The Vanishing – Il mistero del faro, recensione
Oggi, recensiamo per voi The Vanishing – Il mistero del faro di Kristoffer Nyholm, thriller della durata di un’ora e quarantuno minuti, distribuito qui in Italia, dal 28 Febbraio, dalla Notorious Pictures.
Interpretato dal possente Gerard Butler, dal veterano attore scozzese Peter Mullan (Trainspotting, My Name Is Joe, I figli degli uomini) e dal giovane Connor Swindells.
The Vanishing – Il mistero del faro è ispirato a una vicenda oscura realmente accaduta, ovvero l’ignota sparizione di tre uomini, guardiani di un faro delle Isole Flannan.
Questa infatti la trama:
James Ducat (Gerard Butler), Thomas Marshall (Peter Mullan) e Donald McArthur (Connor Swindells), come sempre si apprestano a prestare egregio servizio per sei settimane su un faro della Scozia.
Loro, tranquillamente, svolgono il loro lavoro, tenendosi reciprocamente compagnia durante le notti gelide e buie.
Sino a quando, un bel giorno, anche se sarebbe meglio dire in un dì nefasto e cruciale, un misterioso naufrago fuggitivo, approdato sull’isola, aggredisce Donald. Il quale, dapprima impaurito, si lascia sorprendere dalla bestiale furia dell’uomo. Che, fuori controllo e senz’apparenti ragioni, gli si avventa contro e tenta di strozzarlo. Donald però, costretto a difendersi per salvarsi la vita, lo uccide. Sferrandogli in testa un pesante macigno.
Al che, James, Thomas e Donald rinvengono ai piedi del cadavere dell’uomo un forziere che contiene un ricco bottino prezioso.
Dunque, presto arrivano sul posto, altri due uomini dagl’intenti minacciosi.
Da questo momento in poi si scatena un’animalesca orda quasi cannibalistica e omicida di vicendevole autodistruzione. E riemergono in superficie i traumi mai sopiti delle turbolente e inquiete anime di James e Thomas, due uomini dal cupo passato indistricabile, due anime vaganti nel perenne tormento esistenziale, forse per sempre perdute nell’oceano dei loro intimi, insalvabili dolori personali, due anime già dapprincipio annegate nella mesta dimenticanza auto-ingannevole più falsamente benevola e menzognera.
Uno strano oggetto inclassificabile, onestamente, questo The Vanishing – Il mistero del faro.
Dall’andamento narrativo molto tetro, sibillino e soporifero, con molte suggestive scene notturne che si avvalgono della sulfurea fotografia avvolgente di Jørgen Johansson.
Un film che potremmo annettere a quel sottogenere cinematografico definito giallo dell’anima.
Ove la recitazione dei tre protagonisti spicca per pacata finezza sottile.
In cui il grande Peter Mullan fornisce ancora una volta una prova attoriale davvero ammirevole e nel quale Gerard Butler, dopo tanti action più o meno riusciti o fallimentari, torna a cimentarsi nuovamente con un bel ruolo incisivamente drammatico.
No, The Vanishing – Il mistero del faro non è affatto un grande film e si perde, più e più volte, involutamente, in irrisolti psicodrammi interiori mai davvero sviluppati appieno.
Ma è un film dall’innegabile fascino atmosferico. E si lascia vedere molto volentieri, nonostante la pochezza e l’eccessiva elementarità della vicenda narrata.
Ci sentiamo dunque di consigliarvelo.
di Stefano Falotico
Il corriere – The Mule, recensione
Ebbene, scusateci per il piccolo ritardo. Ma volevamo gustarcelo e assaporarlo con estrema ponderatezza. Quindi, vi chiediamo clemenza. Sebbene sia uscito giovedì scorso, 7 Febbraio, abbiamo atteso con calma di metabolizzarlo lentamente e ora, terminato che abbiamo d’averlo assaggiato intimamente in ogni nostro venoso sospiro, finalmente ci sentiamo di scrivere la recensione de Il corriere – The Mule.
Opus n. 37 di Clint Eastwood cineasta. Qui forse alla sua ultima interpretazione attoriale.
Le malelingue hanno scritto che Il corriere sarà anche il suo ultimo film in assoluto. Noi sinceramente, nonostante la sua veneranda età di ben ottantotto primavere (presto 89, infatti compie gli anni il prossimo 31 Maggio), speriamo che Eastwood di film ne possa girare ancora e che Il corriere non segni invece, come si è detto, il suo risolutivo testamento artistico.
Innanzitutto perché Clint Eastwood è certamente uno dei massimi registi contemporanei, uno story teller ineguagliabile, dotato di una poetica personalissima difficilmente eguagliabile. E non si può altro dunque che augurargli di campare ancora il più a lungo possibile.
E poi perché, sebbene, come esplicheremo nelle righe a seguire, riconosciamo che Il corriere sia un bel film, non è comunque paragonabile a suoi ben più alti lavori decisamente più memorabili di cui la sua filmografia, soprattutto negli ultimi trent’anni, è stata tanto piena da incantarci ogni qualvolta, estaticamente ammirati, la ripercorriamo con la memoria.
Ma è proprio così? Il corriere è davvero lontanissimo da capolavori come Un mondo perfetto?
Insomma, Il corriere è un film amabile, con momenti straordinari, ma non è Gran Torino. Può essere.
Sebbene, attenzione, le rispettive durate de Il corriere e di Gran Torino siano identiche, ovvero un’ora e cinquantasei minuti. E a scrivere la sceneggiatura de Il corriere sia stato Nick Schenk. Così come avvenuto, parimenti a uno dei massimi masterpiece di Eastwood, ça va sans dire, l’indimenticabile e insuperabile, appena citato Gran Torino.
Appunto, eh.
Il corriere, anche se ci piace propriamente chiamarlo col suo titolo originale, The Mule, eloquentemente più in linea col carattere cocciutamente asinesco e incorreggibile del protagonista, non è un film che passerà alla storia ma uno di quei film “minori” a loro modo comunque inviolabilmente importanti, soprattutto se collegati all’excursus autoriale di Eastwood, un film magicamente in linea con la sua inattaccabile, moralmente ieratica e anti-compassionevole visione della vita e del mondo, una pellicola aderente alla sua pelle d’artista e da cantore crepuscolare in modo così simbiotico a Eastwood stesso che noi ammiratori non ne possiamo prescindere, un film bruscamente secco e talvolta sin troppo leggero, con molti difetti e forse persino qualche sciatteria e delle ingenuità che da Eastwood non ci saremmo aspettati, ma anche un film tanto sinceramente vivo da raschiarci e squagliarci ugualmente in profondità, liquefacendoci d’emozioni purissime, echeggiando zampillante nel cuore nostro più romantico, ardendolo di dorata maestosità viva e pulsante. Cioè un piccolo film che che però, nella sua pur scanzonata, discretissima semplicità buffonescamente tenera e al contempo malinconicamente struggente, ancora una volta, come sempre accade con Eastwood, ci ha toccato soavemente l’anima. Illuminandola di sublime levità.
La trama è questa. Ricalcata dallo stesso writer Schenk dall’articolo del New York Times intitolato The Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule.
Basata, seppure in forma estremamente romanzata, sulla vita del vero Leo Sharp. Che qui assume il nome fittizio di Earl Stone.
Un veterano di guerra, un floricoltore ora molto anziano che, dopo la chiusura coatta della sua attività, o meglio a causa del suo pignoramento, pur di fare qualche soldo utile, accetta di prestarsi come guidatore speciale. Eh sì, speciale perché Earl è totalmente ignaro del pasticcio in cui ingenuamente si è andato a cacciare. Lui non diventa, infatti, un semplice autotrasportatore bensì un involontario corriere della droga.
Tanto che fa persino conoscenza col boss del narcotraffico, Laton (Andy Garcia).
Earl è stato anche preso di mira, a sua totale insaputa, dalla DEA e dal suo intransigente agente Colin Bates (un Bradley Cooper puntualmente bravo).
Se la prima ora, onestamente, non ci aveva entusiasmato e, a differenza di altre volte, le battute a effetto in puro stile Eastwood ci son parse in questo caso deboli e forzate, pedanti e oltremodo razziste, se le due scene con le prostitute, prima al motel e poi nella magione di Laton, ci sono sembrate di primo acchito volgari e patetiche, quasi vomitevoli anziché autoironiche, ecco che all’improvviso The Mule subisce un’inaspettata, mirabile impennata, regalandoci un’ultima mezz’ora eccezionale.
Il vegliardo, rincoglionito Earl torna al capezzale della moglie morente Mary (una dolcissima Dianne Wiest) e i suoi sguardi con lei, tenerissimi e angosciosamente, romanticamente disperati, valgono il prezzo del biglietto. Così com’è indimenticabile il breve, palpitante dialogo fra Earl e Bates al bar alle prime, soffuse, fiocamente languide, pallidissime luci dell’alba. Vibrante, ove The Mule diviene davvero una sorta di The Straight Story lynchiana. O ancor meglio una non banale riflessione on the road sul cammino dell’esistenza, nel sintomatico confronto fra una giovinezza tormentata e incerta, seppure ambiziosa, come quella di Bates, e il volto rugoso, malconcio del macilento, raggrinzito teschio ambulante incarnato, anzi scarnificato del viso emblematico di Eastwood. Due solitudini che si specchiano reciprocamente impaurite da quel che sarà per Bates e da quello che è già, purtroppo, stato per Earl.
E alla fine Earl abdicherà, coraggiosamente, dinanzi all’ineluttabilità della sua inevitabile vecchiaia.
Trovando splendidamente il coraggio di guardare in faccia, forse per la prima volta, la verità. Riconoscendo a tutti ma soprattutto a sé stesso, senza pietismi e autoassoluzioni consolatorie, la propria sconfitta, la propria decadenza.
La propria inarrestabile, incarcerata fine. Il tramonto di un sogno chiamato vita.
The Mule non è forse un grande film ma un film che crescerà nei nostri cuori ora dopo ora.
E forse un giorno diverrà un capolavoro.
di Stefano Falotico
Bohemian Rhapsody, recensione
Ebbene, recensiamo, in concomitanza con l’uscita del Blu-ray in edizione italiana del 28 Marzo, una delle pellicole più acclamate dal pubblico di tutto il mondo, invisa però a buona parte della Critica altera e sussiegosa, ovvero lo sfavillante Bohemian Rhapsody, firmato da Bryan Singer con protagonista un magnifico, insuperabile Rami Malek.
Come sappiamo, Singer è stato costretto ad abbandonare il set a sole due settimane dalla fine delle riprese, rimpiazzato per le scene da ultimare, in extremis, da Dexter Fletcher. Alla fine, a essere accreditato come unico regista è stato appunto soltanto Singer. E non Fletcher a cui comunque è stata ovviamente riconosciuta la paternità delle scene mai completate da Singer ma il cui nome è comparso solamente nei ringraziamenti ed è stato menzionato, fra gli altri, come onorevole figura di produttore esecutivo.
Bohemian Rhapsody, dicevamo.
Ecco, chi scrive questo pezzo deve esservi estremamente sincero. Sino a oggi questa pellicola attesissima, dalla gestazione interminabile sulla quale, se voleste informarvi, troverete delucidazioni ben più esaustive sul net, Wikipedia e siti addetti, annessi e connessi, per cui sono stati associati nel corso degli anni registi di rilievo come Stephen Frears e Tom Hooper e come protagonista fu inizialmente designato il birbante, provocatore Sacha Baron Cohen, eccetera, eccetera, non l’avevo ancora personalmente visionata, devo confessarvi la verità.
Ne avevo infatti sentito parlare talmente male, con tanta sfacciata, puntigliosa, insopportabile cinefilia boriosissima e altezzosità severa, d’aver rinunciato a vederla in sala ai tempi della sua uscita sui nostri schermi, avvenuta ovvero il 29 Novembre dell’anno scorso.
Bohemian Rhapsody, essendo (mi pare inutile rimarcarlo ma comunque necessario per dovere recensorio) un biopic su una delle rock band più amate, leggendarie e celebrate di tutti i tempi, vale a dire i Queen, ma in particolar modo incentrata quasi però esclusivamente sulla figura del suo storico, indimenticabile frontrman Freddie Mercury, ha naturalmente fatto sfracelli al botteghino, incassando cifre da capogiro a fronte dei suoi soli cinquantadue milioni di dollari di budget.
Un budget alquanto ridicolo, considerando che si parla appunto di una biografia cinematografica che abbisognava di varie, cospicue scene di massa per i gremiti concerti e di un notevole dispendio decorativo per la ricostruzione piuttosto, sì, contemporanea della vicenda ma pur sempre d’epoca, trattandosi di eventi successi non tanto in là. Nel loro cotanto protendersi sinuoso quanto linearmente dipanarsi didatticamente filologico, seppur semplificato, per non dire spesso abbozzato e superficialmente talvolta incongruente o impreciso, messo scolasticamente in scena con una narrazione esageratamente schematizzata.
E nonostante lo spropositato quanto, ripetiamo, prevedibile successo planetario in termini d’incassi e il quasi unanime apprezzamento sperticato degli spettatori, la Critica non gli è stata assai benevola. Perlomeno il film ha visto critici schierarglisi apertamente contro che hanno definito questa pellicola come la solita, agiografica, romanzata ed edulcorata, civettuola biografia musicale, sceneggiata all’acqua di rose e in forma quasi bambinesca, a dispetto comunque delle firme alquanto illustri dei suoi writer Peter Morgan (The Queen – La regina) ed Anthony McCarten (La teoria del tutto), e critici invece a essa molto più accondiscendenti o addirittura lusinghieri. I quali hanno favorevolmente accolto Bohemian Rhapsody, definendolo un film che, al di là dei suoi immancabili difetti, dei suoi toni mielosamente elegiaci, delle sue madornali pecche di scrittura e delle sue consistenti banalità registiche, ha centrato pienamente il suo bersaglio, avvincendo proprio per la sua spudorata, commovente schiettezza emozionale. Ingenua, appassionante, furbescamente ammiccante nei confronti di chi, già sfegatato fan irriducibile da una vita dei Queen, desiderava solo che, così come infatti puntualmente è avvenuto, si esaltasse e divinizzasse in modo gloriosamente idolatrante il loro intoccabile, immortale Freddie Mercury.
Sì, da questo punto di vista, Bohemian Rhapsody funziona. Anche parecchio.
Perché poco importa che si sia stati sciatti e poco accurati, se non addirittura grossolani, nell’abbellire in modo eccessivamente retorico la figura, sì, immensamente carismatica di Mercury pur così piena d’inquietanti ombre che avrebbero meritato certamente un maggiore approfondimento introspettivo.
E che i membri della band, Brian May e Roger Taylor soprattutto, incarnati rispettivamente da Gwilym Lee e da Ben Hardy, siano stati ridotti a macchiette bidimensionali. Recitando battute ovvie e perfino imbarazzanti.
Perché a tutti gli estimatori di Queen importava soltanto che la loro icona Mercury fosse descritta con finezza, cesellata con delicata cura amorevole, glorificandone le fragilità e decantandole come pregi mirabili e straordinari, omettendo volutamente i tratti oscuri di una personalità assai più complessa, poderosa, tanto emotivamente ambigua quanto inimitabile, debordante, folcloristica, perversamente trascinante.
E non aspettavano altro che l’annunciato show finale del Live Aid di Wembley.
Che in effetti da solo varrebbe il prezzo del biglietto in quanto senz’ombra di dubbio sortisce magicamente il suo appassionantissimo impatto memorabile.
Bohemian Rhapsody è sostanzialmente un bel film perché Malek fisionomicamente assomiglia invero ben poco al vero Mercury. Ma questo ragazzo ha infuso alla sua rappresentazione di Mercury una tale commovente energia, una così contagiosa forza interpretativa toccante da mettere i brividi.
Al di là del pacchiano trucco posticcio e degli esagerati dentoni da castoro appioppatigli nel viso, Malek non ha infatti soltanto riprodotto fedelissimamente le esatte posture e la celeberrima mimica di Mercury, bensì ha compiuto prodigiosamente un lavoro ben superiore, gli ha trasmesso un’anima tutta nuova, l’ha reinventato a immagine e somiglianza tenerissima del suo viso iper-espressivo, ricreandolo e plasmandolo in modo rivoluzionario e stupefacente. Personalissimo e monumentale.
Davvero una prova da Oscar.
Quindi, Bohemian Rhapsody, sì, non è né più né meno del solito, esaltatorio biopic su una mitica rockstar.
Malek non è stato, ad esempio, il bolso Val Kilmer/Jim Morrison di The Doors,
Malek si è distinto alla grandissima.
Trasformando un film oggettivamente mediocre in un film da ricordare.
di Stefano Falotico
Green Book, recensione
Ebbene, è appena uscito finalmente anche nelle nostre sale il film fenomeno dell’anno, ovvero Green Book. Film della corposa durata di due ore e dieci minuti diretto con mano sensibile ed egregia da un sorprendente Peter Farrelly. Che dopo le tante commedie demenziali girate in coppia col fratello Bobby, Tutti pazzi per Mary, Scemo & più scemo su tutte, da solo qui dietro la macchina da presa sfodera un tocco personalissimamente magico e sobriamente leggero quanto appassionatamente scanzonato che mai avremmo immaginato che potesse possedere, confezionando un instant classic già vincitore di tre pregevolissimi Golden Globe, fra cui Best Motion Picture – Musical or Comedy, e regalandoci una pellicola nominata a ben cinque premi Oscar, fra cui Miglior Film.
Green Book ha fatto sfracelli tra pubblico e Critica e, solo dopo pochissimi giorni di programmazione nelle nostre sale, sin dal suo debutto avvenuto giovedì scorso 31 Gennaio, pare che stia piacendo tantissimo, visti i considerevoli incassi, anche tra gli spettatori italiani.
Trama…
Siamo nella New York allegoricamente, volutamente un po’ stereotipata e vivacemente colorita dei primissimi anni sessanta. Ove, sin dalle primissime sequenze, veniamo catapultati dentro la rocambolesca vita di Frank Anthony Vallelonga (Viggo Mortensen) soprannominato, nell’ambiente d’italoamericani mangia-spaghetti, Tony Lip. Un buttafuori appesantito e rozzo, dai modi bruschi e irruenti, un uomo grande e grosso, come si suol dire, scalcagnato, sgarrupato e leggermente sfigato, un duro dal cuore tenero interpretato in maniera sublime da un Viggo Mortensen notevolmente ingrassato e raramente così ispirato. Dopo la chiusura del locale per cui lavora, Tony vivacchia alla bell’e meglio, tirando a campare come può, tirando su qualche soldo per mantenere la nutrita famiglia e sua moglie Dolores (Linda Cardellini) grazie a buffonesche, cialtronesche scommesse assai rischiose. Al che, proprio quando il piatto piange, come si suol dire, gli viene offerta una nuova, allettante e remunerativa proposta di lavoro. Cioè essere l’autista personale di Don Shirley (Mahershala Ali), un eccelso e mirabile pianista di musica classica, un gigante di colore dal talento eccezionale che deve andare in tour nel profondo sud degli Stati Uniti.
Tony incontra privatamente Don e, dopo qualche breve scaramuccia tra i due e un’iniziale diffidenza, dopo alcune ritrosie e inevitabili quanto comprensibili titubanze, Tony si lascia piacevolmente assumere e coinvolgere in quest’inaspettata, bizzarra avventura on the road. Nonostante le enormi differenze caratteriali e le loro abissali distanze culturali, fra i due scatta subito una fortissima amicizia. Quasi un legame parentale fra due persone che, per origini e contrapposti background, di primo acchito parrebbero lontane anni luce e, invece, scopriremo essere più vicine di quanto avessimo potuto aprioristicamente desumere.
Don è un musicista molto apprezzato e trionfalmente applaudito durante i suoi inestimabili concerti ma è anche costretto, malgrado la sua nomea e la sua altolocata fama, a subire ancora gli stigmatizzanti e inestirpabili pregiudizi razziali di un’America puritana, segregazionista e vessatoria.
Eppure a sostenerlo in questo straordinario, spericolato quanto ostico viaggio lungo le strade e le città degli States, vi sarà accanto a lui, appunto, Tony Lip. Una sorta di spregiudicato consigliere tuttofare senza macchia e senza paura, un cavaliere impavido, un omaccione un po’ cafone e ignorante, un tipo abbastanza sguaiato e beceramente appariscente che, dietro la scorza villana della sua maldestra, istintiva scortesia e bonaria stronzaggine, nasconde però, come vedremo, un animo buono e lindamente purissimo.
E alla fine, a dispetto di qualche veniale, passeggera, vicendevole, trascurabile schermaglia, nascerà e si solidificherà fra loro un legame forse destinato a durare indissolubilmente per sempre.
Non sveliamo altro per non rovinarvi la sorpresa. Ci pare di avervi già detto perfino troppo.
Mortensen, ribadiamolo, è in continua, inarrestabile ascesa attoriale e, dopo le sue acclamate collaborazioni con David Cronenberg e l’osannato suo Ben Cash di Captain Fantastic, azzecca un altro indimenticabile personaggio, donandoci una performance meravigliosa, istrionicamente misurata e al contempo scoppiettante e incontenibilmente, contagiosamente trascinante.
Beccandosi una nomination sacrosanta come Best Actor. Ma non gli è da meno Mahershala Ali, anch’egli candidato agli Oscar, seppur solo nella categoria di migliore attore non protagonista. Cesella con infinita classe e delicatezza sfumatamente introspettiva un character parimenti memorabile e commoventemente incisivo.
È forse davvero lui il nuovo Morgan Freeman. Guardatelo in questi giorni anche in True Detective 3 e capirete che ci troviamo, senz’ombra di dubbio, di fronte a uno di quegli attori tanto versatili e carismatici del quale sentiremo parlare molto, molto a lungo.
Detto questo, chiariamoci. Green Book non è un capolavoro e non è esente affatto da difetti. E tutto sommato abbiamo visto storie analoghe in tantissimi altri film.
Ma è quel tipo di feel good movie che, stando attento a non cascare mai nella ruffianeria più programmatica, accorto a non scivolare nella scontata, melensa retorica, anche se spesso la vicenda avrebbe certamente implicato un deleterio retrogusto dolciastro e furbetto, si lascia vedere amabilmente.
Perché è girato con estrema finezza, dosa sapientemente buoni sentimenti e anche sapido, schietto cinismo con raffinata mistura e misura estetica, con ponderata diegetica di alta scuola emozionale.
Memore della lezione signorile del grande Frank Capra.
Green Book è stato candidato anche per la migliore sceneggiatura originale scritta dallo stesso Peter Farrelly e da Brian Hayes Currie assieme a Nick Vallelonga che, nel film, interpreta la parte di Augie ed è nientepopodimeno che il vero figlio di Tony Lip, alias appunto Anthony Vallelonga.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – Nemico pubblico di Michael Mann con Johnny Depp e Christian Bale
Oggi recensiamo il magnifico Nemico pubblico di Michael Mann, traduzione “(al) singolare” del titolo originale al plurale, Public Enemies. Da non confondere, per nessuna ragione al mondo, con l’omonimo film del ’31 (The Public Enemy) di William A. Wellman, con uno strepitoso James Cagney, e neppure con la pellicola in due parti di Jean-François Richet con Vincent Cassel.
Nemico pubblico di Michael Mann è un film della durata di due ore e venti minuti esatti, uscito in Italia il 6 Novembre del 2009. Totalmente ignorato, al solito ingiustamente, come spesso accade con Mann, dagli Academy Award, che però al botteghino è andato assai bene. Sceneggiato dallo stesso Mann assieme a Ronan Bennett e Ann Biderman che hanno, pur con molte libertà, adattato il libro-saggio inchiesta di Bryan Burrough, Public Enemies: America’s Greatest Crime Wave and the Birth of the FBI, 1933-43, edito da noi per la Sperling & Kupfer.
Questa la sinossi ufficiale del libro:
In un Paese prostrato dalla crisi del ’29, i fuorilegge spadroneggiano per le strade delle città. Hanno macchine veloci e armi automatiche, coraggio e sangue freddo da vendere. Rapinano banche, sequestrano persone, uccidono senza pietà. Sono criminali efferati, eppure anche ladri gentiluomini, acclamati dalla gente comune come novelli Robin Hood. Ma la reazione di Washington a questa ondata di violenza senza precedenti non si fa attendere, ed è racchiusa in una sigla: FBI. Guidata dal giovane e spregiudicato direttore Edgar Hoover, la neonata agenzia federale condurrà una battaglia epica contro il mucchio selvaggio dei geni criminali, destinati a diventare icone dell’immaginario collettivo a stelle e strisce: John Dillinger, Machine Gun Kelly, Baby Face Nelson, Bonnie & Clyde… Due anni di guerra fra “buoni” e “cattivi”, nella giungla d’asfalto americana, che porteranno i nemici pubblici dietro le sbarre o, più spesso, all’obitorio.
Nemico pubblico di Mann, invero, dà poco spazio alle altre figure criminali, elidendo ad esempio Bonnie e Clyde, concentrandosi quasi esclusivamente sul duello fra il bandito John Dillinger (un Johnny Depp al top, in una delle sue ultime performance davvero considerevoli) e l’agente Melvin Purvis, interpretato con sottile, nervosa finezza da un ottimo Christian Bale. E tralascia tutte le figure di contorno per focalizzarsi in maniera pressoché totale su Dillinger e Purvis, sulle loro antitetiche personalità, sulla caccia spietata di Purvis per catturare Dillinger e sulla relazione, molto romantica ma al contempo fuggevole e illusoria d’amor fou, tra Dillinger e la guardarobiera Billie Frechette (Marion Cotillard). Relegando J. Edgar Hoover (Billy Crudup) a comprimario abbastanza superfluo.
Questa essenzialmente la trama, molto classica e lineare, apparentemente semplicistica ma che, come sempre succede con Mann, è invece elaboratissima nella definizione psicologica, sfumata e introspettiva, dei due acerrimi antagonisti. E puntualmente, sfrenatamente romantica, epicamente antologica. Potremmo dire, una rivisitazione di Heat, maggiormente stilizzata, da film d’epoca per una più secca, fredda lotta dicotomica fra due nemesi, tra due uomini schierati su fronti opposti che si affrontano a viso aperto. Ove Melvin, parimenti a Vincent Hanna/Pacino, suggella la sua vittoria finale dopo un’interminabile sfida, anche psicologica, acchiappando Dillinger ma, a differenza di Heat, non potendosi fregiare di essere stato il suo vero uccisore. Perché la morte di Dillinger invece avviene per mano del suo braccio destro Charles Winstead (Stephen Lang). Che vilmente spara a bruciapelo a Dillinger dopo che quest’ultimo, ricercato e oramai alle strette, malinconicamente esce da una sala cinematografica, già consapevole di essere finito e fottuto. Avendo assistito commosso a Le due strade (Manhattan Melodrama) con protagonista il suo alter ego immaginario, Clark Gable, proiezione a sua volta dei propri sogni di gloria infranti. Con tanto di storico, iconico baffetto specularmente analogo al suo look da fuorilegge spavaldo e gaglioffo. E con Gable, radioso, a salutare i suoi compagni prigionieri ché, non più attanagliato dal giogo carcerario, si avvia speranzoso e, nonostante tutto, irrimediabilmente, irrinunciabilmente sognatore verso una più radiosa vita nuova e luccicante. Una scena stupenda, di meta-cinema assoluto, trasfigurazione, quasi allucinatoria e onirica, di ogni chimerica, effimera, utopistica voglia impossibile di libertà da parte di un dead man walking che sta, invero, soltanto aspettando il colpo di grazia inevitabile. Un uomo braccato e già bruciato che però s’illude di farcela per un infinitesimo istante di trasognata estasi emozionale, a elevazione titanica, tristemente leggendaria del proprio orgoglio auto-elegiaco, a sublimazione nostalgica e magica del suo viale del tramonto fatidico.
Basterebbe questa scena per definire Nemico pubblico un grandissimo film.
Un film del quale, adesso, esploriamo brevemente la genesi.
Nemico pubblico doveva essere una miniserie della HBO con Robert De Niro come executive producer. E a quei tempi la produzione chiese espressamente a Burrough di adattare il suo libro e redigere dunque la sceneggiatura.
Il protagonista designato era DiCaprio. Ma poi il progetto cadde nel dimenticatoio.
Mann, nell’Ottobre del 2007, firmò con la Paramount e la Tribeca di De Niro e Jane Rosenthal per dirigere proprio lo stesso De Niro nell’adattamento de L’inverno di Frankie Machine di Don Winslow. Su script di Alex Tse (Watchmen). Ma, anche in questo caso, per motivi tutt’ora inspiegabilmente ignoti, il film saltò.
Al che De Niro, forse per scusarsi dell’improvviso forfait, sempre attraverso la sua TriBeCa Productions, in concomitanza con la Universal Pictures e la Forward Pass di Mann, fu uno dei principali artefici e finanziari creatori di Nemico pubblico. Sebbene, chissà perché, sia lui che Jane Rosenthal non vollero che comparissero i loro rispettivi credits come produttori esecutivi.
Fatto sta che Nemico pubblico, nella sua trama stringata e apparentemente manichea, è straordinario, con una meravigliosa fotografia in digitale di Dante Spinotti, habitué di Mann, si avvale di un ritmo incessante, adrenalinico e sfoggia, senza vergogna, in puro stile Mann, una storia d’amore tanto sentimentalmente gigantesca, quasi parossisticamente finta, e perciò clamorosamente, ingenuamente incantevole, da romanzetto Harmony nella sua forma più cristallinamente ingenua e contagiosamente strappalacrime, da lasciarci tramortiti, a bocca aperta, meravigliosamente incantati.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – The Double di Michael Brandt con Richard Gere
Ebbene, oggi recensiamo un film passato abbastanza inosservato ai tempi della sua uscita quando la Eagle Pictures lo distribuì in Italia il 9 Marzo del 2012, ovvero The Double con al solito uno splendido Richard Gere.
Sì, avete letto bene. Ho scritto… al solito uno splendido Richard Gere. Chi scrive questo pezzo, infatti, e non me ne vogliate, considera Richard Gere, come già espresso più volte, uno dei grandissimi attori di Hollywood più sottovalutati di sempre. Un uomo che lo scorso anno ha compiuto sessantanove magnifiche primavere e che, per tempo immemorabile, è stato assai equivocato. Scambiato semplicemente per un sex symbol poco dotato dal punto di vista attoriale. Un uomo che, dopo I giorni del cielo di Terrence Malick e American Gigolo di Paul Schrader, è stato pressoché unicamente imbrigliato nel piacevole quanto limitante e ingrato ruolo del piacione carismatico per gentili signore, subito identificato a vita con lo Zack Mayo di Ufficiale e gentiluomo o l’Edward Lewis di Pretty Woman. Diventando un idealizzato fantoccio mercantile desiderato dalle capricciose voglie femminili.
Provate invece a riguardarlo in Cotton Club di Francis Ford Coppola, in Schegge di paura e soprattutto nei suoi recenti Gli invisibili e L’incredibile vita di Norman. E constaterete che è stato defraudato per più di tre decadi abbondanti del suo reale valore recitativo e semplicisticamente etichettato soltanto come l’aitante, fascinoso ex compagno di Cindy Crawford.
Ora, chiariamoci, questo The Double è un film abbastanza mediocre e Richard Gere si attiene solamente a un compitino di ordinaria amministrazione, recitando dialoghi piuttosto scontati, appallottolati in una storia tanto inverosimile quanto hitchcockianamente poco convincente.
Sì, perché la trama basilare di The Double è questa, su per giù.
Paul Shepherdson (Richard Gere) è un agente della CIA in pensione. Che viene richiamato in servizio dal suo capo, Highland (Martin Sheen), poiché è stato assassinato un senatore presidenziale e l’intelligence è convinta che il responsabile dell’assassinio sia un killer sovietico dal nome in codice Cassius, Cassio nell’edizione italiana. Tutti erano fermamente sicuri però che Cassio fosse a sua volta stato ucciso proprio da Shepherdson. Il quale ha sempre sostenuto di averlo ammazzato molto tempo addietro.
A questo punto, Shepherdson si vede costretto a tornare sui suoi passi e a ripartire daccapo con le indagini al fine di catturare Cassio, a quanto pare ancora vivo e vegeto. E viene affiancato in questa sua missione da un ambizioso agente, Ben Geary (Topher Grace), laureatosi, neanche a farlo apposta, con una tesi su Cassio.
Ecco, non rivelo nessuno spoiler nel riferirvi che, dopo soltanto mezz’ora, noi spettatori apprendiamo che in realtà Shepherdson e Cassio altro non sono che la stessa, identica persona. Ciò peraltro veniva chiaramente esplicitato nel trailer americano.
Dunque, al palesarsi di questo telefonato colpo di scena, a noi spettatori non resta altro che attendere l’evolversi della trama e aspettare di lasciarci possibilmente coinvolgere dai risvolti action e drammaturgici che tale bizzarra, ennesima variazione spionistica del tema del doppio (da cui ovviamente il titolo della pellicola) inevitabilmente ha scatenato nella nostra stimolata curiosità di vedere come andrà a finire.
Accennavo a Hitchcock. Sì, il maestro Alfred era, come sapete, specializzato in storie di questo tipo ove i suoi personaggi possedevano multiple personalità o la cui vera identità, poi clamorosamente rivelata, si celava dietro maschere infingarde e traditrici. Peccato però che l’esordiente Michael Brandt, sceneggiatore assieme a Derek Haas, suo immancabile compagno writer anche di Quel treno per Yuma (la versione “remake” di James Mangold, con Russell Crowe e Christian Bale, e non quella con Glenn Ford) e di Wanted – Scegli il tuo destino, non possieda la magistrale genialità di Hitchcock e, alla sua opera prima dietro la macchina da presa, si dimostri assolutamente incapace di riuscire a gestire un assunto così invece ricco di potenziali, intricate sfumature narrativo-psicologiche. E risulti sconcertantemente manicheo e stupido nel non essere stato affatto in grado d’infondere il ritmo giusto e impartire sufficiente appeal a un twist tanto affascinante quanto da lui sviluppato con troppa superficialità, scritto con sciatteria e pieno zeppo di spaventosi buchi narrativi, nonostante la sola ora e trentotto minuti di durata della sua pellicola.
Esistono serie televisive che, a mio avviso, potevano venir tranquillamente sintetizzate in un normale lungometraggio, in quanto dispersive e colme di digressioni inutili e superflue.
Al contrario, esistono film che, per via della complessità della loro intrigante tesi di partenza, anziché stringatamente esser compattati in minutaggi ridotti, ché comprimono e strozzano, semplificano a dismisura, giocoforza, il materiale ben più meritevole di eventuali, ramificati sviluppi, dovevano diluirsi e dilatare la storia, in questo caso così soffocata e banalizzata, intrecciandola a una maggiore e più dosata mistura estesa di sotto-trame interessanti e avvincenti.
Sì, The Double è un film che, tutto sommato, non appassiona perché strozza la complicatezza di una vicenda che meritava tutt’altro approfondimento e purtroppo è stata strangolata nella convenzionalità sciocca d’un thriller di cassetta, buono solo per un dopocena da entertainment insensato e sempliciotto.
Martin Sheen si trova qua a interpretare in forma mignon il suo Queenan di The Departed, Topher Grace non ha un briciolo d’attrattiva personalità, la bella e fotogenica Odette Annable (accreditata come Yustman), sì, quella de Il mai nato, viene liquidata a mezza comparsa di cinque minuti.
Eppure The Double ha comunque il suo validissimo motivo d’interesse. Che è appunto Richard Gere. Nonostante sia obbligato da esigenze contrattuali a incarnare un personaggio tanto potenzialmente sfaccettato quanto invece paradossalmente tagliato con l’accetta, malgrado sia capitato in una pellicola tutt’altro che memorabile, grazie al suo epidermico, irresistibile fascino e al suo elegantissimo aplomb, riesce a tenerci incollati allo schermo ed è un delizioso piacere vederlo muoversi con tale graziosa sicumera, ammirarlo nella sua felina andatura felpata. Adorandolo per la sua potente espressività gustosamente snocciolata con pacata sordina da straordinario performer davvero da applausi.
di Stefano Falotico
Racconti di Cinema – Mio cugino Vincenzo con Joe Pesci e Marisa Tomei
Oggi recensiamo un piccolo cult degli anni novanta, ovvero il divertentissimo Mio cugino Vincenzo (My Cousin Vinny), commedia del 1992 della durata esatta di due ore nette.
Scritta da Dale Launer e diretta da Jonathan Lynn.
Mio cugino Vincenzo è un film dalla trama piuttosto esile, un film deboluccio dal punto di vista prettamente cinematografico ma che, sin dalla sua uscita, è stato molto apprezzato dalla Critica, crescendo negli anni e diventando, come detto, una pellicola di culto, soprattutto fra gli estimatori di Joe Pesci, qui in una delle sue prove più istrioniche, un one man show assolutamente irresistibile, una performance burlona sorretta dalla sua incontenibile, ruspante verve contagiosamente spassosa. Tale, nella sua buffonesca e grottesca spacconaggine interpretativa, da suscitare un’immediata simpatia e ilarità à gogo.
La trama è essenzialmente questa…
Due giovani, anzi, come direbbe il personaggio incarnato da Joe Pesci, due giovini (plurale di giovine, ah ah), Billy Gambini e Stanley Rothenstein, rispettivamente Ralph Macchio (Per vincere domani – The Karate Kid) e Mitchell Whitfield, sono in viaggio verso l’Alabama. Sostano alla drogheria di una stazione di benzina ove fregano una scatoletta di tonno. Alla loro uscita dal negozio, vengono subito inseguiti dalla polizia. E accusati non di furto, bensì di omicidio.
Vengono immediatamente fermati e trascinati in carcere. Si è trattato indubbiamente di un equivoco giudiziario. Sì, loro hanno rubato una scatoletta di tonno ma non hanno ammazzato nessuno. A commettere l’assassinio son stati dei malviventi… Che micidiale fraintendimento.
In seguito a un’altra serie d’incredibili qui pro quo, i giovani ingenuamente si dichiarano colpevoli. A quel punto, i due comprendono che saranno processati, rischiando addirittura la pena capitale. E non hanno i soldi per potersi permettere un avvocato che possa sbrogliar loro l’intricata matassa e scagionarli dalla falsa, tremenda accusa.
Al che, a Billy sovviene che suo cugino Vincenzo (Pesci, appunto) è un avvocato ed essendo uno di famiglia può prestar loro la giusta difesa in forma totalmente gratuita.
Vincenzo accorre istantaneamente al loro “capezzale” ma è un avvocato senz’alcuna esperienza processuale, da pochissimo peraltro iscritto all’albo. Eppure, con ammirevole incoscienza sfacciata e ridicola goffaggine spregiudicata si lancia in questa missione impossibile ai limiti dell’inverosimile più assurdo.
Spiazzando l’inflessibile giudice Chamberlain Haller (Fred Gwynne), il quale è perennemente sospettoso nei suoi riguardi e continuamente lo redarguisce, lo sgrida e condanna innumerevoli volte per vilipendio alla corte.
Nonostante ciò, Vincenzo, notevolmente sostenuto e aiutato dalla sua determinata, coraggiosa e scafata compagna Mona Lisa Vito (una brillante, esuberante e fatalona Marisa Tomei), riesce a far assolvere il nipote e il suo amico, vincendo la causa malgrado abbia un po’ imbrogliato il giudice in merito alle reali, comprovate referenze della sua discutibile e non acclarata carriera misteriosa di avvocato. A prescindere da questo venale sotterfugio, la giustizia, anche se in maniera canzonatoria e burlesca, ha imprevedibilmente trionfato.
Un film che incassò benissimo, Mio cugino Vincenzo è da ricordare anche perché ha permesso a Marisa Tomei di vincere, sorprendentemente, il suo unico Oscar (eh sì) come miglior attrice non protagonista, sconfiggendo addirittura le veterane e più accreditate Judy Davis di Mariti e mogli, Joan Plowright di Un incantevole aprile, Miranda Richardson de Il danno e Vanessa Redgrave di Casa Howard. Pensate… queste quattro attrici, probabilmente più meritevoli della Tomei, sono ancora lì a mordersi le mani e a chiedersi come sia stato possibile aver perso la bramata, agognata statuetta. Innalzata invece dalla bella e sexy ma, all’epoca ancora poco famosa, Marisa.
E infatti, nonostante la Tomei sia ottimamente in parte e assai raggiante, è a tutt’oggi uno dei premi Oscar più controversi e leggermente incomprensibili che l’Academy abbia mai assegnato.
Mio cugino Vincenzo è un filmetto, ovviamente, ma attenzione: la fotografia è firmata da Peter Deming, lo splendido direttore di luci, fra gli altri, di David Lynch (Mulholland Drive, Strade Perdute, Twin Peaks: il ritorno).
Pure questo ha dell’allucinante. E in effetti non è che la fotografia di Deming sia poi granché. Anzi, il taglio dato alle immagini è esattamente quello di un b movie tipico dei nineties, da veloce consumo, un po’ grossolano e sciatto.
Come detto, gran merito della riuscita del film, che si segue benissimo e molto volentieri, è dovuto alla travolgente prova di Pesci, nei panni appunto dell’impresentabile avvocaticchio Vincenzo, un nanerottolo sprovveduto in materia giuridica ma immensamente carismatico.
E i suoi faccia a faccia con l’integerrimo e severissimo giudice, i duetti tragicomici fra loro due sono, assieme alla sua interpretazione mattacchiona, uno dei punti di forza di questa leggera e godibilissima commedia degli equivoci.
di Stefano Falotico