Motherless Brooklyn, recensione
Ebbene, oggi recensiamo Motherless Brooklyn – I segreti di una città, pellicola della corposa durata di due ore e ventiquattro minuti che segna la seconda regia di Edward Norton a distanza di quasi vent’anni dal suo interessante e simpatico debutto dietro la macchina da presa, ovvero Tentazioni d’amore del quale fu, assieme a Ben Stiller, anche interprete.
Per Motherless Brooklyn non fa parimenti eccezione e, oltre ad adattare lui stesso il libro omonimo di Jonathan Lethem e a co-produrre la sua opera, si è riservato il ruolo dell’assoluto interprete principale, vale a dire Lionel Essrog, un timido ragazzo affetto dalla sindrome di Tourette, una malattia psichica spesso invalidante che affligge fortemente colui che la patisce, obbligando il soggetto interessato, a seconda della sua gravità, involontariamente a tic e a smorfie soventemente disturbanti, compromettendone altamente il funzionamento sociale.
Lionel, nonostante questo suo disturbo, lavora per il detective privato Frank Minna (Bruce Willis). Un uomo che l’ha salvato dall’orfanotrofio, che da allora gli è mentore e, prendendolo sotto la sua ala protettiva, lo salvaguarda dallo sciacallaggio di un mondo cinico e putrefatto.
In una plumbea mattinata fumosa, Minna però viene ferito seriamente e, nonostante le prestategli e svelte cure mediche da lui ricevute al pronto soccorso, non ce la fa e muore sotto gli occhi di Lionel.
Che, da questo momento in poi, spinto da un rabbioso e sacrosanto spirito giustizialista, si trasforma lui stesso in investigatore, addentrandosi in una decadente Brooklyn fatiscente, cinerea e spettrale, torbidamente notturna, scandita da incontri con personaggi d’alto spicco della politica come il potente e forse assai corrotto responsabile urbano della metropoli, Moses Randolph (Alec Baldwin) e, fra gli altri, con un geniale ex architetto caduto rovinosamente in disgrazia, cioè Paul Randolph (Willem Dafoe).
Soprattutto Lionel entra in contatto, per strane circostanze, con Laura Rose (Gugu Mbatha-Raw), carpendo da lei molte informazioni segrete e, pian piano, legandosene sempre più affettivamente.
Motherless Brooklyn ha purtroppo ricevuto un’accoglienza piuttosto fredda dalla Critica, nonostante il cast di spicco e le sue pregiate presentazioni ai festival più importanti. Infatti, è stato il film d’apertura della scorsa Festa del Cinema di Roma.
Ce ne dispiacciamo poiché Motherless Brooklyn, sebbene non sia un capolavoro, è stato un progetto covato per lunghissimo tempo da Norton.
Il quale, profondendo al suo dream project una tangibile e sentita, viscerale passione registica e interpretativa, pur non avendo firmato un film forse pienamente riuscito che non brilla in modo trascendentale o memorabile, ha dimostrato un talento nient’affatto disprezzabile.
Avvalendosi dell’ottima scenografia ambientale e d’epoca di Beth Mickle e coadiuvandosi dell’ammaliante, avvolgente colonna sonora di Daniel Pemberton, Norton ha saputo inoltre creare un bel neo-noir assai classico e jazzistico, sì, costruito su melodie ritmiche perfettamente bilanciate e calibrate a livello filmico.
Che, avvalendosi perfino dell’ipnotica Daily Batlles di Thom Yorke, pur non spiccando davvero mai di originalità, c’immerge, con elegante stile, in un cupo sottobosco suburbano magneticamente irresistibile, tetramente permeato, in modo melanconicamente morbido, da atmosfere seduttivamente affascinanti e, potremmo dire addirittura, così figurativamente pittoriche e melodiosamente delicate tanto da rendere Motherless Brooklyn quasi una pellicola intimistica e romanticamente leggiadra.
di Stefano Falotico
Blade Runner – The Final Cut, recensione
Ebbene, breve prologo ad apertura d’un film epocale. Riproposto, assieme al suo sequel, su Netflix in questi giorni.
Dunque, permettetemi una parabola da El Indio/Gian Maria Volontè di Per qualche dollaro in più.
Condita con qualche freddura micidiale da Clint Eastwood, l’unico revenant vivente, altro che Leo DiCaprio del film omonimo di Alejandro G. Iñárritu.
Sì, di mio sono uno straniero senza nome che vaga su questa terra sconsacrata e oramai scevra d’ogni memoria ma non è ancora tempo di morire… anche se ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…
Similmente a Guerre Stellari, avente protagonista come sempre l’immarcescibile e sto(r)ico capitano Han Solo, alias il memorabile, sempiterno Harrison, Blade Runner apre con una sorta di piccola prefazione letteraria che, anziché scorrere nel firmamento stellare di sovraimpressione scivolante nel buio ermetico d’uno spazio misterioso, scivola verso il basso a mo’ introduttivo degli antefatti, narratici da Philip K. Dick col suo Il cacciatore di androidi, che sono il fulcro basale su cui ruoterà la trama, comunque piuttosto lineare ma al contempo enigmaticamente seducente e contorta, di tale capolavoro intoccabile della Settima Arte da propugnare, tramandare e propagare ai posteri, gelosamente conservato, alla maniera d’una reliquia preziosissima, nella Biblioteca del Congresso in quanto quest’opera viene reputata, giustissimamente, di portata galattica da salvaguardare, in modo giudizioso, per il bene dell’umanità tutta.
Nella sua interezza!
Perlomeno fino a quando, purtroppo, s’estinguerà. Spegnendosi come una candela che arse al doppio d’una mortale fiamma. Al massimo splendore e fulgore! Infiammatevi con virulento calore!
Un’umanità che, al di là dei sensazionalistici e oscurantistici allarmismi eccessivi, a prescindere, di contraltare, dai negazionisti e dai soliti figli malsani di Nostradamus che profetizzano, in modo complottistico, un’irrimediabile e imminente cataclisma planetario e millenaristico, avvertendoci sulla fine assai prossima e pressoché irreversibile del genere umano stesso, dobbiamo ammettere effettivamente che, per via dell’infettivo contagio senza speciali effetti, bensì dovuto a una mastodontica influenza difficilmente arginabile assai realistica, non se la passa, ahinoi, benissimo.
Sprofondata infatti com’è nella quarantena, metaforicamente e non, asfissiata domesticamente negli innumerevoli appartamenti di un segregazionismo più nero dell’apartheid.
Cosicché, molti abitanti del nostro pianeta e tutti i cittadini italiani, espropriati di molte libertà legittime sino all’altro ieri ritenute inviolabili, possono uscire di casa soltanto previo autorizzazione d’un burocratico modulo interstatale da Tyrell Corporation.
Se non si dispone, mentre s’è a zonzo per strada, di questa specie di libretto di giustificazioni scolastiche, da scaricare tramite pdf internettiano, firmandolo in calce dopo l’opportuna stampa, si rischiano molte multe salatissime peggiori di uno zero in condotta rigidissimo. Stare muti e non basterà sanare il debito, leccando il culo non ai professori, bensì ai procuratori, finita la pacchia e iniziato nuovamente il semestre.
Oppure, in caso di trasgressioni non previste dal codice legislativo dell’apparato giudiziario, chiunque oserà sfidare la legge, avventurandosi anche solo nottetempo lungo le strade tetre e desertiche della sua città, eh sì, verrà severamente sbattuto in carcere in modo durissimo. Per di più, se affetto dal COVID-19 e sarà trovato in giro senz’essere munito del suddetto formulario con crocette, in maniera poco affettuosa, sentitamente sarà presto ammonito e spedito in un penitenziario simile ad Alcatraz. Forse prima anche al pronto soccorso poiché necessiterà delle cure riabilitative e cicatriziali per via delle ferite inferte lui dai tutori dell’ordine.
I quali, impietosamente, inizialmente lo accerchieranno e poi, forse abusando perfino del loro potere derivato dal distintivo, d’istinto picchieranno il malcapitato e disgraziato da dittatoriali signori poco distinti.
Insomma, siamo cascati nella notte da Insomnia di Christopher Nolan, specularmente identica alla piovosa oscurità cinerea del capolavoro per antonomasia di Ridley Scott.
Dato che, strozzato da quest’isolamento forzato più grave di quello trascorso da Jack Torrance di Shining, mi mancò la voglia di rispolverare la vecchia VHS contenente la registrazione da me effettuata dalla tv moltissimi anni or sono, essendo anche impossibilitato a riprodurla poiché non leggibile dal televisore da tanti anni in mia dotazione, non ho intenzione di parlarvi dell’edizione di Blade Runner distribuita nelle sue sale ai tempi della sua release. Ovvero quella in cui Ridley Scott aggiunse, nel finale, le scene dell’incipit mancante dell’appena citatavi opera magna di Stanley Kubrick.
Qui, fratelli della congrega cinti in raccoglimento virtuale, poiché v’invitai a casa mia ma foste costretti a declinare tale gentile offerta per le restrizioni e i divieti impostivi e da me sopra scrittivi ed elencativi, vi parlerò in maniera doverosamente entusiastica d’un film che, soprattutto in queste spettrali notti timorate di dio, vi obbligo di rivedere e santificare in gloria, beatificandolo in quanto va magnificato più di Distretto 13 e Fog di Carpenter.
Blade Runner – The Final Cut, un film tenuto in auge persino dall’onnipotente poiché di un altro pianeta… ché iddio stesso in persona non riuscì a generare pur partorendo, dal grembo della Santa Vergine, una terrestre collettività che avrebbe dato alla luce, il 20 Novembre del 1950, una figa di cristo e della madonna, cioè Sean Young.
Purtroppo, peggiorata del tutto nel non lontano 2011 quando, in seguito alla sua incurabile addiction, divenne fisicamente brutta e finì in rehab. Inoltre, troppi maniaci hollywoodiani, ingordi e assatanati della sua venustà irresistibile da Maddalena, la deturparono impunemente, probabilmente come Harvey Weinstein, sciupando la dolcissima pudicizia sensualissima e al contempo maliziosissima di questa dea immacolatamente idilliaca da me adoratissima.
Insomma, Sean Young, nel 1982, anno dell’uscita di Blade Runner, stimolò inverecondi, primordiali istinti amorevoli e anche sinceramente animaleschi da Ace Ventura: Pet Detective. Ah, che voglia di petting… di calde carezze.
Sì, nel film, Harrison Ford/Rick Deckard deve appurare se il personaggio interpretato da Sean, sotto mentite spoglie, sia (im)pura, una replicante o una donna insuperabile perfino dalla CGI de–aging, in modo “young”, del suo clone digitale di Blade Runner 2049.
Lui la vede e se n’innamora folgorato, piacevolissimamente imbarazzato e impietrito dinanzi a una donna così stupefacente più dell’estasiante fotografia impressionante di Jordan Cronenweth, un grande.
Che la immortalò in modo paradisiaco e sfavillante!
Rick, per conto dei suoi superiori, dovette indagare in merito alla veridicità, diciamo, dell’umanità di tale creatura divina Per constatare, domande alla mano e occhio da salame, riguardo al fatto se fosse davvero una donna favolosa, una super figa cosmica oppure un’androide bionica forse solo iper-bona.
Al che, la sottopose a un quiz di domande ipotetiche da psichiatra della mutua. Domandandole, comunque con sensibile tatto, che cosa ricordasse del suo passato. Poiché potrebbe essere stato irreale e/o semplicemente generato da una memoria artificiale impiantatale nella calotta cranica.
Onestamente, me ne sarei sbattuto se Rachael/Sean fosse vera o finta. Mi sarei tolto immediatamente la canottiera, permeandola in zona equatoriale di surriscaldamento provocato dal buco dell’ozono.
Sovraccaricando le calotte termiche. Sgelandola dal freddo della sua vita vissuta nel terrore come la quarantena dei sei, poi quattro wanted/ricercati del film, compresa lei.
Se fossi stato al posto di Rick, sì, non mi sarei mai permesso di perpetrarle un brutto scherzo ma l’avrei fatta… piangere di amore, eh già, le avrei immesso subito il mio dick con furente, fenomenale e irreprimibile ardore. Infatti, così viene, no, avviene dopo i titoli di coda ma il minutaggio finisce e schizza la dissolvenza in nero mentre, ve lo dico subito, alla penombra, forse di un’erezione, no, edizione censurata e tenutaci nascosta, Rick se la fotté bellamente dietro delle persiane da architettura fantascientifica, baroccamente ammaliante, figlia della scenografia impotente, no, imponente di Lawrence G. Paull.
Alla Sean di quei tempi, eh già, avrei dato subito un figlio con passione superiore a quella di Cristo. Senza musica di Vangelis poiché, nelle chiaroscurali notti da lupi, giocosamente irredente, in cui s’amoreggia morbidamente ignudi di tangibili danze del ventre, bisogna lasciare stare il Vangelo ed essere biblicamente crocefissi solamente alla nuda condizione umana più carnalmente peccaminosa, dunque sincera, senza giochini da investigatore delle immor(t)alità, così come invece, più di Giuda, finse bugiardamente di essere Dick dirimpetto a Zhora Salome/Joanna Cassidy.
Quando la scoprì… nel night club. Adocchiandola di buon occhio da guardone volpone e, allo stesso tempo, con sospetto spiandola. Ah, quella donna fu eternamente malvista…
Oh sì, fratelli e sorelle, la notte senza giorno è ancora lunga e non basterà avere amici immaginari come J.F. Sebastian. Non è tempo per i giocattoli e per i nani.
Lo sa il magnetico gigante Roy Batty/Rutger Hauer. Tanto agghiacciante quanto ipnotico in Blade Runner.
Un gigante che, con la sola forza del suo sguardo penetrante, distrugge ogni canzonetta di Piero Pelù grazie al potere ardente del diablo.
Quindi, prende su parola Clint Eastwood:
– Indio, hai finito di dire stronzate?
– E tu chi sei?
– Una testa di cazzo, non lo sapevi?
Voglio raccontarti io una storia, sono stanco dei tuoi deliri e delle tue fandonie.
– Dimmi pure. Sentiamo tutti che ha da dire questo monco…
– Bene. Dovete sapere che, in passato, recitai la mia vita in maniera un po’ autistica da Ryan Gosling non da Denis Villeneuve, bensì da Drive, un autista. Vivendo nelle tenebre cupissime della mia notte cieca, opprimente e nerissima. O forse vedendo la vita con le stesse iridescenti, cangevoli luminosità dei fulgidi occhi languidi di Daryl Hannah.
Per molto tempo, fui sottoposto a domande da Rick Deckard. Fui preso per semi-uomo sofferente della sindrome di Asperger, la stessa di cui è congenitamente affetta la Hannah.
Poiché mi mossi nel mondo in maniera troppo falotica, no, robotica da D.A.R.Y.L.
– E invece qual è la verità, oh, nostro cavaliere pallido?
– La verità è che Blade Runner è uno dei film più belli del mondo. Illumina difatti, nella tetraggine di tal mondo infausto ed eclissatosi nella perdizione di tantissime anime oramai decadenti, le vite ancora pulsanti di cuore vivamente umano.
– Ehi, che cazzo di risposta è mai questa? Vogliamo sapere la verità sul tuo conto.
– Ho visto navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia.
– Dunque? Ah… è tempo di morire?
– Per te, sì, Indio.
– Che cos’è una freddura, questa qui? Fai il serio, biondo. Mi vuoi fare uno scherzo, eh?
– Non è uno scherzo, è una corda.
Avanti, fratello brutto di nome Eli Wallach, da lassù impiccalo più in alto.
Ed Eli, sorridendomi, benedicendomi dal cielo, sghignazza sotto i baffi e mi dice:
– Ehi, biondo. Lo sai di chi sei figlio tu…?
– Non puoi farmi questo, monco! – grida impaurito El Indio.
– Perché no? Al mio mulo non piace la gente che ride. Soprattutto quando le risate cattive si commettono ai danni di uomini e donne più belli/e e virginali di Sean Young dei tempi d’oro. E si dice loro di essere dei replicanti, accusandoli di malattie mentali poiché non si crede ai loro ricordi e all’unicità della vita nella sua complessa diversità. Violando e violentando il loro pudore con mostruoso sacrilegio immondo.
– No, non puoi farlo!
– Infatti, non lo farò. Sei un cornuto, mica un bianco unicorno, sei un essere infausto, meriti solo di essere ingannato da Faust. Sì, quello di Goethe, hai finito di fare lo smargiasso, arrossandoti furbescamente le gote.
– Che dio ti benedica. Sarà dunque solo questa la mia pena?
– No, su questo invece sbagli. Io perdono, Dio no.
– Oh, signore altissimo. Che tu sia lodato. Ti ringrazio, tu sei un dio.
– Bravo…
Comunque, a parte gli scherzi, non è che mi farai la fine di quello sciroccato e scimunito di Brion James/Leon Kowalski?
– Kowalksi di Gran Torino?
– Sì, buonanotte. Sei più cretino di quello che pensavo.
– Che vorresti dire?
– Quello che ho detto…
EPILOGO:
Ah, s’è fatto tardi. Vi lascio alla trama di Wikipedia…
Il film è ambientato in una Los Angeles distopica dell’anno 2019. La tecnologia ha permesso la creazione di esseri sintetici del tutto simili agli umani, detti “replicanti”, utilizzati come schiavi, dotati di capacità intellettuali e forza fisica estremamente superiori agli uomini, ma con una longevità limitata a 4 anni. Sei replicanti del modello più evoluto (tre femmine e tre maschi), capitanati da Roy Batty, sono fuggiti dalle colonie extramondo e, giunti furtivamente a Los Angeles, hanno cercato di introdursi nella Tyrell Corporation, l’azienda dove erano stati creati, allo scopo di far togliere il limite alle loro vite. Due di loro (un maschio e una femmina) sono finiti in un campo elettrico rimanendo folgorati,[14] mentre gli altri quattro sono fuggiti. Uno di questi, Leon, è stato individuato tra i candidati in cerca di lavoro alla Tyrell, ma è riuscito a scappare sparando all’agente Holden, che lo stava sottoponendo a un test per il riconoscimento dei replicanti.
Adesso sono stanco.
Riguardatevi il film e non rompete le palle. La notte si fa leggendario noir.
di Stefano Falotico
Heat – La sfida, recensione
Ecco, oggi vi parlo di un film che oramai conoscete tutti e che adesso è unanimemente considerato un capolavoro, il mirabile, sommo, insuperabile e magnifico Heat – La sfida del grande Michael Mann, con uno dei duo attoriali più eclatanti della storia del Cinema, ovvero Al Pacino e Robert De Niro. E quale occasione migliore, in attesa di The Irishman di Scorsese, oramai alle porte, pellicola che li vedrà nuovamente rivaleggiare in dualistica attorialità eternamente complice, amicale e al contempo competitiva, come sempre è accaduto sin da quando dagli anni settanta in poi son stati decretati immediatamente the greatest, per parlare ancora una volta di Heat, appunto, film sul quale nelle ultime due decadi si son versati litri d’inchiostro e per cui chiunque si è sbizzarrito in molteplici, furibonde esegesi. Arrivando soprattutto a non capire come sia stato possibile che un film di questa portata universale, ai tempi della sua uscita, fu certamente molto apprezzato dalla Critica e ottimamente accolto dal pubblico ma fu anche inspiegabilmente parecchio snobbato, tanto da venir completamente dimenticato, ad esempio, dagli Oscar.
Un film epocale invece che, a distanza di ventitré anni dalla sua uscita, non solo non ha perso nemmeno un briciolo della sua illuminante potenza ma il cui valore si è sempre più accresciuto spasmodicamente nel cuore dei cinefili puri. E davanti al quale la Critica più dura a morire, troppo civettuola e vetustamente legata a estetiche cinematografiche superate e accademicamente supponenti, oramai ha sventolato bandiera bianca, auto-smentita nelle sue indifendibili pretestuosità sin ad abbandonare ogni cavillosa scusante e prostrandosi dirimpetto a tale masterpiece indiscutibile. Ed è oramai altresì chiarissimo e inequivocabile che Heat sia inamovibilmente assurto a capodopera imprescindibile della filmografia di Mann, una colonna basale e portante inderogabilmente imperitura, inscalfibile, una pietra miliare dal gigantesco, adamantino splendore.
Una vetta apoteotica, un colpo di genio sensazionale, un’elettrica pellicola della durata di due ore e cinquanta minuti ipnotici. Mastodontica venustà visivo-emozionale che profuma di adrenalina cristallina e sulfurea come il significato stesso della parola heat, calore, ch’emana afflato epico, impregnata di un romanticismo commovente, da stordirci tutt’ora dopo nostre innumerevoli re-visioni. Immergendoci nella sua magica grandezza. Incantandoci nel fuoco magmatico dei suoi abissali brividi roventi e maliardi.
Heat è uscito sugli schermi italiani il 9 Febbraio del 1996, e la nostra locandina recitava… quando il cinema diventa leggenda. Perché, per la prima volta in assoluto, le due leggende viventi Al Pacino e Robert De Niro s’incontravano faccia a faccia in un film. Avevano recitato assieme nel titanico Il padrino – Parte II di Coppola ma in questo caso, per ovvie ragioni cronologiche, non condividevano nessuna inquadratura.
Heat è stato il primo film, appunto, in cui si sono sfiorati, compenetrati, antiteticamente riflessi l’uno nell’altro, in un confronto-scontro dicotomico e antologicamente speculare. Poi ci sarebbe stato il bistrattato Sfida senza regole e, come detto, siamo in febbricitante attesa al cardiopalma, da hype pazzesco, di The Irishman.
La trama la sapete meglio di me e, se volete ripassarla nei dettagli, c’è il lunghissimo papiro di Wikipedia che vi sarà d’aiuto a rammemorare ogni singola scena. Per sollecitarvi altre nostalgiche elucubrazioni interminabili.
È la storia di una banda di attrezzati ed espertissimi rapinatori, capeggiata dal solitario, scaltro, freddissimo Neil McCauley (De Niro), che viene ricercata dall’instancabile Tenente Vincent Hanna (Pacino) e dalla sua inflessibile, inarrendevole squadra addestrata di poliziotti di Los Angeles. Neil e la sua gang, nella quale svetta il suo amico biondo Chris Shiherlis (Val Kilmer), hanno tentato un ultimo, enorme colpo ma molte cose sono andate storte…
Tutto qua? Macché. Un semplice nor-poliziesco, dilatazione dello stesso tv movie di Mann, Sei solo, agente Vincent!, un normalissimo e all’apparenza convenzionale caper movie che, grazie alla vertiginosa e strepitosa poetica di Mann e alla sua entusiasmante messa in scena, diviene di tutto e di più. Un liturgico, citazionistico elogio de Il mucchio selvaggio di Peckinpah che strizza l’occhio perfino ai polar di Jean-Pierre Melville con le sue calde solitudini malavitose e, affrescato dalle turbinanti tinte fotografiche di Dante Spinotti, si trasforma quindi addirittura in una panoramica, approfondita riflessione dantesca sul Bene e Male, un intelaiato, dedalico, topografico ritratto psicologico di uomini e donne che combattono su fronti opposti, un acquoso e malinconico, sbalorditivo, descrittivo e minuzioso quadro di soavi e complicate storie d’amore intrecciate, un intersecato viaggio luminescente nei bagliori e nelle penombre dell’animo umano tanto maledettamente complicato.
Le scene cult si sprecano, da quella oramai celeberrima del diner con Pacino e De Niro all’impressionante sparatoria dopo la rapina andata male.
E il finale è poesia inarrivabile.
Un film che vanta nel cast, oltre naturalmente a Pacino, De Niro e Val Kilmer, il volto roccioso di Jon Voight, Natalie Portman, Diane Venora, Ashley Judd, Tom Sizemore, Wes Studi, Danny Trejo, Amy Brenneman, William Fichtner, Hank Azaria e Tom Noonan.
Direi che possiamo fermarci qui…
di Stefano Falotico
Carlito’s Way, recensione
Oggi recensiamo uno dei massimi film di Brian De Palma, ovvero Carlito’s Way coi premi Oscar Al Pacino e Sean Penn.
Un film all’epoca assai sottovalutato, totalmente snobbato dagli Academy Awards come d’altronde sempre avvenuto nei riguardi di De Palma, cineasta geniale, maestro inderogabile della Settima Arte più suprema ma un regista troppo scomodo, forse sempre troppo avanti per poter compiacere i gusti abbastanza ruffiani, politicizzati, retrivi dell’Hollywood dei premi e delle paillettes. Infatti, nella sua pur sconfinatamente grandiosa carriera, nonostante i suoi tantissimi capolavori, De Palma non ha mai ricevuto una nomination.
Un regista che non ha certo bisogno di presentazioni, un nome irrinunciabile per chi ama il Cinema maiuscolo, un director superbamente sperimentalista ai limiti dell’ombelicale narcisismo isterico, un maestro innovatore, un rivoluzionario irrefrenabile, un avanguardista perfino tanto cinefilo lui stesso da essere macroscopicamente tacciato, ah, che orrido errore, per un imitatore di Hitchcock, per un pedissequo, sterile metteur en scène vacuamente riciclatore di stilemi già visti.
No, De Palma tutt’al più ha frullato il Cinema, la sua magnificenza visiva, nella rimembranza reinventiva del déjà vu ciclopicamente filtrato dalla sua barocca creatività mastodontica, un infermabile, poliedrico camaleonte della macchina da presa, un voyeur della bellezza ai confini della più sovrana immaginazione masochistica e del suo perenne, galoppante mai esser domo nel saggiare, plasmare, architettare e rimodellare nuove, intriganti idee folgoranti, un regista spasmodicamente riformista delle sue stesse traiettorie formali. Un cannibale addirittura della sua stessa poetica, sviscerata, esplorata e rivivificata illimitatamente e ad libitum di pellicola in pellicola, attraverso uno sguardo continuamente in cerca di altre prospettive estetiche e diegetiche.
Ma parliamo di Carlito’s Way.
Film della durata di due ore e 24 min, uscito nelle nostre sale il 22 dicembre del 1993, in pieno periodo natalizio.
Sceneggiato da David Koepp, il quale si è basato su due romanzi di Edwin Torres, appunto Carlito’s Way ma soprattutto After Hours.
La produzione, per non creare confusione con l’omonimo, ben differente film di Scorsese, Fuori orario, decise di scegliere come titolo quello della prima novel.
Trama…
Siamo nella New York del 1975. Il portoricano Carlito Brigante (Al Pacino), grazie a un ardito intrallazzo del suo avvocato truffaldino, David Kleinfeld (Sean Penn), è uscito dal carcere prima del previsto, ove era stato detenuto per essere stato uno dei maggiori spacciatori di droga della città.
Una volta libero, Carlito torna nel suo vecchio quartiere. Ma si accorge subito che molte cose sono cambiate. E la gente non è più quella di una volta. Nemmeno la criminalità è la stessa, come se fossero andati perduti, soltanto nel giro di una manciata d’anni, tutti i codici d’onore del rispetto e delle gerarchie tra i capimafia.
Carlito non è più interessato a quei giri loschi di spaccio clandestino, vuole rimanere pulito. E, sbrilluccicante e balenante, in testa gli scintilla solo lo sfavillio di un impossibile, grande sogno che chimericamente lo ossessiona da mattina a sera. Fare soldi per fuggire lontano da tutti e godersi la vita in una dorata isola dei Caraibi. Semmai, viaggiando e approdando verso quest’idilliaco lido con la sua ex, la donna che ha sempre amato e mai dimenticato neppure quand’era in prigione, Gail (Penelope Ann Miller).
Così, diventa il proprietario di un night club, “El Paraiso”. Un locale comunque alquanto malfamato, frequentato da loschi individui come il pusher Benny Blanco (John Leguizamo).
Intanto, Kleinfeld si è infilato in un pericolosissimo vicolo cieco per colpa di aver commesso uno sgarbo imperdonabile alla famiglia Taglialucci.
E forse, per l’ennesima volta e a causa dell’imprevedibile concatenarsi degl’implacabili, fatali eventi negativi, il sogno di libertà di Carlito s’infrangerà nuovamente contro la dura, efferata realtà invincibile e mortale.
Al Pacino e Sean Penn sono straordinari, il film ha un ritmo eccezionale, De Palma spinge tutto sull’acceleratore sin all’esplodere irruento, emozionante e fiammeggiante della tragedia d’un finale, è il caso di dirlo, al cardiopalma, fra auto-citazioni e sfrontate sfrenatezze mirabolanti di una m. da p. mobilissima, fra lunghi, strepitosi piani sequenza e soggettive indimenticabili.
Ottima fotografia di Stephen H. Burum.
Un filmone!
di Stefano Falotico
PASOLINI di Abel Ferrara, recensione
Ebbene, a distanza di sei anni circa dalla sua presentazione al Festival di Venezia, in concomitanza con la sua distribuzione italiana su Netflix, proveremo a ristudiare e riguardare, con estrema meticolosità e maggiore obiettività, Pasolini, controversa opus di Abel Ferrara, interpretata da Willem Dafoe.
Incentrata, come da titolo assai eloquente, ovviamente su Pier Paolo Pasolini. Uno dei massimi intellettuali italiani e non solo del dopoguerra, regista, sceneggiatore, romanziere, drammaturgo e soprattutto pensatore libero osteggiato e trucidato nella maledetta notte del 2 Novembre del 1975 sul litorale di Ostia.
In tale pellicola di Ferrara, della breve durata, almeno per gli standard attuali, di poco meno di novanta minuti, non è però del tutto vero che vengano raccontati solamente gli ultimi giorni di vita di Pasolini. A differenza di ciò che, per esempio, attesta erroneamente Wikipedia.
In verità, il film si apre con un Pasolini, sì, di ritorno a casa nell’ultimo periodo della sua vita ma il film, oniricamente intelaiato in forma diegeticamente contorta e arabesca in puro, delirante e spesso disturbante, amatissimo e odiato od estasiante, a seconda dei gusti, stile filmico assolutamente ferrariano, rimane sul vago, cronologicamente parlando, e immortala, in maniera più che altro, potremmo dire, impressionistica e personalissimamente romanzata, certamente tanto affascinante quanto discutibile, la lenta e spettrale discesa agli inferi vissuta consciamente, cioè in cuor suo quasi precognitivo eppur allo stesso tempo inconsapevolmente, da Pasolini prima della sua tragica morte.
Un prima impreciso e quasi, potremmo dire, fantasticato o ignoto, persino fantasmatico.
Pasolini viene svegliato da sua madre e pranza con Domenico Naldini (Valerio Mastandrea), ricevendo l’inaspettata ma lietamente bizzarra visita della coloritamente pazza Laura Betti (Maria de Medeiros).
Dunque, tra risate facete e sorrisi malinconici, fra ricordi di ragazzi di vita bramosamente ingordi sessualmente, nell’ombra incombente della sua giovinezza già tormentatamente diversa, incarnata forse stonatamente da un simbiotico alter ego Roberto Zibetti nei panni di Carlo, fra poetici e riflessivi brani del suo incompiuto libro Petrolio e la definitiva, nichilistica intervista ufficiale rilasciata in forma assolutamente privata, tenutasi fra le sue anguste eppur protettive pareti domestiche, quasi catacombali, dopo i primi quaranta minuti elegantemente delicati, suadenti e perfino commoventi, Pasolini si sfilaccia sensibilmente e gravemente si deteriora poiché Ferrara, giunto a questo punto, dopo aver mantenuto uno stile compassato assai apprezzabile e intimisticamente pudico, ancora una volta non sa rinunciare al suo mood cineastico per cui è, nel bene e nel male, famoso.
Eccedendo non poco, forse addirittura sgarbatamente, di sue superflue e indigeste fantasticherie strambe e visionarie sul celeberrimo film Porno–Teo–Kolossal che, come sappiamo, non vide mai la luce.
Consegnando a Ninetto Davoli la parte di Eduardo De Fillipo che, nelle intenzioni di Pasolini, avrebbe dovuto interpretare l’opera cinematografica appena sopra menzionativi, invece consegnando a Riccardo Scamarcio sia il ruolo di Ninetto Davoli da giovane che, al contempo, del figlio stesso di Eduardo.
Utilizzando e abusando della musica dei Pink Floyd, nell’ultima mezz’ora, Pasolini di Abel Ferrara diviene sconclusionato, pasticciato e perfino desolante.
Da gigantesco e ambizioso che poteva essere, pur nella sua brevità di minutaggio, diviene minuto.
Ferrara non vuole narrarci, infatti, l’accaduto della morte di Pasolini così come verosimilmente avvenne. Non vuole essere cronachistico e/o documentaristico, bensì desidera liberamente sorvolare sulla reale e sconvolgente macchinazione complottistica di cui fu ignara vittima Pasolini, peccando dunque colpevolmente in quanto, così facendo, si rivela estremamente riduttivo e macera il suo stesso lodevole intellettualismo e l’impianto sofisticato che, fino a questo momento, era stato capace d’imbastire con sorprendente finezza e bellissima, eclatante ricercatezza, schiacciandolo e appesantendolo con inutili voli pindarici dei più prevedibilmente volgari e, per l’appunto, pseudo teologicamente pornografici.
Comprimendo Dafoe, alla fine, a una tenera macchietta amante irredenta della sua sana, rispettabilissima omosessualità invincibile. La quale, purtroppo, così semplicisticamente da lui filtrata e filmata, risulta banalmente e assurdamente perversa e malata.
Tanto d’apparirci solo come lo squallido capriccio vizioso di un uomo complessato e, non solo sessualmente, insicuro.
Cioè, nella sua sofistica ricerca autoriale a tutti i costi, volutamente dimenticando la realtà dei fatti, Ferrara non la racconta giusta soprattutto nei riguardi della sua stessa onestà intellettuale.
Pasolini, da stupendo che fu prima del delirio ferrariano dell’ultima mezz’ora, dunque tramuta, un po’ oscenamente, in un santificante inno agiografico dedicato a un eminente, rivoluzionario e profetico intellettuale assai stimabile dalla personalità complessa e profondissima, paradossalmente apparendoci morbosamente quasi come un manifesto contro l’omofobia.
Più che un sacrosanto grido contro il potere schiavizzante e demagogico, diviene perciò un urlo innocuo contro l’italico malcostume culturalmente insano.
Un po’ poco, anzi, troppo poco.
di Stefano Falotico
ROCKY BALBOA: ancora lo recensisco alla mia maniera, cioè di tastiera a mani nude
Dalle viscere della mia interiorità, riemerge di mie ancestrali rievocazioni, questa pellicola per me effettivamente e affettivamente storica, con un personaggio super stoico, dalle prepotenti emozioni come il Falotico.
Capitolo conclusivo della saga sul leggendario idolo popolare e delle folle, Rocky Balboa. L’underdog pugilatore di Philadelphia che, nel primo, epocale film capostipite di tale franchise, generatosi dal successo planetario e oscarizzato della suddetta pellicola progenitrice di tutti i susseguenti sequel, resistette sin al quindicesimo round contro il campione dei pesi massimi imbattuto, Apollo Creed. Non crollando dinanzi all’impeto turbolento dei pugni sferratigli contro da Creed, opponendosene con fierezza grintosa eppur perdendo ai punti decretati dai tabellini dei giudici del match.
Nel seguito, riuscì a sconfiggere Creed all’ultimo secondo, trionfando platealmente e cementando la sua epicità monumentale. Poi la storia proseguì, Creed risollevò da terra Balboa ma morì sotto i colpi impietosi del mostruoso Ivan Drago, scatenando l’ira vendicativa d’un Balboa irrefrenabile che distrusse ogni più nero, anche russo, scagliatogli addosso, pessimistico pronostico nefasto. Stupendo il mondo intero e nuovamente, risorgendo in gloria, dopo aver perso per l’ennesima volta tutto, nel quinto film. Mettendo, metaforicamente a tappeto e a mani nude assai crude, il suo pupillo Tommy Gunn che gli si rivoltò contro in maniera ingrata e profondamente strafottente, ingiusta e quindi da Rocky severamente punita con rabbia lapidaria e sacrosanta. Cazzuta.
Ed eccoci dunque arrivati a Rocky Balboa. Al momento, ripetiamolo, l’ultimo segmento della movimentata, appassionante, spesso purtroppo commerciale ed edonistica saga che, vi piaccia o no, creò il mito di Sly.
Rocky Balboa uscì, quasi in souplesse, il 12 Gennaio del 2007.
Ancora rimembro, nostalgicamente commosso, quella sera pallida nella quale, terminate da poco le feste natalizie, m’avviai solitario alla multisala di Rastignano, in provincia di Bologna. Proteggendomi, con un morbido, avvolgente giubbotto di pelle da pagliaccio stravagante, dal freddo e dalle intemperie rigide di quell’inverno per me straordinariamente reminiscente d’una mia era risorta fulgidamente in mistica, ancora calorosa e rinascimentale mia vita riscaturita dalla voragine dei miei imperscrutabili, aliena(n)ti bui esistenziali che, da tempo immemorabile, rapirono e rattrappirono il mio cuore in un abisso melanconico di nevrosi, di nevosi dolori e di laconiche, lascive e lacrimose apatie tormentose, di dolci ipocondrie morbose e di patetiche esagitazioni d’un mio animo stiepiditosi nell’aridità penosa e soventemente paralizzatosi, onestamente, in un precoce, tetro istupidimento per me stesso pericoloso.
Melodiosamente, in quel periodo di miei forti turbamenti animosi, amai una ragazza anche senza mai regalarle una mimosa e neppure delle rose. Però, dolcemente m’infilai spesso fra le sue gambe rosee e focose, gustando cremoso con lei svenevoli visioni armoniose non solo in sala cinematografica, bensì semplicemente sul letto, un po’ a luci rosse, del suo bell’appartamento accogliente ove consumammo più di un amplesso ardimentoso.
Ci gustammo in modo frizzante, effervescente e spensierato, arioso e giocoso. In una parola, delizioso. Lei mi baciò con dolcezza lussuriosa e io, volentieri e volenteroso, giammai violento o troppo burrascosamente voglioso, leccai ogni delicato momento di quelle carezze lievi permeate di romantica leggiadria e di godibili sensualità che, all’epoca, debellarono ogni mia triste nostalgia. Riscaldando la mia atavica depressione annale da cazzone vagabondo che, come il Balboa, nascose un talento misterioso e potente malgrado a quei tempi mi lasciassi andare, recandomi a noleggiare solamente film di Bergman alla videoteca Balboni. Ubicata, a Bologna, sotto il Meloncello.
Per via di questo mio atteggiamento schivo da ragazzo ritroso, fui preso solo per un coglioncello stolto e permaloso. Per un mezzo tonto come Stallone di Cop Land.
Ma ritorniamo sul film di tale mia recensione spettacolosa ché non voglio farvi innamorare, no, ammorbare coi miei racconti obiettivamente noiosi.
Sì, come quelli che Balboa/Stallone, in questa pellicola meravigliosa, rifila agli avventori del suo ristorantino rustico, chiamato Adrian’s. In memoria delle sue riaccesesi memorie da Celentano di turno? No, della sua defunta sposa con la quale non poté più desinare né cenare, affamato di passione, assieme al suo purissimo, eterno amore sanguigno e rosso come il colore cremisi poiché forse lei, sotto la lapide mortuaria, in quanto crepata, fu pure probabilmente cremata.
A parte gli scherzi, che grande film struggente. Di rabbie splendidamente rifulgenti, mai morte e vividamente ruggenti.
Ove Rocky, rimasto solo come un cane, ripudiato dal viziato figlio capriccioso, guardato con sospetto persino da suo cognato malmostoso, abbandonando ogni sua innata furia combattiva da born loser iroso, vivo seppellendosi in una senilità mortifera, di nuovo torna sul ring, ringhiando con la sue Eye of the Tiger da Survivor o forse da titanico eroe sopravvissuto e giammai abbattuto, specialmente nel suo cuore non ancora arenatosi e indomito.
Al che, torna ad allenarsi poiché Mason Dixon, attuale detentore del titolo di campione mondiale, la gente pensa che non sia grande quanto lui. Rocky Balboa, chi, sennò?
Fra ricordi e periferici ritorni, fra altre sberle prese in faccia e colpi duri da digerire, nonostante altre mille batoste tremende, Rocky è ancora tosto e non è affatto un pollo già arrosto.
Come nel primo, perderà ai punti e forse, a causa dei tantissimi ricevuti pugni a lui inferti dal giovanissimo e più scattante Mason, finirà in ospedale, come all’inizio di Rocky II, per curare le brutte ferite, in tal caso solo fisiche, con molti punti… sì, di sutura.
Rocky sa che la vita è dura e forse lo vedremo, dopo gli spin–off dei due Creed, in un’altra impossibile, stimolante, esaltante avventura.
Questo è un mio pezzo bellissimo con qualche filastrocca da signor Bonaventura.
Non so quale futuro m’attenderà in questa mia esistenziale gara dura, l’importante è comunque non pensare troppo riguardo quel che sarà venturo, bensì vivere e lasciarmi stare se non vorrete prendere una pesante fregatura.
Poiché, se gratuitamente provocato, mi par(s)e d’aver già dimostrato che non è tanto facile, così come invece molti tragicamente pensarono, battermi in ogni campo.
Buona vita a tutti.
di Stefano Falotico
Basta con Martin Scorsese, evviva David Lynch, abbasso The Wolf of Wall Street
Importante, imprescindibile prologo
Chi scrive questa recensione fu (uso il passato remoto, in linea con le mie alterità emozionali di trascorsi burrascosi, quindi postisi, in un mio altrove, in emotivo maremoto) uno dei più grandi fanatici viventi di Martin Scorsese, considerato quasi unanimemente il più grande regista vivente.
Mi spiace contraddire il me che fui e che credo, per fortuna o purtroppo, non sarò più.
Scorsese non è più il mio regista preferito. E non è il cineasta più grande, per niente.
Non lo è, sinceramente, dal remoto ‘99 quando uscì con una delle sue opere meno menzionate perfino da coloro che si dichiarano, orgogliosamente (dico io, ignorantemente), suoi fervidi aficionados, suoi incalliti appassionati e sconfinati ammiratori irriducibili, ovvero Al di là della vita.
Opera impressionante, stordente, magniloquente nella sua secchezza febbricitante da far spavento per la sua pura e autentica schiettezza frastornante.
Scritta dal geniale, tormentato, semi-pervertito Paul Schrader, indubbiamente un mezzo malato di mente dei più inimmaginabili e dunque inauditamente un temerario sceneggiatore senza macchia e senza paura dei più francamente brillanti. Autoriali e rari. Fantastici e sanamente farneticanti.
Un solipsista mai visto capace di tritare, di nitrire furioso e ritrarre, immortalare, nei suoi script migliori, la voraginosa tetraggine dostoevskijana al suo massimo splendore e grado esponenziale più funereo e cimiteriale. Nel vivisezionarla con antropologica religiosità assurdamente atea, forse calvinista, forse duramente ortodossa a immergersene con acutezza scuramente impietosa, cinicamente nichilista e dunque profondamente romantica da moderno, impietoso verista lucidissimo.
Schrader, la lacrimosa incarnazione delle bergmaniane melanconie associate all’intrepidezza immaginativa più irosa, immacolata e strepitante, sviscerante la nerezza della repellente ma inalienabile condizione umana paurosa e tormentosa da lui paradossalmente illuminata disperatamente con nitida, grintosa speranza lisergica, allucinatoria e spasmodica.
Un’umanità miserrima, pusillanime e da sempre morta!
Un’umanità irredimibile che, come lapidariamente affermò Nietzsche, perdendo il suo ingenuo Credo in Dio, rimase senz’anima. Glacialmente! Sperduta e oramai irreversibilmente caduta, decaduta, incenerita, imbruttita e onestamente finita. Per meglio dire, forse scolorita. Stinta. Caduca!
Paul, un cristologico ectoplasma amletico, straziato e combattuto se essere o non essere attraverso la sua mente turbinosa e, di rabbie ardimentosamente potenti, ertosi a titanico paladino titanico, in maniera demiurgica, dell’orripilante vivere-non vivere di noi tutti già morti nell’attimo stesso in cui nascemmo asmatici. Soccombendo, al primo battito e respiro, al palpito d’ansietà ansimanti mascherate dietro finte lietezze e ipocrite, misere accondiscendenze buoniste.
Poiché, psichiatricamente, inesorabilmente nei nostri più reconditi, dunque istintivamente inestirpabili e vivi, sepolti tremori ancestrali ed esistenzialmente più sinceri e limpidi, alberga l’orrore celato del nostro innato gelo sconsacrato. Del nostro desiderare la beltà celestiale d’un cielo idilliaco invero solamente figlio delle nostre ataviche paure mai vinte. Ché, seppellendole nell’ordine precostituito della società apparentemente, dunque biecamente civile, c’illudemmo d’aver segregato nel limbo delle allegre, superficiali dimenticanze oscurantistiche, illusoriamente sconfitte. Dio non esiste, forse nemmeno noi esistiamo né mai vivemmo, viviamo e vivremo come vorremmo.
In quanto, come già ermeticamente detto, non possiamo essere davvero in quanto membri di una società che, ingannatasi dietro retoriche utopie, non seppe, sa né saprà rinunciare in cuor suo e inconsciamente, realmente alle sue millenarie, false e stoltamente comode, perbenistiche ideologie stronze.
Abdicando impeccabilmente, per sopravvivere, alla diabolica tentazione angelicamente fatua, dunque onestamente e ineludibilmente luciferina, di ostinarci pateticamente a non crederci zombi viventi, cattivi e sporchi. Cioè degli illusi deficienti.
Fantasmi ambulanti noi fummo e saremo che vaghiamo e vagheremo, evanescenti, scemi e rincretiniti da troppe ultime tentazioni di Cristo nella notte puttanesca da Maddalena bastarda dei nostri eterni, inscalfibili, insopprimibili e puntualmente riverberatisi complessi di colpa aberranti. Meravigliosamente stupefacenti.
Siamo una canzone dei Clash al suo zenit delirante.
Inutile urlare di amare quando in verità soccombiamo dinanzi ai nostri orridi scheletri nell’armadio man mano che passano i secondi e si avvicina, tremendamente, l’agghiacciante e sacrosanta nostra collettiva disumana morte. Oh sì, esseri noi siamo empi e inverecondi, altro che amorosi, amorevoli e giocondi.
Siamo tutti dei grandi stronzi, dei vermi fradici e sbronzi. Altro che dei greci con statuari fisici di bronzo.
Siamo nati impuri e putridi, ci trasciniamo nella polvere, fantasticando sognanti, dunque da soli e senza molti soldi, fregandoci, di essere sani e santi.
Ecco allora che qualcuno, come Travis Bickle di Taxi Driver, citandolo testualmente, desidera orgasmizzarsi per darsi da sé un impulso e una carica vitale invero già marciante verso la sua veglia funeraria da insonne indiano della sua giammai redenta solitudine abissale e di emozioni interiormente, straordinariamente vissute personalmente ma talmente empatiche da risultare, paradossalmente, agli occhi altrui come di cuore avare.
Travis scompare nella notte buia ed eterna della sua invincibile tenebra giustamente dissoluta. Da chi, purtroppo o per (s)fortuna, vide giusto. Capendo sin dapprincipio che non sarebbe stato un gesto eroico o salvifico a cambiarlo e a correttamente istradarlo verso la retta via oramai dannatamente smarrita.
Ecco allora Willem Dafoe/Christ che sbraita sacrilego sulla croce e, copiosamente sanguinando, non più si santifica, bensì scarnifica le bugie del mondo, svelando ogni inganno in un urlo munchiano quasi kafkiano da Griffin Dunne di Fuori orario.
Poiché Gesù, al solo suo vagheggiare un amplesso con la prostituta per antonomasia più grande di sempre, Barbara Hershey/Maddalena, si animalizzò in un’istantanea, agghiacciante metamorfosi spettrale.
Lui, simbolo della castità totale e universale, della verginità purissima della divinità fattasi vivo, pulsante sangue, del superuomo materializzatosi per storico miracolo d’un dio super stoico, re dei giudei incontrastato che, in quell’attimo mortalmente peccaminoso, quasi barbarico da uomo preistorico, silenziosamente in cuor suo gridò un bestiale, terrificante Porco Giuda, Porco Dio e put… na la Madonna!
Bestemmiando, in modo scellerato, empio e sconcio, un sepolcrale, deviante e corrotto essersi oscenamente mercificato alla più squallida carne ottenebrante, come detto, i cuori di noi tutti, poveri, abietti mortali infingardi, lerci, bavosi e porci.
Anche lui resosi schiavo, così come ben lungimirante profetizzò Pasolini, al dio denaro, dandosi al più triviale mercimonio. Anche lui un prodotto pubblicitario.
E arriviamo dunque a The Wolf of Wall Street.
Che è soltanto aria fritta e non una miriade, così come invece disgraziatamente dicono molti, d’iperboliche genialate. È invero una miserabile e nient’affatto ammirevole e mirabile, magnifica tragedia greca insuperabile come Casinò, non è una triste parabola ascendente e poi discendente di Goodfellas stupidi appartenenti alla criminalità della piccolissima manovalanza.
The Wolf of Wall Street non è proprio un cazzo di niente.
Non è una critica all’edonismo ed è quindi inutile strumentalizzarlo per fini maieutici al fine di adattarlo, a immagine e somiglianza, della propria poetica cinematografica più moralistica, pedagogica e, oserei dire, limitatamente demagogica.
Scorsese la dovrebbe semplicemente, giunto ora a una veneranda età che presupponiamo essere saggia, di ammorbarci con le sue gangsteristiche, più che altro sgangherate, elegie malinconiche erette a monumentale celebrazione del suo Cinema trascorso. Auto-elevandosi in Gloria perversa rivolta a magnificazione del sé stesso nei suoi riguardi amorevole, se preferite, amoroso. Diciamo sostanzialmente macchinoso, sì, usiamo un altro calzante sinonimo inglorioso, obiettivamente facinoroso al limite dell’increscioso
La celeberrima canzone di Umberto Tozzi che furoreggia sulla nave ove Margot Robbie/Naomi Lapaglia balla tutta scosciata fa parte di uno Scorsese più rincoglionito di Albano e Romina Power.
Inutile anche che, negli ultimi minuti, Scorsese abbia voluto deliziarci con qualche tocco artistico che non è più, come un tempo, onesto e cazzuto.
Cioè quando Kyle Chandler/Patrick Denham, uomo in doppiopetto burocratico su jeans da dopolavoro forse della Denim, sconsolatamente guarda impotente i poveri cristi con le facce addolorate da frustrati, dalla società frustrati, i quali vuotamente osservano oramai il mondo con inenarrabile amarezza che sempre nell’autocommiserazione stagna. In quanto spogliati di ogni sogno utopico. Insomma, delle (non) viventi, terribili lagne.
È troppo tardi.
The Wolf of Wall Street dura tre ore nette ma, dopo appena trequarti d’ora, per essere abbondanti per difetto, capisci che in tutto eccessivamente difetta e non abbia nulla da dire, in effetti.
Le scene non scandalizzano nessuno, le orge si riciclano stancamente e troppo prevedibilmente, Jordan Belfort/DiCaprio è imbambolato anche carismaticamente, indeciso se emulare le migliori smorfie di De Niro, suo mentore, o essere la nemesi appesantita del suo puro per eccellenza, il suo Jack di Titanic.
Il cammeo di Matthew McConaughey, nei panni di Mark Hanna, è bello e travolgente ma è messo lì apposta per far ridere la gente. Per far sì che possano proliferare e, ingenerarsi da esso, dei penosi memo scacciapensieri per prenderla tutti noi a culo, sniffandola un altro po’ di noia. Cazzeggiando illimitatamente per scordarci che siamo già noi tutti morti e inesorabilmente sbattuti.
The Wolf of Wall Street è un compendio dilatato, improponibile e asfissiante, smisurato e falsamente arrabbiato di banalità a buon mercato, buono semmai solo ai ragazzini che dello Scorsese vero e puro, incazzato duro, non sono per nulla memori o son assai poco informati.
Una puttanata sesquipedale tristemente goliardica e carnevalesca buona solamente al troiaio generale di un’umanità carnascialesca e amoralmente sbagliata che però, a costo di morire, anzi essere già deperita e presto perita, non si redime ma persevera nel fingere di godere e gioire, spacciandosi per distinta e signorile.
The Wolf of Wall Street è, senza se e senza ma, un’immensa bischerata, in una tombale parola, solo una gran porcata.
E lo dico io, ripeto, amante di Kundun poiché essere speciale, forse l’incarnato a Bologna, eh sì, Dalai Lama. O probabilmente, molto più verosimilmente, La cura di Franco Battiato in me umanizzatasi in forma disumana.
Io autore di molteplici opere letterarie, scrittore de La pallida ipocondria della luna, allestitore de La satanica brama del fatale languore e de La prigionia della tua levità.
Io, capace di ascoltare all’unisono in maniera lupesca e anche di ultrasuoni, eh sì, sia la cantante Levante qui nell’occidente che Dua Lipa con Don’t Start Now e Physical poiché Dua è una figa mai vista delle più splendenti nell’odierno, desertico, musicale firmamento.
Poiché come Jordan Belfort, giunto nel mezzo del cammino di mia vita, se vengo preso di mira da qualche poveretto che mi giudica troppo frettolosamente, a lui m’avvicino in modo gioviale e sorridente, dunque con un po’ di strafottenza gli do in mano una penna, una normale stilografica e gli dico:
– Saresti capace di scrivere, tu, il libro Martin Scorsese, la strada dei sogni?
Al che in lui si apre l’abisso e ancora l’abisso e capisce che della vita, soprattutto della sua, capì solo la demenza, comprese solamente, pure a stento, l’imbecille, ilare e capziosamente morale adempienza agli schemi sociali più retrogradi e pseudo-culturali più sciocchi della fallace, sfigata e terribile concupiscenza meschina, carpì ipocritamente l’appariscente contentezza o forse finalmente individuò la lapalissiana trasparenza devastante della sua immane idiozia senz’alcuna possibilità redentiva.
E, in tale suo prendere coscienza tardivamente del suo essere rimasto fermo a una visione perennemente regressiva dell’esistenza, ancora sguaiatamente ride, fingendo di non sapere che questa vita è definibile soltanto con un un’espressione:
tragicomica catastrofe da Joker.
Un uomo che, malgrado si fosse testardamente ostinato a spiegare come stessero le cose, incontrò lungo il suo percorso soltanto dei pensieri mancanti di resipiscenza e privi di ogni morale scienza.
Joker infatti è un capolavoro, The Irishman, no.
Joker è la simbolizzazione in celluloide dell’estrema ratio dinanzi a un mondo incurabile e malato.
Mentre Silence è soltanto un buon film con un Andrew Garfield che, nonostante mille calvari patiti, rimanesempre pettinato benissimo neanche se fosse appena uscito dal barbiere di Brad Pitt di The Audition.
The Departed è una fiction à La omicidi con Vera Farmiga al posto di Luisa Ranieri.
Shutter Island è il remake, in brutta copia manicomiale, di Angel Heart firmato da Alan Parker.
Gangs of New York è un blockbuster senz’arte né parte con un Day-Lewis che gigioneggia a briglia sciolta neanche se avesse appena finito di fare sesso esaltante con Cameron Diaz di The Mask.
L’unico film davvero meritevole di Scorsese degli ultimi vent’anni è Hugo Cabret.
Poiché, a differenza di ciò che sostengono molti di voi, macho fake e femministe da ricovero alla neuro, cioè che sia una favoletta per bambini, è invece uno strepitoso, struggente omaggio mirabolante e caleidoscopico all’essenza del Cinema.
Ché, se finiamo di sentirci orfani perfino dei nostri sogni perduti, tanto vale allora contattare la prima Escort vacca e andare tutti a puttane.
Brindando come scimmie tutti (in)felici e (s)contenti.
The Wolf of Wall Street, il film più brutto di Scorsese, una merda.
Ora, per piacere, chiamate l’agente Cooper di Twin Peaks e ripristinate l’ordine.
di Stefano Falotico
Man on Fire, recensione
Oggi, per il nostro consueto appuntamento coi racconti di Cinema, vi parliamo di Man on Fire firmato dal compianto Tony Scott, sottotitolato Il fuoco della vendetta.
Film dall’assai corposa, oseremmo dire voluminosa, consistente durata un po’ esagerata di due ore e ventisei minuti che fu perfino presentato, nella sezione Fuori Concorso, al Festival di Venezia e uscì sui nostri schermi, distribuito dalla 20th Century Fox, il 10 Settembre del 2004. Interpretato da un Denzel Washington leggermente sovrappeso, corpulento ma comunque sempre carismatico e prestante. Qui in gran forma, più che fisica, soprattutto recitativa.
Sceneggiato dal premio Oscar Brian Helgeland (L.A. Confidential), Man on Fire è il remake di un omonimo film del 1987 con protagonista Scott Glenn, chiamato Kidnapping – Pericolo in agguato. Altresì conosciuto come Un uomo sotto tiro.
Anzi, per essere più precisi, Man on Fire rappresenta il secondo adattamento cinematografico del romanzo dello scrittore A. J. Quinnell.
Man on Fire fu un progetto a lungo covato e sognato, il cosiddetto dream project, da Tony Scott per tempo immemorabile. Il quale addirittura pensò a Marlon Brando per il ruolo principale.
A luglio del 2002, la rivista Variety diede la notizia secondo la quale, dopo The Fan, Man on Fire sarebbe stata la seconda reunion professionale fra Tony Scott e Robert De Niro.
Le riprese, così come avvenne per Ronin di John Frankenheimer, si sarebbero dovute svolgere in Francia, specialmente in Costa Azzurra. Anche in Italia.
Ma, per motivi ancora del tutto ignoti, a pochi mesi dalle riprese, De Niro diede forfait, la produzione slittò per motivi logistici e, nel frattempo, Tony Scott cercò un attoriale rimpiazzo. Rivolgendosi a due interpreti a lui molto cari coi quali già lavorò, ovvero Bruce Willis (L’ultimo boy scout – Missione: sopravvivere) e Will Smith (Nemico pubblico).
Dopo aver ricevuto anche i loro no, scelse alla fine Denzel Washington. Che già diresse in Allarme rosso. Da Man on Fire in poi, come sappiamo, Scott e Washington consolidarono la loro amicizia, divennero maggiormente affiatati e, diciamo, artisticamente s’affiliarono per girare negli anni a seguire altre pellicole di forte successo commerciale, cioè Déjà vu – Corsa contro il tempo, Pelham 1 2 3 – Ostaggi in metropolitana e Unstoppable – Fuori controllo. Peraltro, ultimo film di Tony Scott, datato 2010.
Tony Scott, infatti, in seguito all’aggravarsi della sua malattia, morì all’età di sessantotto anni, esattamente il 19 Agosto del 2012.
Ebbene, dopo questo lunga ma necessaria introduzione, torniamo a Man on Fire.
Dopo tanto vagliare, Scott decise di spostare le location del film. Passando dalla Francia a Città del Messico.
Trama:
dopo varie titubanze e resistenze, l’ex agente pluridecorato e spietatissimo della CIA, Creasy (Denzel Washington), malgrado non sia ancora riuscito a debellare i suoi demoni interiori e a vincere i fantasmi d’un oscuro passato che lo stanno divorando nell’animo, tentando perfino il suicidio, si prodiga per diventare la guardia del corpo della figlia di nome Lupita (Dakota Fanning) d’un facoltoso e ambizioso industriale del luogo, Samuel Ramos (Marc Anthony).
Dei malintenzionati gliela rapirono sotto gli occhi. Sequestrandola e tenendola in ostaggio al fine di poterla liberare solamente dietro assai esoso riscatto.
Al che, Creasy, provocato a morte da questo gesto scellerato e disumanamente crudele, dopo essersi arrugginito e immalinconito per tanti anni, ottenebrandosi nell’amarezza e impigrendosi nel più tetro, bolso disincanto e nei più grevi, neri tormenti, di punto in bianco nel suo animo infuocato riesplode in maniera deflagrante.
Inseguendo inarrestabilmente i colpevoli di tale mostruoso rapimento e punendoli efferatamente, pian piano furibondamente, dal primo all’ultimo.
Man on Fire è rozzo, girato per lo più in stile videoclippato da Tony Scott, celeberrimo difatti per il suo acclarato mood registico, non tanto benvisto e acclamato, controversamente famoso per via del suo montaggio frenetico, scalpitante, quasi pubblicitario e movimentato, decisamente sincopato. Qui però assai in linea con l’ira giustamente un po’ da sano psicopatico, detonante e crescente, smisuratamente adrenalinica e scalmanata di un Denzel Washington scatenato e molto incazzato.
Infermabile e grintosamente, vendicativamente tonitruante come le tantissime esplosioni devastanti a cui assistiamo durante questo film incendiario.
Dall’incipit addirittura languido e compassato, melanconico e lento, avvolgente e caldamente contemplativo.
Ma presto l’azione altamente spettacolare prende il sopravvento furiosamente, il ritmo si alza in maniera fiammeggiante ed energica, squittendo fotograficamente tra riprese lisergiche di discoteche sudicie e malfamate e strade desertiche, arroventate dal caldo bruciante di Città del Messico, riflettendosi a livello fisionomico soprattutto nel corpus, metaforico e non, tumefatto di rabbia ribollente, del nostro irreprimibile Creasy/Washington che, dopo tante patetiche crisi, dopo tanto penare, dopo essersi autopunito in afflittive autocommiserazioni del suo santificarsi in modo martirizzante, però nient’affatto sanificato nel suo cuore da sé stesso flagellato penosamente, dopo tanto essersi smarrito in una tetraggine e in una miserabilità spaventosa, risorge, ritornando feroce e forte in modo ipnoticamente pauroso.
Sì, un grande Denzel Washington in uno dei migliori, sì, lo è, film di Tony Scott.
Un film, ripetiamolo, grezzo e brutale, sporco e spesso girato pure male ma che, nella sua programmatica sciatteria cinematograficamente tamarra, sa affascinare in modo assurdamente bestiale.
Nel cast, Christopher Walken, Giancarlo Giannini Rachel Ticotin e uno strepitoso Mickey Rourke.
di Stefano Falotico
The Iceman, recensione
Introduzione: non si diventa freddi per colpa di troppe delusioni, si nasce di ghiaccio, è inutile provare a sciogliersi poiché sarà solo un lago di sangue. No, di lacrime
Ebbene, ritorniamo seriamente a rituffarci nel Cinema. Ché, a furia di dare ascolto alle vostre incitazioni a una normale socialità, stetti per perdere disgraziatamente la mia unicità, la mia umanissima peculiarità, la mia stramberia emozionale, ovvero la mia rara alterità. Cominciai addirittura a intristirmi e a smarrirmi nel porcile delle vostre paranoie da uomini e donne senz’alcuna qualità se non il pregio, poco fine, dell’esibizionismo più mendace del mercimonio scevro d’ogni originalità. Di conseguenza ne risentì la mia spontaneità, la mia gustosa ilarità, la mia serena, contagiosa giovialità. E stetti per imputridirmi nell’animo, trasformandomi in un italiano medio che ironizza sulle sfighe del prossimo, maltrattandolo come Fantozzi e ridendogli dietro.
Ora, per piacere, basta. Finiamola con gli zotici, con le diagnosi altrui a buon mercato da laboratorio, debbo avere in gloria, oh, miei avari e di spirito poveri, nientepopodimeno che il Falotico.
Chi mi vorrà avere, non dovrà più fare lo sciacallo della mia anima e non dovrà lucrare di sue folli elucubrazioni deliranti sulle mie normali anomalie da uomo fortunatamente savio in una società poco sana ove quasi tutti si spacciano per nobili e santi.
Ché, a forza di voler recitare anch’io il buonismo ipocrita, vi mancò poco che, l’altro giorno, m’iscrivessi a un corso di Cucina.
Tanto, se sei come Matt Damon di Hereafter, non sarà il mastro cuoco Antonino Cannavacciuolo che, insegnandoti a preparare le uova al tegamino, friggerà la tua indole da Charles Dickens, il maestro per antonomasia dei melanconici mai veramente fottuti.
No, non concimatemi nel fetore della maggioranza delle persone. Avvezza a spettegolare sul prossimo, perfino sugli amici, giocando agli spioni.
Sì, stasera appresi pure che si può visualizzare l’altrui stato su WhatsApp per controllare gli spostamenti delle ultime attività della propria persona. Non so se desiderata, amata o odiata oppure della propria persona in quanto spersonalizzata da troppi sguardi indiscreti e malfidati.
La gelosia scatena il voyeurismo e induce ai sospetti più malevoli. Sospetto fa rima spesso con piccola borghesia meschina, indagatrice delle tue, per l’appunto, emozionalità, delle tue sane intimità, della tua inviolabile privacy che va rispettata, a prescindere, senza patrie potestà di sorta. Sì, che c’entra la patria potestà?
La gente per l’appunto sospettosa oppure invidiosa, in una parola guardona, con la scusa di fare i tuoi interessi e proteggerti da contatti possibilmente dannosi, intanto lancia occhiate bavose.
Al che, violandoti loro, ti sentirai violato nell’amor proprio e i pensieri tuoi più alti s’abbasseranno, come quaglie spolpate, nella visione porcellesca da collettivo spogliatoio…
Detto ciò, dopo questa necessaria prefazione, passiamo alla vera e propria recensione.
Tratto dal romanzo omonimo di Anthony Bruno, sottotitolato The True Story of a Cold-Blooded Killer, The Iceman è a tutt’oggi l’unico film decente, anzi piuttosto bello, di Ariel Vromen.
La storia dell’involontario criminale assassino per la mafia, Richard Kuklinski (Michael Shannon). Da non confondere col Kevin Costner della successiva regia di Vromen, ovvero Criminal.
La storia di un pover’uomo che, trovandosi indebitato sino al collo, asfissiato dagli strozzini, cominciò ad accettare lavori poco puliti pur di non svelare i famigliari panni sporchi.
Quindi, vi prese gusto, come si suol dire. L’iniziale vizietto cattivo esplose in maniera detonante nella sua anima già irreversibilmente traviata e spogliata d’ogni purezza incontaminata.
Al che, fu assoldato per divenire un sicario spietato. Dei più freddi e letali. Da non confondere col materico, somigliante Frank Sheeran/De Niro di The Irishman.
Pur di salvare l’onore e i segreti, comunque piuttosto normali, di famiglia, Kuklinski perse ogni residua sua umanità in modo irreversibile. Disumanizzandosi, animalizzato, in un iceberg vivente.
Un colosso inscalfibile e insensibile. Cioè, un mostro creato da una società mostruosa che non gli permise altra scelta speranzosa.
Un gran bel film che vidi con mia madre al Festival di Venezia del 2012.
Raramente, in vita mia, guardai un film sul grande schermo con mia madre. Per di più a una kermesse.
Ne serbo un bel ricordo. Poiché mia madre sta invecchiando, si sta ammalando fisicamente e non so quanto ancora vivrà.
Rimembro qui anche il mio primo incontra con la seconda ragazza con cui ebbi una relazione non soltanto pura e platonicamente sentimentale.
Io e lei c’incontrammo vicino casa sua dopo che, per due volte consecutive, non mi presentai all’appuntamento al buio.
Invero, gironzolai in macchina nei pressi dei luoghi da noi concordati e designati per poterci vedere dal vivo.
In entrambi i casi, la scrutai, senza farmi da lei vedere, da dentro l’abitacolo. Ma poi preferii tirare dritto…
La terza volta, non so perché, mi fermai. Lei tentò, come si suol dire, di sciogliere il ghiaccio.
Anzi, mi disse testualmente:
– Ma tu sei un ghiacciolo, sei un fantasma? Non ti credo. Non ti faccio nessun effetto? Non provi un pochino di calore? Sei una persona in carne e ossa?
La prima volta che amoreggiamo, a un certo punto, lei si alzò dal letto stizzita ma ancor un po’ attizzata. Dicendomi, da screanzata, di scansarmi perché stette per venirne fuori una stronzata. Ah ah.
– Non sei qui. Non mi è mai successa una cosa del genere. Che cazzo sta succedendo?
Con estrema freddezza, conservando una calma olimpica, le risposi:
– Io non sento niente. Dimmi, tu, che succede.
– Ecco, appunto! Non accade una minchia.
Dunque lei rabbrividì, sebbene fosse ancora molto calda.
Insomma, per farla breve, Michael Shannon fu bravissimo, è un grande mezzo matto come me poiché Revolutionary Road e Take Shelter la dicono lunga…
Di mio, invece, dopo troppe esperienze indubbiamente dure, esperii troppi patimenti e ora sono veramente durissimo.
Sono uguale a Mickey Rourke da giovane.
Rourke che, infatti, sognò per anni d’interpretare Kuklinski in un altro biopic.
Questa è una recensione sui generis e, sinceramente, sono stanco di confessare puntualmente il mio statuario diario da uomo che sa il fatto suo anche se non lo dà a vedere facilmente.
Se non vi sta bene, adesso ficco… lo stato di WhatsApp su Privato e vado a letto.
Domani, sarà una nuova giornata ove dovrò farmi il culo.
Quindi, finitela di cazzeggiare.
Altrimenti un giorno non avrete una lira a forza di fare i duri dei poveri. Ecco, sarete davvero poverissimi. E non troverete neppure una Winona Ryder che, fra una bolletta e un abbonamento a Netflix andato a puttane, vi manderà a fanculo con dolcezza.
Abbiate fede.
Poiché, se perderete tutto, farete come un tipo che conobbi.
Disse a tutti:
– Sempre me ne fotterò. E, comunque, Dio sta lassù per punire i miserabili se un giorno nella merda finirò.
Io lo guardai e gli confessai la verità:
– A essere sinceri, nella merda ci stai già. Credi che, nell’aldilà, farai meno la fine del baccalà?
Stette per saltarmi alla gola ma, poco prima di strozzarmi, mi urlò:
– Purtroppo, amico, mi hai detto la verità. Ti ringrazio!
– Eh già.
– Da domani, la finisco di farmi pigliare per il culo da gente che vivrà eternamente nella più retrograda mentalità, che un giorno piangerà e poi riderà per allentare la noia di sopravvivere, raccontandosi cazzate in gran quantità. E la finisco di credere che un messia mi salverà.
– Eh già.
Per molto tempo, fui preso per persona cattiva. Sì, perché rivelo, in tutta onestà, la condizione umana nella sua nudità. E sono troppo vecchio per dare retta al Cinema di Muccino e credere agli ecumenismi retorici propugnati dalle canzoni di John Lennon.
di Stefano Falotico
RED DRAGON, recensione
Red Dragon di Brett Ratner (The Family Man).
Ebbene, dopo le nostre disamine dei precedenti racconti di Cinema riguardanti Il silenzio degli innocenti per la regia di Jonathan Demme e di Hannibal firmato da Ridley Scott, torniamo nuovamente a parlarvi dello psichiatra forense più famoso della settima Arte, ovvero il famigerato, tristemente leggendario Hannibal Lecter, cannibale killer dai denti affilati e dalla mente genialmente sopraffina. Un uomo che, grazie al suo fiuto da tartufo, sviscera il lato umanamente più oscuro, dunque inquietantemente disumano, dal cuore sia delle sue vittime sacrificali che dei pericolosi assassini seriali da lui smascherati e forse non solo, a livello metaforico, scarnificati attraverso la fame appetitosa della sua insaziabile malvagità mostruosa col suo infallibile intuito micidiale e freddissimo. Un uomo che si ciba, in maniera sanguinaria, degli altri ma al contempo, in virtù dei suoi psicanalitici, insuperabili ragionamenti altissimi, è l’unico che, malgrado la sua irrefrenabile follia e la sua tremenda psicopatia, addiviene a decisive e importantissime verità invisibili ai comuni mortali poco dotati intellettivamente e sprovvisti, essendo persone normalissime, del suo agghiacciante eppur super affascinante, innato dono dannato.
Hannibal Lecter, ovviamente, personificato da sir Anthony Hopkins. Maestro attoriale del trasformismo più camaleontico, specializzato nel più sofisticato fregolismo istrionico, maschera magnetica adatta, in modo impressionantemente versatile, a interpretare i ruoli più disparati. Accorpandoli al suo carisma e possedendoli con la sua forza recitativa senza pari.
Sceneggiato dallo stesso writer premio Oscar del poc’anzi citatovi e sopra menzionatovi Il silenzio degli innocenti, cioè Ted Dally, Red Dragon fu tratto e trasposto per il grande schermo, partendo dall’omonimo romanzo di Thomas Harris, da noi intitolato Il delitto della terza luna.
Già alla base del capostipite, potremmo dire antesignano film appartenente a questo particolare, involontario franchise incentrato su Hannibal Lecter, ovvero Manhunter – Frammenti di un omicidio di Michael Mann.
Anzi, per l’esattezza, Red Dragon è il prequel de Il silenzio degli innocenti e il reboot, più che remake, di Manhunter stesso. Ancora una volta fortemente voluto e prodotto da Dino De Laurentiis. Il quale detenne i diritti delle opere di Harris. Per ragioni logistiche cambiarono però gli attori principali e i coprotagonisti ma, naturalmente, Hannibal Lecter fu, come detto, ancora una volta impersonato da Anthony Hopkins. In effetti, avreste visto un altro al suo posto? Hopkins, nei panni di Lecter, fu e rimarrà invincibilmente, eternamente insostituibile.
Al posto di William Petersen, Edward Norton. Al posto di Tom Noonan, Ralph Fiennes. Infine, al posto di Joan Allen, Emily Watson.
La trama di Red Dragon, riservando molto più spazio ad Hannibal Lecter, è comunque pressoché la stessa di Manhunter;
Will Graham (Norton) chiede consulenza ad Hannibal Lecter (Hopkins) dopo che lui stesso lo catturò. Lecter è infatti, a conti fatti, l’unico in grado veramente di poter aiutare Graham ad acciuffare Francys Dolarhyde (Ralph Fiennes).
Il cast è delle grandi occasioni e, oltre ai già nominati Hopkins, Norton e Watson, abbiamo il compianto, grande Philip Seymour Hoffman, Mary-Louise Parker ed Harvey Keitel.
La fotografia è, neanche a farlo apposta, di un cinematographer italiano amatissimo da Michael Mann, cioè Dante Spinotti (Heat, L’ultimo dei Mohicani).
Musiche di Danny Elfman e scenografie di Kristi Zea.
Ma il regista Ratner scarseggia in quanto a stile, il film è moscissimo, montato maluccio, Norton non convince appieno nei panni di Graham e risulta quasi più scialbo dell’inconsueta, platinata capigliatura stinta.
Hopkins recita, come si suol dire, col pilota automatico, anche Emily Watson e Ralph Fiennes appaiono qui un po’ fuori ruolo e incolori.
Il film non emoziona e, anche nei momenti in cui dovrebbe scatenare maggiore tensione, risulta prevedibile e manieristico, mal servito da una regia, com’accennato, solamente di mestiere e priva dei benché minimi, autoriali tocchi personalmente cinematografici.
di Stefano Falotico