THE LIGHTHOUSE, recensione
Ebbene, recensiamo The Lighthouse, opus n.2 di Robert Eggers dopo l’acclamatissimo The Witch.
Se vogliamo essere più precisi, il suo secondo lungometraggio, dato che Eggers, prima di The Witch, diresse lo short movie Brothers. Cortometraggio della durata di 10’ del 2014 da cui era già possibile intravedere ed evincere la sua poetica rarefatta e individuarne i suoi pugnaci, ora riconoscibilissimi stilemi, incontrovertibili.
Adoratore di Carl Theodor Dreyer e delle sue inquietanti, deliranti atmosfere spiritualmente intrise di soave trascendenza onirica e religiosamente metafisica, d’ascendenza bergmaniana, da lui palesemente dichiarata e puntualmente evocata sia in The Witch che in The Lighthouse, Robert Eggers è già un grande nome imprescindibile del panorama cinematografico mondiale.
Poiché, con questo The Lighthouse, giustissimamente incensato dalla Critica in ogni dove, ancora scandalosamente però non ufficialmente distribuito in Italia e inconcepibilmente snobbato totalmente agli Oscar, ha dimostrato soltanto alla sua seconda opera di aver, come appena accennatovi, sviluppato una sua visione della Settima Arte e del mondo marcatamente già inscalfibili ed evidentemente assai sensibili.
Attratto dalle ermetiche e ancestrali storie macabramente ambientate in altre epoche, apparentemente disgiunte dalla nostra frenetica contemporaneità logorante e scevra d’ogni senso del pindaricamente, suggestivamente poetico, Eggers, difatti, non sembra un cineasta di oggi, bensì un uomo che vaga in uno spazio-tempo indefinitamente, suggestivamente assai affascinante, memore del Cinema ripescato dalle meravigliose profondità oceaniche della venustà rilucente ammantata di viva celluloide indimenticabile, ahinoi, da molti invece offuscata nelle nebbie della smemoratezza più nera, de L’Atalante di Jean Vigo. Spalmandosi nella levigata e cristallina morbidezza tenebrosamente candida d’immagini luminosamente plumbee, virando dalle crespe tonalità volutamente insature e sporche di The Witch allo spettrale eppur ipnotico b/n brillante di questo magnifico The Lighthouse, opera già, possiamo sinceramente dirlo, capitale.
Trama:
sul finire del secolo scorso, più esattamente attorno al 1890, scorgiamo due uomini, Thomas Howard (Robert Pattinson) e Thomas Wake (Willem Dafoe) che, fra i tetri e al contempo fulgidi, baluginanti barbagli d’una giornata ventosa, camminando in mezzo a qualche sparuto e forse persino fantasmatico abitante di un’isola sperduta situata sulla costa del New England, si avvicinano a un faro e poi, lentamente, scrollandosi di dosso i fagotti da loro prima caricati sulle spalle, prendono posizione all’interno di tale torre su cui svetta una lampada dalle spesse lenti ovviamente luminescenti, emananti una luce fioca e allo stesso tempo misteriosamente caleidoscopica, potentemente balenante a diffondere i suoi raggi dardeggianti, striscianti foscamente nell’aria arida e pesante, per irradiare l’incontaminata isola col suo candido vigore luminoso decisamente abbagliante.
Al che, immersi in questo clima profondamente invernale, tali due uomini dall’aspetto decadente, cominciano già poco allegramente, bensì in modo cupamente conturbante, a discorrere del più e del meno, passando così le notti e le susseguenti loro giornate monotone.
Scopriamo subitaneamente che Thomas Wake (un canuto Willem Dafoe barbuto e, dal punto di vista recitativo, ispiratissimo) è un vegliardo uomo inaspritosi nel carattere tristemente che, da tempo immemorabile, svolge il solitario e angoscioso lavoro di guardiano di questo faro forse abbandonato da ogni dio e da ogni santo. Sublimando la sua solitudine nell’ubriachezza e nel tedioso, farneticante ripetere sino allo sfinimento tale cantilena da mitomane vaneggiante:
che la pallida morte con l’orrido artiglio faccia d’un antro oceanico il nostro giaciglio. Dio che dell’onde ascolti veemenza, salva l’anima che invoca clemenza…
Tra luciferine apparizioni e un’indistinta sagoma, forse una sirena, fluttuante fra le impercettibili, recondite voragini del mare increspato da una perenne tempesta imperitura e insistente, si alternano, come detto, i dì e le notti ove i due uomini, caratterialmente agli antipodi, sempre più maggiormente s’accaniscono l’uno contro l’atro in maniera crescentemente furente e spasmodica.
Howard è soltanto un novizio, oggigiorno diremmo “stagista”, in cerca d’un impiego al fine di racimolare i soldi necessari per agguantare una vita dignitosa sfuggitagli di mano? Pronto, una volta che avrà messo da parte un bel gruzzoletto, a salpare esistenzialmente per nuovi lidi più vitalmente limpidi?
The Lighhouse è un kammerspiel bellissimo. Magneticamente irresistibile.
Dafoe, come già sopra scrittovi, è bravissimo e Robert Pattinson non gli è affatto da meno.
E forse, laggiù fra le acque, albergherà per sempre un imperscrutabile, primigenio, terribile mistero insondabile…
Se vogliamo inoltre giocare di curiosi parallelismi con un film, uscito recentemente, che è molto attinente a The Lighthouse in tanti frangenti, se siete amanti delle meta-cinematografiche analogie bizzarre, se lo aveste perso, recuperate The Vanishing.
di Stefano Falotico
SHUTTER ISLAND, recensione
Ebbene, oggi recensiamo Shutter Island.
Film di Martin Scorsese oramai piuttosto celebre, uscito nel 2010. Un mystery thriller largamente apprezzato dal pubblico. Una pellicola che, a fronte di un budget alquanto dispendioso, ovvero circa s$80,000,000, sebbene decisamente inferiore, per esempio, a The Irishman e alla sua prossima fatica, Killers of the Flower Moon, incassò notevolissimamente a livello planetario, totalizzando quasi 300 milioni di dollari ai botteghini.
Shutter Island però, a differenza di The Irishman e delle recenti pellicole di Martin Scorsese, suscitò forti pareri contrastanti presso la Critica mondiale e fu snobbato agli Oscar.
Sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com può vantare ancora una lusinghiera votazione complessiva di 63% di pareri estremamente positivi. Ma, com’appena detto, non sono tuttora in pochi coloro che ritengono Shutter Island un’opera leggermente minore all’interno del fantasmagorico, luccicante excursus cineastico dello zio Marty. Pressoché impeccabile.
A partire, ovviamente, dal solito Paolo Mereghetti che, nel suo Dizionario dei Film, pur attestandone i pregi, sottolineandone il valore nell’asserire fermamente che si tratti di un giallo neo–noir dalle forti suggestioni cromatiche, oniriche e visionarie, teso e compatto, affascinante e confezionato con l’immancabile eleganza tipicamente peculiare dell’inconfondibile, egregio stile raffinato di Scorsese, non lesina comunque affatto a evidenziarne, di contraltare, i molti difetti. Definendolo testualmente così:
un thriller psicologico di ineccepibile fattura, teso e inquietante per almeno due terzi, interpretato da un sempre ottimo Di Caprio, ma lontano dal coraggio di sperimentare che contraddistingueva il regista almeno sino ad Al di là della vita… il film costruisce perfettamente la trappola in cui dovranno cadere il protagonista ed il pubblico. Ma appunto: è solo una trappola ben congegnata.
E invece da un grande regista come Scorsese sembra inevitabile aspettarsi sempre il capolavoro o quasi. Dai primi della classe non possiamo accontentarci di un compito svolto senza errori. Vogliamo di più.
In effetti, tralasciando le personali antipatie che un personaggio spesso ambiguo come Mereghetti possa scatenare, il critico per antonomasia del Corriere della Sera non ebbe e non ha tutti i torti. Anzi, malgrado l’abbia parzialmente stroncato, appioppandogli solamente due stellette, a nostro avviso è stato fin troppo generoso.
Poiché, senz’ombra di dubbio, Shutter Island è il film più brutto di Scorsese. Con gli opportuni distingui, assieme probabilmente a Gangs of New York, a The Aviator, a The Departed e, naturalmente, a The Wolf of Wall Street.
Sì, non stiamo scherzando. Perdonateci se siamo troppo duri ma The Wolf of Wall Street è un concentrato interminabile di nefandezze stilistiche da lasciare terribilmente imbarazzati e ci stupiamo che venga, ahinoi, altamente considerato non solo fra gli aficionado irriducibili di Scorsese, bensì anche presso quegli pseudo-tali cinefili che, incallitamente restii a essere obiettivi, peccano vergognosamente di timore reverenziale nei riguardi del maestro Martin. Affermando dunque che si tratti di un’opera dalla bellezza assoluta o addirittura incommensurabile in quanto, succubi del potere fascinatorio del Cinema straordinario di Martin e di conseguenza, dinanzi a lui, obnubilati dalla forza carismatica a loro profusa da un genio comunque altrove indiscutibile che inevitabilmente li plagiò a suo volere, si macchiano di una colpa imperdonabile, cioè se ne prostrano con umile remissione ridicola. Immiserendosi nella loro lucidità e inchinandosi, lobotomizzati, dirimpetto a un artista verso il quale, rimarchiamo, furono e sono sguarniti d’ogni personalità robustamente esaminatrice un film che, invero, è soltanto una pacchiana sciatteria mascherata da una messinscena pedissequamente capziosa ed artefatta.
Ora, ricollegandoci a quanto sopra esplicato, salta all’occhio perfino che, nella nostra breve disamina inerente i peggiori o, perlomeno, i più irrisolti film di Scorsese, il protagonista di ogni pellicola, da noi menzionatavi, sia Leonardo DiCaprio.
Non fraintendeteci. DiCaprio è un attore insindacabilmente valente e ammaliante che, peraltro, deve molto della sua crescita recitativa a Scorsese stesso. Ma, paradossalmente, proprio in virtù del suo titanico star power, pare che ogni volta che Scorsese lavori con lui, eh già, debba piegarsi a delle compromissive, assai opinabili necessità commerciali al fine di adattare le sue pellicole a un pubblico meno esigente e dunque più di massa. Poiché DiCaprio è talmente popolare da richiamare in sala ogni categoria di spettatore e, perciò, Scorsese e le varie major di volta in volta coinvolte, immantinente avvertono immediatamente il bisogno di smorzare i toni artistici del materiale di partenza, adattandolo a logiche giocoforza più economicamente mainstream. Osiamo dire sconcertanti.
Ciò non giova, infatti, affatto all’etica professionale d’un regista che non ha certamente bisogno di piegarsi a tali trucchetti acchiappa-boxoffice per piacere e ricevere plausi.
Scorsese è inappellabilmente un grandissimo ma ci piace quando è Scorsese al massimo, non deprivato della sua grintosa, furibonda temerarietà preziosamente morale.
Ebbene, dopo questo lungo, esaustivo ed imprescindibile preambolo per niente arrogante, bensì semplicemente perspicace e veritiero, torniamo nuovamente a Shutter Island.
Film della durata di due ore e diciotto minuti, scritto da Laeta Kalogridis e tratto dall’omonimo romanzo di Dennis Lehane. Mediocre scrittore per cui invece Brian Helgeland trasse da un’altra sua novel, con la regia di Clint Eastwood, la sceneggiatura di Mystic River. Allo stesso modo di Mystic River, Shutter Island è un film ove la pazzia di un uomo, derivata da un incolmabile, irrisarcibile trauma insuperato di origine mostruosa, ha innescato una vicenda ricolma d’inquietanti risvolti psicologici di natura abissalmente ancestrale e misterica.
Trama:
l’investigatore Teddy Daniels (DiCaprio) e il suo fido braccio destro Chuck Aule (Mark Ruffalo) sbarcano in un’isola sperduta di nome Shutter per indagare in merito alla sparizione di una pericolosa matricida, Rachel (Emily Mortimer), evasa dall’ospedale Haschecliffe, un carcere psichiatrico di massima sicurezza, simile ad Alcatraz, ubicato all’interno di questo roccioso “atollo” sulla cui sommità svetta un luminoso faro che, di notte, emana la sua sulfurea luce sul territorio limitrofo, ammantandolo di cangiante brillantezza adamantina che attenua la tetra opalescenza mortifera della struttura del cupo nosocomio angosciante. Ove sono stipati e sedati pazienti instabilmente, forse persino insanabilmente, allarmanti. Cosicché, in questo luogo maledetto da dio ove inoltre aleggiano antichi, terrificanti spettri di nazistici esperimenti mentali dei più aberranti, Teddy s’aggira sempre più sbalestrato e progressivamente tanto spaurito quanto, a lungo andare, nell’animo mortificato e svilito. Via via sfiorando davvero lui stesso la pazzia oppure, momentaneamente, rinsavendo prima della definitiva prefrontale leucotomia infinita?
Abbiamo già rivelato forse troppo e ci pare quindi doveroso fermarci qui, rispettando chi non ha ancora visto il film.
Ma chi è veramente Chuck? Chi è la donna (interpretata da Patricia Clarkson) sfuggita a degli infermieri attentatori alla sua incolumità che Teddy, nel suo tumultuoso peregrinare lungo l’isola, incontra dentro una grotta inesplorata durante una serata crepuscolare tenebrosamente spaventosa e lugubre? Chi è, infine, soprattutto l’uomo fantasmatico di nome Andrew Laeddis (Elias Koteas) che Teddy, forse in balia d’un confusionale stato allucinatorio, vede davanti a lui comparire e rispuntare, in maniera reminiscente e orridamente conturbante, in particolar modo dagli anfratti reconditi dei suoi incubi e del suo preoccupante, cavernoso inconscio indecifrabilmente, imponderabilmente morboso?
Nel cast, primeggia Ben Kingsley nei panni del Dr. Cawley, da annoverare la presenza di Jackie Earle Haley as George Noyce, di Michelle Williams nel ruolo della moglie di Daniels, Ted Levine (Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti) e del compianto Max von Sydow.
Shutter Island può ricordare, per molte atmosfere, Shining. E non poco Angel Heart di Alan Parker.
Però, a dispetto della bella, avvolgente fotografia di Robert Richardson, soltanto un po’ caricata di colori troppo saturi patinati in molti tratti, della sobria diegetica scorsesiana e dei talenti attoriali coinvolti, Shutter Island è ben lungi dall’essere un film memorabile.
Poiché non fa paura, non desta per l’appunto l’inquietudine sottilmente scioccante che era lecito attendersi da un film dagli ampissimi potenziali, dalle possibili ermeneutiche sfaccettate che sarebbero potute generarsi da tale intreccio, psicologicamente intricato, pieno di sotto-testi ermeticamente interessanti ma qui compressati in sviluppi prevedibili e superficiali.
Insomma, Teddy Daniels riuscirà a resuscitare dalle tenebre che l’inghiottirono in una mortale spirale viziosa infinitamente esiziale o rimarrà perpetuamente schiavo dell’assurda, incredibile detection auto-sepolcrale del suo cuore di colpo agghiacciatosi e tragicamente infrantosi?
di Stefano Falotico
THE COMEDIAN, recensione
Ecco la sinossi, miei asini, tratta da IMDb. Più scarna di Bob De Niro, scheletrico in Taxi Driver. Un mezzo cadavere ambulante mentre, in Al di là della vita, prosecuzione ideale di tale succitato capolavoro immortale, Nicolas Cage guidò solo l’ambulanza ed ebbe dei tremendi, oserei dire lancinanti dolori di panza poiché affetto da complessi di colpa strazianti. Ora, Nic sta assieme a una forse più giovane della ragazzina morta d’overdose…
Caro mio Nic, dopo i debiti economici, avesti crisi d’astinenza e pagasti la prima baldracca raccattata fra una tua stronzata e l’altra? Devi darti una moderata! Durante l’amplesso, non esagitarti neppure di tuo proverbiale overacting. Non è che, allo zenit dell’eccitazione, reciti alla tua bella bambina tutto l’abbecedario da Stress da vampiro nevrotico, impazzito e super arrapato come se, nel tuo letto, vi fosse Jennifer Beals, sì, però di Flashdance?
A look at the life of an aging insult comic named Jack Burke.
Ora, vi ficco anche quella di Wikipedia. Se non vi sta bene, ficcatevi fra voi ma non rompetemi i coglioni.
Sono stanco di essere preso per il culo.
Jackie (Robert De Niro) is a comic icon, attempting to reinvent himself despite his audience only wanting to know him as a television character he played earlier in his career.
He attends a comedy club for nostalgia night at Governor’s Comedy Club in Levittown, New York (near Hicksville, New York), hosted by Jimmie Walker. After accosting an audience member, Jackie is sentenced to 30 days in jail. During his 100 hours of community service he meets Harmony Schiltz (Leslie Mann), who works at a soup kitchen as part of her community service.
Cioè, in poche parole, è un character study su un comico volgare ma forse meno volgare di tua sorella. Sì, tua sorella è volgarissima. Si mette in posa come Taylor Mega ma non conosce neppure un film del regista, per l’appunto, di questo film, Hackford Taylor. Secondo me, se continuerà su questa strada da piaciona popolana, non avendo il talento di Kathy Bates, magnifica ne L’ultima eclissi, finirà peggio di Jennifer Jason Leigh di Inserzione pericolosa.
Ma chi pensa di essere? Charlize Theron de L’avvocato del diavolo? Ah ah.
Il Richard Gere di Ufficiale e gentiluomo della sua periferia da semi-palestrata esaltata la manderebbe a fanculo perché non è manco Rachel Ward di Due vite in gioco.
Ebbene, amici carissimi, cinti in raccoglimento. Prestatemi umilmente fede, oh, mie fratelli e consanguinei. Miei geni assortiti, la vita può incepparsi a causa della malasorte oppure di una mala sorca, dunque perdersi in rabbie figlie di notti lugubri e melanconiche.
Applause!
Ivi, figliuoli della congrega, siamo riuniti dopo la quarantena che ci dilaniò le viscere, tristemente illanguidendoci nel buio più tetro e mortificandoci da sepolti vivi ché dovemmo riesumare antichi videogame per passare il tempo, come per esempio Tetris. Sì, rannicchiati fra domestiche pareti anguste, dopo un’esistenza già trascorsa spesso nella solitudine più assoluta per colpa di gente bigotta e moralistica che svilì i nostri animi radiosi, tempestandoci di sospetti mostruosi, risorgemmo in tale 3 Giugno poiché oggi sono permessi anche i viaggi interregionali e io, dopo aver militato sino all’età di diciott’anni, presso le giovanili, cioè gli Juniores, di una calcistica squadra che partecipò ai migliori tornei provinciali, rinunziai a ogni lavoro da impiegato comunale.
In quanto desidero tuttora rimanere un poeta abissale e un artista spaziale che non abbisogna di mercificarsi a un sistema prostituente il nostro animo che non è soltanto statale, bensì universalmente internazionale.
Sono qui per parlarvi di un film che, dopo mille ritardi, come i miei e i vostri da uomini scambiati addirittura per Cagliostro, forse festeggeranno il Ferragosto sotto la luna ch’è un girarrosto.
Probabilmente, visto il successo di Joker e di The Irishman, una buona volte per tutte, un distributore lungimirante si deciderà a diffondere la pellicola con De Niro di cui già v’accennai e, nelle righe seguenti, come dettovi, vi parlerò… sbattendola in sala. Uh, fa caldo, pare una sauna. Comunque, anche se sudai freddo e la gente ipocrita mi mise a pecora, sono rimasto un leone della savana.
Mah, la mia storia fu ed è da Mezzanotte nel giardino del bene e del male. Dove fu ambientato questo cazzo di filmone di Eastwood? Ah sì, a Savannah.
Comunque, alla playmate Smith Savannah, preferisco Saint Samantha, pornostar da poco ritiratasi dal mercato. Peccato, me ne sarei tirate ancora sui “suoi” nuovi filmetti. Va be’, non importa. Tanto ho tutta la collezione privatissima dell’intera sua filmografia eccitantissima. Cazzo, Samantha Saint mi manda in estasi più di Marlon Brando al suo massimo storico.
Ora, basta, facciamo i seri, non facciamoci le seghe.
The Comedian… Tale pellicola io già vidi in sala… da pranzo. In verità, dietro il grande schermo de mio pc grazie a PowerDVD. Poiché ne comprai il Blu-ray americano, ordinandolo su Amazon.
E lei, donna che si crede un’amazzone, la finisca d’inneggiare al matriarcato e zittisca definitivamente le sue voglie e i suoi capricci inconfessabili da repressa sessista. Non riesce a trovare un uomo Tarzan? Ah no, allora si rechi alla videoteca Videodrome di Federico Frusciante, mio amico, situata in via Magenta 85 a Livorno. Noleggi Greystoke con Christopher Lambert e andrà in brodo di giuggiole poiché dirimpetto al Lambert che fu, eh già, si toglierà ogni maglia di liana, no, lana. Avrà le vampate di gran calore nel vedere che Christopher poteva permettersi di essere ancora bellissimo ma puro, prima di sporcarsi con Alba Parietti. Da allora, infatti, dal suo leggendario strabismo di Venere, Cristopher forse passò alle malattie veneree.
Sì, donna alla Andie MacDowell, milfona mai vista, si spogli d’ogni inibizione in maniera scimmiesca, si dia alla vita tutta. Non faccia la scema. Ma che è alla frutta? Onestamente, ce la dia ma, attenzione, al Seme della follia. Siamo qui e non aspettiamo altro se non con lei impazzire, strapazzandola come la maionese. Donna, si mostri integralmente a noi tutti, eh sì, ignuda come iddio la creò, come madre natura la concepì e come qualche uomo, qui, presto la fotterà in questo focoso dì gioioso. Che fa? Si bagni presto come se si trovasse all’equatore con l’afa a mille in mezzo alla sua palude!
Applauso!
Orsù, donna, si svesta e faccia alla svelta. Non so se sarà amata di sveltina ma, immantinente, la prego, la smetta di tirarsela da sola. Guardi che bel sol’. Per esempio, osservi obiettivamente quest’uomo dal petto villoso al mio fianco. Non mi dica che non ama il suo sguardo da latin lover caloroso. Si fidi, senza sifilide, potrà presto ardentemente irradiarla e forse allargargliela in modo delizioso, oserei dire squisito e letizioso.
Suvvia, non faccia la permalosa e la difficile donna smorfiosa. Le sia sfiziosa…
Com’è pure il detto? Fra moglie e marito non mettere il dito? Infatti, solo un dito non serve.
Ci vuole tutt’altro, eccome se ci vuole molto alto.
Di mio, non ho mai creduto al comandamento Non desiderare la donna d’altri. L’unica donna che giammai non desiderai fu l’attuale moglie di un mio ex amico delle scuole medie. Di cognome fa Daltri e svolse il lavoro di gelataio alla Voglia matta. Non è il film con Ugo Tognazzi e Catherine Spaak.
Bensì una yogurteria cremosissima… https://www.facebook.com/lavogliamattagelateria
Ci vuole zucchero, sale e pepe. Finiamola anche, a proposito di Luciano Salce, con le battute su Fantozzi. Più vecchie d’una bacucca.
Ma che mi fa(te) dire? Delle virilità, no, volgarità pregne, oh, mia prugna, di dark humor come Jackie Burke, il personaggio incarnato da Bob De Niro in questo The Comedian di Taylor Hackford?
Debbo moderare il linguaggio, avete ragione, devo finirla subito di divagare in maniera provocatoria, pungente e piccante, debbo quanto prima, oh sì, io questa donna sfinire. Oh, tale donna sta per sfiorire, con me invece rifiorirà e, assieme, floridamente ci cureremo da ogni batterica flora. Sì, evviva la sauna, la fauna! Non datemi nessuna mano, le mie mani saranno di questa donna e la palperò, fottendomene del perbenismo della piccola borghesia.
E così sia, oh, issa, non fatemi scaldare, già mi si ri… za in men che non si dia, no, dica.
Ah ah.
Sono un battutista, evviva anche Lucio Battisti e ogni batterista.
Non picchiatemi, non siate maialeschi, no, maneschi. Adoro Michael Mann, Thomas Mann e il detto chi fa da sé fa per tre. Potrebbe anche farsi Leslie Mann.
Sì, sono un Falotico che potrei venir… ospitato da Jimmy Fallon, sono uno sconsiderato farfallon’ e amo sia essere vigliacco come Dustin Hoffman di Papillon che temerario come Steve McQueen di C’era una volta a… Hollywood. Il quale desiderò Margot Robbie, grande figa, ma ebbe comunque una cazzuta dignità da difendere da ribelle che se ne fotté delle donnette. Sì, uno storico sciupafemmine, ah ah.
Dunque, preferì essere ricordato per La grande fuga.
Cioè, come la mia. Ah ah. Sì, scappai dal mondo e il mondo cercò d’inchiappettarmi.
A tutt’oggi, sono vivo e vegeto. Posso ammettere che nessuno me l’abbia messo in quel posto, fisicamente parlando. Comunque, non sono omofobo.
Se qualche bagnino proverà ad affogarselo dentro di lui, gli risponderò come Lino Banfi in questa scena cul no, (s)cult: https://www.youtube.com/watch?v=8xFKYyphXOk
Se io l’abbia messo nei buchi femminili, non sono cazzi che vi riguardano. Anche perché siete invidiosi e vi fottete a vicenda.
Ma che volete toccare? Ma che volete appurare? Dove pensate di scopare, no, scusate, volevo dire… scappare?!
Parliamo ora di questo film.
Doveva essere inizialmente diretto nientepopodimeno che da Scorsese. De Niro ebbe infatti la brillante idea di realizzare una specie di remake di Re per una notte. Scorsese non fu però convinto della/della sceneggiatura. Al che, De Niro propose la regia a Sean Penn. Inizialmente, Sean accettò. Si sa, Sean e Bobby sono molto amici. Entrambi scoparono Naomi Campbell. Poi, si strinsero la mano in segno di reciproca stima. Come lo stesso De Niro e Depardieu, in Novecento, a letto con Stefania Casini? Non lo so.
Ah, mio Stefano, che casino! Mah, Naomi se la scopò pure Flavio Briatore. In verità, mezzo mondo. Roba che Samantha Saint, dinanzi a Naomi, è davvero una santa. Ah ah. Venere Nera di che?
Poi spuntò Hackford. Sposato da tempo immemorabile con la fata Morgana di Excalibur, vale a dire la grande Helen Mirren.
Allo script mise mano anche Richard LaGravenese, premio Oscar per La leggenda del re pescatore.
Abbiamo in questo film quell’attoriale gigante di Danny DeVito, un nano di statura ma uomo di enorme levatura, abbiamo il cammeo di Charles Grodin, anche quello di Billy Crystal, vi sono pure Edie Falco ed Harvey Keitel.
Ma soprattutto v’è una strepitosa attrice teatrale, Patti LuPone. Moglie di De Niro in Colpevole d’omicidio, madre di James Franco.
Cioè me stesso.
Sì, debbo esservi franco. Questa vita mia fu esattamente come questo film. Per via del mio essere troppo istrionico, reagii malissimo dinanzi alle provocazioni di un panzone, fui accusato di minacce di “impostazione fisica”; non patteggiai tanto e fui costretto ai lavori socialmente utili.
Io sarei aggressivo? Ah ah.
Ma non tutto il male venne e viene per nuocere. Pene… devono ancora venire… Conobbi molta gente interessante in mensa… gente meno falsa di quelli che vanno a messa.
Cosicché, imparai ad amare perfino il pauperismo dopo essere stato preso solo per un paperino, sinceramente per un cretino. E Gli invisibili con Richard Gere, diciamocela, è un capolavoro.
Sapete perché? Perché quando il gioco si fa duro, devi ammettere che sei un po’ invecchiato e non puoi più tirartela da sex symbol.
Devi guardarti allo specchio e confessare la verità.
Sei un grandissimo attore. Come lo è Richard. Anche se non è De Niro. Anche se io forse sono più bravo di entrambi.
Bisogna essere sinceri sino in fondo. Potrete continuare a lungo a prendermi per i fondelli ma nessuno al mondo è capace di recitare un testo così, con tanto di ansimante voce cavernosa.
E presto ne arriverà un altro… decisamente, se possibile, ancora più bello.
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Quindi, ora, fatemi fare la mia vita. Altrimenti, potrei esservi più demenziale di Mel Brooks di Che vita da cani! Oppure John Belushi di The Blues Brothers.
E, davanti a due così, potete anche continuare a fare le suorine ma ricordate: sono in missione per conto di dio.
Sono uno che si fa solamente dei film? Può essere. Tu continua a farti tua moglie, è un cesso. Confonderebbe le atmosfere grottesche di questo film dominato da un De Niro pagliaccesco, con Manhattan di Woody Allen. Mi sa che della vita non ha capito un cazzo. Infatti, sta con te.
Ah ah. Ah ah. Ma che recensione è? Fa ridere per non dire piangere.
Come la vita. Di ogni clown.
di Stefano Falotico
Limitless, recensione
Introduzione goliardica, spiritosa da uomo rinnovato, forsanche restaurato, oserei dire ex rimbambito, rincoglionito, traumatizzato, emarginato e ora ritrovato, riamato, spiritato e qui forse un po’ autobiografico…
Sono illimitato! Sono le persone cosiddette arrivate, eh già, assai limitate in quanto oramai naufragate nella perdizione morale più sconsacrata e perciò sconsiderata.
Vi prego, non ridete. Anzi, non porgetemi quel simpatico sorrisetto di fintissima cortesia che si dà alle anime “disgraziate”. Gratis et amore di tenerezze più ipocrite del bacio di Giuda.
Ebbene, eccomi di nuovo qui a parlarvi, anzi a parlarci, oh sì, di Limitless.
Abbondiamo di plurale maiestatico, allarghiamoci e nella vita, in forma maiestatis, in senso metaforico da me qui coniato, più pertinentemente maestosa e oserei dire anche mastodontica, nuovamente, con estremo, passionale vigore immergiamoci ancora. Dopo tanti inganni patiti e bocconi amari che dovemmo tracannare, rischiando di essere scannati come dei maiali dal gratuito, scarnificante, oserei dire “grattugiante” male dei più luridi, impuniti maiali.
Ah, questi qua, uomini arrugginiti e nel cuore imputriditi, vanno solo fortemente punti. Cosicché, sotto la trapunta, saranno denudati a causa dei loro inflittici atti impuri.
Adbondantis, adbondantum disse Totò nella lettera de… la malafemmina e siamo attorniati da uomini più pavidi di Don Abbondio. Fanno pure i pavoni! Ma mi facciano il piacere…
Sono loro, sì, pieni di pavore. Tutt’al più, io soffro di pallore. Poiché, geneticamente, la mia pelle è lattea, se preferite lattiginosa. Fate venire, scendere il latte alle ginocchia. Inginocchiatevi…
Basta anche con La Mer e le vite dunque amare ché, a forza di rammaricarvi, finirete soltanto ai piedi d’un bar di Pomarico. Paesino dell’entroterra della Basilicata, dotato di una basilica rovinata da uno storico terremoto che, scuotendo visceralmente questa piccola cittadina in provincia di Matera, oh sì, fra aride valli ubicata, rischiò di distruggere ogni basamento portante, per l’appunto, di tutti i suoi abitanti.
Così come lo furono i miei genitori. Di tale amena, soprattutto brulla, spesso anche brutta cittadina ove la gente beve soltanto l’Amaro Lucano, natii. Quindi a Bologna, capoluogo emiliano che mi diede i natali, i miei genitori furono emigrati. Diciamo, emigrarono. Ah, i cattivi contro di me persero la faccia e io, sbugiardando ogni malefatta a me da loro perpetrata, li smascherai, benedicendoli però poiché, tutto sommato, i poveri cristi, quali sono in maniera irredimibile, vanno perdonati, dolcemente assolvendoli con tanto di segno della croce da uomo, quale sono io invece, perennemente immacolato. Comunque sia, la cattedrale di Bologna è San Pietro, non San Petronio. Che, peraltro, ha la parte anteriore non terminata. Io la chiuderei, sì, qui con lo stuccare e lo struccare i pagliacci che rimasero stupefatti dinanzi al mio inaspettato “Rinascimento” entusiasmante. Esterrefatti, assolutamente increduli, credettero che fossi impazzito, invece fui forse miracolato, in una parola più realistica, oh sì, rinsavito. All’antico lindore mio innato, eh già, ricollegato. Nient’affatto perduto o irrecuperabile ché sarebbe inutile sparare sulla Croce Rossa, perseverando in crociate più superficiali dei proverbi più vecchi e stantii.
La mia vita ancora si rilluminò d’incenso, no, in maniera sfolgorantemente intensa e non fu affatto illuminata sulla via di Damasco. Dopo essere io precipitato nella più depressione più inconsolabile e nera, rividi la luce del giorno in modo sincero, poco prima di auto-accendermi un cero e incenerirmi, sputando in faccia agli idioti e sputtanando in maniera dura chi, fraudolento e bastardo, volle rifilarmi una tostissima fregatura senza più possibilità di cura. Ah, che batosta, lo fu di sicuro. Più inscalfibile d’un cubo di porfido, oh sì, miei uomini perfidi. Io sono l’incarnazione vivente del marmo di Carrara e, in mezzo ai pantaloni, ce l’ho durissimo più dei sassi, per l’appunto, di Matera.
A Matera, mio padre frequentò l’ITCG Loperfido. Istituto Tecnico Commerciale per futuri ragionieri alla Fantozzi? Scuola dalla triste nomea ove tuttora fioriscono leggende metropolitane delle più macabre.
(https://www.facebook.com/itcgloperfidoolivettimatera/).
Cioè… dicasi… racconti di matrice popolare, snocciolati fra una sigaretta e l’altra, ove si narra di ex professori sessisti e vili che, pur di giacere con illibate studentesse culturalmente retrive, forse più racchie della signorina Silvani, elargirono loro doni e promozioni regalate, circuendole col fascino orrendamente virile della sexy beast Freddy Krueger di Nightmare, ostentando loro un sorriso più falso di quello di Willem Dafoe/Bobby Peru di Cuore selvaggio. Ammantandosi del fascino sempre impressionante degli uomini induritisi nell’essersi eruditi. Ma smettiamola! Si fanno chiamare dottori ma non sono per niente dotti. Impararono solo la pappardella a memoria, dando ripetizioni orali alle adolescenti più tarde di comprendonio…
Di mio, so che la mia cugina di secondo grado non fu mai una donnaccia, riuscì a diplomarsi malgrado non l’abbia mai data a nessun “maschio” insegnante, di nome fa Laura e giammai si prese la Laurea…
Vero?! Oggi, dopo aver amoreggiato comunque con qualcuno fra una vasca e l’altra del suo paese, dopo molte docce fredde eppur assai calde, con tanto d’idromassaggio di ragazzi a lei molto vicini di natura pasoliniana, è sposata con un bravo Cristiano.
Cristiano, a differenza di me, non ha una voce da Iansante Christian e forse non è propriamente un santo. Dato che, con Laura, deve averci molto dato. Di gemelli! Visto che, oggi come oggi, Laura e Cristiano hanno messo al mondo delle belle gemelline.
Dio li fa e poi li accoppia di amore gemellare, diciamo anche gemellato!
Mentre Berlusconi con molte donne s’accoppiò, regalando loro soltanto diamanti e gioielli.
Ah, sono stanco di dare le perle ai porci! E che sono San Francesco? Il quale comunque, rimanga fra noi, con quella “Monaca di Monza”, detta altresì finta suora, cantò assieme a Rossi Vasco, eh sì, Albachiara.
Sin all’aurora. Ora, veramente voi credete che la super bonazza Helena Bonham Carter, con Mickey Rourke, man ribattezzato anche 9 settimane e ½ michelangiolesco, sul set del film di Liliana Cavani, non sia stata affrescata dalla sua Cap… la Sistina?
Ah ah. Stendiamo un velo pietoso su questa mia battuta assai scontata. Oddio, abbiate Pietà! Per carità, anche per la Caritas, basta pure con la cristologica pietas degli uomini stronzi e vanagloriosi! Per l’amor di dio, quanto sono odiosi!
Nanni Moretti, per esempio, criticò sempre duramente, assai aspramente Il caimano ma diede più di una mano a Isabella Ferrari di Caos calmo pur di nobilitarle la carriera. Soprattutto per slacciarle, da dietro, la sua cerniera. Indossò, per caso, dei jeans della Carrera? Mah, per chiedere, eh?
Sì, Nanni è un fake.
Questo suo film cortometraggio, rivisto dopo il seno da lui palpato di Isabella, no, soltanto col senno di poi, cioè con maggiore analisi “in filigrana”, la dice lunga… Il grido d’angoscia dell’uccello predatore…
Eh sì, come disse Peppino, ho detto tutto…
Nanni fa tanto il buono e caro da pasticcere trozkista per accattivarsi le simpatie del 69, no, dei postsessantottini retorici e vuotamente libertini ma amò tantissimo con Isabella, oh sì, oh signore nostro, scoppiare di crema in modo liquoroso da Harvey Weinstein “babà” che si rispetti…
Roba che Matteo Salvini gli fa un baffo. Almeno, la Isoardi gliela diede senza chiedergli un posto in parlamento. Nemmeno Nanni diede a Isabella un’assai remunerativa poltroncina a Palazzo Chigi. Però, glielo ficcò ben “a sedere”. Lei forse sperò nella promozione in modo similare alle ragazze del Loperfido ma Nanni fu maligno. A lei poi fece la boccaccia dopo un amplesso grottesco da novelle del Boccaccio.
Sì, Nanni, in quella scena sembri/a un maniaco sessuale del tutto imbranato. Mani pulite!
Di mio, crescendo, sono oggi un uomo che ama con voluttà e buona volontà la mia donna matura e incorrotta, di me non ancora rottasi, rinascendo e ascendendo con lei, in modo paradisiaco, a incommensurabili vette di piacere inaudito e perfino inverecondo.
Sì, scopiamo, lanciandoci bestemmie veramente “iraconde”. E lei adora la mia anaconda. Dopo aver fatto l’amore, lei ride infatti come la Gioconda!
La mia cugina Laura, comunque, cantò assieme al compianto Mango con la sua celeberrima Come la Monnalisa.
Fu una ribelle come Laura Dern del succitato Wild at Heart ed elevò in gloria… pure Piero Pelù. El Diablo…
Ah, che vita infinita! Ma che dico?! Idilliaca! Estatica da uomo che, parafrasando Checco Zalone di Cado dalle nubi, vede la mia attuale ragazza, una figa della madonna e la beatifica più dell’MDMA, detto volgarmente ecstasy, ah ah, miei uomini poco stupefacenti e drogati solamente d’essere rimasti stupidi.
Dopo questa “elevazione”, passiamo prontamente alla vera e propria recensione cazzuta!
Tratto dal libro The Dark Fields, da noi tradotto in Territori oscuri, di Alan Glynn, Limitless è diretto da Neil Burger (The Illusionist) e vede per la prima volta duettare assieme, sul grande schermo, Bradley Cooper e Robert De Niro.
Che, da allora, divennero amici, cementando il loro affiatamento ne Il lato positivo, eccetera eccetera.
A proposito, che fine ha fatto Honeymoon with Harry? Film originariamente pensato da Paul Haggis che desiderò avere nientepopodimeno che Jack Nicholson e Vince Vaughn come protagonisti?
La regia passò a Jonathan Demme e, nel film, dovevano esserci proprio Bob e Bradley. A Bob non piacquero i cambiamenti della sceneggiatura e Bob mandò tutto a puttane.
Trama:
Eddie Morra è uno sfigato cronico che viene lasciato dalla sua donna, interpretata da Abbie Cornish. Sull’orlo del suicidio, in forma identica (anche psicofisica) al mio primo libro, Una passeggiata perfetta, incontra il suo cognato in un locale semi-scalcagnato. Il quale gli propone di assumere la pillola NZT. Capace di miracolarlo, donando alla sua mente una prodigiosa carica geniale delle più travolgenti.
Eddie, difatti, diventa di punto in bianco geniale ma, per riusare il suo genitale con la Cornish, aspetterà sino al finale.
Dunque, anziché ingoiare dell’acido muriatico, detto anche croridrico, Eddie non brucia la sua vita, non usando contro di essa il tricticlorato così come in Fuoco assassino. Manda giù l’NZT e la sua vita di nuovo s’incendia e si lubrifica, divampando furentemente d’immenso pindarico e di gioie inconcepibili.
Dopo aver assunto la pillolina, viene anche assunto da Carl Van Loon (De Niro), un potente uomo della finanza. Van Loon rimane scioccato dalle incredibili, immani capacità di Eddie.
Lo sfrutta al fine che i conti della sua azienda maggiormente fruttino.
Per l’appunto, smentendo ogni cretino proverbio, Eddie lo serve e riverisce, lo alliscia, cioè il culo gli lecca in modo mai visto, tiene conferenze di Economia e Commercio con parlantina assai forbita ma poi non dà retta al detto ogni frutto ha la sua stagione.
Quindi, sebbene sia fin troppo maturato e oramai uomo stagionato, a dispetto d’essere divenuto potentissimo, anziché scopare tutte le più grandi fighe del mondo da sfruttare a piacimento poiché loro, pur di avere un lavoro come segretarie in una succursale della sua multinazionale, avrebbero accettato anche il più squallido, malpagato anale, Eddie sceglie di ritornare dalla sua bella Abbie. Donna rimasta tanto una patonza sesquipedale quanto una Cenerentola incurabilmente frustrata. Intanto però, Eddie viene inseguito da degli stronzi che lo perseguitano poiché hanno appreso, anch’essi, degli “effetti speciali” di questo farmaco. Effetti rinvigorenti e poco collaterali.
A differenza di quelli oscenamente mostruosi che possono derivare se assumerete psicofarmaci distruttivi e neurolettici sedativi come l’Invega.
Datemi retta, se vi ammalerete di manie depressive, di psicosi social-fobiche, di ossessioni ritualistiche, a compensazione del vuoto vostro di vivere e non di quello femminile, non recatevi mai da uno psichiatra.
Non serve a una beneamata minchia. Anzi, vi dirò di più. Quella cosa lì, assumendo questa robaccia peggiore della cocaina, non vi tirerà manco per l’anima del… ecco. Avete capito. Di mio, posso ancora tirarmela. Scusate, avreste qualcosa da obiettare? Ho quarant’anni e ne dimostro trenta. Non sono Il ritratto di Dorian Gray né l’omonima attrice del film sopra accennatovi con Totò, più che cerebroleso, sembro onestamente solo molto dalla mia donna preso, sono scattante, giovane non solo nell’animo, focoso, ardimentoso, fantasioso, temerario.
Oh sì, intrepido e poco tiepido… E lei mi/lo sente benissimo.
Se non vi sta bene e siete invidiosi, ah, non sarete delle malafemmine, bensì delle malelingue. Quindi, meritate solo… pene. Fate un po’, giusto un po’, pena…
Secondo voi, sbaglio? Basta vedere questa mia video-recensione e anche quest’altro video per capire che ho ragione io.
Ora, Limitless, a livello d’intrattenimento puro, funziona alla grandissima. Ma non è un film d’autore, nonostante Neil Burger stia ancora cercando di sembrare un avanguardista surrealista con tocchi eccentrici da dadaista più scemo di Chris Nolan. Quando mai, infatti, se vogliamo essere realistici, s’ visto uno bello come Bradley Cooper con un cervello “trigonometrico” da Albert Einstein, capace di scrivere quasi alla mia velocità della luce che alla fine s’accontenta solamente di una strafiga e basta? E torniamo alla questione Nanni Moretti. Per dimostrare di non essere solamente un coglione di Sinistra, Nanni accettò di girare una scena semi-pornografica assieme alla bellissima Isabella. La montò e la mise a pecora quasi in sella ma apparve, detta come va detta, ripeto, solamente un povero cazzone. Altro che stallone!
Non è credibile, suvvia, Nanni, nella parte di Manuel Ferrara, celeberrimo “troione”. Io sì, invece. Ah ah.
Voglio stasera lasciarvi però non con una “calura”, bensì con una freddura alla Checco Zalone.
– Nella mia classe superiore, eravamo in trenta. Quindici maschi e quindici femmine.
All’epoca, ero troppo timido.
Ho dei forti rimpianti. Potevo scoparmi tutte le ragazze della mia classe.
Che disdetta. Che tragedia. Me ne scopai solo undici.
– Davvero, Stefano? E le altre quattro?
-Si fottano. Gliele leccai e basta.
– E i tuoi compagni di classe che fecero?
– Lo presero in culo. Ecco cosa fecero.
– Lo presero in culo da te?
– E che sono frocio, io?
– Toglimi una curiosità. Mi racconti puttanate, vero?
– Sì, lo sanno tutti che fui pazzo dall’età di quindici anni fino al servizio civile.
– Quindi, non è vero che in classe eravate in trenta.
– No, è vero.
– Ma se ti sei ritirato dalle superiori.
– Sì, ma rimango superiore a tutti, nonostante tutto. Poi, se uno si ritira, significa che prima ci stava dentro. Tutto tirato, peraltro.
– Sì, hai ragione.
– Come fai a scrivere così bene?
– Mi sono fatto il culo.
– Di chi? Delle ragazze?
– Sì, salutami a sorrata.
– Stefano, devo dirti la verità. Non ti arrabbiare. Non sei mai stato matto. Erano e sono ancora tutti invidiosi di te e volevano coglionarti.
– Lo so. Li perdono. Questi qua, se non li imbocchi, non ci arrivano. Sono come Gina Gershon di Killer Joe, forse un’ex ragazza del Loperfido.
Comunque, a Venezia vidi in anteprima mondiale proprio Killer Joe. Tutti gridarono allo scandalo. Anche al capolavoro.
I capolavori di William Friedkin sono altri.
Killer Joe è un discreto film e io non sono Matthew McConaughey.
Infatti, sono meno stronzo rispetto a lui, più bello, sì.
Ah ah.
Sono anche molto autoironico. Sulle mie sfighe so scherzarvi sopra. Sulla mia figa, sono cazzi miei, ci pensa lei.
Ah ah.
Oh, se ritenete questa mia recensione sui generis leggermente volgare, datevi a Wikipedia e andate al mare a mostrare le chiappe chiare.
https://www.youtube.com/watch?v=qZ8hstqZPtI&t=117s
Bradley Cooper piace molto a Clint Eastwood:
https://www.youtube.com/watch?v=O5S6GPL0bKY&t=49s
di Stefano Falotico
La notte e la città (NIGHT AND THE CITY), recensione del remake con ROBERT DE NIRO & JESSICA LANGE
Ebbene, oggi parliamo de La notte e la città (Night and the City).
Seconda prova registica di Irwin Winkler (premio Oscar, storico, veterano produttore di Rocky e di molte pellicole di Martin Scorsese, fra cui Toro scatenato, Quei bravi ragazzi e, last but not least, il già leggendario The Irishman). Qui, come dicevamo, nuovamente dietro la macchina da presa dopo il suo esordio come director, avvenuto esattamente l’anno prima con Indiziato di reato.
Film patrocinato dallo stesso Scorsese. Il quale, in tale pellicola appena sopra citatavi, comparve in un piccolo cammeo. Allo stesso modo d’Indiziato di reato, avente per protagonista Robert De Niro, La notte e la città vede svettare il grande Bob come interprete principale. Sì, neanche a farlo apposta, nientepopodimeno che l’attore più significativo della filmografia scorsesiana stessa, ça va sans dire…
L’indimenticabile, sempiterno Travis Bickle di Taxi Driver. Chi, sennò?
La notte e la città è il misconosciuto, potremmo dire, rifacimento di un omonimo, bellissimo film con Richard Widmark, del ‘50, da noi ribattezzato I trafficanti della notte.
Tratto, così come l’originale, dal libro di Gerald Kersh. In tale occasione, adattato da Richard Price (writer di Seduzione pericolosa, Il colore dei soldi, Ransom, The Night Of, quest’ultimo a sua volta diretto da Steven Zaillian, sceneggiatore di The Irishman), La notte e la città dura un’ora e trequarti e uscì nei nostri cinema con un anno di ritardo rispetto alla sua statunitense distribuzione. Ovvero, sui grandi schermi italiani, peraltro a release limitata, fu presentato il 5 Marzo del 1993.
La notte e la città fu ampiamente snobbato dalla Critica nostrana e, a tutt’oggi, è un film che, malgrado la presenza, come dettovi, di De Niro e anche di Jessica Lange (entrambi avevano appena lavorato assieme in Cape Fear – Il promontorio della paura), in effetti, pochissime persone, compresi i cinefili più incalliti o che si dichiarino tali, conoscono o hanno visto almeno una volta in vita loro.
A differenza però delle italiane critiche impietose che gli piovvero addosso, a dispetto dello scarsissimo successo di pubblico riscontrato qui da noi, negli States il film fu ben accolto e, a tutt’oggi, ottimamente considerato a livello critico. Infatti, viene reputato un remake alquanto rimarchevole e nient’affatto trascurabile. Tanto da aver riscosso, sull’aggregatore di medie recensorie metacritic.com, un lodevole per quanto certamente non entusiasmante 61% di voti positivi, ricevendo plausi assolutamente lusinghieri.
Sinceramente, riguardato col cosiddetto senno di poi e rivisto con più obiettività, sganciandoci temporalmente dall’epoca in cui, per l’appunto, il film fu rilasciato al cinema, poiché in quel periodo De Niro fu all’apice della sua gloria divistica e dunque La notte e la città, rispetto a pellicole ben più importanti da lui interpretate in quegli anni suoi mirabili, non poco sfigurò, tale film di Winkler non è per niente da buttare. Anzi…
Questa la trama:
un avvocaticchio scalcagnato e un po’ truffaldino, Harry Fabian (De Niro), un signore sbruffone, furbetto, logorroico, vanesio e volitivo, sta provando disperatamente a riciclarsi come promoter di pugili semifalliti. Al fine di redimersi da una vita piuttosto immorale, grama e meschina. Forse, sta invece paradossalmente, per l’ennesima volta, da menefreghista totale, tentando venalmente di racimolare soltanto della misera grana per riscattarsi da una personale situazione economica non propriamente esaltante. Difatti, il film si apre con un concitato piano sequenza che pedina il turbolento e scalmanato Fabian lungo le strade della convulsa metropoli newyorchese. E, pochissimi attimi dopo, la cinepresa si ferma vicino a una cash machine (il nostro Bancomat) mentre Fabian prova a prelevare qualche soldo dal suo conto in banca perennemente, diciamo, all’asciutto.
Il cosiddetto piatto piange… incarnante ed esemplificante la condizione della cosiddetta vita miserabile di un uomo poco moralmente retto e coscienzioso. Soprattutto della sua esistenziale tristezza tanto grottesca quanto, per noi incolpevoli spettatori, assurdamente ispiratrice, nei suoi confronti, di feroce simpatia fortissima e contagiosa.
Forse, l’unica salvezza per Fabian potrebbe essere rappresentata da Helen (Lange), la matura barista di un malfamato locale ove Fabian è avvezzo a recarvisi. Infatti, malgrado Helen sia sposata col burbero e suscettibile proprietario del bar, ha un debole per Fabian.
La vita di Fabian si schianterà e verrà trucidata in un vicolo cieco, metaforicamente e non?
Fabian, cioè, si salverà? In particolar modo da sé stesso oppure, nella notte più atrocemente buia, in un irreversibile abisso mortale precipiterà e sarà inghiottito in maniera ancora terribilmente più bugiardamente nera della sua vita perennemente insincera?
Ovviamente, non ve lo sveleremo.
Il film è fotografato magnificamente dal grande Tak Fujimoto (Il silenzio degli innocenti) e può vantare la firma, in colonna sonora, comunque qui poco memorabile, di James Newton Howard.
La notte e la città non è un grande film, Robert De Niro vi gigioneggia spesso in maniera un po’ fastidiosa e quasi artefatta, esibendosi in un one man show alla lunga un po’ irritante, propinandoci delle esagerate smorfie quasi peggiori rispetto a quelle da lui troppo caricate e sfoggiate in un altro remake con lui protagonista, ovvero il bruttino Non siamo angeli di Neil Jordan con Sean Penn e, nonostante nel cast siano presenti “comprimari” di lusso di tutto rispetto come Alan King, Jack Warden ed Eli Wallach, il film ha molti momenti, come si suol dire, di noia.
Sì, vero…
Ma non è un film del tutto fiacco. Molte atmosfere, per l’appunto suggestivamente notturne di questa New York cinicamente amorale e torbida, bazzicata nel suo sottobosco, perlopiù, da piccoli grandi imbroglioni ridicoli e farseschi, illuminata dai fluorescenti neon di fari, fiochi lampioni e cangevoli luminose insegne di vertiginosi grattacieli altissimi, funzionano. Eccome.
Insomma, La notte e la città è uno di quei “filmetti” che, nel bene o nel male, oggi come oggi nessuno gira o girerebbe più.
Poiché l’industria cinematografica, non solo hollywoodiana, è radicalmente cambiata. E dell’intimistica, lieve e al contempo tetra estetica winkleriana, di matrice vagamente scorsesiana, qui profusaci in un confuso eppur fascinoso neo noir atipico, incentrato quasi unicamente su uno sfigato che non sta mai zitto, sorretto solo
da un De Niro eccessivo e anomalo però inevitabilmente carismatico, non interessa forse più a nessuno.
Ci mancano invece questi folli spaccati strampalati, riusciti o inefficaci che siano, di vite apparentemente strambe o insignificanti, in verità ritraenti semplicemente la stupenda, banale idiozia del vivere quotidiano di noi tutti.
In quanto, parafrasando il “mago” Peter Boyle di Taxi Driver, alla pari di Harry Fabian, chi più chi meno siamo tutti fregati.
Ma ognuno di noi, bando alle ciance e alle buoniste ipocrisie, adora essere un Great Pretender come la celeberrima canzone cantata da Freddie Mercury in questo, forse sottovalutato, La notte e la città.
di Stefano Falotico
La quarantena ci asfissiò ma io vidi i claustrofobici Sin City, Stardust e Mad Max: Fury Road
Mad Max: Fury Road, recensione
Ebbene, a distanza da circa cinque anni esatti dalla sua uscita, avvenuta in Italia esattamente il 14 Maggio 2015, proveremo a soffermarci, con più obiettività, sull’iper-acclamato Mad Max: Fury Road di George Miller.
Regista ovviamente della saga omonima, inaugurata nel lontano 1979 col primo capitolo, da noi ribattezzato Interceptor, della trilogia interpretata da Mel Gibson. Che qui trova il suo prosieguo, dopo trent’anni dall’uscita (1985) dell’ultimo, potremmo dire, episodio, ovvero Mad Max – Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome). Il personaggio oramai leggendario e iconico di Gibson viene rimpiazzato dal più giovane, corpulento e taurino Tom Hardy.
Ecco, se i succitati, precedenti capitoli furono, così come Mad Max: Fury Road, ottimamente accolti dalla Critica (anche se, a essere sinceri, il loro pieno apprezzamento fu riconosciuto un po’ tardivamente, sì, in là con gli anni rispetto alla sua release), essi non ricevettero però nessuna candidatura agli Oscar.
Soltanto Mad Max – Oltre la sfera del tuono, peraltro, vinse il Golden Globe per la Migliore Canzone originale, We Don’t Need Another Hero, scritta da Terry Britten e Graham Lyle. Ovviamente resa celebre della performance canora della mitica Tina Turner che, inoltre, nel film interpretò la celeberrima, inquietante Aunty Entity.
Mad Max: Fury Road, invece, ricevette un’accoglienza esaltante. Tant’è che, sui famosi aggregatori di medie recensorie, metacritic.com e Rotten Tomatoes, detiene tutt’ora votazioni altissime ed altissimamente entusiastiche. In più, Mad Max: Fury Road sbancò i botteghini e fu candidato alla bellezza di dieci Academy Awards, incluse le nomination per Miglior Film dell’anno e per la Miglior Regia. Incassando ben sei statuette dorate.
Anche se, va detto, le vinse quasi esclusivamente per le categorie tecniche.
Ora, dopo questo lungo preambolo, diciamo anche che Mad Max: Fury Road viene indiscutibilmente considerato quasi unanimemente un capolavoro. Non solo dai cultori di tale franchise storico.
Ecco, pur riconoscendone molti pregi, che vi citerò nelle righe seguenti, sono parimenti cosciente che m’attirerò molte antipatie e, probabilmente, se prestissimo leggerete la mia apodittica affermazione a riguardo del valore di questa pellicola, erroneamente considerata epocale ed opera capitale, unitamente agguerriti, accerchierete la mia casa, alla mia incolumità attenterete al fine di bruciarmi o linciarmi vivo nella maniera più disumana e bestiale. Provando in tutti i modi a decapitarmi.
Poiché, senz’alcuna vergogna e senza nessuno sprezzo del pericolo, impavidamente e con maggiore temerarietà di Tom Hardy stesso, il quale si esibisce in una prova recitativa che trasuda belluina forza grintosa, asserisco che Mad Max: Fury Road sia uno dei film più sopravvalutati del mondo. E a conti fatti, come si suol dire, decisamente non sia un granché. Anzi, non per fare programmaticamente il bastian contrario o per assumere un’iconoclastica posa snobistica, aggiungo perfino che Mad Max: Fury Road sia veramente brutto. A tratti inguardabile, soporifero, insomma di una noia mortale. Un film puerile, un pedestre spettacolone senza capo né coda terribilmente pasticciato, grossolano, in una parola una vaccata.
Prendendo in prestito l’arcinota iperbole di Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi, riguardante La corazzata Potemkin, sì, Mad Max: Fury Road è una cagata pazzesca!
Ora, forse sto esagerando e, con tutta probabilità, anche Paolo Mereghetti fu clamorosamente eccessivo nell’affibbiargli una sola, misera stelletta e mezzo nel suo famigerato Dizionario dei film, elevandolo solo leggermente nell’ultima edizione della sua stessa “Bibbia” cinefila, del suo mastodontico, prosopopeico vademecum da “critico dei critici”, portando le stellette a due.
A mo’ di contentino per non inimicarsi nessuno, cioè alzando impercettibilmente il suo voto da pagella scolastica per simpatia verso chi lo reputa oramai, per l’appunto, un caposaldo intoccabile del genere catastrofico-distopico e post-atomico.
Mereghetti, da sue lapidarie, mai smentite, testuali parole del suo editoriale del Corriere della Sera, lo definì soltanto… un eterno divertimento per bambini… ma divertimento non ce n’è neanche un po’. Il film continua imperterrito a vedere macchinette che saltano in aria, persone che si fracassano, gente che digrigna i denti e che respira, facendo strani rumori. No, non è questo il Mad Max che mi piaceva e sicuramente non è questo il Cinema che mi piace e mi diverte.
Può dispiacervi parecchio e Mereghetti non è di sicuro un personaggio simpaticissimo.
In tal caso, però, non ha tutti i torti. Anzi…
Mad Max: Fury Road non è certamente un videogame della Playstation in celluloide ma non è neppure questo meraviglioso filmone per cui tutti i cosiddetti avanguardistici cinefili delle filosofie postmoderniste più fintamente trasgressive, eh già, difendono a spada tratta, magnificandolo oltre ogni buon senso. Forse sono persone affette da sovreccitate smanie nei riguardi dei nuovi, facinorosi culti tribali di natura borderline più millenaristica.
Suvvia, plachiamo subito i facili entusiasmi, conteniamo immediatamente quest’esaltazione malata e distorta. Mad Max: Fury Road è sostanzialmente un filmetto. Né più né meno. Sì, ben poca cosa, soprattutto se paragonato ai più raffinati e, questi sì, innovativi e fantastici suoi eccezionali antesignani squisitamente deliranti e ipnoticamente mirabolanti.
Trama, ridotta all’osso, scarna e piena di personaggi mangiati vivi nel deserto del proprio miserabile destino da derelitti spellati da un clima più arido d’una sceneggiatura asciuttissima:
In una remota wasteland, cioè una terra desolata e al contempo, di traduzione italiana sui generis, una terra più desertica della Monument Valley dei western di John Ford, Max Rockatansky (Hardy) vaga infelicemente animalesco da una parte all’altra, gironzolando follemente senza meta, infilandosi fra una spelonca e l’altra, furtivamente insinuandosi e addentrandosi tra grotte rupestri assai tenebrose, fuggendo alla cattura di temibili mostri umanoidi, ridotti loro stessi, per l’appunto, pelle e ossa. Alla fine della sua disperata fuga, rimane penzolante sull’orlo di un sabbioso, sdrucciolevole dirupo.
Al che, dopo questo frenetico incipit vorticoso, partono i titoli di testa su musica rocciosa, granitica come Tom Hardy e veniamo, subito dopo, immersi nuovamente nell’azione colma di scemenze vigorose.
Il perfido e tirannico Immortan Joe (interpretato, sotto un trucco spaventoso ed orripilante da Hugh Keays-Byrne, nientepopodimeno che Toecutter d’Interceptor) controlla sadicamente la Cittadella. Fa sì che la povera gente, denutrita, quasi integralmente denudata e deperita, lo veneri come un dio e ossequi ogni sua malvagia, criminosa direttiva imperiosa, idolatrando anche la sua prediletta pupilla, l’Imperatrice Furiosa (Charlize Theron).
Metaforicamente, la gente si abbevera alla fonte della sua pazza, ingannevole saggezza poiché Immortan Joe ha il controllo degli acquedotti e senza il suo permesso, dunque, la gente non può rinfrescarsi le labbra. Di conseguenza, morendo dissetata.
In questo scenario da clima torridamente equatoriale ove il sole incalzante divampa scottante a ogni ora del giorno, provocando sulle epidermidi umane delle bruciature sempre più devastanti, procede la vicenda di questo film così tanto visivamente scoppiettante quanto, onestamente, poco appassionante.
Cosicché Max, continua per 2h abbondanti a scappare dai Signori della Guerra, vale a dire i servi quassi zombi dall’aspetto putrescente al servizio del malefico Immortan Joe, alleandosi con Furiosa per fare piazza pulita di tutti i cattivoni odiosi.
Sì, la trama è solamente questa ed è davvero un’inezia portentosa.
Un impari sciocchezza grottesca ove George Miller, un tempo director impareggiabile, per distrarci dal suo stile e dalla sua poetica, qui, inconcludenti, si avvale di una satura fotografia eccessivamente policromatica di John Seale, essiccando ogni buon proposito contenutistico a favore invece di una spasmodica azione interminabile che, come detto, incendia e quindi velocissimamente spegne ogni pazienza dello spettatore più intelligente e smaliziato dopo solo mezz’ora di un film, ripeto, sovrastimato oltre ogni decoro possibile e immaginabile.
Appiattendo l’enorme, suggestivo suo immaginario visionario in un guazzabuglio tanto esteticamente affascinante quanto, alla fine dei conti, del tutto vuoto e inconsistente.
Per correttezza, comunque, va detta un’ultima cosa:
forse, non saranno attendibili le stellette del Mereghetti così come la mia recensione è probabile che sia un po’ provocatoria ma chi scrisse l’articolo sottostante merita che gli si cucia la bocca alla pari di Tom Hardy in quest’immagine oramai entrata nella Storia:
https://it.videogamer.com/2015/05/22/mad-max-fury-road-e-un-videogioco-e-annoia-se-mereghetti-ha-ragione/
Eh sì, avete capito? Mad Max: Fury Road è “un videogioco e annoia?” Se Mereghetti ha ragione.
Se Mereghetti avesse (avuto) ragione forse sarebbe stato un italiano meno barbarico?
Concludo così…
Mereghetti, data la sua età non propriamente floridissima di primavere da giovanissimo, deve aver perso qualche colpo, inevitabilmente. Va altresì aggiunto che questa nuova “leva” di critici dovrebbe tirarsela assai meno, finendola di fare gli smanettoni.
Ok, boomer?
Ebbene, oggi recensiamo Stardust. Sublime fantasy altamente romantico e, sotto ogni punto di vista, strepitosamente fantastico. Una miscela ottimamente congegnata che vola intrepidamente alata sulle cadenze avventurose d’una sognante levità mirabolante e deliziosa.
Seconda, inaspettatamente stupefacente opera di Matthew Vaughn (Kick-Ass, X-Men – L’inizio, Kingsman), qui al suo esordio hollywoodiano per la Paramount Pictures, dopo l’apprezzato The Pusher con Daniel Craig, Stardust uscì sui nostri schermi nell’Ottobre del 2007 ma, soltanto quest’anno, è finalmente disponibile in una pregiata, italiana edizione in Blu-ray contenente esclusivi contenuti speciali per collezionisti di razza e immancabili affezionati alla Settima Arte più delicatamente sofisticata.
Liberamente adattato dall’omonima novella illustrata di Neil Gaiman da parte dello stesso Vaughn e Jane Goldman, Stardust dura due ore e sette minuti e ricevette una buona accoglienza da parte di Critica e pubblico. Su Rotten Tomatoes, per esempio, famoso sito aggregatore di medie recensorie, a tutt’oggi può vantare il 76% di critiche estremamente lusinghiere.
Stando agli standard attuali, Stardust non costò neanche tanto, vale a dire soltanto 70 milioni di dollari. Sì, soltanto, poiché si tratta di una cifra relativamente esigua e non certamente astronomica se paragonata a film di questo tipo, ripetiamo, tutt’ora in voga. Gli incassi inoltre, sebbene non esaltanti, ricoprirono ampiamente le spese e Stardust, per molte settimane, primeggiò al box office in Inghilterra e in Irlanda. Piazzandosi in vetta come imbattibile campione del botteghino britannico.
Altrove, invece, riscosse assai meno successo.
Addirittura, da noi fu perlopiù ampiamente snobbato e non poco trascurato perfino dall’intellighenzia critica.
L’unico a rimanerne ben impressionato fu Paolo Mereghetti che, nel suo celeberrimo Dizionario dei film, lo definì «una straordinaria cavalcata sulle ali dell’immaginazione». Mentre, nel suo editoriale del Corriere della Sera, scrisse testualmente quanto segue: c’è ancora un pubblico disposto a dar credito a un film di questo tipo? Istintivamente direi di no: per troppo tempo l’industria cinematografica, con Hollywood in testa, ha appiattito l’immaginario giovanile dentro a schemi previsti e prevedibili, dove la fantasia era una specie di optional da dimenticare. Meglio investire in costosissimi effetti speciali o moltiplicare all’infinito la velocità del montaggio piuttosto che sforzarsi di coltivare l’immaginazione e la libertà creativa. Col risultato che oggi buona parte del pubblico è più reattiva a certi cast altisonanti e a certi effetti destabilizzanti (violenza, adrenalina e sangue su tutto) che alle sollecitazioni della creatività, come è invece la strada che cerca di percorrere Stardust. Resta solo la speranza che, tra film popcorn e fiction televisive, il «fanciullino» che ognuno si porta dentro non sia ancora del tutto anestetizzato.
Sì, parole assolutamente condivisibili poiché Stardust è un grande film. Così come, d’altronde, lo è Hugo Cabret di Scorsese. E se i cosiddetti adulti, probabilmente mal cresciuti e “disidratati” per colpa del piattume delle loro grigie vite metodicamente, quotidianamente, competitivamente ripetitive, asfissianti, morbose e noiose, non vorranno apprezzarlo, sicuramente rigetteranno, così facendo, la loro anima più gustosamente onirica e fantasiosa, avendo capziosamente abdicato a stili e dettami di vita falsamente morigerati e dunque miserrimi, terribilmente sganciati dal purissimo, vivido, lucente sogno innervato di dolce e pugnace venustà fulgida e cristallinamente roboante.
Il Cinema, infatti, è sogno, è poesia in immagini.
Se dimentichiamo questo semplicissimo assunto, automaticamente disconosciamo noi stessi, ripudiando la nostra arcana anima ardimentosamente squillante, spegnendola nell’inaridimento e nel più bieco cinismo deprimente.
Anche se forse non siamo più né bambini né adolescenti, reconditamente dalle nostre profondità primigenie, ancora non del tutto oscuratesi nel vacuo, borghese intristimento, è necessario che disseppelliamo e innalziamo coraggiosamente gli stupendi, liberi sogni colorati, commuovendoci nuovamente dinanzi alla beltà serena di stellati firmamenti e di arcobaleni magicamente pigmentati di dolce e romantica, battesimale armonia luccicante.
Trama:
Nell’Inghilterra del 1800, cioè in piena epoca vittoriana, abita Tristan (Charlie Cox), modesto garzone figlio di un uomo, Dunstan Thorn (Ben Barnes da giovane, Nathaniel Parker da adulto), il quale fu l’unico che, impavidamente, riuscì a entrare a Stormhold, eludendo la sorveglianza di un saggio vegliardo (David Kelly) atto a presiederne il muro di cinta. Tristan, pur di conquistare la sua amata Victoria (Sienna Miller), promette a costei di regalarle una stella, forse in carne e ossa, Yvaine (Claire Danes). Yvaine, però, è già promessa sposa all’avido, azzimato signorotto belloccio e mascalzone di nome Humphrey (Henry Cavill). Malgrado ciò, Tristan s’imbarcherà, con tanto di veliero volante, lungo una landa pullulata da fattucchiere doppiogiochiste e principi malvagi, incontrando ambigui capitani di ciurme ridicolmente piratesche, sfidando perfino sé stesso pur di conquistare il cuore della sua bella.
Che dire? Stardust è magia adamantina, un film che riesuma il migliore Cinema degli anni ottanta dei fantasy avventurosi e inventivamente creativi. Fregiandosi di un cast a dir poco impressionante ove, ai già succitati Cox, Miller, Danes, Kelly, Barnes e Cavill (questi ultimi in due brevissimi cammei di lusso), svettano le prove di una Michelle Pfeiffer straordinaria in versione stregonesca (memore forse, nella sua recitativa variazione sul tema, della sua performance ne Le streghe di Eastwick), un memorabile e gigantesco Robert De Niro nelle farsesche, esilaranti ed esuberanti vesti di Captain Shakespeare, un ghignante e perfido Mark Strong as Principe Septimus, Jason Flemyng, Kate Magowan, Rupert Everett, Ricky Gervais, Peter O’Toole, la piccolissima partecipazione del regista Dexter Fletcher e la voce narrante, nell’edizione originale, di Ian McKellen.
Curiosità: Charlie Cox, come sappiamo, è diventato Daredevil nell’omonima serie tv targata Netflix.
Mentre Ben Barnes è stato il villain Billy Russo nel “gemellare” The Punisher con Jon Bernthal.
Sin City, recensione
Oggi, recensiamo Sin City.
Film di due ore e quattro minuti del 2005.
Sin City è tratto dall’omonimo graphic novel di Frank Miller. Che, oltre ad essere autore di tale trasposizione cinematografica, assieme a Robert Rodriguez n’è stato regista. Con la partecipazione straordinaria di Quentin Tarantino, accreditato come guest star director.
A tutt’oggi, sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com, conserva un’ottima votazione, ovvero il 74% di pareri estremamente positivi e, ai tempi della sua uscita, infatti, oltre ad essere apprezzato dalla Critica, malgrado non avesse totalizzato incassi stratosferici, piacque generalmente molto al pubblico. Rivelandosi una perfetta, suadente e fascinosa miscela di live action e animazione grafica fantasiosamente ben concepita e di sicuro, ammaliante impatto visivo.
Copia-incolliamo qui l’assai sintetica ma pertinente trama inserita su IMDb che, nella sua assoluta brevità, senza troppi fronzoli e pedanti descrizioni minuziose e superflue in barboso stile Wikipedia, riproduce esattamente in nuce il fulcro della vicenda narrata, anzi, delle microstorie intersecate fra loro in modo morbidamente avvolgente e ipnotico.
Sin City, difatti, pur essendo stato girato prevalentemente in un b/n, potremmo dire, bizzarro e spettrale, irresistibilmente accattivante, contiene molte sequenze ove la fotografia, peraltro firmata dallo stesso Rodriguez, cangia in una sfumata policromia seduttivamente fosca e cristallina, ammantando la pellicola, con questa magica malia tenebrosamente atmosferica, d’incantevoli suggestioni torbide e lugubri assolutamente in linea col tetro e al contempo luminescente clima che ci viene malinconicamente profuso.
Un film, potremmo dire, di natura claustrofobica, immerso in ambientazioni melmose, fra interni di case fatiscenti, periferie degradate, quartieri lerci e malfamati e bar ove pullulano, ubriachi, strafatti perdenti amabili e simpaticissimi contrabbandieri della propria anima bruciata o soltanto nei propri cuori scheggiata.
A movie that explores the dark and miserable town, Basin City, and tells the story of three different people, all caught up in violent corruption.
Ecco allora che, a prescindere dal prologo, intitolato Il cliente ha sempre ragione, entriamo nel vivo dell’azione. In medias res arabesca di storie in formato matriosca che, nel secondo capitolo del film, Sin City: Una dama per cui uccidere, assumeranno una definitiva coagulazione filmica. Perciò, partiamo subito con Quel bastardo giallo. Ovvero la triste ma intrepida peripezia del coriaceo, misterioso poliziotto John Hartigan (un Bruce Willis dall’espressione eternamente accigliata e impassibilmente torva ma al contempo dolce da duro innamorato dal cuore tenero che, grazie a un gioco di occhiate carismatiche d’annata, vale tutto il prezzo del biglietto e dunque della sua magnifica performance di strepitosa sordina). Il quale salva una bambina di nome Nancy (Makenzie Vega da piccola, Jessica Alba da grande) dalle grinfie di un maniaco pedofilo, Roark Junior (Nick Stahl).
Hartigan, malgrado il suo prode gesto salvifico da uomo figlio di un’era dimenticata e sentimentalmente nobile, viene ingiustamente arrestato e sbattuto in gattabuia per circa un decennio. Una volta scontata la sua pena, incontra nuovamente Nancy che, nel frattempo, è diventata una bellissima ragazza assai sexy che si esibisce in un night club frequentato perlopiù da bavosi fuori di testa.
Nancy è da sempre innamorata del suo salvatore e anche Hartigan, nonostante la grande differenza d’età che lo separa da Nancy, è atavicamente attratto da lei poiché onestamente, essendo costei la personificazione di una Lolita irresistibile, incarna ogni recondita, maschile fantasia proibita.
Cosicché, sebbene Hartigan sia l’emblema del macho man che non deve chiedere mai, alla fine si scioglie piacevolmente e, cullato dai caldi e lievi baci di Nancy, viene avvolto fra le sue gambe dietro le tendine di un nero appartamento ficcato nella notte più svenevolmente, focosamente ardimentosa.
Mentre il pazzo scatenato non è ancora stato fermato e riesce, poco dopo, a prendere in ostaggio la povera Nancy per seviziarla immondamente.
Come andrà a finire?
Dopo il durissimo, appena citato episodio del tosto ma delicatissimo Hartigan e della sensualissima Nancy, neanche a farlo apposta, abbiamo l’episodio chiamato Un duro addio.
Ove il super freak e disgraziato mai visto dal viso assai sfregiato di nome Marv (un debordante Mickey Rourke in parte come non mai), terminato di avere una notte di sesso selvaggio con l’unica donna che l’abbia mai amato, cioè Goldie (Jaime King), scopre che lei è stata barbaramente trucidata. Al che Marv, costernato e distrutto dal dolore, grida al cielo, immediatamente, atroce vendetta. Fra le umide, puzzolenti e sporche strade della corrotta Basin City, dopo aver incontrato Lucille (una Carla Gugino che si esibisce in un memorabile, plateale, stupendo topless da incorniciare nel quale si mostra generosamente in tutta la sua vellutata avvenenza superba) che, per l’appunto, inutilmente prova a dissuaderlo dal vendicarsi, a dispetto di tutti i buoni consigli elargitigli, Marv si getta a capofitto fra i vicoli ciechi e olezzanti di questa metropoli di luridi bastardi. Ovviamente, in cerca del colpevole e dei complici da punire severamente, in maniera ferina e cruenta oltre ogni dire. Entrando in contatto con gli avanzi più miserabili della città, gettandosi a capofitto, fra bevute, risse e pugni senz’esclusione di colpi, nel vivido cuore pulsante della sua stessa rabbia da irruento, bestiale loser in cerca di giustizia. Lanciandosi spericolato nei meandri, potremmo metaforicamente dire, d’una labirintica, sanguinaria revenge tonitruante che profumerà forse d’autoassolutoria catarsi struggente e si tingerà di cremisi sfumature emozionali, come per il precedente episodio, ancora una volta poderosamente e commoventemente romantiche.
Infine, Un’abbuffata di morte: la poco di buono Shellie (Brittany Murphy) viene tormentata dal suo ex, lo sbruffone e zotico, corpulento Jackie Boy (un Benicio Del Toro ispiratissimo) che, coi suoi maneschi scagnozzi, fa irruzione in casa della ragazza. Shellie però non è sola, bensì si trova in compagnia del suo attuale boyfriend Dwight (Clive Owen). Un uomo affascinante ma terribilmente stronzo.
E ci fermiamo qui per non rovinarvi le sorprese. Diciamo soltanto che la piccola ma mirabolante, allucinatoria scena lisergica fra Dwight e Jackie Boy, girata in macchina, è ad opera di Quentin Tarantino.
Che dire di più? Sin City, a distanza di quindici anni dalla sua uscita, conserva intatto il suo enorme perché. Insomma, un film che sa, eccome, il fatto suo. Girato da dio e recitato, possibilmente, ancora meglio. Un film che, nonostante la notevole durata, non annoia quasi mai e si lascia vedere tutto d’un fiato.
L’unica critica vera che possiamo muovergli contro sono le voci narranti. Sicuramente troppo insistite e forse non poco eccessive in alcuni punti.
Ma è un dettaglio, comunque, piuttosto trascurabile.
Sin City: Una donna per cui uccidere, recensione
Oggi, a distanza di sei anni dalla sua uscita nelle sale italiane, avvenuta il 2 Ottobre del 2014, recensiamo Sin City – Una donna per cui uccidere (Sin City: A Dame to Kill For).
Seguito del fortunato e acclamato Sin City, n’è anche il prequel. Ovviamente, come il precedente, è diretto da Robert Rodriguez (Dal tramonto all’alba, Machete) in concomitanza con Frank Miller, autore del celeberrimo graphic novel omonimo.
Stavolta, la trasposizione cinematografica n’è un adattamento parzialmente originale poiché, constando di quattro episodi, solamente due di essi sono stati ricavati dalla succitata serie fumettistica. Gli altri due, invece, sono stati originalmente creati ex novo.
I personaggi, inoltre, raddoppiano. Se nel primo, infatti, la vicenda verteva principalmente su tre personaggi, qui ne abbiamo esattamente il doppio, cioè sei. Sin City – Una donna per cui uccidere dura un’ora e quarantadue minuti.
Possiamo, brevemente, sintetizzare la trama in questi termini:
l’avvenente e da tutti i gonzi della città del peccato assai bramata spogliarellista di nome Nancy (Jessica Alba) intrattiene, coi suoi balli sensuali, gli avventori di uno squallido night club malfamato, frequentato perlopiù da ubriaconi malfidati.
Nancy, nonostante si esibisca in danze peccaminose e piccanti, mostrandosi conturbante e ammaliando la sporca clientela con le sue provocanti mosse feline molto arrapanti, non riesce a dimenticare il suo defunto amante, Hartigan (Bruce Willis che ricompare, fantasmatico, in un’apparizione lugubre durante una plumbea notte densa del suo vivissimo ectoplasma tenebroso, memore del suo macho duro dal cuore tenero e di lei, perfino dall’oltretomba, infinitamente innamorato).
Nel frattempo, Nancy viene protetta dal gigantesco Marv (Mickey Rourke), un debosciato dal viso sfregiato e deforme che, fra risse, bevute e medicinali inghiottiti per tentare di sanare il suo cervello malandato, si trascina stancamente, eppur sempre combattivo e col fisico prestantemente taurino, in tale cupo e lercio sottobosco di guerci e prostitute di basso bordo. Un covo luciferino di gente arida di sentimenti e priva di nobili intenzioni. Insomma, gente miserabilmente meschina.
Ecco che nel locale giunge anche un azzimato e ambizioso giovincello sbruffone, Johnny (Joseph Gordon-Levitt). Il quale, mosso da una bramosa cupidigia, sfida incoscientemente a carte il perfido e sadico senatore corrotto sino al midollo, l’avido e truffaldino, malavitoso e potentissimo senatore Roark (Powers Boothe). Lo batte, umiliandolo dinanzi ai suoi bravi. Scatenando in Roark una cattivissima ira vendicatrice.
Nel bar di questa nerissima metropoli assai sudaticcia, fa capolino anche il disilluso Dwight (Josh Brolin, che rimpiazza Clive Owen). Il quale viene ancora una volta fatalmente adescato dalla sua odiatissima e al contempo eternamente amata Ava Lord (Eva Green), l’irresistibilmente fascinosa dama letalmente tentatrice e maliziosamente un po’ meretrice che dà il sottotitolo al film.
Come andrà a finire?
Sin City – Una donna per cui uccidere, ai tempi della sua release, fu meno apprezzato del film precedente. Incassando assai meno rispetto, per l’appunto, al capostipite e deludendo buona parte della Critica che accusò il film di essere soporifero e troppo pedante nelle sue prolisse digressioni con le sue esageratamente insistite voci fuori campo. Voci off che furono comunque il marchio di fabbrica vincente del primo capitolo.
Come appena detto, gli incassi delusero le aspettative tanto da indurre i produttori a dover rinunziare a un potenziale, ulteriore seguito.
Peraltro oramai impossibile, anzi, impensabile a meno che i diritti di queste due trasposizioni, detenute dall’ex padrone della Miramax, il disgraziato Harvey Weinstein, non vengano acquistate da qualcun altro, semmai un azzardato benefattore. Ipotesi alquanto remota e poco realistica, a essere sinceri.
Sin City – Una donna per cui uccidere, a nostro avviso, si lascia vedere invece piacevolmente poiché ancora una volta Rodriguez ci stupì con la sua calibrata e morbida mistura di live action e riprese avvolgenti coagulate a un bianco e nero nuovamente sorprendente. Vitreo e struggente.
Non è all’altezza del primo ma Sin City – Una donna per cui uccidere ha comunque i suoi suggestivi, notevoli momenti da ricordare.
Nel cast anche Rosario Dawson e un appesantito Ray Liotta. Cammeo di Lady Gaga.
di Stefano Falotico
TORNARE A VINCERE (The Way Back), recensione folle del film con Ben Affleck prima di quella seria, coming soon
Ebbene, ho dovuto pagare 4,99 Euro per vedere questo film su YouTube. Peraltro in definizione non a 1080p. La Warner Bros, infatti, a causa del Covid-19, optò per una distribuzione in streaming su varie piattaforme, fra cui l’appena sopra menzionatovi Tubo.
Se preferite, rivolgetevi a Chili. Non con carne ma pagando un po’ di più. Ecco, Ben Affleck in questo film appare sovrappeso. Anzi, non sembra con qualche chilo in più, lo è. Ma l’ingrassamento non fu dovuto al fatto che si recò da Burger King, bensì alle sue recenti crisi depressive che lo indussero, anziché ad ingozzarsi di bacon, pur sviluppando una pancetta notevole, ben meno piatta di quella di carne magrissima esibita dal protagonista di Footloose, a essere ricoverato a causa del suo sprofondamento nel vizio alcolico più smodato. Palliativo e alibi di natura poco etica ma etilica per compensare i vuoti interiori di Ben indottigli dalle troppe donne che gli gravitarono attorno e ancora lo distraggono dalla recitazione. Dunque, psicologicamente lo distruggono e lo deturpano nell’animo.
Gwyneth Paltrow, una che ora vende i prodotti vaginali, Jennifer Lopez, una capace col suo fondoschiena assicurato di dirti… levati di culo se la tua performance a letto non è da Armageddon, Jennifer Garner, una che Affleck sposò e lo rovinò. Sì, l’amore è più cieco di Daredevil, film per cui Ben e la Garner si conobbero e a Ben mal ne sortì. Ah, malasorte o forse “mala sorca”. Tant’è che, secondo me, la Garner già lo tradì sul set di Dallas Buyers Club con un Matthew McConaughey, stallone da rodeo, probabilmente ammalatosi di HIV dopo aver fatto all’amore con Jennifer. Una che non sarebbe coniugalmente affidabile neanche se avesse come amante un redivivo Freddie Mercury. E ho detto tutto.
Ben Affleck, qui, ritorna a recitare seriamente. Facendosi perdonare da tante scelte sbagliate, professionalmente parlando e non solo, anche per l’appunto sentimentali, che giocoforza fuorviarono la sua brillante carriera inizialmente ben avviata. Ovviamente, Ben fu benissimo avviato, quindi si svitò, fu svitato ed è forse oggi riavvitato. Anche ravvivato. Vinse l’Academy Award per la sceneggiatura di Will Hunting.
Oserei dire che fu rivitalizzato e non è ancora del tutto naufragato e appesantitosi bolsamente in modo irrecuperabilmente restaurabile.
Tornare a vincere è dunque un film ricalcato da Gavin O’Connor sul percorso autobiografico del Ben dell’ultima decade. Decennio che lo vide vincere l’Oscar per Argo, indossare i panni di Batman, cimentarsi alla regia con ottimi risultati, svilendosi però al contempo nei suoi vitali slanci più esuberanti.
Ben non credette più alla sua Generazione X e al Dogma di Kevin Smith. Perdendo la verve sua congenita da marpione un po’ sanamente porcellone. Intristendosi nella melanconia più arida. Insomma, non si diede più delle arie e divenne serioso al massimo. Così serioso da farsi crescere la barba da uomo trascurato quasi barbone trasandato.
Si narra nel film della storia di Jack Cunningham, promessa della pallacanestro, cioè indiscusso campione di basket e studente modello che, in seguito a fortissime delusioni ricevute, dopo tanti microtraumi emotivi giammai superati, fra cui la separazione dalla sua amata e la perdita tragica del figlio, vivacchia alla giornata, bevendo come una spugna in modo smodato. E fa anche il maleducato!
Al che, dal suo parroco preferito, gli viene chiesto di tornare in campo, metaforicamente e agonisticamente parlando. Affinché alleni un gruppo di scalcagnati teenager amanti forse del Michael Jordan che fu. Jack, dopo una nottataccia trascorsa, come al solito, a ubriacarsi esageratamente, accetta, seppur inizialmente riluttante, la proposta di salvezza, potremmo dire, offertagli in sacrificio? No, a redenzione santificante ogni suo peccato passato. Chissà se imperdonabile. Veniale, volontario o, come detto, consequenziale alla sua indole propriamente non impeccabile.
Cosicché, quest’uomo smarritosi, dentro rottosi, stancatosi forse di traviarsi o di essere fregato dal mondo ingrato, quest’uomo assai fottuto e spacciato, vilipeso in modo screanzato, decide con coraggio di vincere la sua sconfitta esistenziale, comunque già irreparabilmente avvenuta, vivificandosi nel donare alle giovani speranze il sogno di una vittoria scacciapensieri. Rilluminando sé stesso con le pupille lucide dalla commozione e spronando i suoi pupilli all’azione e alla reazione. Loro che vivono un’età problematica e piena di complicazioni. Fatta di angherie, bullismi, prevaricazioni, vite programmate da genitori tromboni che li vogliono, non solo nello sport, amabili campioni e futuri, noiosi dottori dei nostri stivali. Che coglioni fintamente sapientoni!
Jack ce la farà nella sua missione o sarà soltanto una passeggera, inafferrabile seppur magnifica illusione l’aver ottenuto, probabilmente non la grazia, ma la giusta gratificazione? Otterrà, cioè, la sua purificazione?
Il titolo originale di Tornare a vincere è The Way Back. Lo stesso dell’identico, per l’appunto, film di Peter Weir con Colin Farrell e Ed Harris. Attenzione, ignorantoni da istruire e alfabetizzare con le mie severe lezioni di grammatica e di vita, dopo la e di congiunzione, se un nome proprio (e non) inizia conl’ed eufonica, non voglio leggere roba come ed Ed Norton, attore non de L’attimo fuggente, bensì de La 25ª ora. You understand?!
Ah, quante ne vidi nella mia vita da ex calciatore. Adolescenti che ironizzarono sul mio essere più dotato, negli spogliatoi, rispetto ai loro pulcini microcefalici e sottosviluppati. Rispettate!
Vidi adulti pure adulterini, solamente però all’anagrafe e agli atti “puri” non cornuti o forse sì, inveire sui ragazzi disoccupati, urlando solo loro di crescere e di adattarsi ché la vita è dura per tutti e dunque bisogna esigere, anche erigere, regole fascistiche. Alcuni, non sopportando queste cape toste, mal digerendo queste illecite, ricevute batoste, respingendo i maltrattamenti arbitrari a loro imposti, finirono in rehab e furono sedati. Luoghi riabilitativi non per alcolizzati cronici come Ben/Cunningham, bensì centri di salute mentale per assumere psicofarmaci su pasticche Chrono. Ah, basta con le persone pietistiche ma anche con gli stronzi. E che cristo! Vidi alcuni di questi soccombere dinanzi alle ingiustizie poiché, invalidati dai medicinali troppo debilitanti, non riuscendo più a rimettersi in carreggiata, elemosinarono compassione in maniera patetica. Chiedendo allo Stato l’assistenza sociale o credendo alla Chiesa. Vidi anche uno con la prosa di David Foster Wallace distruggere l’intero apparato psichiatrico, sputtanando tutto il sistema con un libro disponibile su Amazon e Ibs.it. Acquistabile anche su Libreria universitaria online, ovvero Dopo la morte. Costui è uno “sfigato”, un emarginato, un pasoliniano, un ghezziano preso in giro perché scrive perfino noir erotici scabrosi eppur veritieri, addirittura scritti meglio rispetto ai romanzi di Umberto Eco. Uno che, in piena notte, è capace di fare mille flessioni senza accusare la fatica. Che dite? Ce la fate ora a distruggerlo o cominciate davvero a perdere la partita?
Eh sì, dovreste dire la verità ai vostri figli. Non mentendo più a voi stessi riguardo le vostre porcate coperte dalla maschera di ciò che chiamate dignità. Foste frequentatori dell’alcolisti anonimi perché brutti, psicopatici e impotenti. Al che trovaste una racchia che vi catechizzò, obbligandovi a iscrivervi a un serale di qualche scuola magistrale-pedagogica poiché, non essendo cagata da nessuno, almeno volle accanto a sé un demente col diploma per potersi spacciare per educatrice intellettuale. Contenti ora? Che dite? Ne avete prese abbastanza o ne volete di più? Andate a costituirvi, malfattori, diseducatori e criminali idioti. Non vorrei che, dopo il 25 Aprile, Festa della Liberazione ma anche compleanno di Al Pacino, vi svegliaste con una testa di cavallo insanguinata nel letto come nel Padrino.
Soprattutto, non fatemi incazzare come Walt Kowalski di Gran Torino.
Intanto passeggiando… me ne fotto! E molte soddisfazioni vado intascando, dando soddisfazione a chi merita il mio scopandola. Non sono un maestrino che vuole dare lezioni ma esigo l’erezione poiché, rierto, spingo ancora di ottima prestazione. Come quella di Pen’, no, di Ben.
di Stefano Falotico
di Stefano Falotico
Batman v Superman: Dawn of Justice, recensione in forma di testamento contro ogni testa che ama questo film mortale
Ebbene, prima o poi lo vidi. Cioè, nelle scorse ore. Dissentendo totalmente da Paolo Mereghetti che, nel suo editoriale sul Corriere della Sera, tre anni fa perfino lo apprezzò, definendolo un “giocattolo” che funziona, ingiuriando invece C’era una volta a… Hollywood, da lui reputato l’opera di un bambino, ovvero Tarantino, troppo amante dei suoi giocattoli, io asserisco in pompa magna, con tanto di mantello rosso e mia mente corazzata più dell’armatura di Bruce Wayne/Batman, che tale film è un obbrobrio che, con la scusante delle pretese filosofiche, è in verità un monumento new age che lecca il culo alla bellezza fintamente virginale di Henry Cavill. Uno capace d’ipnotizzare, con la sua arcata sopraccigliare e gli occhi scuri da tenebroso, sia una delle più grandi fighe del mondo, cioè Amy Adams, che un’altra donna indubbiamente avvenente e seducente ma al contempo maliziosa come una monella meretrice, ovvero Gal Gadot/Wonder Woman.
Ora, non sindachiamo di cavilli, Henry Cavill è un po’ stempiato ma è un bell’uomo nonostante abbia, rispetto all’anno di uscita del film preso in questione, meno capelli ma probabilmente più soldi del figlio di Thomas Wayne.
Questa recensione, inoltre, è piuttosto seria sebbene possa essere, apparentemente, scambiata per una trollata da Lex Luthor/Jesse Eisenberg. Il quale, in barba a ogni lezione di recitazione appresa da Woody Allen, qui gigioneggia a briglia sciolta ma non possiede la classe istrionica del grande Gene Hackman.
Ben Affleck, nei primi minuti del film, sicuramente manda in brodo di giuggiole tutte le donne, pure le sue detrattrici poiché, in giacca e cravatta da signore distinto ottimamente mantenuto, fa la sua porca figura, come si suol dire. Dunque, verso la metà del film, si spoglia a torso nudo, mostrando pettorali invidiabili da spot platinato di Paco Rabanne. Spinge anche di tartaruga micidiale nonostante qualche ruga dissimulata in un’espressione torva da uomo che aggrotta la fronte per ammiccare al gentil sesso, fingendo che non sia ammaccato più della sua Batmobile.
Lex Luthor viene smascherato, dunque moralmente denudato e arrestato. A cranio rasato, nel finale delira con fare allucinato e rimane totalmente inchiappettato. Forse, in un sequel da qualcuno ipotizzato, sarà da qualche negro alla Luke Cage, fra le sbarre, ancora di più sodomizzato.
Un vero mascalzone che ha meritato di essere punito da ogni cazzone in modo estremamente cazzuto. Insomma, un (in)castrato, uno spacciato fottuto.
Dunque, fra una Gadot scosciata, una Diane Lane orribilmente truccata e mal invecchiata, un Kevin Costner sovrappeso e imbolsito, un Fishburne mal utilizzato e un Cavill morto ammazzato (sì, questo è un super spoiler, vale a dire il nemico atroce di ogni purezza cinefila migliore di Kal-El), l’unica cosa che avremmo voluto vedere, per rendere meno tenebrosi i nostri pipistrelli, sarebbero state le cosce rosee della lentigginosa, stratosferica rossa Amy Adams.
Una che, a prescindere dalle regalate nomination agli Academy Awards da lei intascate, è sposata con una bella statuina ma non è stata ancora oscarizzata. Malgrado ogni uomo voglia sposarla. E, se ciò non è possibile poiché il marito potrebbe sbattervi al fresco come Luthor, perlomeno un uomo normale, anche non super dotato come Superman, vorrebbe sinceramente scoparla.
Sì, Amy Adams rende ogni uomo un Doomsday. Trasforma ogni essere creaturale dallo sguardo languidamente candido in un bestione alla King Kong.
Ecco, non voglio qui parlarvi della trama di tale film che merita solamente una disamina irriverente, screanzata e cattivamente smodata.
In molti, addirittura l’hanno acclamato e in gloria elevato. Per forza, sono più esaltati, ritardati e psicopatici di Luthor. Onestamente, è un’enorme stronzata. Un film dal passo lentissimo, pesantissimo, retorico a dismisura.
Un film che vorrebbe essere titanico ma, già dopo la prima mezz’ora, fa sì che ogni spettatore intelligente, incazzandosi a morte di fronte a una marea di cazzate così peraltro pasticciate e sciattamente mescolate, necessiti subito di un’antitetanica. Sì, Zack Snyder andrebbe sedato nel deretano, andrebbe contenuto e sottoposto immediatamente a psicofarmaci devastanti. Non si arrabbiasse e non latrasse come un cane strangolato. Costui va moderato e contenuto. Mi pare che si stia sputtanando troppo. Questo qui s’è giocato il cervello in modo assoluto. È un regista dissoluto e da me non sarà giammai assolto né scagionato dall’averci propinato questo film decisamente indecoroso. Uso un eufemismo, altrimenti diverrei davvero iracondo, inverecondo! Un film che induce alla sciolta, a dispetto delle caviglie meravigliosamente vellutate della strepitosa Adams, una che fa invece immantinente venire voglia. Sì, Amy ti fa diventare duro e nessuna Kryptonite potrà disintegrare la vostra libido granitica. Questa donna dal fondoschiena rassodato, dalle gambe suadentemente tonificate e tornite, questa donna per cui salveresti il mondo pur di gustare le sue labbra col rossetto pittate, arrossendotelo con lei in vasca da bagno con tanto di rose regalatele, ah, che delizia questa donna dal sapore liquirizia.
Cosicché, d’effluvio e fluido liquidamente romantico da innamorato soprattutto assai sessualmente accalorato, saresti davvero con lei un Dio greco come Superman. Tutto infervorato. Forse, Amy ha il tallone d’Achille o solo delle splendide caviglie, credo anche che sia un po’ scema ma sguscerete, dirimpetto al suo ambaradan, di notte, dal vostro cavallo di Troia.
Chi ama questo film, invero, dalla vita è stato fregato e oramai si dà alle favole e ai cine-fumetti. Sbattetevene dei fanatici di questa robaccia. Abbiate cura solo della Adams. E, se qualcuno potrà battervi, che vi frega? Intanto, ve la sarete sbattuta. Poi, potrete anche rimanere soli come dei cani alla maniera di Arthur Fleck/Joker, osservando malinconicamente il plenilunio mentre ve lo scrollerete, no, vi scolerete… una spremuta. Ficcandovi poi nel frigorifero.
Basta, veramente non se può più di questi film buonisti, falsamente ecumenici ed educativi alla pace fraterna fra i popoli. Il mondo è sbagliato, i ricchi diventeranno sempre più ricchi, gli oltraggiati resteranno sfregiati, i disoccupati finiranno, come sempre, col suicidarsi. La sporcizia vincerà, la corruzione impererà, spopoleranno gli educatori di questo paio di coglioni, gli psicologi vorranno ammaestrare la gente alla bontà zuccherata e impasticcata. Chi ha sbagliato, vorrà pulirsi la coscienza e mettersi l’anima in pace. Tifando ipocritamente per le infelicità stupidamente restaurate in un’agghiacciante, questa sì, spettrale contentezza politicamente corretta, bugiardamente ritrovata. Ma quali anime smacchiate! E non si potranno evitare altre tragedie mostruose e annunciate.
Questo è quanto. Dio è morto. E vuole rimanere così, nel suo Paradiso non svezzato, senza imborghesirsi, senza abbisognare di laurearsi per accontentare la medietà conformista, non vuole avere amori frivoli lontani dalla poetica di Lars von Trier, vuole essere l’idolo delle folle. E cazzeggiare notte e dì, scrivendo libri noir, torbidi, erotici, perversi, malati. Devastante. Cattivissimo, impietoso, mai vista una cosa del genere in tutta la storia dell’umanità. Ma quali redenzioni e puttanate del cazzo. Ecco, pigliati il bagnoschiuma, Amy Adams, poi vai a letto ché mamma tua fa gli gnocchi. Una recensione che più che altro è un testamento funebre. Sì, Dio non è adatto al mondo, per questo creò il mondo. Per osservare i dementi e il porcile. Punendo poi tutti in maniera eterna. Ed è pure stufo di leggere recensioni con scritto: bravi attori, bella fotografia, bona l’attrice con delle ottime gambe, il protagonista è in gamba, il regista se la cava, tutto sommato godibile.
Insomma, questo Batman v Superman è adatto ai tonti, a gente che ama i videogiochi.
Fidatevi, meglio giocare a flipper con Amy Adams.
di Stefano Falotico
Le iene (Reservoir Dogs), recensione
Ebbene, oggi parliamo de Le iene (Reservoir Dogs), scritto e diretto da Quentin Tarantino al suo esordio straordinariamente incommensurabile dietro la macchina da presa.
Le iene è un film della durata secca di un’ora e trentanove minuti. Presentato nel gennaio del ‘92 al Sundance Film Festival, uscì sugli schermi italiani a Ottobre dello stesso anno.
Per molto tempo, alcuni cinema lo proiettarono anche col rieditato titolo Cani da rapina. Più in sintonia col titolo originale.
Le iene rimane a tutt’oggi uno dei migliori film di Tarantino. Se non addirittura il migliore in assoluto assieme ai suoi due successivi, Pulp Fiction e Jackie Brown.
Difatti, chi scrive questo pezzo considera soprattutto i suoi ultimi tre film, in particolar modo l’ultimo, C’era una volta a… Hollywood, decisamente inferiori a Le iene, malgrado siano stati film, come sappiamo, largamente, non sempre a torto, acclamati. Senza voler opinare in merito o addentrarmi in comparazioni sofistiche, ritengo Le iene un film superiore poiché, a prescindere dalla sua maggiore brevità, in modo paradossale, funziona decisamente di più rispetto alle recenti opere di Tarantino, troppo programmaticamente calcolate a tavolino e ne svetta, assente di sofisticatezze minuziosamente superflue o troppo ricercate, per i suoi dialoghi strepitosamente intrisi di grottesco umorismo al vetriolo, conditi con una pazzesca sequela interminabilmente spassosa di parolacce volgarissime però assolutamente pertinenti e godibilmente mischiate all’atmosfera incredibilmente, macabramente spassosa della vicenda assurda raccontataci.
Palesandosi, senza infingimenti o artefatta costruzione narrativa esageratamente studiata, come un divertissement infallibile da rivedere all’infinito, amandolo alla follia senza soluzione di continuità.
Trama, basata su vari piani temporali incastrati in un intreccio a mo’ di matriosca e impazzite schegge come mosaici perfettamente bilanciati a un geniale puzzle:
sei balordi assolutamente estranei l’uno rispetto all’altro, i quali si chiamano solo secondo nomi fittizi di colori (incarnati da Harvey Keitel, Tim Roth, Steve Buscemi, Tarantino stesso, il vero Edward Bunker, Michael Madsen) stabiliti dal loro capo Joe Cabot (Lawrence Tierney), si riuniscono in un garage-capannone malmesso dopo una rapina andata a male.
La rapina però (spoiler), infatti, da loro forse organizzata troppo sbrigativamente, finirà in un’escalation di violenze inenarrabili.
Per di più, i sei partecipanti, chiamiamoli così, cominceranno progressivamente a sospettare reciprocamente di loro stessi, innescando una serie di reazioni a catena tanto cruente quanto morbosamente crudeli e, per lo spettatore, follemente divertenti.
Le iene inizia con la voce di Quentin Tarantino in persona, nei panni di Mr. Brown, che disserta allegramente e in maniera scanzonata riguardo il significato misterioso della hit di Madonna, Like a Virgin, attorniato dagli altri membri di questa sorta di confraternita buffa di sciroccati tanto malavitosi quanto scalcagnati, sfigati ed esilaranti.
Quindi, con un velocissimo montaggio incrociato, assistiamo alle urla disperate di un Tim Roth in stato di grazia recitativa, as Mr. Orange. Il quale, confuso e allucinato, sdraiato nel sedile posteriore di una macchina sgarrupata, impreca poiché perdendo sangue copiosamente ed essendo stato ferito a morte imprevedibilmente dopo la sfortunata rapina, si rivolge a Mr. White/Harvey Keitel. Che forsennatamente si sta involando verso il capannone succitato per trovare momentaneo rifugio.
Difatti, Mr. Orange non può essere portato in ospedale. Altrimenti, confidando ai medici del pronto soccorso le motivazioni del suo dissanguamento, sarebbe costretto a confessare la verità, incriminando di conseguenza tutti i componenti della gang.
Fra questi gangster da strapazzo fuori di testa, uno di loro è peraltro un infiltrato. Un agente di polizia, uno sbirro stronzo sotto copertura, insinuatosi furbescamente nel gruppo per incastrare tutti i malviventi, compreso il figlio del boss, Nice Guy Eddie (Chris Penn).
Ci fermiamo qui, altrimenti sveleremmo troppo per chi, colpevolissimamente, non avesse mai visto Le iene.
Le iene, ai tempi della sua uscita, malgrado gli immediati, entusiastici voti altissimi della Critica istantaneamente ricevuti, fu una pellicola al contempo aspramente ostracizzata dai benpensanti. Rimasti disgustati dall’uso massiccio della violenza e della truculenza impiegata da Tarantino nel film.
Tarantino, di lì a poco, fu anche accusato di plagio. Poiché alcuni malfidati sostennero che Le iene non fosse altro che un remake non dichiarato di un film di culto di Ringo Lam, ovvero City on Fire.
Tarantino, in effetti, non disconobbe mai di essersi ispirato, in gran parte, al film di Lam. Così come d’altronde ammise e tutt’ora ammette, senza vergogna e ammirevolmente, chiarendo la sua poetica fin dapprincipio, che lui adorabilmente copi, rubacchiando le idee dagli altri al fine di riciclarle secondo il suo stile personale. Conservando quindi una sua pregiata unicità libera da ogni contraffazione capziosa.
Fatto sta che Le iene rimane un capolavoro intoccabile.
di Stefano Falotico
La ragazza nella nebbia, recensione
In questo clima di rigida quarantena, scivolai nelle mie notti dimenticate. Esperii qualche mese fa, nelle asperità frastagliate delle mie memorie riscaturite, qualche secondo di gioiosa vitalità ma, ancora ottenebrandomi nel silenzio mio immutato del mio solstizio eternamente sigillato nel mio cuore da sempre innevato, oh, qui son ricascato. Alle pendici vulcaniche del mio incarnare il concetto del termine esiziale, forse sono un nichilista esistenzialista irrecuperabile.
Per qualche attimo, a morte provocato, dapprima m’innervosii, dunque m’innervai e mi parve di rinsavire.
Sì, fui per anni imperturbabile e avvolto dal ghiaccio imperscrutabile della mia anima cupamente adombratasi. Risplendetti fatalmente però come un fuoco fatuo, nella brillantezza del giorno risorsi, credendomi miracolato ma fu un’illusione, un’effimera gioia estemporanea nuovamente svanita nel tormento esistenziale incurabile del mio perenne turbamento in cui, sprofondato, vivrò ancora per poco prima di esalare l’ultimo respiro d’una vita innatamente tormentata.
Cosicché, irreparabilmente da me stesso angosciato, prendo tremendamente coscienza che non manchi molto alla mia morte sempre più ventura.
È finita l’avventura della mia vita pura, è agli sgoccioli come acqua di rugiada oramai essiccatasi nei raggi mortali e brucianti di un’esistenza che per voi sarà ancora per molto tempo solare, mentre io, in tale imbattibile oscurità, vedo oramai solo gli indistinti bagliori della luna nera più sterile. Scevra è la mia anima d’ogni giocondità. Non sono neanche più puerile.
In questa notte che mi fu vicina e in cui credetti d’essere imperituro, un duro in mezzo agli umani lupi, penso che mi getterò giù da un dirupo.
Non vi sarà salvazione, malgrado ogni tentativo umano, dunque disumano, di avermi voluto elettrizzare con delle scosse violente affinché ancora respirassi la beltà del mattino e le sensuali lietezze della vita comune.
Amici, sto morendo. Non v’è più volontà in me. Oramai se ne sono accorti tutti e mi pare che la pagliacciata, mia e di chi cercò disperatamente di reggermi il gioco, sia purtroppo o forse per fortuna, ahimè e ahinoi, giunta alla sua conclusione ultima.
È finita…
Detto ciò, so che è triste ma è vero, non sento in effetti più niente per la vita e per il mondo, vi copio-incollo qui una recensione che fa rabbrividire più di uno yeti.
Tratta dal sito Gli spietati, firmata da Alessandro Baratti. Ragazzo forse quasi mio coetaneo che, a differenza di me, spera nella vita e forse la vita gli sarà clemente poiché ravviso, nelle sue parole, nella sua grinta combattiva, uno spirito indomito caparbio e cazzuto.
Sebbene abbia scritto stronzate che non condivido dall’inizio alla fine nella maniera più assoluta.
Leggiamo, fratelli della congrega, questa sua recensione presuntuosa e compunta. Non impeccabile ma non correggerò una sola virgola della sua entusiastica disamina agghiacciante, lasciando intatta la sua puttanata raggelante.
Compreso il suo apostrofo non in formato Garamond ma a tiramento di culo a c… o suo.
TRAMA
Avechot, un piccolo paese di montagna ormai disertato dal turismo. Alle 17 del 23 dicembre scompare Anna Lou, ragazzina sedicenne dai capelli rossi amante dei gatti e figlia di due appartenenti alla rigidissima confraternita religiosa del luogo. A dirigere le indagini sul rapimento di Anna Lou è l’agente speciale Vogel, ispettore che può contare su una diabolica abilità nel manipolare l’opinione pubblica attraverso i media. Le ricerche hanno inizio e su Avechot si accendono i riflettori della cronaca televisiva: serve un colpevole, anche a costo di fabbricare le prove. Vogel individua in Loris Martini, insegnante di lettere nella scuola locale, l’indiziato ideale.
Impossibile contenere l’entusiasmo per un film italiano che riesce nel difficile compito di creare un universo coerente e avvincente, smarcandosi ampiamente dalle logiche asfittiche del prodotto accattivante e conciliante agghindato da critica sociologica. Qui non si salva nessuno, è bene dirlo subito. In questa fiaba nerissima intrisa di cinismo non c’è personaggio che non riveli un lato sinistro o deplorevole. Non c’è istituzione che non esca con le ossa rotte o la reputazione infangata. Non c’è circostanza che non celi un risvolto oscuro o ingannevole. La detective story viene lentamente ghermita dal noir esistenziale e il thriller si sgretola in meditazione sul male come motore del racconto. Siamo dalle parti di Friedrich Dürrenmatt e dei suoi implacabili meccanismi distruttivi: il realismo delle situazioni (qui i fatti di cronaca italiana richiamati a più riprese) non è che un pretesto per svelare la presenza strisciante e immanente del male. Ad Avechot l’innocenza sfiora la demenza (il personaggio della madre di Anna Lou), mentre la colpevolezza – o la sua variante socialmente tollerata, l’opportunismo – si stende inesorabile su tutto e tutti. Ad Avechot, piccolo paese di montagna rannicchiato in una valle cieca, un microcosmo che è fin troppo chiaramente un non-luogo, regna il sospetto (altro concetto caro a Dürrenmatt, per inciso).
Un cinema italiano di genere che, pur impiegando volti e corpi usurati come quelli di Toni Servillo e Alessio Boni, abbia il coraggio di rifiutare il patetismo a buon mercato o la rincorsa alla risata esorcizzante è ancora possibile: ecco che cosa ci dice con abbondanza di prove La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi. Un esordio alla regia che ci consegna un autore (in questo caso alla lettera: sua la sceneggiatura, suo il romanzo, suo il film) capace di coniugare alla perfezione il gusto del racconto con l’accuratezza visiva e l’allestimento di un apparato scenico di rara incisività (si veda il plastico di Avechot, palcoscenico in scala e metronomo della narrazione allo stesso tempo). Un autore italiano che, pur disseminando la pellicola di atmosfere che evocano altro cinema (Kubrick, i fratelli Coen, Singer, Demme, Fincher, Sergio Leone, giusto per fare qualche nome), non soffoca se stesso e il suo film sotto il giogo della cinefilia ammiccante. Non è questione di originalità, ovviamente, ma di stile: la capacità di trattare complessivamente la materia portata sullo schermo con equilibrio e decisione. Di questo teatro del sospetto e della meschinità nero come la pece ma praticamente privo di violenza esplicita (Carrisi sa anche questo: mostrare troppo degrada la visione a voyeurismo) porteremo per sempre negli occhi almeno due sequenze: la prima è quella in cui Loris Martini, abbandonato da moglie e figlia, lavora al gazebo del giardino di casa; la seconda quella in cui nelle sue e nelle nostre orecchie risuonano le note della Dança de Solidao di Beth Carvalho. Un gioiello avvelenato che non fa sconti a nessuno: cinema di genere con l’arsenico nelle vene.
La mia recensione
Donato Carrisi è un discreto giallista romanziere che, con tale sua opera prima, esordì alla regia.
Incassando ottime cifre. Coi soldi ottenuti grazie ai proventi derivati dai soldi stessi donatigli da molti spettatori da lui coglionati, il signor Donato forse riuscirà a ripagare finalmente Romina Power e Carrisi Albano che persero la loro figlia Ylenia. La quale mai fu trovata e, malgrado i casini mediatici messi su non tanto dal personaggio interpretato da Toni Servillo, bensì da Enrico Mentana, non si sa a tutt’oggi se sia scomparsa, se sia caduta da una montagna oppure se, come Elvis Presley, sia stata santificata da chi la crede altrove incarnata.
Ora, non scherziamo. La ragazza nella nebbia è un buon film ma nulla di più.
Jean Reno stona nei panni dello psichiatra. Poiché, sebbene il film sia ambientato ai confini con la Francia, no, scusate… con la Germania, sì, Avechot è una città immaginaria del Südtirol, dunque è zona alpina dell’Alto Adige ove vivono, peraltro, molti albini, il pupillo di Luc Besson non me lo vedo proprio dietro una scrivania a elucubrare cervellotiche teorie.
Reno è un cazzone che sta benissimo in Ronin e ne I fiumi di porpora. Ma, con la sua faccia spesso da pesce lesso (attenti alla trota…), non me lo immagino nei panni di un fine indagatore dell’animo umano. Fa pena.
Pare spaesato come ne I visitatori.
Toni Servillo, al solito, recita col pilota automatico. Vorrebbe essere carismatico, infatti lo è. Ma quando mai s’è visto, anzi si vide un ispettore di nome Vogel che ha soventemente una cadenza, nonostante l’ottima dizione, partenopea?
Così come, a proposito di Besson, perché mai nel film Malavita con De Niro, il boss Don Luchese legge La Repubblica nel carcere italiano?
Secondo voi, per esempio, Totò Riina lesse mai Il Corriere della Sera?
Fu denominato il capo dei capi ma, sinceramente, non è che avesse una gran capa. Insomma, fu sull’analfabeta forte, eh.
Io invece sono un caprone, un Capone, non Al. Bensì uno che decise di allontanarsi dalla società ed ebbe ragione. Poiché, essendo dotato di una grande testa, fu scambiato per testone e soprattutto coglione quando invero certe vili, orrende ed erronee patenti bambinesche affibbiatemi da pseudo-adulti tromboni, oh sì, me le mangio a colazione.
Tanto l’umanità è capace di nefandezze come quelle mostrate nel film di Carrisi. Che perdizione, oh, maledizione!
Sì, come la madre di Anna Lou, sono “demente”.
E mi pare giusto finirla nel volermi invogliare a divertirmi e a fare lo scemo come tutti i deficienti.
In questo film non si salva nessuno. La protagonista, in particolar modo. Forse fu una ragazza vergine in cerca di un migliore mondo e, lassù fra i monti, incontrò Filippo Timi di Quando la notte. Può essere.
Alessio Boni, nonostante la barba da intellettuale letterato, è un marpione insoddisfatto che, oltre alla peluria incolta, è uomo colto sposato a una donna molto bona. Fa il furbo con le ragazzine e manda loro i messaggini subliminali. Per dare loro lezioni orali, non so se solo di recitazione.
Il padre della ragazza invece spia nei diari della figlia e chiama la sua migliore amica, senza dirle niente, provando inoltre vergogna e imbarazzo, non spiccicando parola quando in casa sua piomba la televisione.
Michela Cescon, nella parte dell’agente Mayer, recita peggio di una bambina dell’asilo.
Abbiamo pure l’apparizione di Greta Scacchi. Di cui vi consiglio il suo magnifico fondoschiena in Presunto innocente.
Tornando al Boni nei panni del professore Loris Martini, lui diviene il primo sospettato. Poi forse scopriamo che sono tutti indagati come in Assassinio sull’Orient Express.
Ora, soltanto perché La ragazza nella nebbia leggermente si eleva dalle solite schifezze del Cinema italiano, gridaste al capolavoro.
Baratti tirò in ballo pure Kubrick, paragonando Carrisi a David Fincher. Ma per l’amor di dio.
Carrisi è uno che avrei visto bene come “espertone”-consulente a Chi l’ha visto. Molti anni fa quando a condurre questo programma fu la mitica Donatella Raffai.
Oppure come guest star, mano nella mano, assieme allo psichiatra criminologo della mutua, Alessandro Meluzzi.
Invece, i genitori maniaci religiosi della povera Anna Lou, eh sì, spesso ora seguono le trasmissioni ove invitano Paolo Crepet, scrittore, psicologo ed educatore di tutti, tranne di sé stesso.
Al Crepet vorrei chiedere questo?
– Lei come fermerebbe John Rambo?
Il Crepet, con calma olimpica, risponderebbe così.
– Be’, se si ribella, gli prescriviamo subito un TSO firmato dal sindaco, lo sediamo e lo spediamo in rehab.
Sottoponendolo a un massacro psicologico senza precedenti. Verrà a contatto con sceme appena laureate che pigliano ottantamila Euro all’anno per lobotomizzare i pazienti, aspettando il sabato sera per scopare il moroso palestrato. E sarà inserito in un programma speciale di tutor calabresi ignorantoni.
– Le ho detto, però, che è John Rambo.
– E quindi?
– Quindi lei, tornando a Besson, vide mai Nikita e Léon?
– Sì, dunque?
– Ecco, Rambo non potete educarlo a diventare un Alessio Boni, cioè un ipocrita. E non vuole dalla vita una bella mogliettina e insegnare in un liceo.
– Ripeto, quindi?
– Quindi, ve lo andaste a cercare.
Non fatemi, per piacere, la faccia di Reno.
Comunque, a parte le arrabbiature e le stroncature, La ragazza nella nebbia è un thriller passabile, un po’ sopra i pessimi standard italiani ma, a conti fatti e col senno di poi, va ridimensionato.
Siamo nell’ambito della mediocrità. E non è la bella fotografia ambientalista e il fascino atipico di Servillo a donare a questa storia qualcosa che vada oltre il tanto ingiustamente bistrattato L’uomo di neve con Fassbender.
Per girare un giallo coi controfiocchi, serve ben altro oltre a Servillo.
di Stefano Falotico