LE STRADE DEL MALE by Antonio Campos, recensione
Ebbene, oggi recensiamo un film molto atteso e, da un paio di giorni, (precisamente il 16 Settembre) uscito su Netflix, ovvero Le strade del male (The Devil All the Time).
Le strade del male è diretto da Antonio Campos (Afterschool, Simon Killer e l’episodio della stagione uno di The Punisher, Cold Steel). Qui anche autore della sceneggiatura e del conseguente adattamento, sì, trasposizione dell’omonimo romanzo di Donald Ray Pollock (based on the novel by…). Le strade del male si avvale di un corale cast ove primeggia il nome oramai rinomato di Robert Pattinson, affiancato da un parterre di attori e attrici eterogenei e di pregiato valore, diciamo indie, da leccarsi i baffi, vale a dire il co-protagonista Tom Holland, il quale ai più è comunemente noto per essere Spider Man/Peter Parker della saga-reboot inaugurata, nel 2017, da Jon Watts con… Homecoming, Bill Skarsgård (ovviamente, l’inquietante clown di Pennywise dell’It di Andy Muschietti), Haley Bennett, l’onnipresente, impegnatissima e bellissima Riley Keough (Hold the Dark, La casa di Jack, Paterno), Sebastian Stan, Mia Masikowska (Maps to the Stars, Alice in Wonderland), Harry Melling (The Old Guard), Abby Glover (la giovane, peperina, conturbante, birbantesca ragazza esuberante senza nome di Stranger Things), Jason Clarke (John Connor adulto di Terminator Genisys, Everest) e chi più ne ha più ne metta.
A dispetto delle opinioni piuttosto freddine ricevute dall’intellighenzia d’oltreoceano per cui Le strade del male ha totalizzato, su metacritic.com, un discreto ma certamente non eccelso 50% di media recensoria, a noi il film è piaciuto. Aggiungiamo, con le dovute riserve. Sì, ammettiamolo subito senz’infingimenti o panegirici di sorta, anche a noi non ha particolarmente entusiasmato. Anzi, a tratti, perfino c’ha lasciati indifferenti e un po’ delusi. Premesso ciò, ripetiamo nuovamente che Le strade del male non è affatto male e perdonateci il voluto o forse involontario gioco di parole che, probabilmente, non piacerà invece a chi non è amante delle letterarie figure retoriche, della litote, delle omofonie o dei diversi significa(nt)i attribuiti a una stessa parola o, in tal caso, al valore di un film che può risultare dunque buono o cattivo a seconda dei gusti più o meno sofisticati di chi l’amerà o totalmente lo snobberà.
Ora, dopo questa doverosa prefazione linguistica, cinematografica e non, invece arriviamo celermente alla vera e propria recensione. Secca e nettissima. Sintetizzeremo, per l’appunto, brevissimamente la trama per evitarvi spiacevoli spoilers. Ci pare difatti giusto, nei riguardi dei futuri spettatori de Le strade del male, ancora perciò ignari dei vari risvolti complicati presenti nell’arzigogolata narrazione di tale pellicola, come detto, non del tutto dalla Critica statunitense amata, estremamente necessario glissare in merito alle variegate e intersecanti strade stesse d’un intreccio contorto e più dedalico (forse solo confuso) delle tortuose circonvallazioni della labirintica Los Angeles.
Fra la Prima guerra mondiale e quella del Vietnam, attorno al reduce Arvin Russell (Holland), in un modo o nell’altro e per stranissime circostanze del fato, gravitano e circolano svariati personaggi più o meno pericolosi, bizzarri e, ognuno alla sua maniera, rispettivamente legatisi alla sua esistenza. Dai sicari Carl (Clarke) e Sandy Henderson (Keough) al reverendo Preston (Pattinson) e via dicendo…
Perché guardare Le strade del male
Il film si avvale di una bella fotografia di Lol Crawley (Vox Lux) e, malgrado la lunga durata, tiene abbastanza incollati allo schermo grazie anche a un gruppo di attori bravissimi e molto affiatati. Tom Holland e Pattinson se la cavano egregiamente, sebbene quest’ultimo, in non poche scene, carichi troppo il suo personaggio e, nella parte del predicatore ambiguo e perennemente accigliato, forse non risulti completamente convincente.
Perché non guardare Le strade del male
Da molti critici, la pellicola è stata accusata di adottare addirittura uno sguardo pornografico sulla violenza, cioè di soffermarsi in maniera esageratamente compiaciuta e gratuita su molte scene sanguinarie senza che la sovrabbondanza d’immagini, per l’appunto assai violente, sia giustificata da alcunché.
In effetti, non è del tutto sbagliato e certamente Antonio Campos non è Scorsese. Ovvero un cineasta il cui uso della violenza, spesso copiosa, è comunque sempre inserita all’interno d’una robusta poetica e visione della vita inerente la tematica trattata. Una violenza, la sua, finemente filmata e permeata, potremmo dire, da un gusto neorealistico che non stona rispetto al contesto e non lo snatura od adultera che dir si voglia.
Le strade del male tocca inoltre tantissimi temi, dai traumi personali al sesso, dalla religione manipolatrice vissuta e propugnata in maniera distorta ai complicatissimi rapporti interpersonali, ma rimane soventemente in superficie. Lambisce, cioè, un sacco di argomenti e sotto testi ad ampia portata filosofico-esistenziale ma non resta impresso né nel profondo tocca e colpisce.
Però, nei suoi eccessi e nei suoi molti difetti, Le strade del male è, secondo noi, un film affascinante che merita di essere visto e su cui si può curiosamente speculare, a prescindere dal giudizio che, a visione ultimata, ogni spettatore possa liberamente aver maturato.
di Stefano Falotico
PASSION PLAY, recensione
Ebbene, ieri è stato il compleanno delle settanta primavere di un genio attoriale. Sì, lo è. Ovvero Bill Murray. Su Facebook, la gente l’ha celebrato. Al solito, pateticamente.
Dato che il 90% delle persone non è un attore di Hollywood ed è invece costretta a vivere da fessi, mitizza le vite altrui, dimenticando la lezione che John Lennon volle impartire anche ai suoi fan più accaniti, vale a dire non proiettare le proprie aspirazioni su personaggi elevati a dei e dunque idealizzati in quanto in moltissimi sognano la loro vita ma risulta soltanto frustrante identificarsi virtualmente nei modelli presi a modello.
Semmai, idolatrando modelle inarrivabili a cui il maschio medio italiano s’appella da sfigato mai visto, vergando commenti penosi del tipo: wow, wow, wow, dio c’è, sei Giunone, giunonica, meravigliosa, superlativa, quando una è bella è bella.
Intanto, dietro queste ruffianerie dolciastre, più stucchevoli delle peggiori canzoni di Ed Sheeran, più false di Ghost, più ributtanti della comunque deliziosa Unchained Melody dei Righteous Brothers elevata alla massima potenza del saccarosio schifosamente mieloso, il maschio arrapato, più becero del film Arrapaho, cela i suoi sconci pensieri più mostruosamente proibiti dietro una leziosa facciata da santo lontano anni luce dal sincero Michael Fassbender di Shame.
Insomma, uno scemo più fake del viso rifatto di Mickey Rourke.
Poi, come se non bastasse la leccata di culo tremenda, l’uomo italico impunemente aggiunge: dinanzi a te, mi sento brutto, non sono bello ma per te io, sì, belo. Addolciscimi e ammansiscimi, sono una pecorina/ella smarrita.
Dai, su, torniamo a Bill Murray.
Nato come cabarettista e classico guitto d’avanspettacolo inizialmente non cagato da nessuno, Bill s’evolse in forma poliedrica, in maniera falotica. Aggettivo qui femminilizzato, diciamo, che significa bizzarro, balzano, fantastico.
Detto ciò, appurato che la mia vita fu un eterno déjà vu da Ricomincio da capo, essendomi andato a cacciare anzitempo in una situazione paradossale e (in)castrante ogni mio potenziale dirty dancing a causa della mia timidezza da Bob De Niro de Lo sbirro, il boss e la bionda, tale Passion Play rappresenta la prima e unica regia di Mitch Glazer in un lungometraggio. Prima e, fortunatamente, ultima. A meno che, a distanza di dieci anni da questa sua boiata, comunque dalla durata digeribile, soltanto novanta minuti circa di banalità a buon mercato, il buon, anzi pessimo Mitch non decida di ammorbarci con una seconda incursione devastante dietro la macchina da presa.
Mitch Glazer, grande amico di Bill da una vita. Vi basterà scorrere la sua filmografia come sceneggiatore e produttore per accorgervi che Mitch e Bill incrociarono svariate volte le loro vite artistiche.
Ecco, Passion Play è un film arty, cioè uno di quei film che, nel suo ridicolo tentativo di ammodernare 9 settimane e ½ negli anni duemila con un Rourke speranzoso di essere tornato quello di una volta dopo la nomination all’Oscar per The Wrestler, un Mickey che s’illuse addirittura, con mille chirurgie facciali e faccia da culo bestiale, di poter apparire appetibile agli occhi di Megan Fox, fallisce miseramente. Megan Fox, bagascia di terza categoria, qui nella parte improponibile e poco credibile della Donna Uccello.
E ho detto tutto… Un film che vorrebbe anche assomigliare ad un 8½ felliniano altamente delirante e fricchettone. Uno spettacolo immondo adatto a fenomeni da baraccone che, semmai come il sottoscritto, l’anno prima dell’uscita di Passion Play, furono obbligati da un amico freak ad andare a vedere Jennifer’s Body per rifarsi gli occhi su Megan. Un film neanche così brutto firmato da Karyn Kusama. Donna bruttina che diresse comunque qualche film più carino di Raoul Bova.
Ci rendiamo conto che, in Italia, diamo soldi a gente come Raoul Bova? Ci rendiamo conto che un idiota come Machine Gun Kelly è sposato a Megan Fox? La quale, a mio avviso, è meno affascinante d’una comune bella ragazza di tutti i giorni che passeggi(a) in centro ma, rispetto a codesta, guadagna molti più soldi, sì, miliardi perché nel mondo esistono i frustrati, sopra descrittivi, che la considerano una dea?
Ora, chiariamoci molto bene.
Mickey Rourke ha fatto il suo tempo ed è, oggi come oggi, soltanto un mezzo debosciato.
Di mio, potrei essere Stanley White de L’anno del dragone.
Combinatemi un’altra porcata e farete bene.
Sapete perché? Se, nella mia vita, gente imbecille non mi avesse bullizzato come un animale solamente perché all’epoca odiai la visione dell’amore da eterni bamboccioni, da spot dei Baci Perugina e altre amenità di sorca, no, di sor(ra)ta, oggi non sarei Stefano Falotico, bensì un povero coglione come quasi tutti.
Cioè persone che, così come ben sostenne il succitato Lennon, parlano, giudicano e rimangono però sostanzialmente passive, adorando le vite dei loro miti di cartapesta.
Vi do un consiglio: la vita è una sola, forse non esiste l’aldilà.
Risparmiate dunque il vostro tempo e non noleggiate mai questo film. Anche perché troverete difficoltà a trovarlo. Per nostra, vostra fortuna, non è mai stato distribuito in Italia.
Potete procacciarvelo, diciamo, in streaming in sub-ita.
Per quanto mi concerne, posso darvi un altro coniglio, no, consiglio.
I cosiddetti adulti faranno di tutto per distruggervi. Solitamente, in pochissimi di loro infatti posseggono la bellezza che fu di Mickey Rourke e la simpatia intelligentissima di Bill Murray.
Io sì, invece.
Potranno darmi del fallito poiché sono rancorosi e, nella loro vita misera e orribile, avrebbero desiderato avere una donna come Megan Fox.
La mia lei è più bella di Megan.
Quindi, ora, silenzio.
Sono squallido perché mi vanto di ciò?
No, non mi vanto di nulla. Di mio, non so neanche se domattina sarò ancora vivo.
E non m’importa svolgere una vita normale. Normalità per me si associa a propaganda pubblicitaria, alla peggiore estetica della vita puttana.
Ecco, se volete amare davvero, amate e non sognate, se voleste invece vedere due bei film d’amore, guardate Broken Flowers e Lost in Translation.
Amori tristi, amori malinconici, amori consumati, rimembrati, mai forse vissuti appieno, solamente meravigliosi. Surreali, puri. Amour fou, amore per te fu e non vi è più, chissà se sarà, intanto per me ora vi è.
di Stefano Falotico
DUNE by Denis Villeneuve – Trailer ufficiale italiano
Il candidato all’Oscar® Denis Villeneuve (“Arrival”, “Blade Runner 2049”) dirige “Dune”, il film di Warner Bros. Pictures e Legendary Pictures, adattamento per il grande schermo dell’omonimo celebre best seller di Frank Herbert. “Dune”, un’epica avventura ricca di emozioni, narra la storia di Paul Atreides, un giovane brillante e talentuoso, nato con un grande destino che va ben oltre la sua comprensione, che dovrà viaggiare verso il pianeta più pericoloso dell’universo per assicurare un futuro alla sua famiglia e alla sua gente. Mentre forze maligne si fronteggiano in un conflitto per assicurarsi il controllo esclusivo della più preziosa risorsa esistente sul pianeta – una materia prima capace di sbloccare il più grande potenziale dell’umanità – solo coloro che vinceranno le proprie paure riusciranno a sopravvivere. Nel cast il candidato all’Oscar® Timothée Chalamet (“Call Me by Your Name”, “Piccole Donne”), Rebecca Ferguson (“Stephen King’s Doctor Sleep”, “Mission: Impossible – Fallout”), Oscar Isaac (i film di “Star Wars”), il candidato all’Oscar® Josh Brolin (“Milk”, “Avengers: Infinity War”), Stellan Skarsgård (“Chernobyl” di HBO, “Avengers: Age of Ultron”), Dave Bautista (la serie di film di “Guardiani della Galassia”, “Avengers: Endgame”), Zendaya (“Spider-Man: Homecoming”, “Euphoria” di HBO), Chen Chang (“Mr. Long”, “Crouching Tiger, Hidden Dragon”), David Dastmalchian (“Blade Runner 2049”, “The Dark Knight”), Sharon Duncan-Brewster (“Rogue One: A Star Wars Story”, “Sex Education”), con la candidata all’Oscar® Charlotte Rampling (“45 Years”, “Assassin’s Creed”), con Jason Momoa (“Aquaman”, “Il Trono di Spade” di HBO) e il premio Oscar® Javier Bardem (“No Country for Old Men”, “Skyfall”). Villeneuve dirige “Dune” da una sceneggiatura da lui scritta insieme a Jon Spaihts e Eric Roth, basata sull’omonimo romanzo di Frank Herbert. Villeneuve è anche produttore del film insieme a Mary Parent, Cale Boyter e Joe Caracciolo Jr. I produttori esecutivi sono Tanya Lapointe, Joshua Grode, Herbert W. Gains, Jon Spaihts, Thomas Tull, Brian Herbert, Byron Merritt e Kim Herbert. Dietro la macchina da presa, Villeneuve ritrova la scenografa due volte candidata all’Oscar® Patrice Vermette (“Arrival”, “Sicario”, “The Young Victoria”), il montatore due volte candidato all’Oscar® Joe Walker (“Blade Runner 2049”, “Arrival”, “12 Anni Schiavo”), il due volte premio Oscar® supervisore agli effetti visivi Paul Lambert (“First Man”, “Blade Runner 2049”) e il premio Oscar® per gli effetti speciali Gerd Nefzer (“Blade Runner 2049”). Villeneuve collabora per la prima volta con il direttore della fotografia candidato all’Oscar® Greig Fraser (“Lion”, “Zero Dark Thirty”, “Rogue One: A Star Wars Story”); la costumista tre volte candidata all’Oscar® Jacqueline West (“The Revenant”, “Il Curioso Caso di Benjamin Button”, “Quills – La penna dello scandalo”), il secondo costumista Bob Morgan e il coordinator delle controfigure Tom Struthers (la trilogia de “Il Cavaliere Oscuro”, “Inception”). Il compositore premio Oscar® Hans Zimmer (“Blade Runner 2049”, “Inception”, “Il Gladiatore”, “Il Re Leone”) ha realizzato la colonna sonora. “Dune”, girato in Ungheria e Giordania, arriverà nelle sale cinematografiche prossimamente, distibuito in tutto il mondo da Warner Bros. Pictures e Legendary.
Venezia 77: la lista di tutti i premiati e dell’intero palmarès
Ebbene, ieri sera sono stati assegnati tutti i premi della prestigiosa settantasettesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Svoltasi dal 2 al 12 Settembre.
Un’edizione, come sappiamo, ahinoi limitata e funestata dall’emergenza sanitaria, purtroppo imperante ancora in molti stati, del Covid-19. Che ha obbligato, giocoforza, la Biennale e il direttore del Festival, Alberto Barbera, a ridurre drasticamente il numero delle pellicole in gara.
Nomadland di Chloé Zhao, col due volte premio Oscar Frances McDormand, ha vinto il Leone d’Oro, svettando nel rush finale, essendo stata una delle pellicole presentate negli ultimi giorni della manifestazione. Nomadland ha sbaragliato la concorrenza ed è risultato il film maggiormente piaciuto alla Giuria presieduta dalla bellissima Cate Blanchett. I premi per le migliori interpretazioni attoriali, cioè le rinomate e ambite Coppe Volpi, sono andati rispettivamente al nostro sempre più lanciatissimo Pierfrancesco Favino per Padrenostro e alla magnifica e sexy Vanessa Kirby per Pieces of a Woman. La Kirby, con la sua carica sensualissima, inoltre, non soltanto ha infiammato le platee sul red carpet ma era presente al Lido, in Concorso, anche col bel film The World to Come di Mona Fastvold, da lei interpretato assieme a Casey Affleck e Katherine Waterston. Un’opera delicata ed eccentrica di cui risentirete certamente parlare presto, ammesso ovviamente che qualcuno si decida a distribuirla in Italia.
Noi abbiamo nutrito comunque una simpatia particolare per il divertente, sgangherato, irrisolto forse e leggermente moralistico ma assai apprezzabile Mainstream di Gia Coppola con Maya Hawke ed Andrew Garfield. Ma era fuori concorso e dunque non poteva concorrere per la vittoria.
Ecco la lista completa dei winners:
Golden Lion
Nomadland
Silver Lion Grand Jury Prize
Nuevo Orden; dir: Michel Franco
Silver Lion, Best Director
Kiyoshi Kurosawa, Wife Of A Spy
Volpi Cup, Best Actress
Vanessa Kirby, Pieces Of A Woman
Volpe Cup Best Actor
Pierfrancesco Favino, Padrenostro
Best Screenplay
Chaitanya Tamhane, The Disciple
Special Jury Prize
Dear Comrades, dir: Andrei Konchalovsky
Marcello Mastroianni Award for for Best New Young Actor or Actress
Roohollah Zamani, Sun Children
Assassinio sul Nilo, il trailer italiano del nuovo Hercule Poirot/BRANAGH
Mitico Kenneth. Infila in track del trailer, udite udite, Dave Gahan dei Depeche Mode.
Grande Bardo, leggendario già Hercule Poirot.
Fuggevoli eppur corposi incontri tra cinefili, Lav vs Cameron Diaz, un mio mediometraggio mesmerico, l’amore, non solo per la settima Arte, che ridona esistenziale lindezza altissima
Amici, fratelli carissimi della congrega…
L’estate ribalda, come ogni anno, risplende soave dopo un inverno e una primavera delle più allarmanti e qui, voi, cinti in sacro raccoglimento e religioso silenzio ad udire il mio Verbo, come me, siete degli amanti della bellezza, non solo femminile. Non amate solo la f… a, bensì allargate, metaforicamente e in senso figurato, le gambe dei vostri occhi, sì, spalancandole a 360° alla venustà del mondo che noi, illuminati, ben sappiamo approfondire con inoppugnabile e inattaccabile stile, penetrandola in profondità in maniera estremamente romantica, altresì dura e irruenta, godendo appieno dei suoi frutti sanguigni con viscerale calore sempre più ardente.
Noi non siamo però dei violenti, neppure dei complottisti, cari dementi. Dunque, non crediamo che la fottuta storia del Coronavirus sia stata un’invenzione del potere per soggiogare l’uomo del nuovo millennio, ottenebrandolo nella paura affinché regredisse, allucinato da timori ancestrali, a uno stato di calamità della sua anima a sua volta incupitasi a causa della terribile suggestione indottagli da uno psicologico terrorismo che poté malsanamente impressionarlo. Anzi, rischiò di spaventarlo e capziosamente contenere i suoi più inviolabili, selvaggi e vivaddio creaturali, furentissimi istinti capricciosi meravigliosamente sani.
Noi non ci lasciamo suggestionare affatto da nessun morbo, anche ideologico.
E se, in merito a questa millenaristica questione, Essi vivono docet, vivremo ancora liberamente le nostre vite, remoti dalle stronzate a cui purtroppo ancora abdicano e abboccano in tantissimi, come per esempio Le profezie di Nostradamus, poiché siamo nostromi delle nostre stupende donne, dette anche magnifiche dame.
Donne, parlateci dei vostri uomini! E voi, uomini, amatele con vigorosa, irrefrenabile passione vorace!
Noi, non domati, noi, irrequieti e impavidi, noi, lucenti temerari, vibranti d’emozioni immensamente brillanti, viviamo maggiormente accalorati. Forza, scaldatevi!
Peraltro, malgrado il tempo inesorabilmente scorra per gli altri impietosamente, a noi non fa né caldo né freddo. A dispetto, inoltre, dei circa cinquanta gradi all’ombra.
Al Festival di Venezia vedremo il nuovo film già immortale, soprattutto interminabile vista la durata spropositata e devastante (a essere sinceri, neanche tanto rispetto ai suoi canoni), di Lav Diaz. Un regista probabilmente sopravvalutato ma indubbiamente incarnante l’autore di The Woman Who Left. Una donna dalla quale, personalmente, non mi sarei mai lasciato sc… re, no, una donna che non mi sarei mai lasciato scappare… è Cameron Diaz. Che, a sua volta, lasciò il Cinema. Mentre Tania Cagnotto abbandonò le Olimpiadi.
Due donne, comunque, da Leone d’oro, cioè da primo posto sul podio fra le dee dell’Olimpo.
Il Covid-19 impazzò e migliaia di morti ingiustamente seminò. Ma, nel trambusto e nel panico generale, in mezzo a tanti matti e fuori di testa irrecuperabili, fra il chiasso e l’isteria di massa, fra le volgari urla delle massaie, un uomo sguscia tra la foll(i)a e continua a non accettare, in modo (inde)fesso le bastarde regole vetuste dei caporali. Anche quelle dei più tosti, ah, che dure teste sono costoro, che gran testone, invece, costui è. Ma di chi, in effetti, stiamo parlando? Di un taciturno, di un uomo o semi-tale che per molto tempo rifiutò stupidamente, soprattutto spudoratamente, la vita diurna? In una parola, è NOCTURNO? Nettuno, nessuno, solo notturno?
Stiamo parlando, anzi, vi sto parlando invero di un essere anomalo eppur assai affascinante che, fra tanti sguardi malati di circospezione perversa, fra persone che adorano le più maligne ispezioni, ispeziona lui stesso la vita senz’alcuna malizia, bensì la esplora e sviscera attraverso la nitidezza delle sue iridi che la vedono… sotto ogni più seducente, immaginifica prospettiva ed ero(t)ica dolcezza.
Egli vinse ogni tristezza grazie alla virtù della sua forza sovrumana. Probabilmente, di ascendenza miracolistica.
I suoi haters lo detestano, anzi, vorrebbero prenderlo a testate. Anche giornalistiche, siamo onesti. In quanto, desiderano sbatterlo… in prima pagina. Deridendolo a man bassa per affibbiargli la patente di mostro esecrabile.
Insomma, i suoi odiatori sono dei mostri. Dei piccolo borghesi. Da Pasolini ritenuti degli idioti, ovvero dei Gremlins. Ah ah.
Infatti, lo considerano una vivente schifezza mentre i suoi crescenti ammiratori, i quali si stanno espandendo a macchia d’olio più dell’iperpigmentazione sulla cute delle vecchie rimbambite, e la sua lei, eh già, lo reputano l’emblema della più alta, incontrovertibile magnificenza.
È un uomo che unisce alla sua innata voglia di trascendenza la poesia della venustà più intoccabile e profumata di primigenia immacolatezza.
L’appena soprascritta frase invece sa di criptica scemenza anche se potrebbe essere, come il mediometraggio che ivi vi mostro, una frase simile a quella che recitò Stanley Kubrick al suo intervistatore, a proposito di 2001…
Ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.
Benvenuti nel mondo della razza umana, disse invece Kurt Russell nel finale di Fuga da Los Angeles.
Benvenuti nel mondo, qui, dei nostri sogni. Dico io. Io, forse Mago di Oz, dunque un emerito bugiardo nato, un guitto d’avanspettacolo, un grande Lebowski ante litteram o un inaudito ciarlatano mai visto?
Sì, effettivamente, scomparvi dal mondo. Alcuni miei ex amici, in passato, scrissero pure a Donatella Raffai, sì, l’ex presentatrice storica del celeberrimo programma televisivo Chi l’ha visto?
Di mio, posso affermare con orgoglio incommensurabile che ascolto almeno tre volte al giorno la canzone Missing di Bruce Springsteen ma, all’omonimo film di Konstantinos Costa-Gravas con Jack Lemmon e Sissy Spacek, preferisco un Gin Lemon e Mission con De Niro e Jeremy Irons.
Aggiungo anche questo… a ogni Konstantinos e a tutti i Costantino da Maria De Filippi, preferirò sempre Constantine. Sia in versione fumetto con cravatta nera che in versione cinematografica con Keanu Reeves a sua volta in versione incazzato nero.
Oppure son un pover’uomo senz’arte né parte che saprebbe essere molto adatto a ogni particina anche non propriamente artistica e che ama sia il caffè macchiato caldo che quello d’orzo ma, per l’appunto, da coloro che mi/lo odiano viene reputato soltanto un miserabile e uno squallido orso?
Orsù… Laura Morante sgridò severamente Nanni Moretti in Sogni d’oro, ammonendolo a riguardo della sua aridità emozionale, provando a distruggerlo nel vomitargli addosso in maniera acidissima e assai cattiva:
E io la disprezzo…
Sbagliò tutto!
Era ancora una racchia. Diciamocela. Sì, vide la vita solo a cazzo suo. Invece, ne Lo sguardo dell’altro, gliela vidi benissimo.
Di mio, passeggio quattamente e non do (come no…) nell’occhio ma, così come dicono a Bologna e come, a ragion veduta, sostenne Andrea Roncato, “ci do”. Non sono mica acido.
Insomma, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare?
E, nel fiume Eufrate, fanno i bagni anche i frati, oh, mie sorelle e fratelli?
Facessero quel che a loro più piace a pare. Si accendessero!
Evviva la libertà!
Abbasso ogni terrorismo, ogni moralismo e, così come direbbe Moretti stesso, ogni forma ricattatoria per far sì che lo spettatore, mosso a compassione furbescamente, provi emozioni telecomandate e prefabbricate.
Le emozioni si vivono, il Cinema e la vita non sono stati creati per vincere il Leone d’oro.
Ricordatelo sempre. È meglio un giorno da leoncino che 2020 anni da pecorelle smarrite, ah, miei poveri cristi! Per la Madonna!
Perché prima o poi tutti moriremo e, sinceramente, siamo veramente stanchi della gente, come il personaggio di Laura Morante, che vuole punire e far sentire una merda chi non è aderente a sua immagine e somiglianza. È gente fetente, porca miseria!
Giudicare il prossimo se lo può permettere solo Dio.
Cioè io.
Ah ah.
Piaciuta la freddura finale? Invece, il mio mediometraggio trascendente, spero anche trascendentale, underground–noir–romance lynchianamente no sense, vi è garbato?
Ah no? Allora non avete gusto e siete personaggi pasoliniani da Caro diario, sì, del mini-episodio ambientato nel quartiere della Garbatella. Ché… non è male…
Oggi, a pranzo, ho mangiato le tagliatelle.
Cavalchiamo in seno… alla vita ché non è per niente finita. Che è insensata per sua stessa natura, che è bellissima poiché pura e al contempo straordinariamente impura.
Un filmato che dà senso alla stessa vita nostra libera da ogni paura, una vitalità piena di torbido mistero e sensualità superba. Oserei dire imperitura.
Svecchiamo il Cinema, abbasso Federico Fellini, un trombone buono solo a celebrare i suoi ricordi giovanili da tonto giovanilista.
Evviva Frusciante Federico, malgrado ami Fellini.
Ed evviva la vita.
Poiché, così come urlò Kenneth Branagh nel suo Frankenstein di Mary Shelley, evviva, no, è viva, vive, vivete e lasciate e vivere.
Sì, l’aggiunta è mia, la bevuta però la offri tu.
di Stefano Falotico
DEAD MAN di JIM JARMUSCH con JOHNNY DEPP, recensione
Oggi recensiamo lo stupendo Dead Man, scritto e diretto da Jim Jarmusch (Ghost Dog, Broken Flowers), regista che oramai non ha più bisogno di presentazioni, in quanto il suo valore cineastico, nel corso degli anni, è andato smisuratamente crescendo a ragion veduta, avendo Jarmusch sfornato e inanellato pellicole sempre più qualitativamente perlacee e minimalisticamente raffinate.
Dead Man uscì da noi nel Giugno del ‘96 e, malgrado oggi sia considerato un cult inamovibile all’interno dell’excursus registico-filmografico di Jarmusch, a dispetto della lusinghiera, sebbene comunque non notevolissima, media recensoria tuttora campeggiante su metacritic.com, ovvero il 62% di opinioni lusinghiere, all’epoca fu snobbato non poco e perfino disprezzato da molti. Anzi, per l’esattezza, quasi dai più.
La Critica infatti si divise fra coloro che immediatamente lo esaltarono giustamente e fra chi non subito comprese tale western assai anomalo che, fin dal suo martellante, incalzante incipit scandente ripetitivamente ma ipnoticamente le suadenti note musicali di Neil Young, assomiglia più che altro a una spettrale danza fantasmatica d’immagini, immortalate con irresistibile levità affascinante dal compianto mago della fotografia Robby Müller, che per due ore ammalia col suo leggiadro e spirituale fascino avvolgente.
Trama:
verso la fine dell’Ottocento, il timido contabile di nome William Blake viaggia in treno alla volta della lugubre cittadina Machine, in Arizona. Ove incontra l’inquietante boss John Dickinson (il mitico Robert Mitchum qui, purtroppo, alla sua ultima prova per il grande schermo prima della sua morte). Il quale lo tratta in maniera screanzata e con forte alterigia lo estromette immantinente da ogni possibilità d’assunzione nel suo ufficio.
Al che Blake, squattrinato e abbandonato miserabilmente al suo gramo destino, inizia a peregrinare nottetempo lungo questa cupa cittadina polverosa, sostando dapprima in un lercio, malfamato saloon bazzicato per lo più da cosiddetti tipi poco raccomandabili e da ambigue donne di malaffare, dunque uccidendo un uomo per legittima difesa e trovando rifugio, nella sua lunga e disperata fuga dai cacciatori di taglie, presso un buffo e stralunato, involontario “protettore” indiano che si fa chiamare Nessuno (Gary Farmer).
Nessuno scambia Blake per l’omonimo, celeberrimo pittore e poeta inglese.
Da qui si dipana una tetra e al contempo maliarda immersione nella primordiale natura ancestrale che si cela, insospettabilmente, dentro gli anfratti più inesplorati dell’animo umano di noi tutti.
Film enormemente evocativo, Dead Man è palesemente ispirato, per via per l’appunto delle sue impalpabili, misteriche atmosfere suggestive, all’immortale La morte corre sul fiume.
Dead Man è il classico capolavoro che, dopo una prima mezz’ora abbondante dall’intreccio abbastanza lineare, si trasforma magnificamente e volutamente in un caleidoscopico e virtuosissimo trip visivo e immaginifico di matrice mesmerica. Per cui la trama scompare a favore del poetico più fine e magneticamente maliardo.
Cast da urlo: Crispin Glover, Lance Henriksen, Michael Wincott, John Hurt, Iggy Pop, Gabriel Byrne, Mili Avital, Jared Harris, Billy Bob Thronton, Alfred Molina.
di Stefano Falotico
Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez con George Clooney, Quentin Tarantino, Juliette Lewis e Harvey Keitel
Ebbene, oggi recensiamo un film oramai celeberrimo. Ovvero Dal tramonto all’alba (From Dusk Till Dawn) di Robert Rodriguez (El Marciachi, Sin City, Machete, Planet Terror).
Film uscito sui nostri grandi schermi nel gennaio del 1997 e quasi subito divenuto un istantaneo cult presso la cosiddetta generazione X dei nineties. Assurgendo a film totemico soprattutto per i ragazzi adolescenti cresciuti a pane e Quentin Tarantino. Esploso, pochissimi anni addietro. In quanto, Dal tramonto all’alba, sebbene come detto sia firmato nella regia da Rodriguez, perfino dai cinefili più incalliti, quindi si presume infallibili conoscitori della settima arte in ogni suo dipanarsi a livello filmografico, viene erroneamente (aggiungiamo, noi, orridamente) considerata un’opera di Tarantino a tutti gli effetti.
Niente di più sbagliato e approssimativo. Perlomeno, se vogliamo essere precisi, diciamo che Dal tramonto all’alba è sceneggiato da Tarantino che rielaborò, per l’occasione, una bozza di script creata assieme a Robert Kurtzman risalente ai tempi in cui entrambi frequentarono il liceo.
Dopo il successo ottenuto da Tarantino grazie agli esplosivi, rivoluzionari, epocali e, per l’appunto, generazioni Le iene e Pulp Fiction, soltanto dopo che Tarantino stesso ottenne la popolarità mondiale, in virtù per di più della sua accresciutasi nomea e celebrata notorietà come writer d’originalissima razza, essendo stato lui l’autore d’importantissimi copioni come quello di Natural Born Killers, Dal tramonto all’alba vide la luce.
E Tarantino, in tal caso, anziché dirigere il film da lui scritto, lo co-interpretò, co-produsse ma, come sappiamo e come sopra dettovi, affidò la regia a Rodriguez. Cementando da qui in poi la loro amicizia, non solo in ambito privato, che avrebbe fruttuosamente generato altre notevoli collaborazioni di dittici, potremmo dire, sui generis, quali Grindhouse.
Trama:
dopo una rocambolesca, sanguinosissima rapina avvenuta in Texas, i fratelli Seth (George Clooney) e Richard Gecko (Tarantino), fuggono in direzione del Nuovo Messico. Oltrepassando infatti la frontiera, saranno liberi dall’attanagliante morsa e dalla grinfia asfissiante dei poliziotti che li stanno disperatamente inseguendo coi mastini alle loro calcagna. Inoltre, vengono anche rincorsi dalle autorità del posto che, non solo vogliono consegnarli alla giustizia, bensì intascare la forte taglia messa sulla loro testa. Sì, i famigerati, temibili e imprendibili brothers sono degli inafferrabili wanted che valgono numerosi soldoni. Sono dei motherfucker difficilissimamente acciuffabili che, puntualmente, in un modo o nell’altro, riescono impunemente a farla franca nonostante le loro crudeli, atroci malefatte e le loro pericolosissime scorribande assai violente.
Prendono, stavolta, in ostaggio un predicatore deluso dalla vita, Jacob Fuller (Harvey Keitel). Il quale, alla guida della sua scassata roulotte malandata, era in viaggio coi figli (Juliette Lewis ed Ernest Liu).
L’allegra, si fa per dire, combriccola sosta al Titty Twister, un malfamato locale che è il covo ristoratore per camionisti sbruffoni, per puttane di bassa lega, per piccoli grandi falliti della grande America sconfinatamente eterogenea nel suo rifiorire pullulante (siamo eufemistici) di strampalati personaggi grotteschi e assurdamente incredibili forse più degli stessi folli characters inventati dalla geniale penna diabolica di Tarantino stesso. Dopo tanta musica scatenata, balli e canti, bevute e battute goliardiche, dopo la magistrale, sensualissima esibizione della regina sexy del locale, Santanico Pandemonium (Salma Hayek), una donna dall’impressionante, arrapante bellezza bestiale, la quale si esibisce sfrontatamente e impudica in una danza eccitantissima con tanto di serpente che, morbidamente flessuoso, le sfila lungo la sua pelle vellutatissima e godibilissimamente candida, il film cambia totalmente direzione e si trasforma a mo’ di un camaleontico vampiro che, dal giorno alla notte, muta a sua volta improvvisamente forma in esso ed è assetato di sangue umano da bere a generosi sorsi insaziabili e terrificanti.
Insomma, Dal tramonto all’alba, da semplice, per quanto già caotico e rutilante, classico road movie di genere e di rapine e ostaggi esilarante, ricolmo di battute taglienti, diviene una divertente pellicola orrifica, un movie horror splatter popolato da mostruose creature spaventevoli e raccapriccianti.
Come detto, Dal tramonto all’alba ottenne immediato successo, soprattutto presso i più giovani. Eccitati difatti a morte dinanzi a quest’opera così stratificata, (auto)citazionistica, spiazzante e perversamente affascinante. Perturbati che furono dal suo malato fascino forse più attraente della splendida venustà torbidamente titanica d’una Salma Hayek strepitosamente iconica e provocante in maniera inarrivabile.
Però, se vogliamo essere obiettivi, se non vogliamo per l’appunto troppo sovreccitarci, lasciandoci andare a facili entusiasmi da aficionado tarantiniani presto scalmanati ed euforizzati dirimpetto a ogni sua stramberia mirabolante, dobbiamo raffreddare, col senno di poi, i nostri spiriti bollenti, non solo cinematograficamente esaltati, rimanendo pacatamente obiettivi. Senza lasciarci condizionare dalla nostra adorazione verso ogni galvanizzante creazione, anzi, qui sarebbe più pertinente dire “creatura”, plasmata dall’incontenibile, vulcanica verve creativa figlia di Tarantino & company.
Dal tramonto all’alba, alla prima visione, indubbiamente trasmette ipnotizzante malia e robustissima fascinazione bellamente morbosa.
Ma è soltanto un divertissement fine a sé stesso, volutamente dozzinale e girato in maniera dichiaratamente, giocosamente triviale, perfino sciatta e, in molti punti, artigianale come gli effetti speciali, saporitamente naïf di Tom Savini.
di Stefano Falotico