ANATOMIA DI UNA CADUTA, recensione
Libero ivi di volteggiare, pindaricamente, di “verbalizzare” in ogni senso a modo mio, senza paramedici, no, parametrici dogmi editoriali e asfittiche regole SEO castranti, recensirò nelle prossime righe, non so se bellamente o, giustappunto, in modo falotico e personalissimo, quello che è indubbiamente il film migliore dell’anno nella maniera più assoluta. Son apodittico anche se subito preciso che Anatomia di una caduta, il cui titolo, internazionalizzato e inglesizzato, è Anatomy of a Fall, in originale invece, naturalmente, Anatomie d’une chute, giustamente vincitore della Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes, è uscito nel 2023 e per “anno” intendo quindi ciò che è ancora attuale, cronologicamente in senso lato, in previsione dei prossimi Academy Awards che saranno assegnati il mese venturo. Anatomia di una caduta non vincerà come Miglior Film Straniero, categoria in cui, ahinoi, non concorre assieme al nostrano Io capitano, che di possibilità di vittoria ne ha pochissime (e con tutto il patriottismo, lecito o meno, possibile, è scandaloso che non possa battersela con tal stupendo film francese, con parti in inglese, decisamente superiore) e il ben posizionato La zona d’interesse di Jonathan Glazer, quest’ultima pellicola avente per co-protagonista nientepopodimeno che la stessa interprete principale di tale, ribadisco, magnifico e ipnotico, inarrivabile, da me qui disaminato, opus di Justine Triet, ovverosia la strepitosa Sandra Hüller. La quale, nel giro di un arco temporale brevissimo, con le sue prove appena succitate è ascesa nell’empireo delle attrici più talentuose da tenere d’occhio. E che, a mio avviso, meriterebbe di alzare la statuetta dell’Oscar come Best Actress per cui è in gara e nominata. Le favorite al trionfo finale, stando agli allibratori e alle quote, perfino dateci e offerte dalla SNAI, non solo dai maggiori “esperti” di predictions per quanto riguarda le statuette dorate, sono, come sapete bene, Lily Gladstone, la quale di Killers of the Flower Moon è invece attrice non protagonista, eh eh, dunque, a prescindere…, sarebbe una victory immeritata, e la bella Emma Stone che, in Povere creature!, lo è, non solamente di fatto ed estetiche fattezze avvenenti, bensì anche di nome del suo personaggio, cioè Bella Baxter. Considerando che la Stone ha vinto l’Oscar soltanto qualche anno or sono per La La Land e tenendo conto che la Gladstone, sotto ogni punto di vista, per quanto bravina, come appena sopra dettovi, è stata generosamente candidata in una category sbagliata, rimarco tosto che la Hüller è colei che, a essere obiettivi, è la migliore del terzetto e della cinquina composta inoltre da Annette Bening & Carey Mulligan. La sua prova, in Anatomia di una caduta, è qualcosa di sensazionale, di prodigioso e mostruoso. Sarebbe veramente vergognoso che a vincere non fosse lei. Anatomia di una caduta, oltre a Best Actress, è candidato per il montaggio, Miglior Film “mondiale”, Miglior Regia e Sceneggiatura Originale, scritta dalla stessa director Triet con Arthur Harari. La trama, riportataci da Wikipedia e seguentemente riportatavi da me fedelmente, perdonate per la ripetizione fra l’altro voluta, è striminzita ma senza spoiler sanamente non necessari: Sandra, Samuel e il loro figlio di 11 anni, Daniel, ipovedente, vivono da un anno in una località remota in montagna. Un giorno Samuel viene trovato morto ai piedi della loro casa e Sandra diventa una sospettata.
Scontro in tribunale, tagliente e senza esclusione di colpi, fra l’avvocato difensore di Sandra, anche suo amico, Vincent Renzi (un eccellente Swann Arlaud), e il Pubblico Ministero “inquisitore” (un altrettanto bravissimo Antoine Reinartz). Testimone, per modo di dire, incomoda è la studentessa di Lettere, aspirante giornalista Marge Berger (Jehnny Beth), l’ultima donna e persona, oltre al figlio Daniel (Milo Machado Graner), ad aver visto Sandra prima della morte di suo marito. In quanto, prima della tragedia successa, fu ospite di Sandra per un’intervista. Ma chi è Sandra, Sandra Voyter? Questo è il suo cognome ma cosa sappiamo di lei davvero? Lo scopriremo solo vedendo questo masterpiece teso, vibrante, girato divinamente, che inizia come un giallo à la Dario Argento dei tempi d’oro e non quello decaduto non sol di Giallo, eh eh, prosegue come una detection story assai sui generis con atmosfere rarefatte miste a Bergman e Truffaut, esplode vividamente come un legal thriller psicologico d’alta scuola e scrittura magistrale. Sorretto da una titanica, inquietante, immensamente sfaccettata, espressiva e al contempo commovente Sandra Hüller accattivante oltre l’impensabile, che recita illuminata d’attoriale grazia impari.
di Stefano Falotico
La società della neve, recensione
Film per palati fini? Ih ih.
Ivi sganciato da vincoli editoriali, libero di furoreggiare creativamente, disamino a mio modo, falotico, il bel film, sebbene non eccezionale, perlomeno a mio avviso, così come esplicherò nelle righe a venire, La società della neve. Il cui titolo originale è La sociedad de la nieve, a sua volta “americanizzato” internazionalmente in Society of the Snow.
Film Netflix, presentato in chiusura all’ultima edizione del Festival di Venezia, per l’esattezza, l’ottantesima, è un interminabile, in termini di minutaggio, sebbene appassionante eppur non del tutto convincente, opus, giustappunto, della durata di due ore e ventiquattro minuti circa, compresi i lunghissimi titoli di coda, diretto dal regista Juan Antonio Bayona, qui accreditato, nel nome, sol come J.A., da lui stesso sceneggiato assieme a una sfilza di writers collaboratori (elencati su Wikipedia nel link che sotto vi riporto, in riferimento all’inerente trama), a partire dall’omonimo libro di Pablo Vierci, concernente il tragico e inquietante accaduto in quel della Cordigliera delle Ande nel ‘72, quando il volo 75, con a bordo tutti i membri d’una giovanile squadra di rugby diretta verso il Cile, più alcuni relativi lor parenti, si schiantò e violentissimamente precipitò fra le suddette montagne in seguito a una mal calcolata turbolenza devastante. La maggior parte dei passeggeri, compreso il pilota e tutto l’equipaggio, morirono sul colpo o dopo poco, agonizzando terribilmente. Anche alcuni dei superstiti, rimasti feriti non gravemente o addirittura totalmente illesi, a distanza di breve tempo, schiattarono per il freddo e le condizioni ambientali e climatiche, specialmente notturne, a bassissime temperature disumane. Alla fine, dei quarantacinque viaggiatori, ne rimasero vivi solamente sedici. Dal giorno tremendo dall’incidente alla “miracolosa” salvazione avvenuta, però, scattò, diciamo, l’istinto di sopravvivenza di natura antropofaga poiché, terminato il cibo, per non morire di fame, i “vivi” furono giocoforza costretti a mangiare i morti… Ah, il cannibalismo immorale dei mortali… quasi necrofili o solo disperati, sempre a rischio di restare ibernati, dalle valanghe divorati e soffocati, lacerati e assiderati, forse semplicemente, per modo di dire, gravemente infreddoliti e metaforicamente, nell’animo, scarsamente e scarnamente, riscaldati?
Se volete leggerne la sinossi dell’enciclopedia generalista sopra menzionatavi, cliccate qui:
https://it.wikipedia.org/wiki/La_societ%C3%A0_della_neve
Senz’esservi oltremodo pedante e descrittivo di esegesi particolareggiata e pleonastica, affermo immantinente che la pellicola, dopo una prima mezz’ora abbondante, assai palpitante e fortemente spettacolare, visionaria e naturalmente angosciante, pian piano non decolla più, viaggiando troppo sulle traiettorie aeree, no, enfatiche d’una retorica esagerata e virando verso una romanzata, dolciastra visione poco a volo, cinematograficamente parlando, d’aquila, accartocciandosi e bruciando in melensi siparietti poco credibili e stentando, non poco, in verosimiglianza. Eccedendo in riprese flou miste a panoramiche delle Ande che, più che a una tragedy corposa e degna d’aroma, figurativo ed emozionale, veritiero, paiono essere intonate all’ex estetica da cartolina dell’ex celeberrima pubblicità del cioccolato Novi, a sua volta shakerata, diluita e dilungata in una scopiazzatura dell’Everest… di Baltasar Kormákur. Fra svolazzi, ripeto, soprattutto estetici, oltre che discutibilmente etici, poco realistici, digressioni superflue contrappuntate invece, bellamente, da scene invece ad alto tasso adrenalinico dense di sentito pathos, La società della neve, che rappresenta la Spagna, nella categoria di miglior film straniero, gareggerà e rivaleggerà contro il nostrano Io capitano e, in prima linea (non Alitalia, eh eh), col favorito Anatomia di una caduta… non d’un aeroplano, eh eh. Dunque, dopo il semi-misconosciuto I sopravvissuti delle Ande e il più famoso, però non di certo eccelso e sinceramente dimenticabile, Alive con Ethan Hawke & Vincent Spano + comparsata di John Malkovich, quest’ultimo liberamente ispirato al romanzo di Piers Paul Read, Tabù e annesso sottotitolo chiarificatore, Bayona ritorna sul luogo del delitto, no, di tale storia oltre i confini dell’incredibile a base di disgustoso cannibalismo scioccante.
A tratti incollandoci allo schermo, spesso invece, ahinoi, annoiandoci e banalizzando la vicenda, rendendola, specialmente negli ultimi 60 min., decisamente stomachevole. Peccato.
Siamo oramai al terzo tentativo di rendere viva quest’allucinante tragedia di morte, sofferenza, coraggio, dolore e orrore. Dei tre tentativi di salvataggio, no, di tal “trasposizione”, La società della neve, pur non essendo affatto un capolavoro, neppure sfiorandone minimamente le vette, non montagnose, eh eh, ne è comunque la “versione” migliore.
Figuratevi le altre succitate due… roba indigeribile come la carne umana per chi non è Hannibal Lecter.
Il quale, peraltro, seppur facendosene scorpacciate e gran magnate, non era esperto di grigliate al sangue ghiacciato.
Freddura finale del Falò, oh oh.
Inoltre, il protagonista, sin a un certo punto… (e non voglio compiere spoiler), è scarnificato, no, incarnato dalla versione uruguaiana, a livello fisionomico, di Adam Driver, ovverosia Enzo Vogrincic, mentre Fernando Parrado, detto soltanto Nando, dall’attore Agustin Pardella. Ragazzo fotogenico e talentuoso che speriamo non venga, nella carriera, arrostito.
Da cui il detto, in linea con la “tematica” del film, dal Pardella, no, dalla padella alla brace, ah ah.
di Stefano Falotico
THE AVIATOR, recensione
Quivi libero da restrittivi e pedanti, quasi dittatoriali dettami editoriali e tediose regole SEO ammorbanti, recensirò il controverso, fascinoso, da molti erroneamente considerato “algido”, The Aviator. Opus reputato peraltro minore, a mio avviso, invece, quasi il migliore del quintetto collaborativo fra Leo Dicaprio e monsieur Scorsese. Detto ciò, The Aviator non è affatto un capolavoro e nemmeno gli si avvicina, eppur in molti punti avvince, addirittura emoziona e commuove, in virtù d’uno stratosferico DiCaprio di natura brandiana, mimetico in modo spettacolare e carismatico oltre l’immaginabile. Sebbene, nel suo incipit e forse per la prima ora di tal pellicola dalla durata corposa, ai limiti dell’insopportabile, specialmente interminabile, la sua recitazione appaia, a prima vista, artefatta e già imitativa del De Niro dei tempi d’oro. Tutto mossette con la solita manina a lisciarsi i capelli e la nuca impomatata del suo Howard Hughes non biondo di natura, com’è Leo, bensì corvino. Pian piano, la sua recitativa prova, ripeto, inizialmente e apparentemente incerta, s’innalza ed è il caso di dirlo, si brucia come Icaro? No, prende il volo ad alta quota alla pari dell’Hercules, l’idrovolante da trasporto progettato, da tempo immemorabile, da Hughes, in questo fascinoso, seppur irrisolto, contorto e anomalo biopic rutilante ed estroso, diretto da Scorsese e sceneggiato-romanzato, molto all’acqua di rose e con punte nella retorica più tronfia, dallo specialista giustappunto dei colossal dispendiosi, alias John Logan. The Aviator ebbe un budget dalla portata clamorosa e metaforicamente analoga a un enorme transatlantico dell’aeronautica militare ma, obiettivamente, fu girato, non sol in cielo, assai meglio di Top Gun: Maverick.
Se non avete mai visto questo film, oramai uscito nei cinema mondiali ben due decadi or sono e, prima di vederlo, voleste leggerne la trama “dettagliata”, altresì inevitabilmente sommaria e generalista, ovviamente eccovi appioppato, sottostante, il link alle parole detteci e fornite noi da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/The_Aviator
Un cast bellamente assortito e ineguagliabile ove, oltre al citato super protagonista assoluto DiCaprio, svetta naturalmente Cate Blanchett, per tale suo ruolo vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista, nei panni dell’ex moglie di Hughes, ovverosia la diva ed eterna Katharine Hepburn, neanche a farlo apposta, oppure casualità non ricercata, ah, delir(i)o, a tutt’oggi l’attrice detentrice del record di Academy Awards vinti come incontestata Best Actress insuperata. Poi sposa di Spencer Tracy e donna complessa(ta), malgrado da “chiunque” amata…
Kate Beckinsale è invece un’Ava Gardner figa ma senz’aura, priva di vita, totalmente anodina e addirittura impalpabile, “bruttina”. Cosicché, fra un Alec Baldwin già grasso ma bravo, non ancora indagato e inguaiato, una fulminea toccata e fuga più rientrata in scena “muta” e pressoché invisibile, nella scena all’ospedale in cui Hughes è ricoverato e gravemente traumatizzato, d’un Jude Law/Errol Flynn fisionomicamente discutibile, Ian Holm, un cammeo di Willem Dafoe piuttosto insignificante, un eccellente John C. Reilly, un magnifico, serpentesco Alan Alda e un perfetto Danny Huston impeccabile, Gewn Stefani è un’impresentabile Jean Harlow che pronuncia tre battute in croce e pare perennemente imbarazzata a incarnarne la parte e basta? No, a recitare, per di più in un film non magistrale ma diretto, checché se ne dica, da un maestro incontestabile. Fotografia visionaria d’un ispirato Robert Richardson, ex aficionado, diciamo, a livello puramente lavorativo, di Oliver Stone e di Scorsese stesso, ora di Tarantino, compresi i film girati da quest’ultimo con DiCaprio, vale a dire Django Unchained e C’era una volta a… Hollywood, per un’opera maestosa, per l’appunto, sul piano visivo e per DiCaprio & la Blanchett + Huston sul versante interpretativo, ma non sempre convincente su quello narrativo. The Aviator è un bel film, troppo lungo, demodé o sol d’uno Scorsese, già vent’anni fa, cinematograficamente âgée e vagamente rincoglionito, rimasto fermo alla grandeur “arty”, sovente superflua e perfino irritante, di New York New York? È una domanda? Sì. È fissato con Frank Sinatra e lo menziona quasi sempre, doveva girarne un film biografico proprio con DiCaprio, dapprima diverso, altresì mai visto e non concretizzatosi, intitolato però Dino, più incentrato sul “compagno” epocale di The Voice/occhi blu, cioè Dean Martin.
Meglio così, sarebbe stata una stronzata qual è, ahinoi, oggettivamente, scevri d’ogni futile reverenza autoriale stupida e quindi immotivata, Killers of the Flower Moon. Con buona pace molti suoi ammiratori (inde)fessi e sfrenati, financo di me stesso che tendo a voler testardamente credere che sia un capolavoro perché non voglio riconoscere la verità ineluttabile, la seguente… Martin, ti abbiamo venerato ma è tempo, se non di morire, di lasciar perdere con la settima arte, vedi di crescere le tue figlie e so che hai lavorato con Leo perché speravi che una di esse, conoscendolo sul set e altrove, potesse scoparlo e scoparlo. Per quanto Leo ti voglia bene, le tue figlie so’ indubbiamente racchie senza fine e i tuoi film, oggi come oggi, so’ più vecchi, in ogni senso di te. Quando morirai, zio Marty, il sottoscritto, girando un lungometraggio a commemorazione della tua tristissima dipartita e a mo’ della trasmissione radiofonica del finale di Killers of the Flower Moon, ti promette che non ne sarà solamente regista, bensì interpreterà la particina nientepopodimeno di te (re)incarnato nel tuo film sopra dettovi, pronunciando le lapidarie parole… È una tragedia? Forse no. Mollie/Lily Gladstone, no, scusate, nessuna delle figlie di Martin(o) giammai sposò e sposerà Ernest Burkhart, no, DiCaprio. Si salveranno e si salvarono da un puttaniere che, su cinque film (al momento, cazzo) da te diretti, assomigliò a Marlon Brando sol in The Aviator. Stendiamo invece un velo pietoso sulla sua penosa imitazione “parodica” di Killers…
Nei titoli di coda del mio film, un attore mi domanderà:
– Non ti piace DiCaprio?
– Mi piacque in Titanic e in “tal” The Aviator ma se ti dico, onestamente, che generalmente mi fa schifo al cazzo, mi togli l’amicizia su Facebook? Anzi, ti blocco subito, così non mi spii. Inoltre, guarda che io e te non dobbiamo mica sposarci e non ho intenzione di sposare Leo anche perché non è sposato e mai lo sarà. Quindi salutami (a) Scorsese, sor(r)eta e Leo. Stamm’ buon’, tante belle cose alla tua famiglia di Goodfellas.
– Ehi, che modi sono? T’insegno un po’ di rispetto.
– Sai che fine fa il personaggio di Frank Vincent in Quei bravi ragazzi?
– No.
– Presto lo saprai. E non sarà un film in cui, per finzione, ne interpreterai il “character”.
Cala il sipario, compare Scorsese rinato, no, la scritta The End e appaiono i titoli di coda. Al che, nel bel mezzo di essi, spunta una faccia da culo, la mia, che esclama:
– Francamente, spettatori, il mio film vi ha provocato ribrezzo, lo so, non ne avete capito lo spirito dissacrante ma, detta fra noi, siete gli stessi che pagaste il biglietto (e non solo) per Killers of the Flower Moon, dunque nessun rimborso! Tornate a casa e fottete(vi)!
Sì, idioti, finitela col Cinema! Roba che poteva andar benino ai tempi di Angeli dell’inferno!
Illusi, sfigati, minus habentes, insomma, poveri cristi, sveglia!!!
Ma vi rendete conto? State a guardare le vite degli altri, per di più persino finte e spesso rese buoniste per non incorrere nella censura e nell’emarginazione di chi, moralista, urlerebbe:
– Non fate più lavorare quel porco! Deve “crepare”, per colpa del maccartismo, come De Niro di Indiziato di reato. Che non ha la fotografia di Richardson ma dell’ex habitué di Scorsese, Michael Balhaus, con una comparsata di Scorsese stesso. Nel pre-finale di The Aviator, nella scena in aula giudiziaria, gli echi di Guilty by Suspicion ci sono tutti, in maniera figurata, no, figurativa e cromatica. Nevvero?
di Stefano Falotico
NOSTALGIA, recensione
Libero da vincoli editoriali e da asfissianti regole pedanti, ancor influenzato, altresì tanto raffreddato quanto ironico e scevro da ogni virus intestinale, no, ammaliante, no, sol ammalante influencer ammorbante e solamente appariscente-deficiente, quest’ultimo bravo, per modo di dire, sol ad essere lui stesso febbricitante di maieutica a buon mercato rionale o da Rione Sanità, ivi recensirò Nostalgia. Da me visionato ieri, in data primo gennaio di tal 2024, anno appena iniziato che si spera meno cagionevole, non solo di salute, bensì anche in senso metaforico, di quello appeno trascorso. Attenendoci, ivi utilizzando il plurale maiestatico, alle prime righe della trama riportataci da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Nostalgia_(film_2022)
Dopo quarant’anni vissuti tra il Libano, il Sudafrica e l’Egitto, Felice Lasco torna nel luogo dov’è nato, il rione Sanità di Napoli, richiamato da un oscuro passato. Qui ritrova la madre ormai anziana e cieca, di cui si prende cura nelle ultime fasi della sua vita. Dopo la morte della donna, Felice confida a Raffaele, un vecchio fornitore di pelli e spasimante della madre, che da adolescente aveva un caro amico, Oreste Spasiano, che negli ultimi giorni gli ha fatto bruciare la motocicletta e intimare di andarsene. Raffaele gli rivela che Oreste, noto come ‘o’ Mal’omm, è il più pericoloso boss camorrista della Sanità, e lo invita paternamente a tornare in Egitto, dove è rimasta la moglie.
Martone, partenopeo di origine controllata, quando ambienterà un suo film, che ne so, a Bologna, mia città natia, malgrado non mi piaccia e non possegga origini felsinee? Mai. È chiaro. Così come è chiaro che, dopo una fase creativa altalenante, Martone sta cominciando a girare pellicole a tutt’andare in quanto non vuole estinguersi come il Vesuvio, bensì essere vesuviano, no, vulcanico ed eruttivo in fase “ultimi fuochi” da San Silvestro? Quante cartucce ha ancora da sparare prima di spararsi alla pari d’un gangster inchiappettato e all’ergastolo condannato a Poggioreale? No, ah ah, scherzo. Martone sa come usare i peti, no, petardi cinematografici e i suoi film sono botti di Capodanno, no, botte allo stomaco in competizione con Paolo Sorrentino, ovviamente, altro napoletano verace e amante delle vongole non solo veraci. Martone conobbe Toni Servillo, naturalmente amico e compagno fidato di Totò, no, Sorrentino, e vi lavorò per Qui rido io. È tutto un magna magna, parafrasando il Bettino Craxi di Pierfrancesco Favino in Hammamet by Gianni Amelio. Martone sa, alla stessa maniera di Filippo Scotti/Fabietto Schisa di È stata la mano di dio, che da Napoli nessune fugge veramente mai. Napoli t’imprigiona non solo in una cultura e mentalità oramai, per sempre, aderenti al substrato inconscio in te formatosi, bensì, anche quando te ne vai per molto tempo come Favino/Felice Lasco, senza di “lei” diventi infelice poiché la patria di Pulcinella t’incarcera nella sausade. Sì, quell’analogo sentimento brasiliano, agrodolce e melanconico di nostalgica voglia di ritornare e sprofondare, in ogni senso, nelle viscere delle tue irrinunciabili origini. Sceneggiato dallo stesso Martone ed Ippolita Di Majo a partire dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, Nostalgia è l’ennesimo film su Napoli, giustappunto, d’un regista che, anche quando girò il suo biopic su Giacomo Leopardi, nato a Recanati, intitolato Il giovane favoloso con Elio Germano, doveva andare a parare su Luisa Ranieri, no, Massimo Ranieri, no, Antonio Ranieri, celeberrimo amante dell’autore de L’infinito… Per dirla à la Peppino De Filippo, campeggiante ivi in uno storico graffito, e ho detto tutto…
Nostalgia è un bel film, non un capolavoro ma non aveva, onestamente, nessuna possibilità di entrare nella cinquina dei film candidati all’Oscar come Best Foreign Language. Perché Martone non è paraculo come Sorrentino, la sua Napoli non è ruffiana e quasi mai da cartolina malgrado le soffici e fascinose luci del direttore della fotografia Paolo Camera. Cinematographer, peraltro, di quell’Io capitano di Mario Martone, no, Matteo Garrone, che è invece, a dircela francamente, un romanaccio volpone! Ché, dopo la nomination ai Golden Globes, potrebbe perfino spuntarla agli Oscar… chiamalo coglione… Favino se la cava egregiamente ma la vera sorpresa è Tommaso Ragno. Appena poco prima, lo vedemmo ingrassato in Tre piani, mentre qua il vero De Niro italiano è lui, altro che Servillo. Per incarnare O’ Malommo adottò lo stesso metodo “Max Cady”… È eccelso e fa ribrezzo il suo character, al contempo è affascinante da morire, è l’uomo di merda che nessuno, tutti vorrebbero essere.
di Stefano Falotico
WONKA, recensione
Oggi recensiamo l’attesissimo e già acclamato dall’intellighenzia critica internazionale, Wonka, firmato dal regista di Paddington, ovverosia Paul King, ivi anche sceneggiatore assieme a Simon Farnaby (Rogue One).
King & Farnaby, per questo prequel del celeberrimo romanzo di Roald Dahl, (La meravigliosa storia di Henry Sugar) La fabbrica di cioccolato, già portato sul schermo da Mel Stuart con l’omonima trasposizione famosa con Gene Wilder, nel ‘71, e nel 2005 da Tim Burton per la sua controversa versione con Johnny Depp (Donnie Brasco), hanno, di purissima e lodevole fantasia proficua, inventato una storia del tutto originale, profondamente innovativa e ripiena di strabilianti invenzioni scenografico-visive abbacinanti per lo sguardo, donando nuova e scoppiettante linfa vitale all’opera originaria del suddetto Dahl e conferendogli altresì una brillante connotazione personale, a nostro avviso, stimolante e degna di nota. Trovando, per l’occasione, nell’eccellente e al solito magnetico Timothée Chalamet (Bones & All, Dune), peraltro, candidato giustamente al Golden Globe nella categoria di miglior attore comedy/musical, l’interprete ideale a incarnare, giustappunto, gli eccentrici panni del protagonista che dà il titolo a tale godibilissimo opus contagiosamente benefico e squisitamente allineato al lieto clima natalizio.
Pellicola della corposa eppur mai noiosa, avvincente e, ribadiamo, assai piacevole durata di centosedici minuti netti, Wonka, così come maggiormente più avanti esplicheremo con più sottigliezza, approfondendo in merito, brilla di luce propria e non poche volte incanta e strabilia, ipnotizzandoci alla sua visione e al contempo parecchio divertendoci con gusto e raffinatezza.
Trama, notevolmente sintetizzatavi e dunque concisa per non rovinarvene la visione e rivelarvi le belle sorprese amabili:
Il giovane e un po’ scapestrato, inesperto, analfabeta eppur ottimista e di buon cuore orfano Willy Wonka (Chalamet), il quale in tenerissima età perse la madre (Sally Hawkins) che, a sua volta, prima di lasciarlo lo incitò a un atteggiamento positivo e dolce nei riguardi della vita, dopo una lunga traversata marina, scende baldanzoso dalla nave e giunge in una città straniera per coronare il suo atavico sogno di aprire una raffinata cioccolateria nell’elegante Galeries Gourmet. Tale suo intimo desiderio vien però subito osteggiato e messo a dura prova dalla polizia locale che non lo vede di buon occhio.
Inoltre, Wonka, il quale aveva preso sistemazione “alberghiera” in un confortevole, pittoresco, sebbene un po’ sinistro, caseggiato del luogo, subisce un capzioso raggiro malevolo da parte dell’apparentemente gentile e premurosa, invero perfida proprietaria dello stabile, la signora Scrubbit (un’Olivia Colman al solito bravissima sebbene leggermente irriconoscibile in quanto fortemente truccata e “conciata per le feste”) che, giustappunto, in combutta col marito bifolco di nome Bleacher (Tom Davis), parimenti furbacchione e losco, è specializzata nel plagiare i suoi clienti. I quali, avendo firmato delle clausole pressoché invisibili a occhio nudo, prima di prendere alloggio nel suo locale, non potendo poi sostenerne le assai esose spese, son obbligati a divenirne schiavi e a lavorare duramente alle sue ferree dipendenze nel lavatoio sotterraneo. Qui, Wonka conosce però la coetanea e avvenente Noodle (Calah Lane) e se innamora perdutamente, prestamente ricambiato. Wonka, fra mille peripezie e più o meno rocambolesche disavventure adrenaliniche, entra in contatto con un curioso nano Umpa Lumpa (uno strepitoso Hugh Grant digitalmente rimpicciolito) che gli confida di averlo in passato frodato ma che, a modo proprio, è suo fan sfegatato. Ci fermiamo qui col narrarvi la vicenda, lasciandovela gustare tutta d’un fiato, in quanto è prelibata come un cioccolatino succulento e, ancor evidenziamo, non abbiamo intenzione naturalmente di sciuparvene il piacevolissimo gusto che, speriamo, vogliate assaggiare.
Soprattutto nel suo incipit, Wonka assomiglia non poco, per ambientazione e romantiche, languide atmosfere evocative, al bellissimo Hugo Cabret di Scorsese e perfino al sottovalutato Pinocchio di Robert Zemeckis. La regia di King è accorta e sensibile, in alcuni momenti, specialmente quelli cantati, sensazionale e incantevole, ben coadiuvata da una fastosa scenografia impeccabile mirabilmente curata da Nathan Crowley, frequente collaboratore di Christopher Nolan (da Insomnia sin a Tenet) e autore di lavori altrettanto importanti in pellicole come Nemico pubblico di Michael Mann e First Man di Damien Chazelle. Ma a farla da padrone assoluto della pellicola è, ribadiamo, uno Chalamet in totale stato di grazia, impressionante per forza espressiva in ogni singola inquadratura, per di più ottimamente affiancato, nel suo assolo e one man show ampiamente meritevole d’applausi scroscianti a scena aperta, da un cast egualmente superbo in cui, oltre alle già succitate presenze della Colman e di Grant, son altresì certamente da annotare gli apporti recitativi di Jim Carter, Paterson Joseph nel ruolo di Arthur Slugworth, di Matt Lucas e d’un irresistibile Rowan Atkinson (Mr. Bean) in versione prete.
Wonka ha forse soltanto un’evidente e clamorosa pecca. Ovvero, se dal punto di vista formale e prettamente musicale è indiscutibilmente fantasmagorico, cioè una perlacea meraviglia, e suggestivamente coreografato, risulta invece molto carente e alquanto banale nei dialoghi e abbastanza scarno nell’intreccio in sé, in verità, troppo semplicistico e scontato. La caratterizzazione psicologica, infine, dei cattivi è, come si suol dire, tagliata con l’accetta e quindi manichea. Però sono debolezze perdonabili anche perché Wonka, fondamentalmente, si rivolge a un pubblico principalmente formato da bambini e dunque è accettabile, datone il tono fiabesco e infantile, che non sia complicato e troppo sfaccettato a livello intrinsecamente narrativo, psicologico e dialogico. Perdonateci per il seguente gioco di parole, la sua “ingenuità” ci par funzionale e logica.
Piccola curiosità: veramente incredibile la coincidenza, chissà se fortuita, per cui sia in Wonka che in Buon Natale da Candy Lane, odierne pellicole natalizie pressoché uscite in contemporanea, entrambi i protagonisti, rispettivamente incarnati da Chalamet e Eddie Murphy, si trovano inguaiati finanziariamente per aver firmato erroneamente e “sbadatamente” delle condizioni scritte in minuscolo.
di Stefano Falotico