Qualcuno salvi il Natale, recensione
Oggi recensiamo un film che sta sbancando su Netflix, sbarcato soltanto qualche giorno fa, il 22 novembre, e che a quanto pare sta facendo sfracelli di visualizzazioni. Ovvero Qualcuno salvi il natale.
Coloratissima e rocambolesca commedia per giovanissimi che, appunto, piacerà soltanto ai giovanissimi.
Nessuno di voi forse avrebbe mai immaginato che Kurt Russell, icona del genere action, colui ch’è stato Jena Plissken e Stuntman Mike di Grindhouse -A prova di morte, un giorno avrebbe interpretato nientepopodimeno che Babbo Natale, con tanto di barba foltissima e posticcia, memore e debitrice delle sue ultime prove attoriali, su tutte quella di John Ruth in The Hateful Eight.
Un attore appunto iconico che ha quasi sempre incarnato, nonostante le sue numerose incursioni nella commedia, il prototipo virilmente seducente dell’uomo tutto d’un pezzo. Un attore profondamente autoironico come infatti si evince dal ritratto che lui fornisce di Babbo Natale in quest’immane boiata cosmica.
Tal bambinata sesquipedale è infatti prodotta da Chris Columbus, autore di uno dei più immeritati e inspiegabili successi al botteghino della storia del Cinema. Vale a dire l’abominevole Mamma, ho perso l’aereo con l’enfant prodige più antipatico di tutti i tempi, il fortunatamente scomparso Macaulay Culkin.
Così, dopo aver diretto alcuni Harry Potter, Chris Columbus ha ritentato il colpaccio, stavolta affidando però la regia a un pari giocattolaio di scemenze, Clay Kaytis. Di male in peggio. Kaytis è un altro furbone affetto da buonismo insostenibile e allestitore qui di un pasticciaccio puerilmente sciocco e scioccante che abbina, alla monelleria di una CGI vecchia come il cucco, una stantia retorica talmente spudoratamente bamboccia che qualcuno di voi addirittura, in mezzo a questo mar indigesto di melassa maldestra, forse in preda a patetici rimpianti della sua infanzia per sempre perduta, divorato com’è, ahinoi, dal cinismo della sua vita esasperata d’un quotidiano adesso grigissimo, potrà commuoversi, lasciandomi di stucco nel far sì che possa io osservare avvilito la sua regressiva disfatta.
Sì, mi spiace doverlo ammettere. Qualcuno salvi il Natale è un film indifendibile. L’unica cosa a malapena salvabile è proprio Kurt Russell che, sputtanandosi bellamente senza sprezzo d’alcuna vergogna, scherza malandrinescamente sulla sua mitologia attoriale e, infondendo al suo personaggio un’incredibile passione ingenuamente allarmante, forse allettato da un cachet molto solido e stordente, si è lanciato in quest’assurda performance “degradante” con un coraggio da lasciarmi tanto esterrefatto quanto in mutande. Perché mi ha totalmente disarmato e spogliato quasi completamente dalla galoppante voglia di essergli infamante. Sì, Kurt è talmente birbante in questo film per infanti, così simpatico che non mi rimane altro che applaudirlo paradossalmente in modo scrosciante.
Sì, so che queste mie parole in rima suonano come una natalizia filastrocca per lattanti, ma è da me stata scritta apposta per essere in linea con tal bambinesca favoletta tanto allocca.
Trama…
Teddy (Judah Lewis) e Kate (Darby Kamp) sono fratello e sorella piccola che, rimasti in casa alla vigilia di Natale, in assenza della madre, interpretata da Kimberly Williams-Paisley, cominciano a filmare Babbo Natale in carne e ossa con la loro videocamera digitale della Sony. Infatti, il titolo originale della pellicola è The Christmas Chronicles. Grazie al loro intrepido ardire, s’imbattono appunto in Babbo Natale. Ma, a causa d’un incidente, Babbo Natale vede in un battibaleno sfuggirgli di mano la situazione e lo spirito natalizio rischia di andare in frantumi. I due ragazzi e Babbo Natale stesso devono quanto prima, nonostante le strambe peripezie da lor affrontate nella notte più magica dell’anno, correre ai ripari affinché gli equilibri di pace terrestre non possano essere irreversibilmente sconvolti.
Riusciranno nella loro disperata impresa?
Nel frattempo, Babbo Natale sarà perfino arrestato e, in mezzo ai detenuti, con tanto di springsteeniano Steven Van Zandt nei panni del chitarrista Wolfie, canterà a squarciagola, ballando come un indemoniato blues brother, l’intramontabile Santa Claus Is Coming to Town.
In un apoteotico momento grottescamente fantasmagorico di deficienza cinematografica talmente alta d’avermi stramazzato al suolo per colpa di un sopraggiuntomi, inevitabile, immediato collasso respiratorio dovuto al terribile shock.
Che dire di più?
Quanto ha pagato George Lucas affinché venisse così tanto pubblicizzato, con riferimenti e battute, gadget e quant’altro, il suo eterno Star Wars?
Eh sì, i pur modesti effetti speciali abbisognavano della più ostentata promozione subliminale per essere finanziati.
Il film infastidisce ancor maggiormente poiché tenta, talvolta, pure d’imboccare la strada del politicamente scorretto, ancorandosi poi però all’istante a stereotipie tanto false e melense da rendere il tutto stucchevolmente, più marcatamente irritante.
E anche alla fine il cammeo di Goldie Hawn, vera, storica moglie di Kurt Russell, con tanto di Kurt che le ammicca affinché possano gustarsi assieme un “filmetto”, è davvero penoso.
Al di là di Kurt Russell, altra piccolissima nota parziale di merito al veterano direttore della fotografia Don Burgess, fido cinematographer di Robert Zemeckis, ma Clay Kaytis è lontano anni luce dalla poesia di Zemeckis.
Il film voleva essere un aggiornamento, dichiarato e non, de La vita è meravigliosa? Frank Capra e James Stewart si rivoltano nelle tombe.
Infine, sugli elfi computerizzati stendiamo un velo pietoso.
di Stefano Falotico
La ballata di Buster Scruggs, recensione
Ebbene, son tornati, targati Netflix, i terribili fratelli Coen. Ora, chiariamoci. Spesso fate confusione, eh eh. Joel è quello spilungone, lungagnone, sposato a Frances McDormand, Ethan è quello più bassino e dalla faccia meno arcigna.
Forse lo sapete benissimo ma è giusto sempre chiarirlo. Perché, quando nel Cinema, parliamo di fratelli, si tende a credere che essi siano due gemelli, semmai siamesi o eterozigoti. Invece, i Coen sono semplicemente due fratelli di sangue. Dall’anagrafe ben distinta.
Joel è quello maggiore, Ethan quello minore ma, pariteticamente, lavorano assieme perché, come capitato a chiunque, un bel giorno, chissà quanto oramai lontano, avranno cominciato a riflettere sul lavoro che avrebbero svolto “da grandi”, e decisero di affiliarsi, eh sì, affratellarsi anche professionalmente per dar vita a un duo epocale e fantasmagorico.
Spartendosi i meriti in maniera assolutamente, appunto, fraterna. Tant’è che, guardando i loro film, sempre da loro stessi sceneggiati, per noi spettatori è impossibile capire chi sia stato l’inventore di una tal idea, di una determinata ispirazione, o intuire se entrambi, in modo assolutamente, magicamente dicotomico, siano stati reciprocamente responsabili delle loro rocambolesche, assurde genialità.
Detto ciò, passiamo alla Ballata di Buster Sruggs. Progetto che inizialmente doveva essere suddiviso in una serie a episodi, in puro stile Netflix, e invece, già prima di venir presentato in Concorso all’ultimo Festival di Venezia, ha assunto, come sappiamo, la compatta, antologica consistenza cinematograficamente fisiognomica di una pellicola della durata di due ore e tredici minuti. Dall’idea originaria, cioè, di farne una serie episodica, si è passati a un film vero e proprio a episodi. Come andava di moda una volta, ad esempio, nella commedia all’italiana.
Dunque, dopo Il grinta e anche Non è un paese per vecchi, i Coen tornano al western atipico. Sì, Non è un paese per vecchi è in verità un western camuffato da thriller on the road.
E, ancora una volta, i Coen si approcciano a questo genere, spruzzandoci sopra il loro macabro umorismo ebraico, yiddish, ammantando di sottile metafisica le storielle di cui si compone questa lor affascinante ma a mio avviso irrisolta e blanda antologia.
Il western lo puoi trattare in modi disparati. Ovviamente, vi è il western di John Ford ove, nelle sconfinate praterie e alle pendici della Monument Valley, il fiero, corpulento John Wayne combatteva gl’indiani, il western cioè classico e senza fronzoli, asciutto e magniloquente, americanissimo, ma abbiamo avuto anche il western revisionista e, oserei dire, neorealista di Kevin Costner, retorico a dismisura ma poeticamente ipnotico, il western crepuscolare, noir di Clint Eastwood, a sua volta debitore di quello spaghetti del mai dimenticato nostro Sergio Leone. A sua volta progenitore di tanti suoi derivativi epigoni e affini, ottimamente rifatto o scialbamente parodiato.
I Coen qui attingono a ogni mio menzionato, precedente illustre, mixando il tutto attraverso la loro comunque personalissima poetica, strizzando non di rado l’occhio proprio alla comicità latina “all’amatriciana”, guascona e ruspante di Leone. Addirittura ammiccando alla smargiasseria caciarona de Lo chiamavano Trinità perché soprattutto il picchiatello Buster Scruggs (Tim Blake Nelson) del primo episodio, che dà il titolo al film, ricorda parecchio quel malandrino, irresistibile figlio di puttana Terence Hill, un pagliaccio carismatico, arlecchinesco, sbruffone e irrimediabilmente anche un po’ simpaticamente coglione. E tal succitato episodio ha molto della manesca follia fanfarona e irriverente di Enzo Barboni, artisticamente noto come E.B. Clucher. Se non fosse che Scruggs si rivolge spesso alla camera come il mattoide Larry David dell’alleniano Basta che funzioni. Sì, in questa ballata vi è anche assai di Woody Allen. D’altronde, Allen è di origine ebrea come i Coen e inevitabilmente i Coen, buon sangue non mente, volontariamente o non, era ovvio che avessero appreso da Woody, riciclando alcune sue gag. Questo l’avremmo dovuto capire già con Barton Fink e dovevamo comprenderlo appieno con A Serious Man.
Eppure, nonostante gli ammiccamenti cinefili, la splendida composizione grafica delle sue studiate e pittoriche inquadrature, nonostante la viva policromia della fotografia di Bruno Delbonnel, per la prima volta qui cinematographer per i Coen a rimpiazzare l’indisponibile lor fido Roger Deakins, nonostante appunto la visionaria ascendenza fiabesca di Delbonnel stesso, autore peraltro delle luci e dei colori, manco a dirlo, de Il favoloso mondo di Amélie e degli ultimi film di Tim Burton, secondo me La ballata di Buster Scruggs segna un piccolo passo falso nella filmografia dei nostri fratelloni, in precedenza tanto infallibili.
Perché, sì, è visivamente molto seducente, ammalia, diverte, intrattiene, è delizioso e sapidamente squinternato ma sostanzialmente non emoziona e mi è apparso soltanto come un magistrale giochino velleitario e sciocchino di due registi un po’ oramai con la panza piena. Un pastiche alla fin fine indigesto tanto da irritarmi e lasciarmi profondamente inappagato.
Sì, dai Coen mi aspetto sempre qualcosa di eccezionale. E non posso accontentarmi dunque di un cinematografico gourmet tanto buono da gustare, sfiziosamente curato e friabile, godibilissimo quanto poco visceralmente appetitoso, in fondo impalpabile e stupidamente, molto buffamente carino.
L’aggettivo carino, affibbiato ai Coen, è offensivo.
I Coen nella loro carriera hanno vinto tutto.
Ma il Premio alla Migliore Sceneggiatura, assegnatoli alla 75.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato stavolta immeritato.
Comunque, ne La ballata di Buster Scruggs, i grandi momenti di Cinema non mancano. Su tutti la scena del gaglioffo rapinatore interpretato da James Franco che assiste, col cappio al collo, all’assalto di una tribù Comanche, non viene liberato dai pellerossa ma rischia di rimanere strozzato perché il suo cavallo mangia lentamente l’erbetta e, a piccoli passettini, procedendo in avanti, lo sta facendo scivolare dalla sella.
Sì, probabilmente è proprio il brevissimo episodio con Franco, il più corto di tutti, quello più esilarante e cinicamente strepitoso.
Gli altri, onestamente, al di là del loro già evidenziato, pregiato valore stilistico, sanno purtroppo di minestra riscaldata, civettuola e scemotta.
Forse l’intento dei Coen era proprio quello di realizzare un semplice, sperimentale, leggerissimo divertissement cinefilo e colto, ma personalmente li preferisco quando al sapore della leggerezza sanno unire la loro visione corrosiva e poeticamente crudele.
Insomma, li adoro quando sono, sì, svagati e favolistici, ma anche davvero graffianti e incisivi.
E La ballata di Buster Scruggs, ça va sans dire, non ha niente di realmente memorabile. A parte qualche svolazzo lirico e malinconico, come nel segmento Meal Ticket con Liam Neeson e Harry Melling.
Peccato. Se solo avessero azzardato di più… Invece che restare in superficie.
di Stefano Falotico
Il metodo Kominsky, recensione
Ebbene, Il metodo Kominsky, la nuova, sorprendente serie Netflix della durata di otto episodi di circa trenta minuti l’uno, partorita dalla geniale mente di Chuck Lorre.
Con i due arzilli vecchietti premi Oscar Michael Douglas e Alan Arkin, qui in grandissimo spolvero attoriale.
Sandy Kominsky (Douglas) è un attempato ma brillante insegnante di recitazione ed è amico per la pelle, oramai da una vita, di Norman (Arkin), che ha appena perduto sua moglie dopo una lunga malattia.
Kominsky viene presto a conoscenza dell’affascinante, matura Lisa (Nancy Travis), una delle sue più fervide e convinte allieve, una con le palle, come si suol dire. Una donna diversa dalle altre, la donna che, dopo tre matrimoni fallimentari, potrebbe nuovamente far innamorare Kominsky, deluso, acciaccato, reduce da troppi superficiali flirt degli ultimi tempi con ragazze troppo giovani per lui.
E, fra una schermaglia, una ripicca, una battuta corrosiva e l’altra, fra caustiche riflessioni sull’inesorabile tempo che avanza, Kominsky e Norman continuano dolcemente a condividere le loro giornate, reggendosi il gioco a vicenda in quest’amabile nostra vita da palcoscenico, grazie alla verve graffiante della loro arrugginita eppur giammai doma, innata grinta che li contraddistingue.
Una serie televisiva incantevole, sostenuta da due attori in stato di grazia, ribadiamolo. Con un Douglas rugosissimo, oramai una maschera grinzosa e macilenta che dimostra ancora una volta però di essere un pezzo da novanta. Armonico, triste, inconsolabile, disgraziatamente buffo, elegantissimo e, nonostante tutto, affascinante come sempre, carismatico e dallo charme incontrastabile e pimpante da performer dall’enorme personalità. Sua indubbia, chiarissima caratteristica insindacabile. Un pregiato attore, un prosciugato ex sex symbol che sa ridere con molta autoironia sui suoi senili rincoglionimenti e ancora, alla faccia del tempo che passa, del cancro che lo martoriò qualche anno fa, brilla nell’inevitabile sopraggiungere malinconico, nel suo sguardo maggiormente vitreo e cristallizzato in una smorfia autocompiacente, di una lodabile, quasi commovente essenza vitale trasfusagli dall’alto dei suoi signorili settantaquattro anni imbattibili.
E un Arkin ovviamente padrone delle freddure più paradossali, scatologiche, trivialmente conviviali, da amicone buffone, un po’ cafone e un po’ volpone, un jolly che scherza cinicamente su tutto senza mai essere però volgare, e sbeffeggia, esorcizzandola, la paura tristissima e galoppante della morte (grandiosa la scena del funerale del secondo episodio).
Non batte ciglio anche nelle situazioni più imbarazzanti e tragicomiche, come si suol dire.
Un’accoppiata affiatatissima, davvero vincente.
E così, nella loro sintetica stringatezza, nella loro velocissima brevità, gli episodi scorrono via ch’è una bellezza, nell’alternarsi di registi specializzati in commedie, come Andy Tennant (Il cacciatore di Ex) e Donald Petrie (Due irresistibili brontoloni).
Una sit–com di gran gusto, lievissima, da rivedere ancora.
E il finale ci fa capire che probabilmente avremo presto una seconda stagione.
di Stefano Falotico
HEAD FULL OF HONEY, Official Trailer by Warner Bros
Matilda (Sophie Lane Nolte) tries to help her grandfather, Amadeus (Nick Nolte), who is suffering from Alzheimer’s, to navigate his forgetfulness, and ends up going on a remarkable adventure with him.
Dumbo by Tim Burton, Official Trailer
Circus owner Max Medici (Danny DeVito) enlists former star Holt Farrier (Colin Farrell) and his children Milly (Nico Parker) and Joe (Finley Hobbins) to care for a newborn elephant whose oversized ears make him a laughingstock in an already struggling circus. But when they discover that Dumbo can fly, the circus makes an incredible comeback, attracting persuasive entrepreneur V.A. Vandevere (Michael Keaton), who recruits the peculiar pachyderm for his newest, larger-than-life entertainment venture, Dreamland. Dumbo soars to new heights alongside a charming and spectacular aerial artist, Colette Marchant (Eva Green), until Holt learns that beneath its shiny veneer, Dreamland is full of dark secrets.
Racconti di Cinema – Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg con Al Pacino e Gene Hackman
Oggi recensiamo un film del quale in verità pochi parlano, un film magnifico che, se non avete visto, dovete recuperare quanto prima. Una colonna portante del Cinema disilluso e neorealista degli anni settanta, ovvero Lo spaventapasseri (Scarecrow) di Jerry Schatzberg, Palma d’oro a Cannes, ex aequo con Un uomo da affittare, interpretato da un due eccezionale, i premi Oscar Gene Hackman e Al Pacino, qui all’apoteosi della loro forza recitativa.
Film del 1973 della durata di un’ora e cinquantadue minuti.
Mi soffermerei per un attimo su Schatzberg. Regista classe ’27, di origini ebree, nato nel Bronx. Un cineasta che, visto appunto questo straordinario Lo spaventapasseri e il precedente Panico a Needle Park, sempre con Al Pacino alla sua primissima apparizione sul grande schermo, prometteva davvero parecchio.
Ma via via è scomparso dalla circolazione, pur essendo stato l’autore anche del controverso remake del celeberrimo film strappalacrime Incompreso (Vita col figlio) di Luigi Comencini, nella sua versione a stelle e strisce ancora una volta con Gene Hackman, L’ultimo sole d’estate. E della trasposizione del famoso libro di Fred Uhlman, L’amico ritrovato.
Comunque sia, Lo spaventapasseri rimane il suo capolavoro.
La storia di due disperati, Max (Hackman) e Lion (Pacino) che su una strada della sterrata California imparano curiosamente a conoscersi. Dopo aver fatto l’autostop, cominciano a girovagare per l’America. Max è stato da poco rilasciato dal carcere, ove ha scontato sei anni di detenzione e ora, finalmente libero, sogna di aprire un grosso autolavaggio a Pittsburgh. Lion invece, dopo aver vissuto sulle navi negli ultimi cinque anni, desidera tornare a Detroit per regalare al figlio piccolo, mai conosciuto, una dolce lampada. E sapere dalla sua ex moglie, Annie Gleason (Penelope Allen) se è il figlio è un maschio o una femmina.
Dapprima i due sostano a Denver, ove vengono ospitati da Coley (Dorothy Tristan), con la quale Max aveva avuto un bollente flirt. Qui Max però perde la testa per la sua amica Frenchy (Ann Wedgeworth).
Mentre Max è un tipo burbero, rozzo e perennemente litigioso, Lion prende la vita con enorme filosofia, scherzando sulla fatalità del tempo e ingenuamente, quasi bambinescamente, non curandosi degli eventi negativi occorsigli nel corso dell’esistenza.
Da qui il titolo del film che si rifà metaforicamente al significato che Lion stesso attribuisce allo spaventapasseri, che ai suoi occhi appare come un fantoccio buffo che fa ridere gli uccelli.
Ma la tragedia attende Lion al varco. Lion telefona all’ex moglie che, delirando in preda alla rabbia, sconsolata perché Lion l’aveva lasciata, gli mente sul figlio, invero vivo e vegeto, dicendogli che è morto mentre era all’ottavo mese di gravidanza. E gli sussurra adirata che non è mai stato battezzato, quindi non ascenderà mai in paradiso ma la sua anima vagherà dannata nel limbo di un’eternità nerissima e maledetta.
Lion, come sempre, pare non accusare il colpo. Ma di lì a poco la sua psiche crollerà e gli sarà diagnosticata una gravissima schizofrenia.
Max, impotente e distrutto per l’accaduto, s’involerà lo stesso per Pittsburgh. O forse no… Ma avrà perso il suo più caro amico, come tante altre cose nella vita, oramai irrecuperabili e perdute irreversibilmente in quel suo cassetto dei sogni rimasto sigillato nell’arrugginito scrigno dell’amarezza più sconfinata.
Un tristissimo quanto emozionante ritratto dell’american dream inceneritosi dinanzi alla dura, brutale realtà del mondo.
Sorretto da una regia attentissima alle sfumature, che s’incolla ai visi iper-espressivi dei due suoi mastodontici protagonisti. E si prende tutte le sue lentezze, le sue pause, le sue digressioni scanzonate e goliardiche, affidandosi a lunghi e meticolosi piani-sequenza e a mobili inquadrature che a volte, quasi teatrali, diventano repentinamente fermissime, entrando vivamente zoomanti nel cuore appassionato di questi due loser destinati a una sconfitta ancor più irreparabile e struggente. Regalandoci forti, spassose e poi devastanti emozioni lungo tutto l’arco della sua durata.
Illuminato dalla meravigliosa fotografia del compianto Vilmos Zsigmond (Il cacciatore, Incontri ravvicinati del terzo tipo…).
Lo spaventapasseri…
Che film!
Un film sul tempo, sull’amicizia, sulla caducità dei piccoli, grandi sogni impossibili.
Piccola curiosità: l’attrice Penelope Allen che qui, appunto, interpreta nel finale la parte dell’ex moglie di Lion, avrà un ruolo ben più consistente, due anni dopo, nell’altrettanto epocale Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet.
di Stefano Falotico