Mentre il Vangelo del Falotico promette faville.

Il Falotico non ha i soldi per regalarvi una villa ma può darvi molto di più.

Se non capite questo, scattatevi un selfie per fare i fighi ma abbiate la pietà, la Veritas di non mentire a voi stessi. Inginocchiatevi. E che la pace sia con voi e con il suo, il suo Spirito.

Ah, che sospiri…118228841_10217321212165170_6662079010235329136_o

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di Stefano Falotico

 

JOE by DAVID GORDON GREEN,with NICOLAS CAGE

cage joe david gordon green

Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato, perlomeno da buona parte dell’intellighenzia nostrana, Joe.

Presentato in Concorso al Festival di Venezia del 2013, esattamente il 30 Agosto, purtroppo insufficientemente distribuito in Italia, Joe è firmato da David Gordon Green. Regista assai giovane, soltanto classe ‘75, il quale però può vantare già un curriculum filmografico di tutto rispetto e di primo grado, sebbene c’appaia, va detto senza peli sulla lingua, un director discontinuo, leggermente sgangherato, la cui poetica non c’è ancora chiara né bilanciata. Avendo lui sbandato, potremmo dire, da pellicole adolescenziali strampalate come Strafumati con James Franco e Lo spaventapassere con Jonah Hill, alla sua rielaborazione più seriosa, intimista e malinconica, non efficace comunque, dello stesso Lo spaventapasseri, ovvero Manglehorn. Omaggio personale di Gordon Green al capolavoro appena citatovi, vale a dire Scarecrow, Palma d’oro a Cannes con Gene Hackman ed Al Pacino. Quest’ultimo a sua volta interprete, per l’appunto, in maniera auto-citazionistica, della pellicola di Green succitata.

Al che Gordon Green, riesumando il cadavere mai veramente sepolto né obliato dell’iconico, sanguinario e precisamente immortale Michael Myers, ha dato vita al reboot di Halloween. Incanalandosi, forse incastrandosi, in una nuova saga carpenteriana non apocrifa e dallo stesso regista de Il seme della follia patrocinata, in pieno approvata e sostenuta di generosissimo beneplacito commercialmente premiato.

Dunque, in mezzo allo sconnesso e disomogeneo turbinio prolifico di Green, smarritosi probabilmente da solo alla ricerca della sua stessa strada confusamente perseguita e battuta, diciamo dissestata e ancora acerbamente mal da sé asfaltata, ci sentiamo indubbiamente di affermare che Joe, malgrado non sia affatto un capolavoro, ci risulti in toto la sua opera migliore, certamente.

Joe, tratto dall’omonimo romanzo di Larry Brown, è un corposo melodramma di circa due ore, innestato su robuste, per quanto melanconiche, plumbee tinte thrilling che, come si suol dire, dopo un incipit quasi soporifero, carbura fortemente e in crescendo rossiniano a combustione lenta, accelerando dunque ritmicamente e narrativamente nel divampamento d’un finale con tanto d’immancabile, emozionante, stradale inseguimento ed un esplosivo, inaspettato climax dal retrogusto toccante e dolceamaro, intriso d’un morbido cupio dissolvi da pelle d’oca attorcigliato ad un happy end a metà, fintamente ma non furbescamente, consolatorio.

Trama:

il timido e incolpevolmente scapestrato Gary (Tye Sheridan) peregrina di città in città negli States a causa delle irresponsabili malefatte dell’alcolizzato padre scansafatiche, il burbero e assai violento Wade (Gary Poulter). Il quale, per sfuggire alla legge, costringe il figlio a un’esistenza perennemente precaria, picchiando inoltre la moglie ripetutamente e ricattandola perentoriamente con irosa furia insistente. Per via peraltro del suo carattere scontroso e dei suoi modi insopprimibilmente maneschi, sua figlia, vale a dire la sorella minore di Gary, s’è chiusa nel mutismo, auto-recludendosi protettivamente in casa nel suo secret garden emotivo ed erigendo un fortilizio comunicativo fra sé e la realtà esterna.

Gary è quindi in continua ricerca di lavoro. E, in una sperduta cittadina polverosa e sempre piovigginosa del Texas più southern, trova impiego e poi protezione di natura quasi paterna nel grezzo ed ambiguo, apparentemente debosciato, boscaiolo tuttofare Joe Ransom (Nicolas Cage).

Dopo vari, sconvolgenti accadimenti ed un’interminabile escalation d’altre psicofisiche violenze inaudite, per Gary e sua sorella pare profilarsi un’irrimediabile, imminente tragedia non scalpabile.

Le loro già difficilissime vite, alla fine, rimarranno intatte o solo miracolosamente salvabili?

Vi abbiamo già svelato abbastanza, anzi troppo. Perciò, non intendendo assolutamente rovinarvi la sorpresa e non spoilerando sui numerosi colpi di scena che, in modo avvincente, vengono in Joe dipanati lungo quasi tutto l’arco della sua movimentata vicenda, ci fermiamo qui dal dirvi giustamente altro.

Sorretto da un Nicolas Cage raramente così misurato e carismatico, il quale comunque conserva immutabilmente la sua trascinante, eversiva carica passionale, proverbialmente tipica del suo stile recitativo spesso e volentieri caricato, Joe è un ottimo film.

Piuttosto banale nella sua diegetica di costruzione filmica falsamente ricercata pressoché in linea, in maniera convenzionale, col classico canovaccio del prevedibile melodramma americano basato e ricalcato sugli stilemi della risaputa, già vista, quindi annoiante tematica della sconfitta e redenzione esistenziale, Joe ugualmente appassiona e allo schermo tiene incollati.

Per merito di una bella, atmosferica fotografia chiaroscurale di Tim Orr, di malickiane suggestioni che colpiscono nel segno e di un Nic Cage, come sopra dettovi, straordinariamente da Gordon Green diretto, rivivificato professionalmente, ispirato e completamente calzante, in quanto nato e tagliato per la parte del tenebroso uomo, ex carcerato, irredimibile eppur ostinatamente vivo e stoico nella sua durissima resilienza onestamente morale e grintosamente mirabile.

di Stefano Falotico

 

IMAGO MORTIS, recensione

imago mortis

Ebbene, oggi recensiremo un film purtroppo misconosciuto ai più. Ovvero l’inquietante, enigmatico, osiamo dire perturbante e profondamente angosciante Imago mortis.

Assai interessante opera prima di Stefano Bessoni in un lungometraggio per il grande schermo. Classe ‘65, Bessoni, in tal caso, cimentatosi egregiamente dietro la macchina da presa in veste di director, come sopra scrittovi, dopo rinomati e finissimi studi in quel della sua amata Roma natia, dopo essersi specializzato come animatore di stopmotion ed aver affinato, rifinito la sua arte fotografica, divenendo peraltro cinematographer di non trascurabile valore e gusto peculiare per le immagini più ammalianti ed elegantemente ammantate, potremmo dire, di tetro, mortifero, visivo fulgore attraente, dopo aver fruttuosamente collaborato con Pupi Avati as curatore degli effetti speciali e creatore degli storyboard de La via degli angeli e dell’ambizioso, sebbene irrisolto, probabilmente pasticciato e disorganico, anzi sicuramente disomogeneo e interminabilmente indigesto, forsanche stucchevolmente noioso I cavalieri che fecero l’impresa, motivato da un’innata intraprendenza fecondamente fantasiosa congenitamente a lui immaginativa, attingendo dalle atmosfere morbosamente affascinanti del primo Dario Argento più perturbativo, intuitivo e strepitosamente ingegnoso, orrifico e al contempo inventivo, in maniera derivativa del cinema, da lui rivisto in forma elaborativa del suo ispiratore, artistico padre putativo, vale a dire nientepopodimeno che l’appena menzionatovi maestro Avati, nel 2009 esordì con questo piccolo capolavoro, cioè Imago mortis.

A distanza di dieci anni pressoché esatti dall’uscita nelle sale d’Imago mortis (distribuito infatti in Italia nel gennaio del 2009, sebbene Wikipedia l’accrediti appartenente al 2008) l’anno scorso, un altro regista italiano su cui nutriamo già forti aspettative per il futuro, vale a dire Roberto De Feo, presentò il suo notevole The Nest (Il nido).  

Horror dalle atmosfere nitidamente misteriche, osiamo dire mesmeriche che, in modo concettualmente, specularmente coincidente, similarmente appaiabile allo stesso Imago mortis, non poco ci ricordò il succitato, insuperato Dario Argento dei tempi d’oro, vale a dire il tenebroso, magnifico Dario di SuspiriaInferno e Profondo rosso.

Ci siamo permessi, usiamo pure il plurale maiestatico senza paura, essendo questo un film del brivido, eh eh, di anticiparvi la trama d’Imago mortis con tale nostro breve prologo ché vi sia leggermente esauriente al fine che possiate meglio apprezzare appieno l’opus n.1 di Bessoni. Un thriller assai suggestivo e ricolmo di suspense congegnata con glaciale sofisticatezza d’alta scuola ermetica. Un film suadentemente metafisico.

Un film davvero amabile sebbene criptico, sì, volutamente indecifrabile e, ripetiamo, sottilmente e seducentemente intrigante. Curiosamente avvenente nel suo concatenarsi d’immagini apparentemente insensate, a ben vedere, invero sobriamente attorcigliate (mal)sanamente a una tenera e contemporaneamente, figurativamente armoniosa giostra caleidoscopica di frame sostenuti assieme da un fluidissimo ritmo filmico eccezionalmente impaginante, diciamo, fotogrammi stessi delicatamente intarsiati e in modo surreale disposti a mo’ di diapositive ipnotiche. Accenniamone la trama, brevemente:

d’analessi scioccante coagulata in uno spaventevole incipit non poco allucinante, potremmo dire, retrospettivamente illustrante i macabri avvenimenti poi, durante la narrazione, mostratici, veniamo immersi in modo funereo in un 1600 caliginoso. Ove il saggio o forse folle, semi-scienziato pazzo Girolamo Fumagalli fu ossessionato dal desiderio d’immortalare immagini che echeggiassero, memorabilmente, nell’eternità. Fumagalli, prelevando la retina d’una persona morta ammazzata, fu convinto che essa contenesse, quasi a mo’ di reliquia, l’ultima immagine captata e vista dal soggetto assassinato nell’attimo immantinente antecedente il suo ultimo sospiro prima di morire. Fumagalli denominò questa sua spettrale, mostruosa tecnica fotografia nell’auto-coniarla col termine tanatografia (da thanatos…).

Spostandosi poi vertiginosamente alla nostra epoca, seguiamo le vicende di un timido studente di Cinema che frequenta un’accademia ove s’insegna la Settima Arte che, onestamente, più che sembrare una scuola, pare un istituto psichiatrico, sì, una struttura dall’aspetto manicomiale ove gli studenti c’appaiono, chi più chi meno, dei ragazzi e delle ragazze malati mentali, qui internati.

Bruno (Alberto Amarilla) è, peraltro, tormentato da visioni distorsive della realtà, a prima vista, allarmanti.

Il ragazzo sta accusando dei segnali di squilibrio psicologico preoccupanti, è cioè pazzo oppure è un ragazzo speciale dotato d’una sensibilità talmente spiccata da essere l’unico in grado, con la sua capacità, anziché paranoica, bensì illuminata di paranormale, preveggente intuizione precognitiva, a svelare tanti assurdi e agghiaccianti misteri che si celano dietro la facciata all’apparenza impeccabile della sua scuola?

Nel cast, sia Geraldine Chaplin che sua figlia, la bellissima e magra Oona Chaplin.

Ecco, sia The Nest che tal bel Imago mortis sarebbero da mostrare a chi sostiene, a torto, che il Cinema mystery italiano sia morto.

Cominciamo a svecchiare l’idiozia, semmai, del Cinema sciatto, volgarissimo e pecoreccio di cui è ammorbata, purtroppo a tutt’oggi, la nostra Italietta di pagliacci e saltimbanchi, di comici ridicoli che non fanno ridere, di aspiranti attori e attrici degli stivali, da festival da cazzoni e degli stivaletti che, anziché essere interpreti di valore, al massimo sono dei modelli e delle modelle da Instagram per due leccate di culo in più. Per l’amor di dio, diamo ampio spazio a gente come De Feo e Bessoni.

Due registi che, sebbene non abbiano sfoderato dei capidopera, sanno il fatto loro, rischiano e, come si suol dire, mettendovi sfrontatamente la faccia. Senza avere paura di nulla.

Soprattutto di affrontare un genere che va rivivificato, quanto prima, in modo genialmente pauroso.

Per quanto riguardi invece il sottoscritto, alcuni anni fa, in seguito a vicissitudini ingiustamente aberranti avvenutemi, in seguito a fatti terribilmente scabrosi, conobbi uno psichiatra dal cognome De Feo, “portatore” del mio stesso nome, identico per l’appunto a quello di Bessoni.

Inizialmente, mi considerò pazzo, sì, matto da legare.

Dopo tre pagine di un libro che gli feci leggere, un mio libro, estasiato, urlò di benevolo terrore!

Perché io non ho capito, infatti, una cosa.

Se abbiamo avuto Argento, Avati, se abbiamo Bessoni e De Feo, perché non possiamo avere anche un Falotico?

Sto allestendo, assieme a degli amici fidati, questo… ve ne do un assaggio.

Dunque, sul passato angoscioso stendiamo un velo pietoso. Poiché, per piacere, quando il Maestro sale in cattedra, cala un silenzio vergognoso. Quello di molte persone stolte, bigotte, malate di oscurantismo e abbisognanti, assolutamente e rapidissimamente, di culturale catechesi potente.

Il Falò è vivo, il Falò ne sa una più del diavolo. Ora, c’è solo una persona che ne sappia una più del diavolo. Cioè Dio. E, su questa freddura, sparisco nella notte, ascendendo nuovamente al settimo cielo in forma paradisiaca. Statemi buoni e che (d)io vi benedica. Ah ah.

Per finire, diciamocela: Oona Chaplin non credo che sia vergine come la Madonna ma è più bona della Ciccone.

Voi dite di no? Ah no? Fa veramente spavento da quanto è dolce e bella. Da gustare tutta ignuda al plenilunio. Ululate, uomini arrapati. Fra le sue cosce avviluppatelo, sviluppatelo. Galoppate!

Donna da fottere assolutamente, direi assiduamente. In modo prepotente. Oddio, tenetemi (in)fermo, sto impazzendo come il protagonista del film, ah ah. Invero, non sono malato di mente, cioè demente, cari deficienti e impotenti. sono san(t)issimo. Se siete uomini eterosessuali e non desiderate scopare Oona, predisporrò per voi un TSO immediato. Non siete normali. Andate curati subito. Mentre Oona va inculata quanto prima.

Mi metteranno all’inferno ma, come detto, Inferno è un film che sa di vivissimo argent(e)o purissimo. Non voglio l’aureola dorata né essere adorato. Sono maledetto e dunque pretendo di essere interdetto. Ah ah.

di Stefano Falotico

 

Lilith’s Hell, recensione

lilith hell petrarolo

Ebbene, circa due anni fa, in data precisa 18 Settembre 2018, uscì una mia intervista per Daruma View Cinema a Vincenzo Petrarolo, ovvero la seguente: http://darumaview.it/2018/intervista-vincenzo-petrarolo-follower

Intervista, potrei dire, minuziosamente dettagliata e innestata su domande sobrie al fine d’indagare soprattutto nell’animo di un regista italiano, espatriato spesso all’Estero, nel nostro Belpaese ritornato, certamente pugnace. Che è pur sempre meglio d’incapace.

Mentre, pressappoco 16 ore fa, sul suo canale YouTube, sotto il filmato del trailer del suo particolare Lilith’s Hell, inserii smodatamente, quasi immoderatamente, di certo coraggiosamente, oserei dire, tale mio commento assai sincero, scevro d’ogni possibile ruffianeria disdicevole malgrado, così come a seguire vi narrerò, fra me e Vincenzo recentemente non corse buon sangue e il sottoscritto si lasciò andare ad esternazioni un po’ riprovevoli, probabilmente anche perdonabili, eh eh.

Ora, premesso, attestato, oserei dire, acclarato quanto sopra scrissi e riportai con cura estrema e un po’ d’orgoglio da nuovo Gianni Minà dell’underground giornalistico, debbo onestamente anche asserire e testé, sì, tostamente e ivi riferirvi che io e Vincenzo, qualche giorno fa, diciamo che litigammo accesamente, scambiandoci vocali alquanto feroci su WhatsApp e, per l’appunto, via dicendo. Voluta ripetizione mia del verbo dire coniugato personalmente al plurale di presente che fu oramai oggi anneritosi. Ah ah.

Potremmo, per l’appunto, dire che io e Vincenzo, conosciutici attraverso l’intervista succitata a voi qui mostratavi, chissà se mai dal vivo vistici, bisticciammo.

E ciò me ne dispiace. Spesso, amici, si litiga per nulla di che, per moti d’orgoglio di sicuro non belli. Si litiga a causa di prese di posizione radicali difficilmente sanabili.

Fatto sta che, trascrivendovi e copia-incollandovi qua il commento da me (e)messo sul suo canale, non rinnego affatto le mie parole dedicategli:

Petrarolo è un regista che proviene da una cultura forse oggigiorno persasi. Ispirandosi dichiaratamente, fra gli altri, al grande Dario Argento, come per sua stessa ammissione, non lesina nel rischiare, investendo personalmente nei film in cui crede. Come chiunque, trova difficoltà a prospettare i suoi progetti. Poiché i registi coraggiosi, in Italia, sono senza dubbio affossati, spesso, da un sistema catto-borghese legato a logiche produttive e commerciali ove s’investe, paradossalmente, ancora meno rispetto agli anni settanta su chi parzialmente è ancora “sconosciuto” mentre prima, per l’appunto, cineasti stoici come Dario Argento trovavano i soldi necessari per portare avanti i loro sogni. Oggi, invece, malgrado lo spopolare di Netflix, la diffusione mondiale dei social e la libera circolazione delle idee internettiana/e, ci si è chiusi anacronisticamente più di prima. Petrarolo ha molto da dire e, ripeto, non ha paura di niente. Le sue prime opere, forse, non sono esenti da difetti e prive di errori, non sono insomma perfette. Perlomeno, Petrarolo ci mette la faccia e affronta temi, come l’horror, affastellando le sue conoscenze cinematografiche in maniera non banale. I suoi film sono certamente interessanti. Gliene va dato sicuramente atto. Personalmente, non mi riconosco in alcuni suoi stilemi e “fisse” come le troppe citazioni, per l’appunto, alle pellicole del passato e dei maestri del thriller e della suspense che l’hanno profondamente ispirato, segnato e da cui attinge a piene mani. E preferirei che fosse totalmente personale. Ma, ribadisco, di questi tempi in cui abbondano le banalità a buon mercato e in cui s’è persa memoria proprio del passato, cinematografico e non solo, ci va già grassa assistere a film come Lilith’s Hell che, malgrado le loro “incertezze”, sono dei guilty pleasure che fanno, eccome, la loro porca figura.

Dunque, guardate questo suo film. Difficile trovarlo ma lo rintraccerete. Fidatevi.

Per quanto mi concerne, ho terminato l’editing del mio prossimo romanzo in stream of consciousness, intitolato La leggenda dei lucenti temerari.

La prefazione, curata da D. Stanzione, critico per Best Movie, dovrebbe essermi consegnata nei giorni susseguenti a quello odierno, cioè la prossima settimana.

Ricordate, il Falotico ne sa una più del diavolo. Sembra che s(t)ia sempre sul punto di morire, invece dispone di molte frecce al suo arco.

Anche quando interpreta, in modo volutamente demenziale, la parte dell’uomo in calzamaglia a mo’ di Robin Hood di Mel Brooks.

Adesso, se vogliamo scherzare, sono disposto allo scherzo. Dunque, datemi pure tutte le patenti di sfigato, disgraziato e demente di sor(ra)ta.

Se vogliamo dircela tutta, un Falotico rigenerato è un uomo che conosce benissimo Il Falò… delle vanità (https://www.youtube.com/watch?v=5taE7Os02hQ).

Persino il Petrarolo.

E questo è quanto.

Ne vedrete delle belle, insomma.

Di mio, mi accontento della mia lei, è più bella di tutte. E non vi sto raccontando una balla, mie bei bulli.

Sì, di me vi beaste ma ora belate.

 

di Stefano Falotico

 

 

DE PALMA, recensione

fantasmade palma blu ray

Oggi, recensiremo non un film, bensì un documentario (se così genericamente possiamo definirlo poiché è molto altro e il limitativo termine documentario poco gli si addice) straordinario, ovvero De Palma.

Presentato fuori concorso alla 72.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, co-diretto dal valente e sempre più amato Noah Baumbach (Storia di un matrimonio) e dal fratello minore di Gwyneth Paltrow, vale a dire Jake Paltrow (Young Ones – L’ultima generazione), De Palma è semplicemente una perla preziosa, un bellissimo e necessario documentary omaggiante, ovviamente, la carriera di uno dei principali geni cineastici di sempre. Ça va sans dire, l’incommensurabile, immenso, insuperabile, purtroppo assai spesso sottostimato Brian De Palma.

Un regista che non ha certamente bisogno di presentazioni, l’autore di film impressionantemente mastodontici e qualitativamente imbattibili quali Carlito’s Way o Gli intoccabili.

Insomma, un genio toutcourt, uno dei massimi esponenti della New Hollywood.

Il documentario, attraverso un’amabile conversazione con De Palma (chi, sennò?), il quale si lascia piacevolmente intervistare, parlando a briglia sciolta e mostrandosi in maniera desueta rispetto al suo proverbiale aplomb, perciò smentendo la sua nomea di persona schiva ed estremamente riservata, poco disposta a sbottonarsi e a lasciarsi andare, ripercorre finemente tutta la sua carriera sin dai primissimi esordi, sviscerandone l’intero, entusiasmante, mirabolante excursus.

Esplorandone, dettagliatamente, ogni tappa prominente mediante i suoi aneddoti e gli squisiti racconti narratici in prima persona nientepopodimeno che da Brian stesso ripreso ossessivamente in giocoso primo piano adorante il suo buffo, divertito e rubicondo faccione estremamente simpatico.

Al che, Brian, disinibito e a suo agio come non mai, fra risate autoironiche con cui, burlandosi giocondamente egli stesso con leggerezza di alcune sue disavventure e sventure, sdrammatizza sulle innumerevoli, tragicomiche, sfortunate vicissitudini riscontrate duramente nel suo altalenante, spesso complicato e assai faticoso rapporto conflittuale fra lui e i vari produttori avvicendatisi a finanziarne le pellicole, svelandoci inoltre gli affascinanti dietro le quinte incredibili non soltanto delle sue pellicole, bensì delle sue tante importanti amicizie con colleghi e attori che, in modo più o meno fortuito, fortunoso o rocambolesco, incrociarono la sua vita professionale, lavorativa e perfino privata.

Partendo dal celeberrimo, fruttuoso e stimolante Movie Brats del quale fu esponente assieme a Spielberg, Lucas, Coppola e Scorsese, addentrandosi poi, con spirito dissacrante e ammirabile, all’interno delle sue relazioni con donne storiche fra le quali la dolcissima sua ex compagna di vita Nancy Allen.

De Palma definisce Sean Penn un brooklyn macho man caratterialmente ostico col quale però, alla fine della lavorazione di Vittime di guerra, porse i suoi più sinceri e doverosi complimenti. Richiamandolo immediatamente, di reunion artistica epocale, per il magnifico Carlito…

Film che lui definisce, in assoluto, la sua opera migliore. Per cui si spiacque enormemente che, all’epoca, avesse infatti ricevuto stranamente critiche contrastanti, negativamente stupendosi e parecchio rattristandosi che, al termine della proiezione a Berlino, venne addirittura da non pochi critici apertamente snobbato e fischiato.

Al che, De Palma ci parla della sua amicizia sempre più consolidata negli anni con Al Pacino, un’amicizia già nata prima di Scarface e cementatasi, per l’appunto, col succitato Carlito…

Ci racconta del suo affiatamento con John Travolta e De Niro, di cui si vanta di aver “scoperto” i loro inauditi talenti, dunque spende parole lusinghiere e di commosso elogio su altri iper-carismatici, leggendari fenomeni attoriali da lui diretti come il mitico James Bond par excellence, ovvero Sean Connery.

Illustrandoci, con burlesca verve e intelligenza sopraffina, i più rilevanti punti salienti della sua filmografia prodigiosa.

Signore e signori, un documentario che è una perla da vedere e da avere in dvd. Siamo difatti rattristati non poco che, in Italia, non ne esista una versione home video.

De Palma è un documentario stupendo che ogni cinefilo, non soltanto fan di Brian, dovrebbe vedere almeno una volta in vita sua. Per amare Brian e il suo Cinema ancora maggiormente, per comprendere cosa sia appieno, in ogni suo “backstage”, inteso anche in senso figurato, la Settima Arte.

Stiamo parlando del regista di Carrie – Lo sguardo di Santana, de Il fantasma del palcoscenicodegli Intoccabili, di Blow Out, di Omicidio a luci rosse e Omicidio in diretta. Del regista di Black Dahlia, di Mission: Impossible e Mission to Mars.

Il regista degli sfortunati Domino e Passion, il regista più controverso forse degli ultimi quarant’anni.

Un genio scandalosamente mai candidato all’Oscar poiché, alla pari di uno dei suoi massimi maestri ispiratori, Alfred Hitchcock, non si piegò mai del tutto e furbescamente alle bieche ed opportunistiche logiche commerciali di Hollywood.

Nemmeno quando dovette, quasi giocoforza, dirigere alcuni film su commissione, neppure quando cedette quasi totalmente alle oppressive richieste feroci della Warner Bros per il “disastro” Il falò delle vanità.

Non molti giorni fa, esattamente l’11 Settembre, Brian De Palma compì ottanta primavere.

Eh sì, l’11 Settembre non deve essere ricordato soltanto per essere stato un giorno nefasto per gli Stati Uniti, il giorno tristissimamente noto dell’attentato terroristico alle Twin Towers, l’11 Settembre è anche il compleanno di un uomo e regista illuminato che a sua volta c’illuminò e ci illuminerà probabilmente di nuovo superlativamente, rendendo l’umanità e il Cinema qualcosa di meraviglioso per cui valse la pena vivere, per cui vale la pena credere, per cui vale la pena fortemente, eternamente sognare.

Evviva Brian De Palma, lunga vita a uno dei più grandi registi viventi, uno dei più stupefacenti, visionari, avanguardistici, coraggiosi e fiammeggianti, passionali e brillanti director di tutti i tempi.

di Stefano Falotico

 
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