THE MULE – Official Trailer by Clint Eastwood
From Warner Bros. Pictures, Imperative Entertainment and BRON Creative comes Clint Eastwood’s newest feature film, the drama “The Mule.” In addition to directing, the veteran actor will step in front of the lens again, alongside fellow stars Bradley Cooper, Laurence Fishburne, Michael Peña, Dianne Wiest and Andy Garcia, as well as Alison Eastwood, Taissa Farmiga, Ignacio Serricchio and Loren Dean, Eugene Cordero.
Eastwood stars as Earl Stone, a man in his 80s who is broke, alone, and facing foreclosure of his business when he is offered a job that simply requires him to drive. Easy enough, but, unbeknownst to Earl, he’s just signed on as a drug courier for a Mexican cartel. He does well—so well, in fact, that his cargo increases exponentially, and Earl is assigned a handler. But he isn’t the only one keeping tabs on Earl; the mysterious new drug mule has also hit the radar of hard-charging DEA agent Colin Bates. And even as his money problems become a thing of the past, Earl’s past mistakes start to weigh heavily on him, and it’s uncertain if he’ll have time to right those wrongs before law enforcement, or the cartel’s enforcers, catch up to him.
“The Mule” marks Oscar-winner Eastwood’s first time on both sides of the camera since he starred in 2009’s critically acclaimed “Gran Torino.”
Cooper, who stars as Bates, received his most recent Oscar nominations for his work with Eastwood, acting in and producing “American Sniper”; he will next be seen in his feature directorial debut, “A Star Is Born.” Oscar nominee Fishburne (“What’s Love Got to Do with It,” TV’s “Black-ish”) plays a DEA special agent in charge; Peña (upcoming “Ant-Man and the Wasp,” Netflix’s “Narcos”) plays a fellow agent; Oscar winner Wiest (“Bullets Over Broadway,” “Hannah and Her Sisters,” TV’s “Life in Pieces”) plays Earl’s ex-wife; Oscar nominee Garcia (“The Godfather: Part III”) plays a cartel boss; Alison Eastwood (“Rails & Ties”) plays Earl’s daughter; Farmiga (“The Nun”) plays the role of Earl’s granddaughter; Serricchio (Netflix’s “Lost in Space,” “The Wedding Ringer”) plays Earl’s cartel handler; Dean (“Space Cowboys”) plays another agent; and Cordero (“Kong: Skull Island”) plays a cartel member.
Clint Eastwood (“Sully,” “American Sniper”) directed from a screenplay by Nick Schenk (“Gran Torino”), inspired by the New York Times Magazine article “The Sinaloa Cartels’ 90-Year-Old Drug Mule” by Sam Dolnick. Eastwood also produced the film under his Malpaso banner, along with Tim Moore, Kristina Rivera and Jessica Meier, and Imperative Entertainment’s Dan Friedkin and Bradley Thomas. The film’s executive producers are Dave Bernad, Ruben Fleischer, Todd Hoffman and Aaron Gilbert. Jillian Apfelbaum and David M. Bernstein co-produced.
Eastwood’s team behind the scenes includes director of photography Yves Bélanger (“Brooklyn,” “Dallas Buyers Club”) and production designer Kevin Ishioka (“The 15:17 to Paris”), along with longtime costume designer Deborah Hopper and Oscar-winning editor Joel Cox (“Unforgiven”), who have worked with Eastwood throughout the years on numerous projects.
A Warner Bros. Pictures Presentation, in Association with Imperative Entertainment, in Association with BRON Creative, a Malpaso Production, “The Mule” will be released in theaters December 14, 2018, distributed by Warner Bros. Pictures.
Maniac, la recensione della serie Netflix di Cary Fukunaga con Emma Stone e Jonah Hill: capolavoro o incredibile bufala?
Ebbene, l’ho vista con molta calma, ho fatto sì che ogni episodio potessi snocciolarlo con doverosa oculatezza, senz’avventurarmi in recensorie conclusioni affrettate, per non arrivare a un giudizio finale avventato o frettoloso. Riguardandola poi meticolosamente, scandagliando dettagliatamente ogni fotogramma per provare a addivenire a un’opinione critica il più possibile obiettiva e imparziale, senza far sì che le votazioni alte, ad esempio su Rotten Tomatoes, potessero depistarmi o subdolamente influenzarmi.
Insomma, Maniac, la nuovissima serie per la regia di Cary Fukunaga che sta spopolando su Netflix dal 21 Settembre, data della diffusione di tutti gli episodi su tale piattaforma di streaming, la più famosa al mondo, con protagonisti il premio Oscar Emma Stone (La La Land) e un dimagritissimo Jonah Hill (The Wolf of Wall Street), è davvero così bella come molti sostengono che sia, oppure è una furba operazione che gioca palesemente, in modo ipocritamente sfacciato e in maniera un po’ ricattatoria, su una delle tematiche che pare tanto attraggano la curiosità degli spettatori contemporanei? Cioè la malattia mentale, la mental illness, come dicono gli americani.
Oramai, gran parte della popolazione del nostro pianeta, soprattutto quella occidentale, travolta dai ritmi freneticamente isterici di una società sempre più competitiva che non lascia un attimo di respiro e ci bombarda con così tanti variabili, indistricabili messaggi contradditori, da recentissimi studi scientifici, è stato appurato che soffra di qualche disturbo psichico, più o meno grave. Alienati come siamo in questo caravanserraglio di etiche distortamente ambigue, sommersi da richieste inaffrontabili e svuotati nella nostra umana essenza da modelli plebiscitariamente basilari di giustezza irraggiungibili, schiacciati da ingranaggi sociali industrialmente protesi verso un ideale illusorio e chimerico di produttività ed efficienza impeccabili. Meccanizzati e sviliti nel nostro più profondo e intrinseco io, così volgarmente spalmato e omologato in plastificati schemi precettivi di linee comportamentali che fuorviano le nostre unicità, inglobandoci, dunque anche mortificandoci e forzatamente propendendoci verso un’idea di coronamento esistenziale spesso e volentieri faceta e menzognera. Invogliandoci a una contraffatta visione delle cose in perenne mutamento giornaliero per cui oggi vai bene oggi e domani non più, perché non ti sei adeguato alle nuove, soventemente astratte e utopiche, disposizioni ingannevolmente miserabili di un mondo progressivamente sull’orlo del collasso emotivo.
Facile perciò, in questo tipo di società, sbrindellarsi nell’animo e destrutturarsi, sciogliersi come neve al sole, essere feriti e trafitti traumaticamente nella nostra purezza, venir così fagocitati e assorbiti da inconciliabilità emozionali che ci portano a romperci, a crollare in esplosioni incontrollabili dalle disarmoniche e avvilenti scissioni conflittuali, generanti poi assurde piscosi e fobie degenerative da bloccar subito e mettere a freno prima che sia troppo tardi. Noi, resilienti combattenti dei nostri cuori in viaggio nel perpetuo viverci con dolore e ingestibile ansietà, naufraghi lesi di questo spasmodico, agitatissimo mar in burrasca, cavalieri solitari e instabili della baraonda indiavolata d’input e output tanto umanamente inattuabili, figli del nostro vuoto in un mondo a sua volta cacofonicamente discordante, confuso e malfermo.
Maniac…
Su vignette animate di cellule fertilizzate e la crosta terrestre in lontananza bersagliata da astronomici, grossi, misteriosi meteoriti, nel suo evolutivo, amniotico compiersi morfologicamente, si parte con la voce off che c’illustra brevemente l’origine, appunto, della nostra umanità, in senso più metaforicamente lato, la natura della nostra inevitabile complicatezza, la craterica genesi creaturalmente mutevole della nostra immane complessità di esseri viventi pensanti. Dunque fallaci e imperfetti.
Annie invece è una donna sola che vive con enormi difficoltà, anche economiche, la sua difficilissima marginalità e non riesce più a riprendersi dalla tragica morte della sorella alla quale era intimamente legata.
Così, entrambi decidono di darsi a un avanguardistico trial clinico ove sperimenteranno un nuovo farmaco rivoluzionario di ultimissima generazione. Messo a punto da un’equipe di scienziati presieduta dallo strampalato, buffo Dr. James K. Mantleray (Justin Theroux), un uomo che non crede alla medicina ufficiale e considera la psicanalisi oramai roba medioevale, superata, deleteria, assolutamente inutile e obsoleta.
Mantleray infatti ritiene di aver sviluppato, miracolosamente, tre pillole della “felicità” in grado di restaurare le psiche corrotte e danneggiate, riconfigurandole chimicamente al fine di poter ripristinare l’armonia perduta di tutti i “malati”.
E in questo centro di sperimentazione avveniristico, in tal microcosmo ucronico, ove imperano apparecchiature computerizzate degne di 2001: Odissea nello spazio, nel quale le infermiere e le dottoresse indossano camici piuttosto simili a quelli esibiti nel capolavoro di Kubrick, le imperscrutabili, guastate menti dei coraggiosi e umanissimi pazienti, deterioratesi per qualche trauma di troppo o a causa d’una serie sfortunata di circostanze sfavorevoli, saranno riequilibrate alla lor originaria, immacolata bellezza adamantina spaccatasi e poi magicamente ricomposta?
Maniac può essere associato, per analoghi stilemi e per certi aspetti inequivocabilmente affini, al Cinema migliore di Terry Gilliam, ha cadenze narrativo-stilistiche assai paragonabili alla finissima poetica oniricamente vellutata di Michel Gondry, e a tratti, contrappuntato da stupendi pezzi jazz malinconici, ricorda perfino Woody Allen. Ma soprattutto, a mio modesto parere, assomiglia tanto alla follia visionaria proprio del già succitato Stanley Kubrick. E questo mio paragone, quest’apparentemente azzardato raffronto speculare è evinto nell’episodio 4, Benvenuti da Sebastian pellicce, un “doppio sogno” à la Eyes Wide Shut in salsa comicamente melanconica. Forse la puntata più poetica e deliziosa, con uno strepitoso e debordante Glenn Fleshler, sì, proprio lui, Errol Childress della prima stagione di True Detective, ch’era firmato, ça va sans dire, neanche a farlo apposta da Fukunaga.
L’operazione è terribilmente affascinante, però Maniac probabilmente mette troppa carne al fuoco. E, tutto sommato, nonostante la sua intrepida stranezza, fallisce il bersaglio. Davvero mai focalizzandosi su un fulcro narrativo solido, preciso e centrato. Ma disgregandosi, appunto schizofrenicamente, in tante piccole storie (come l’innocuo, patetico episodio 5, altra materializzazione visiva delle fantasie represse di Owen ed Annie), in fin dei conti, poco coinvolgenti.
Adagiandosi, con esagerato compiacimento, su dialoghi chiaramente, freddamente studiati a tavolino, afflitto da una lentezza narrativa esasperante e alla lunga noiosissima. Nonostante gli episodi non durino più di quaranta minuti cadauno (anzi, due ne durano appena solo venticinque!)
Gli attori sono comunque straordinari. Emma Stone è bravissima, si conferma un talento eccezionale, Jonah Hill è fenomenale con la sua recitazione tutta trattenuta. Ma anche Justin Theroux, criticato invece perché reputato troppo caricaturale ai limiti della demenzialità, fa la sua ottima figura.
Però, e me ne dispiaccio, Maniac vuole un po’ prendere da tutte le parti e non riesce a essere, onestamente, né un pamphlet realmente corrosivo e ammonitorio sulla disfunzionalità della nostra stupida società falsamente sana, né di conseguenza un veritiero, potente pugno allo stomaco.
Insomma, non lascia il segno.
Rimanendo in superficie come un artefatto giochetto tanto suadentemente seduttivo quanto allo stesso tempo inoffensivo e politicamente corretto e pulito, perfettino. Asettico.
Invece, credo che avessimo bisogno di qualcosa di decisamente meno ludicamente ammaliante ma vigorosamente introspettivo, perfino scabroso e destabilizzante.
Ecco la diagnosi valutativa: Maniac risulta ottimamente funzionale dal punto di vista formale ma è carente di emozionalità viscerali e sentite, anaffettivo nei riguardi dei sentimenti del pubblico, inappuntabilmente allettante ma dissociato, depauperato in tanti sketch sconnessi privi di coesa, empatica, organica amalgama.
Ma è da vedere, semmai rivedibile.
Breve postilla informativa: oggi si fa un gran parlare, appunto, della cosiddetta, fantomatica malattia mentale. Secondo la Treccani, la malattia mentale è una sindrome o modalità comportamentale o psicologica, clinicamente significativa, associata a un malessere o a una menomazione, da considerarsi manifestazione di una disfunzione comportamentale, psicologica o biologica della persona. Non esiste una definizione soddisfacente che specifichi i confini precisi del concetto di m.m. (o disturbo mentale, come talvolta si preferisce chiamarlo).
Cioè il concetto di malattia mentale è molto vago ed è difficile pronunciarsi con esattezza millimetrica sul suo significato assoluto, essendo molteplice e soggetto a sfaccettate tonalità sintomatiche. Più o meno, chiunque di noi, durante le diversificate fasi della nostra esistenza, soffre di momentanei disagi, dovuti a eventi molto stressanti oppure a estemporanei attimi di “follia” che alterano i nostri rapporti sociali e inficiano la nostra virtuosa, connaturata armonia col mondo.
Ma, in senso più propriamente generale, la psichiatria stima come persona “malata di mente” un individuo la cui sofferenza psichica, oramai radicata e spesso inguaribilmente sorpassabile, supera le soglie normali di criticità. Influendo in modo pressoché totale o grave, invalidante sul suo proficuo funzionamento, soprattutto sociale. Purtroppo, checché se ne dica con grande ignoranza, la malattia mentale, intesa in questo senso, esiste ed è assai debilitante. Non date retta a chi ostinatamente, poco esperto in materia, la giudica come un oscurantistico spauracchio inventato dall’impietosa, psichiatrica scienza scriteriata e immondamente crudele. E non è sintomo, come invece i superficiali o i disinformati affermano, di mancanza di volontà, d’inettitudine, di debolezza caratteriale, di tediata mestizia o indolenza inquietamente e furiosamente nevrotica. Va detto però, proprio per ricollegarci al messaggio disorganicamente espresso da Maniac, che è di frequente la società, appunto con le sue richieste alienanti e mortificanti, insostenibili per molte persone, innatamente non adatte a questo sistema di valori, o meglio disvalori, improntati unicamente all’effimera ricerca d’una floridezza vitale molto fasulla e ipocrita, a scatenare il disagio. Ad alimentare ansie e malesseri intollerabili.
A creare una barriera fra noi e il mondo esterno. Dunque, torniamo al solito ragionamento iniziale. Se il mondo è sbagliato, chi è davvero il malato? La persona additata che si vive come tale oppure il mondo stesso, incapace di venire incontro alle esigenze, vivaddio benigne e naturalissime, di chi non è giustamente pronto a parametri troppo schematici e totalitaristici di competitività e adeguatezza?
E, su questo splendido dubbio, interroghiamoci e riflettiamo…
Ciò che, come detto, fa assai poco Maniac.
Una bella serie, sì, ma non possiamo promuoverla appieno.
Perché ha edulcorato con troppa faciloneria, ma allo stesso con esagerato bizantinismo espressivo, un argomento che non si può semplificare né in dieci episodi e neppure in un fascinoso, sterile esperimento e divertissement intellettualistico che, per quanto dedalico nella sua sofisticata architettura diegetica, non graffia e non turba come avrebbe dovuto. Naturalmente, se poi siete coloro che da una serie desiderano soltanto intelligente svago, accomodatevi.
Maniac, in ciò, è incantevole. E vi appagherà.
di Stefano Falotico
Vice, il trailer ufficiale con un Christian Bale da Oscar
IN THEATERS CHRISTMAS. VICE explores the epic story about how a bureaucratic Washington insider quietly became the most powerful man in the world as Vice-President to George W. Bush, reshaping the country and the globe in ways that we still feel today.
Creed II, i trailer definitivi
Eh sì, ieri pomeriggio Michael B. Jordan, tramite Twitter, aveva annunciato in anteprima che il nuovo trailer tanto atteso di Creed II sarebbe stato mondialmente diffuso in rete oggi.
È stato di parola il buon Michael perché, come volevasi dimostrare, ecco qui il filmato freschissimo, targato MGM.
Under the tutelage of Rocky Balboa, newly crowned light heavyweight champion Adonis Creed faces off against Viktor Drago, the son of Ivan Drago.
Sì, questa la sinossi di IMDb e invece ecco la descrizione sotto il trailer su YouTube.
Life has become a balancing act for Adonis Creed. Between personal obligations and training for his next big fight, he is up against the challenge of his life. Facing an opponent with ties to his family’s past only intensifies his impending battle in the ring. Rocky Balboa is there by his side through it all and, together, Rocky and Adonis will confront their shared legacy, question what’s worth fighting for, and discover that nothing’s more important than family. Creed II is about going back to basics to rediscover what made you a champion in the first place, and remembering that, no matter where you go, you can’t escape your history.
Il film doveva uscire da noi il prossimo, oramai vicino 29 Novembre ma la release è stata posticipata a sorpresa al 24 Gennaio. Verrà distribuito dalla Warner Bros e, già che ci siamo, inseriamo anche il trailer doverosamente già doppiato in italiano.
Dalle ceneri magnificenti della saga balboiana, il secondo, energico secondo capitolo del suo spin–off.
Col ritorno entusiasmante del colosso sovietico Ivan Drago, alias Dolph Lundgren.
Racconti di Cinema – Frankenstein di Mary Shelley di e con Kenneth Branagh e Robert De Niro
Oggi è il turno del capolavoro imperfetto di Kenneth Branagh, da lui stesso interpretato assieme a Robert De Niro. Un classicissimo, a mio avviso incompreso, della cinematografia horror romantica.
D’altronde, come dichiaratamente palesato nel titolo, il film è tratto, seppur con molte libertà, dal celeberrimo romanzo di Mary Shelley, adattato e sceneggiato da Steph Lady e Frank Darabont, sì, proprio lui, il regista de Le ali della libertà, Il miglio verde e The Majestic, per la prima volta qui a cimentarsi con un film dal grosso budget a tematica orrorifica, dopo i suoi script di Nightmare 3 – I guerrieri del sogno e La mosca 2.
Frankenstein di Mary Shelley, pellicola della durata di due ore e tre minuti, facente parte della serie, negli anni novanta, di film della TrisStar Pictures dedicata ai mostri dell’orrore, assieme a Wolf – La belva è fuori di Mike Nichols con Jack Nicholson e Michelle Pfeiffer (rielaborazione rampante, assai strampalata e kitsch del mito del lupo mannaro), Mary Reilly di Stephen Frears con Julia Roberts e John Malkovich (dal libro di La governante del dottor Jekyll di Valerie Martin, a sua volta ispirata al celebre racconto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde del grande Robert Louis Stevenson) e, ovviamente, Dracula di Bram Stoker firmato Francis Ford Coppola con Gary Oldman. Coppola che di questo Frankenstein è peraltro produttore con la sua Zoetrope.
Trama…
Anno 1974: fra i ghiacci dell’Artide, Victor Frankestein, uno scienziato, è moribondo e in stato di salute assai cagionevole. Viene soccorso dal capitano Robert Walton (Aidan Quinn) col suo vascello che si sta dirigendo al Polo Nord.
Frankenstein appare allucinato, in preda a tremori incontrollabili e terribilmente scosso da fortissimi brividi di paura. Al che l’intero equipaggio ode un lamento straziante e spaventoso provenire da un orizzonte indefinito e nebuloso.
Frankenstein racconta al capitano cosa sta accadendo e, in analessi, gli narra la sua storia, descrivendo tutti gli antecedenti fatti mostruosamente successigli.
Tornando indietro con la memoria sino a dieci anni prima. E in ciò la versione di Branagh ricalca filologicamente e in maniera abbastanza purista la struttura diaristica del romanzo della Shelley, coi suoi continui andirivieni temporali e i flashback narrativi.
Frankenstein era un brillantissimo studente di medicina che viveva lussuosamente a Ginevra assieme alla sua famiglia. Sconvolto e allucinato dalla sconvolgente morte di parto della madre, terrificato da questo madornale lutto che l’ha sventrato e dilaniato nel dolore più inconsolabile, pietrificato nell’anima a causa di quest’evento terrificante, decide di prodigarsi assiduamente, come un folle, per scoprire il segreto della vita umana, nel tentativo superomistico di voler congelare l’inevitabile caducità del corpo umano e trasformare la vita in qualcosa di eterno e immortale. Ricreandola artificialmente in laboratorio al fine di poter creare, come fosse un Dio grandiosamente potente, una sorta di corpo perfettamente immutabile nel tempo.
Al che raccatta il cadavere senza di vita di un impiccato, lo trascina segretissimamente nella sua segreta (scusate il volontario gioco di parole) ove, cucendogli addosso, come un collage e un carnale patchwork, pezzi di carne macellata e organi interni prelevati da altre persone uccise dal colera, intessendoli fra loro e mischiandoli al liquido amniotico da lui rubato a donne incinte, attraverso avveniristiche e sofisticate scariche elettriche, spera di dar vita una creatura vivente, anzi, rinascente e magnificente. O, meglio, sogna d’infondergli la scintilla vitale primordiale.
Inizialmente crede che il suo esperimento sia stato fallimentare. E, affranto, in preda alla disperazione, si allontana dal laboratorio. Quando, tutt’a un tratto, ode fragorosamente bussare qualcuno, o qualcosa, dall’interno della cisterna nella quale aveva riposto il cadavere ricomposto dell’uomo. Quest’uomo è ritornato alla vita!
Meravigliato e immensamente sbigottito da quest’avvenuto, incredibile miracolo, impazzisce di gioia ma presto si accorge che, sì, la creatura respira, si muove e che dunque il suo esperimento è stupendamente riuscito, ma ha ora davanti a sé un essere repellente, raccapricciante e ripugnante.
E ne fugge via, in preda al più sconcertante terrore. Come se, conscio d’aver generato un mostro agghiacciante, volesse scappare dall’orrendezza inguardabile della sua stessa disumana, scellerata, abominevole creazione. Per rifuggire dall’incombente, nefasto pensiero d’aver concepito una tale imperdonabile oscenità immonda.
E, per scacciare l’ossessione di quest’incubo materializzatosi in tutta la sua accecante spaventevolezza, quanto prima si ricongiunge con l’amata Elizabeth Beaufort (Helena Bonham Carter), la sua donna prediletta che aveva però violentemente trascurato e disdegnato proprio per dedicarsi alla sua follia.
Ma quella creatura (Robert De Niro) è viva, profondamente viva e sta pian piano, seppur emarginata e picchiata, acquisendo coscienza, per vendicarsi senza pietà del suo scriteriato padre…
E ora ha spietatamente inseguito Frankenstein sin in capo al mondo.
Frankenstein di Mary Shelley non fu accolto benevolmente dalla Critica, sebbene il pubblico, soprattutto europeo, l’avesse apprezzato molto, e a tutt’oggi viene erroneamente considerato un film sbagliato, perfino pacchiano.
Niente di più gravemente falso e superficiale.
Frankenstein di Mary Shelley, assieme al bellissimo Assassinio sull’Orient Express, è il capolavoro registico di Kenneth Branagh. Seppur non privo di evidenti difetti. Proprio l’altra faccia della medaglia del Dracula di Coppola. Laddove Coppola aveva allestito uno spettacolo barocco, visionario, avanguardistico, Branagh ricrea Mary Shelley con freddezza, eleganza maestosa, con fine e magniloquente pregevolezza visiva, un incanto lustrato dalla fotografia plumbea e cristallina di Roger Pratt.
Questo almeno è il mio modestamente superbo parere, eh eh.
Compagnia di attori infallibili, un film che vanta nel suo cast Tom “Amadeus” Hulce, John Cleese e Ian Holm.
Dominato e illuminato dalla classe attoriale di Branagh e pervaso dalla strisciante, sinistra, serpeggiante presenza torreggiante e carismatica di Robert De Niro, magnifico anche sotto il pesantissimo trucco.
Come giustamente sostenuto da Morandini nel suo Dizionario: Branagh ha fatto un’opera ricca, frenetica, ridondante in cui, forse per la prima volta, il protagonista assoluto è lo scienziato e non la sua creatura. Ma De Niro ha saputo magistralmente infondere al suo mostro solitudine, dolore, cattiveria come reazione al rifiuto.
Molte le scene d’antologia, commovente e indimenticabile quella del malinconico incontro fra la creatura incarnata da De Niro e il cieco, due diversi ripudiati dal mondo, due uomini, due assolute purezze che si capiscono all’istante, diversi non tanto per sé stessi ma per coloro che li osservano con intimorita curiosità e ne sono assurdamente inquietati.
Sintesi poetica, simil The Elephant Man, della vera, spettrale, macabra devastante mostruosità. La bellezza è negli occhi, infatti, di chi guarda. Stesso discorso dicasi per l’orrore. E dunque per le aberrazioni degli uomini.
di Stefano Falotico
Quello che non uccide with Claire Foy, i nuovi trailer(s)
DAL 31 OTTOBRE AL CINEMA Lisbeth Salander, figura di culto e personaggio principale dell’acclamata serie di libri ‘Millennium’ creata da Stieg Larsson, tornerà sul grande schermo in Quello che non uccide, il primo adattamento del recente bestseller mondiale scritto da David Lagercrantz. La vincitrice del Golden Globe, Claire Foy protagonista della serie “The Crown”, interpreterà l’iconica hacker sotto la direzione di Fede Alvarez, regista del thriller del 2016, Man in the dark; la sceneggiatura di questo nuovo capitolo è di Steven Knight, Fede Alvarez e Jay Basu.